Ricevo e pubblico con piacere questo scritto del prof. M. Pittau: perché è sempre importante parlarne, con serenità, con affetto per la materia e con spirito collaborativo. Anche quando le opinioni e le risultanze di ciascuno non coincidessero con quanto sostengono altri: le differenti competenze e conoscenze possono indurre a formulare teorie divergenti, talvolta poco, talvolta molto. Ma lo scambio di vedute e di conoscenze specifiche deve sempre condurre ad una crescita, ad un ampliamento delle prospettive. Nel rispetto reciproco e - soprattutto - nell'interesse del proprio oggetto di studio. Amare significa conoscere anche i difetti dell'oggetto del proprio amore e di conseguenza obbliga a rappresentarlo come esso esattamente è, come è stato: e questo vale anche per la Sardegna, in ciascuno dei suoi aspetti.
Fenici e Cartaginesi in Sardegna.
Quasi sicuramente i Sardi Nuragici
ebbero i loro primi contatti col popolo fenicio in Oriente, in occasione delle
incursioni che essi fecero coi «Popoli del Mare», e precisamente sia in Fenicia,
sia in Cipro, sia infine in Egitto, dove i Fenici erano di casa, dato che erano
quasi sempre al servizio dei Faraoni. Quelle incursioni, infatti, che sono
avvenute fra i secoli XIII e XII a. C., sono precedenti di circa due secoli ai
primi approdi effettuati dai Fenici in Sardegna forse nel secolo XI a. C. È
molto probabile dunque che siano stati i Sardi Nuragici a frequentare i Fenici
nella Fenicia, assai prima che i Fenici frequentassero i Sardi Nuragici nella
Sardegna. Da
questa importante circostanza si debbono trarre due logiche e necessarie
conseguenze:
1) È molto più ovvio e logico
ritenere che i più antichi reperti fenici che sono stati trovati in Sardegna,
vi siano stati portati non dai Fenici stessi, bensì dai Sardi al ritorno dai
loro viaggi effettuati in Egitto, a Cipro e nella stessa Fenicia.
2) La prima spinta all'arrivo dei
Fenici in Sardegna sarà venuta dagli approcci che essi avranno avuto coi Sardi
nelle citate zone del vicino Oriente. Si può addirittura ipotizzare con
verosimiglianza che siano stati gli stessi Sardi a sollecitare la venuta in
Sardegna degli abili e intraprendenti mercanti della Fenicia (cfr. M. Pittau, Gli
antichi Sardi fra i “Popoli del mare”, Domus de Janas edit., Selargius, CA, 2011).
Circa poi gli stanziamenti che i
Fenici avrebbero effettuato in Sardegna si impone l'obbligo di respingere un
esempio di quella xenomania da cui si sono finora dimostrati affetti non pochi
studiosi della Sardegna antica, xenomania che in questo caso si specifica come feniciomania. Essi hanno sostenuto e
sostengono la tesi secondo cui i Fenici avrebbero fondato loro «stanziamenti
stabili» nell'Isola e avrebbero addirittura fondato città, da cui avrebbero
effettuato tentativi riusciti di penetrazione verso l'interno; e avrebbero
fatto tutto ciò in opposizione e cioè contro la resistenza degli indigeni, i
Sardi Nuragici.
Questa tesi va respinta innanzi
tutto per precise e stringenti ragioni di carattere militare, quelle in base
alle quali si sa con certezza che una «testa di ponte» mette sempre in grave
"crisi tattica" un qualunque esercito la tenti o la effettui. Non si
può affatto ipotizzare, dunque, che «teste di ponte» create dai Fenici in
Sardegna in opposizione ai Sardi Nuragici si potessero prima mantenere e dopo
allargare nel retroterra. E ciò per due concomitanti e insormontabili difficoltà:
da una parte l'enorme distanza di mille miglia esistente fra quelle «teste di
ponte» e le loro basi logistiche della Fenicia (l’odierno Libano), distanza che
avrebbe impedito il necessario continuo rifornimento di uomini, armi, navi e
viveri, dall'altra la circostanza che quelle «teste di ponte» sarebbero state
effettuate non in una terra più o meno disabitata, bensì in una terra abitata
da un popolo, il quale aveva già espresso grandi capacità politiche, militari
ed economiche e che proprio in quel torno di secoli aveva raggiunto l'acme
della sua potenza. Nel secolo XI a. C. sarebbe stato del tutto facile per i
Sardi Nuragici respingere o distruggere le teste di ponte che i Fenici avessero
tentato di effettuare nelle coste dell'Isola contro la loro volontà di padroni
di casa. E ciò va detto anche nella supposizione che le basi di partenza dei
Fenici non fossero propriamente quelle della lontanissima madrepatria, ma
fossero le colonie fenicie dell'Africa settentrionale, ad esempio Utica,
fondata, secondo la tradizione, nel 1101 a. C.
