mercoledì 3 ottobre 2012

IL RITO DELL' ARGIA

L’Argia (o Arza, o Varza: significa "variopinta") in Sardegna è un ragno, niente di più. È l’unico ragno pericoloso esistente in Italia (nome scientifico: Latrodectus tredecim guttatus), in quanto il suo veleno può essere, talvolta, anche molto pericoloso.
Effetti del “morso”: Dopo circa un’ora dalla puntura, in genere determina dolore addominale crampiforme, sudorazione, febbre, brividi, grave astenia, malessere generale e – qualche volta – la morte.
Questo ragno si conosce, nel resto dell’Italia, sotto altri nomi: Malmignatta, Ragno Volterrano, Bottone, Falance*.



Leggende: Naturalmente, esistono anche leggende sarde, al riguardo: come potrebbe non essere altrimenti? Secondo una di queste, le arge sarebbero anime malvagie di peccatori, condannati a questo ruolo infame per punizione eterna. Furono trasformate in ragni, perché il giorno del Corpus Domini rifiutarono di fare omaggio a Gesù Cristo, mentre passava la processione del Sacramento. Per vendetta, presero a “mordere”  con un morso mortale. Ma Gesù volle mitigare la loro pericolosità, per cui il loro “morso” determina da allora  tre giorni di ballo e di festa.
Secondo un’altra leggenda, si tramanda che tanto tempo fa, durante un Carnevale, mentre si stava svolgendo una festa in maschera, con tutte le danze e musiche tipiche della Sardegna, tutto fu interrotto dalla comparsa di un sacerdote, che passava per  portare il viatico ad un moribondo: allora tutti s’inginocchiarono in segno di compunto rispetto, salvo alcuni giovani. Il sacerdote li rimproverò, per questa loro omissione e gliene chiese il motivo. Scherzando, essi risposero in modo irriverente: “Perché noi non siamo persone, siamo Arge!”. Ed allora – mentre un vento terribile li sollevava e li portava via con sé, una voce tonante dal Cielo pare che li condannasse a trasformarsi proprio in arge.
Si tratta di una piccola leggenda popolare.  Forse è nata dopo il rituale dell’Argia,  oppure nacque prima e contribuì a determinare quello che divenne “il rituale dell’Argia”: dato che le Arge nacquero di Carnevale, per guarire la vittima della loro puntura, si è costretti a farle ridere ed abbandonarsi a canti e balli …

Il Rituale dell’Argia: Ogni qualvolta c’era una vittima (dolorante ed in preda a grande malessere, ricordiamov i vari sintomi…) si facevano venire tre donne: una nubile, una sposata ed una vedova, le quali erano deputate a questo compito preciso, farla ridere. Come? Ballando danze strane, buffe ed anche oscene, cantando filastrocche umoristiche o oltraggiose, compiendo gesti buffi o inaspettati. Tutto ciò era fatto anche allo scopo di distrarre la povera vittima dalle sue condizioni veramente penose e vergognose: perché il rituale prevede che il poveretto (confuso, sudato e febbricitante e spaventato …) sia messo dentro un sacco e quindi sommerso fino al collo nel letame. (Vi sono numerose variazioni, a seconda dei posti, nelle quali a ballare sono 7 donne (7 nubili, 7 maritate, oppure 7 vedove, a seconda dei casi diagnosticati); il malcapitato è talvolta posto in un forno caldo, oppure nel proprio letto, altre volte è posto nudo nel letame: ogni paese possiede le proprie ricette particolari: ma tutte hanno un minimo comune denominatore di grandissimo interesse antropologico).
Sinceramente, si stima che, per far ridere una persona in quelle condizioni, bisogna essere veramente bravi e profondere un notevole impegno.
A molti, non scapperebbe neanche un riso “sardonico”.



Ma sia chiaro che il rituale è molto più complesso di questo: esiste un primo tempo “diagnostico” nel quale di deve capire di fronte a quale Argia ci si trova.
L’Argia “pizzinna” (bambina) gradisce essere coccolata al ritmo di ninne nanne; l’Argia bagadia (nubile) o “isposa” (fidanzata) o “cojada” (sposa) o “collionada” (sedotta) gradisce molto i canti d’amore e può cercare anche dei partner nella danza, come fidanzati simbolici. L’Argia “prentoxa” (partoriente) si accompagnerà alla rappresentazione mimata di un parto. L’Argia “fiuda” (vedova), richiede una interpretazione di cordoglio e di pianto per il proprio sposo. L’Argia “beccia” (anziana) tende a richiedere la rappresentazione del torpore e dell’immobilità  affianco al focolare. L’Argia “martura” (malata) può addirittura rifiutare il divertimento del ballo ed apprezzare gli scossoni del carro in movimento.