Con tutto ciò è ovvio che noi non
intendiamo affatto negare che i Fenici abbiano effettivamente stabilito
nell'Isola alcune «teste di ponte», ma queste avranno avuto esclusivamente il
carattere di «stazioni mercantili» od «empori commerciali» e nient'affatto un
carattere militare e inoltre esse non saranno state imposte con la forza ai
Sardi Nuragici, ma saranno state da questi consentite, autorizzate e
controllate. Inoltre, in base a precise testimonianze relative ad altri popoli
antichi, c'è anche da supporre che i Fenici pagassero ai Sardi Nuragici tasse e
dazi a titolo di licenza commerciale e di affitto per i terreni occupati nell'Isola,
così come in seguito i loro connazionali di Cartagine faranno a lungo a favore
degli indigeni dell'Africa settentrionale.
A questo proposito ci piace citare
il punto di vista di Emidio De Felice, linguista di notevole autorità,
conseguita anche in virtù della sua ampia apertura alla problematica storica e
culturale dei popoli: «I Fenici (....) non sono presenti in Sardegna come
dominatori e conquistatori, ma solo come navigatori e commercianti, in un
rapporto non di egemonia o di prevaricazione rispetto ai Sardi Nuragici, ma di
parità e di reciproco rispetto: creano approdi per le loro rotte occidentali -
che d'altra parte si svolgono prevalentemente lungo le coste dell'Africa -,
basi di rifornimento, fondaci; non vi è traccia di fortezze e di grandi complessi
fortificati, e non appaiono infatti in Sardegna i toponimi in 'gdr "muro
di difesa, fortificazione" del tipo Gadir, Gades, presenti invece
nell'Africa settentrionale e in Iberia».
Sempre affetta da «feniciomania» e
quindi da respingere anch'essa è la tesi, secondo cui i Fenici avrebbero
fondato in Sardegna le città di Karalis, Nora, Bithia, Sulci, Tharros e Bosa. Relativamente a Karalis (Cagliari) c'è da affermare che è
assurdo ritenere che, molto prima dei Fenici, i Sardi Nuragici non avessero messo
occhio e provato interesse per questa località, caratterizzata come era da
facili approdi, sia ad oriente che ad occidente, munita di un colle dirupato,
facilmente trasformabile in roccaforte, ricca di importanti saline e posta
all'imboccatura di quella laguna di Santa Gilla, che non solo era molto
pescosa, ma portava anche fino ad Assemini, nella direzione delle risorse
agricole del Campidano e di quelle minerarie dell'Iglesiente. Del resto risulta
accertato che nell'area di Cagliari lo stanziamento umano risale al periodo
eneolitico e forse anche a quello neolitico, come risulta dai ritrovamenti
effettuati a Sant'Elia, San Bartolomeo e a Monte Claro. Inoltre è un fatto che
il toponimo Karalis è quasi sicuramente sardiano o protosardo, dato che trova riscontro
nei toponimi sardiani Carále (Austis) e Carallái (Sorradile) e soprattutto nell’appellativo
sardiano caraíli
«macigno, roccia, rupe» (Isili, Villaputzu) (DitzLes).
A proposito di Nora si deve considerare che nella
cerchia cittadina si trova ancora un pozzo nuragico, sono stati rinvenuti uno
stiletto e una navicella nuragici, un elemento costruttivo di nuraghe inserito
nel muro del tempio cartaginese di Tanit, elemento che probabilmente
apparteneva a quel nuraghe che era situato nell'istmo fino 70 anni fa e che è
stato distrutto completamente per la costruzione della odierna stazione
militare. E anche il toponimo Nora non è fenicio, mentre trova riscontro in altri due uguali
dell'Asia Minore. «I coloni fenici e punici - ha scritto sensatamente il linguista
Vittorio Bertoldi - si stanziarono nel centro di Nora già abitato da indigeni,
rispettandone il nome».
A proposito di Bithia si è parlato di «interazione dei
due elementi - Sardo e Fenicio - », come dimostra il rinvenimento di tombe che
hanno dato materiale nuragico. Ma più significativo è il fatto che tutt'intorno
alla città si trovano ancora i resti di almeno 8 nuraghi e inoltre che il
toponimo è quasi sicuramente sardiano o protosardo.
A Sulci (= Sant'Antioco) sono stati
rintracciati i resti di 23 nuraghi, di cui uno sotto le fondamenta del
cosiddetto «Fortino Sabaudo», posto a pochi metri da un tempio cartaginese; così
come resti di nuraghi esistono ancora nella vicina isola di San Pietro (antica Enosim = «Isola degli Sparvieri»).