Nel “rito” l’unico scopo è quello d’individuare il tipo di Argia presente e di soddisfarne le richieste, per placarne i sintomi. Quindi possono essere eseguiti solo canti, oppure solo balli, o anche solo cori di lutto, a seconda dei casi.
Le “tecniche” diagnostiche adottate sono molteplici e – di solito – sono utilizzate tutte contemporaneamente.
La prima ad essere usata è quella musicale, cui si associa, conseguentemente,  la danza.
Una volta individuata la musica adatta (che dovrebbe corrispondere a quella del paese d’origine dell’Argia), tale musica dovrà continuare, insistendo nella stessa melodia per tutti i tre giorni della cerimonia.
Il posseduto, in sintonia con il ballo, dà inizio al ballo, con o senza la presenza di altri.
(Questo ha lo scopo, spesso raggiunto, di distrarre efficacemente la vittima dai continui violenti dolori, assegnandogli un irrinunciabile compito da svolgere).
L’individuazione dell’Argia richiede anche tecniche di tipo esorcistico, a mezzo un interrogatorio, fatto da persona esperta. In genere, attraverso questo dialogo, l’Argia manifesta il proprio stato, la propria appartenenza, i motivi della punizione e la propria provenienza. Sembra un procedimento scientifico.
Se e quando tutte queste condizioni sono soddisfatte, il rito è terminato: comprensibilmente, ciò non accade mai prima che i sintomi del poveretto (più spesso un giovane maschio, lavorante nei campi) non abbiano dato sicuri segni di remissione definitiva ...
Si ricorreva anche al travestimento: tutto il vicinato cerca nelle proprie case l’abito femminile più adatto, che la vittima (un maschio, in genere) dovreva indossare, magari simulando un parto simbolico. La ricerca dell’abito era effettuata facendo indossare di seguito vari vestiti differenti alla vittima, fino a quando uno non fosse più “rifiutato”, perché risultava gradito all’Argia che ‘possedeva’ il paziente.
Segni di rifiuto sono il peggioramento o il prolumgarsi dei dolori, mentre il “gradimento” si accompagna ad una remissione.
Trovato l’abito giusto, questo deve essere indossato per tutti e tre i giorni. Una volta terminato il rito ed ottenuta la guarigione, dovrà sparire, probabilmente andrà distrutto.
Al posseduto da un’argia partoriente i dolori “non possono” sparire, a meno che prima non gli sia offerta una pupattola (rappresentante la figlia dell’Argia), che egli dovrà cullare al seno e vezzeggiare. È singolare che il partoriente soffra realmente di dolore addominale e l’identifichi terapeuticamente nei dolori del parto, destinati a sparire con la nascita. Probabilmente, qui interviene un vero effetto ‘placebo’, dato che anche la vittima conosceva già, in genere, il significato della recita che andava interpretando (altrimenti gli era spiegato da un’anziana): più egli ci credeva e migliore sarebbe stato quindi l’effetto.



La realtà: L’argia punge nei mesi estivi, durante il periodo della mietitura, oppure durante la spigolatura o durante la raccolta delle fave o durante il pascolo. È per questo motivo che la vittima era quasi esclusivamente un maschio. Si è morsi durante una pausa di lavoro: all’inizio si avverte solo la puntura, ma nel giro di pochi minuti il dolore si diffonde e diviene fortissimo e violento. È acuito da vari fattori, tra cui la distanza da casa, la solitudine, l’impossibilità di una cura rapida ed efficace.
Si tratta di una malattia che esemplifica difficoltà, precarietà e durezza non di una sola vita, ma della vita di tutti, nella antica comunità agropastorale sarda: perché  colpisce un singolo – è vero – ma ciascun singolo è in realtà importantissimo ed indispensabile, nell’ambiente della collettività. Per questo motivo, tutta la collettività partecipava attivamente al completo recupero del malato. Si tratta di un rito che prefigura il trattamento psicanalitico che sarebbe diventato famoso attraverso altri nomi e paesi.
Nel rituale sono contenuti alcuni elementi che potrebbero essere

destabilizzanti, per una rigida comunità agropastorale conservatrice

 e rigorosamente morigerata. Tra questi:
1) la latente omosessualità, anche solo simbolica, del travestito;
2) la libera espressione di trasgressioni sessuali, non solo verbali, ma anche gestuali, che sarebbe altrimenti proibita e stigmatizzata, specialmente per una donna di paese, di qualsivoglia stato (nubile, sposata, o vedova), da parte del rigido controllo sociale esercitato dalla comunità intera.
A queste trasgressioni, il Rito dell’Argia offre un alibi  giustificativo efficace.
Per il posseduto (o la posseduta) è facile dire “non si trattava di me” oppure “ero fuori di me” dopo avere avanzato una serie di pretese che – normalmente – non avrebbe mai avuto né coraggio, né licenza di avanzare e dopo avere impersonato ruoli che non potrebbero mai competergli (le).
Ecco, quindi comparire  l’illecito e l’osceno, che la morale corrente non permetterebbe, né perdonerebbe; ecco comparire un corpo esorcistico di sole donne (con l’unica eccezione del suonatore di strumento) e la totalizzante presenza liberatoria ed unificatrice del ballo insieme, che permette di rinforzare i sentimenti d’appartenenza di ogni singolo alla stessa comunità. L’opinione della Chiesa era naturalmente negativa, nei confronti di questi rituali, perché non vi ravvisava il senso di liberazione temporanea dagli affanni di una vita dura di tutta la comunità, né la riappropriazione da parte della stessa di un suo componente sofferente, bensì vi ravvisava unicamente il peccato. E – come tale – lo condannava.
Questo fatto e quella condanna hanno contribuito a fare scomparire il rituale dell’Argia dalle tradizioni conservate in Sardegna.
Nel Salento esiste ancora oggi la “Pizzica” una danza che si fa originare per l’appunto dalla puntura di un ragno del posto (la “Tarantola”, che altro non è se non il ragno volterrano, o Argia sarda). A differenza della Sardegna, qui, come anche laddove esiste la “Tarantella”, sono stati conservati solamente i motivi esteriori, di costume, turistici di un rito che doveva essere simile a quello dell’Argia in Sardegna.
Essendo essi ‘innocenti’ moralmente e non condannabili dal punto di vista religioso, sono giunti facilmente fino a noi, con grande vantaggio economico per quelle zone...
Forse, oggi, anche la Sardegna turistica si gioverebbe molto di qualche rievocazione erudita del Rito dell’Argia: basterebbe studiare i testi (F. Alziator, C. Gallini), per far tornare in vita una tradizione pressoché scomparsa del tutto già dagli ultimi anni ’50.
E’ triste constatare che molti sardi di oggi non ne abbiano addirittura mai sentito parlare.


*Falance, ateniese, fratello d’Aracne, che imparava l’arte delle armi mentre questa si dedicava alla tessitura (Schol. ad Nicandr. Ther. 12); per aver praticato l’incesto con la sorella fu trasformato in animale che divora la sua prole.
Il nome significa "linea di battaglia, falange", ma è anche, nella forma φαλάγγιον, il nome di un ragno velenoso, la tarantola o la malmignatta (Aristot. Hist. an. 555 b). Deriva dall’indoeuropeo * bhl-ə -g-, "supporto, trave". Il greco moderno ha ancora σφαλάγγι, "ragno".

La vedova nera (Latrodectus hesperus) fa parte della famiglia delle Therididae che comprende 6 speci ed è diffusa nelle più calde regioni del mondo; è considerato uno dei ragni più velenosi che esistano. Il veleno è 15 volte più tossico di quello di un serpente a sonagli ma solo una piccola dose di liquido letale è iniettato con la sua puntura cosicché la mortalità – per l’uomo – risulta essere abbastanza contenuta. Le femmine sono di un colore nero lucente con delle macchie rossastre sulla parte bassa dell’addome. La femmina è più grande del maschio ed inoltre presenta una colorazione più vivace. La lunghezza varia dagli 8 ai 40 millimetri e il peso in media è di un grammo. La vedova nera è un animale timido e schivo e l’unico momento d’evidente attività è quello riproduttivo. Conduce una vita notturna e trascorre le ore diurne nascosta sotto qualche sasso o nella tana. La femmina “mostra” la macchia rossa posta sul ventre, così da inviare chiari segnali di minaccia a chiunque abbia intenzione di disturbarla.

nota: esiste anche un tipo particolare di insetto - quasi una formica - che si chiama Mutilla e morde nei mesi estivi. la sua puntura è molto meno fastidiosa di quello del Latrodectus, che infatti è definito "Argia ballariana" ("ballerina", perché richiede l'esorcismo del ballo di tre giorni). Nell'Iglesiente, si chiamava "argia" la mutilla, mentre il Latrodectus era definito "soloiga" (dal Latino "solifuga", animale che sfugge il sole). lo scongiuro che era più diffuso sull'isola è questo:
S'argia pinta pinta
fazzeis fillus trinta
fillus trinta fazzeis
unu po monti ndi pongeis
unu po monti unu po baccu
non mudras prus ca mudriu t'happu.
Cun i su camvu de s'accamingioni squartarì ca
t'appu nau sa canzoni.
Fonte:
Clara Gallini, I rituali dell’Argia, Padova Cedam, 1967
Francesco Alziator Il mito dell’Argia Ichnusa 1956, Sassari