Il retroterra di Tharros, cioè tutta la zona del Sinis è
punteggiata da nuraghi, due nuraghi esistono nella penisola in cui era situata
la città e uno si trovava proprio nella zona del suo tophet. E pure il toponimo Tharros/Tárrai non è fenicio, mentre trova
riscontro in quello sardiano Tarrái (Galtellì).
Per Bosa poi, da una parte è quasi
incredibile che si osi affermare che essa sia stata fondata dai Fenici soltanto
per la circostanza che vi sarebbe stata rinvenuta una scritta in fenicio – una
sola, smarrita dalla fine dell’Ottocento e probabilmente falsa - dall'altra si
sorvoli sul fatto che anche a Bosa esistono resti di nuraghi, uno nella
periferia orientale della città e gli altri tre nel suo territorio.
Orbene, siccome è certo che i
nuraghi sono stati costruiti dai Sardi Nuragici e non dai Fenici, c'è
logicamente da concludere che anche a Nora, Bithia, Sulci, Tharros e Bosa
esistevano già altrettanti stanziamenti nuragici, prima che ad essi si
affiancassero quelli fenici.
E pure l'antichità degli
stanziamenti fenici in Sardegna va grandemente ridimensionata, come dimostra la
seguente affermazione dell'archeologo Ferruccio Barreca: «L'archeologia
documenta la presenza di Fenici in Sardegna già nel sec. XI a. C., con un
frammento epigrafico rinvenuto a Nora. Quel frammento però non è sufficiente a
dimostrare la presenza permanente dei Fenici nell'Isola; presenza che è invece
sicuramente documentata solo a partire dal sec. VIII a. C., grazie alla
scoperta, in luoghi di culto cittadino (tophet), di ceramiche fenicie e greche
databili a quel secolo (Sulci e Tharros)».
Concludiamo quest'altro punto
dicendo che è indubitabile che in Sardegna c'è stata una
"precolonizzazione semitica", cioè promossa dai Fenici che
provenivano dalle loro basi della lontana madrepatria orientale od anche dalle
loro colonie dell'Africa settentrionale, ma questa precolonizzazione non è
stata effettuata in opposizione o contro la volontà dei Sardi Nuragici, bensì è
stata da questi probabilmente sollecitata e sicuramente consentita, autorizzata
e verosimilmente sottoposta a pedaggi. Ancora è indubitabile che in Sardegna è esistita anche
una «colonizzazione semitica», imposta contro la volontà dei Sardi Nuragici, ma
essa si è identificata con l'imperialismo dei Cartaginesi, che però è stato di
molto posteriore nel tempo, dato che è iniziato - come vedremo più avanti - non
prima dell'anno 480, con la seconda spedizione cartaginese in Sardegna guidata
dai fratelli Amilcare e Asdrubale, figli di Magone.
* * *
Sconfitti nella loro prima
spedizione effettuata in Sardegna e guidata da Malco, i Cartaginesi tornarono
all'attacco con una più forte spedizione guidata dai fratelli Amilcare e
Asdrubale, probabilmente qualche anno dopo il 480 a. C. Questa data, che segna
la presenza di reparti mercenari di Sardi nell'esercito cartaginese sconfitto
dai Siracusani ad Imera in Sicilia, ovviamente va considerata come il terminus
post quem per la
seconda spedizione dei Cartaginesi in Sardegna. Questa volta i tentativi dei
Cartaginesi di allargare le loro teste di ponte in Sardegna ottennero
effettivamente risultati positivi. Ai Sardi Nuragici sicuramente venne meno
qualsiasi aiuto da parte dei loro connazionali, sia i Sardiani della Lidia sia
i Tirreni dell'Etruria. I primi infatti erano ormai sotto il pesante dominio
dei Persiani, i secondi erano ormai sotto la forte pressione della crescente
potenza di Roma.
I recenti storici della Sardegna
antica ritengono invece che la seconda spedizione dei Cartaginesi per la
conquista dell'Isola sia immediatamente anteriore o posteriore all'anno
509/508, al quale risalirebbe il primo trattato stipulato tra Cartagine e Roma.
Noi invece seguiamo quegli storici moderni, con in testa Teodoro Mommsen,
Ettore Pais e Andràs Alföldi, i quali ritengono che quel trattato non ci sia
mai stato e che Polibio che ne ha parlato abbia fatto confusione col trattato
del 348/347, il quale definiva i diritti-doveri delle due potenze: i
Cartaginesi rinunziano ad ogni mira commerciale nella penisola italiana, mentre
i Romani riconoscono che la Sardegna appartiene alla sfera di influenza
politica e coloniale dei Cartaginesi. Noi ci limitiamo a far osservare che è
pressoché assurdo che Roma, che nel 509/508 era appena uscita da una gravissima
crisi interna, determinata dalla cacciata della monarchia etrusca dei Tarquini
e dal suo passaggio istituzionale dalla monarchia alla repubblica, avesse la
capacità e la forza politica per entrare in un accordo paritetico con
Cartagine, che era allora la più grande potenza del Mediterraneo centrale.
D'altra parte, pur prescindendo
dalla questione della data anche approssimativa della seconda spedizione dei
Cartaginesi in Sardegna, nonostante i sicuri successi sia diplomatici sia
militari che avevano consentito a Cartagine di far entrare la Sardegna nella
sua sfera di influenza, esistono numerose prove che dimostrano che da un lato
il suo dominio sull'Isola tardò parecchi decenni prima di imporsi realmente,
dall'altro esso non riuscì mai a includere anche la zona interna e montana
dell'Isola, nella quale varie tribù nuragiche mantennero sempre una effettiva
indipendenza e autonomia dalla potenza dominante.
D'altronde a noi sembra, in linea
generale, che in questi ultimi decenni da parte di alcuni archeologi sia stata
enfatizzata in maniera spropositata la presenza dei Fenicio-Punici in Sardegna,
in termini antropici, militari e culturali. Essi hanno disegnato e presentato
carte geografiche della Sardegna antica, in cui sono tracciate le supposte
linee di sistemi fortificati costruiti dai Cartaginesi, di loro strade che
sarebbero arrivate fin nella Sardegna interna e montana, di stanziamenti
fenicio-punici stabiliti dappertutto nell'Isola, perfino nelle sue zone più
interne.... Tutto questo motivato e sostanziato soltanto dalla circostanza di
aver trovato qua e là nell'interno dell'Isola qualche anello o collana o
statuina o vaso di fattura fenicio-punica e trascurando di considerare che
questo materiale poteva essere il semplice frutto del commercio fra i
Cartaginesi e gli indigeni sardi, oppure di razzie effettuate da questi a danno
di quelli. Peggio ancora: hanno parlato di stanziamenti fenicio-punici in
località della Sardegna interna, in cui hanno trovato i resti di capanne di
forma quadrangolare (ad es. a Nurdole, presso Nùoro), quasi che i Sardi
Nuragici fossero capaci di costruire soltanto capanne circolari e non anche
capanne quadrangolari....
Però su questo preciso argomento
tali archeologi vengono contraddetti in maniera chiara e decisiva dalla
linguistica storica: nell'intero patrimonio lessicale della odierna lingua
sarda sono stati trovati appena 7 (sette) vocaboli che derivano direttamente
dalla lingua fenicio-punica dei Cartaginesi: ásuma «alaterno», curma «ruta d'Aleppo», grúspinu «crescione», sicchiría «varietà di aneto», sintzurru «equiseto palustre», tzíppiri «rosmarino» (tutti fitonimi), tzingorra «ceriola, anguilla giovane» e
inoltre i toponimi Macomer «Città di Merre», Magomadas «Villa Nova» e Mara e Villamar «fattoria». Il che ha fatto
giustamente dire al linguista Emidio De Felice che in Sardegna «l'apporto
fenicio e cartaginese è insignificante» ed a Paul Swiggers: «(a) nelle zone
dove i Fenici e i Punici si sono stabiliti, la cultura autoctona - e gli usi
linguistici autoctoni - sono sopravvissuti, e (b) la colonizzazione
fenicio-punica in Sardegna era soprattutto una espansione economica, e non era
guidata da una politica culturale. Concretamente questo vuol dire che la
presenza dei Fenici e dei Punici sull'isola sarda era centrata attorno ad
empori ed implicava una interazione molto ridotta fra le popolazioni indigene e
i colonizzatori».
Lo studioso tedesco della lingua
sarda, Max Leopold Wagner, ha commentato da par suo questi incontrovertibili
dati linguistici: «i Punici abitavano le città del litorale, mentre i contadini
dei dintorni erano sardi. Singoli punici si erano certamente stabiliti nei
latifondi presso le città litoranee ed è probabile che in queste regioni si sia
formata una popolazione mista, sardo-punica; ma che, ad ogni modo, non siano esistiti
nell'interno nuclei punici importanti, lo prova il fatto che le necropoli
puniche di qualche rilievo si trovano unicamente nelle città della costa e che
più addentro si è tutt'al più scoperta qualche tomba isolata, come a Sagama e a
Geremeas. Condizioni non molto diverse si riscontrano nelle altre regioni che
furono in possesso dei Punici, in Sicilia, in Spagna e persino nell'Africa
settentrionale, dove i Punici occuparono le città del litorale, mentre il
retroterra era abitato dai Libici e vi si parlava la lingua libica».
Questa importante e sostanziale
considerazione di carattere linguistico ne implica un'altra di carattere
demografico od antropico generale: l'apporto antropico dell'elemento
semitico in Sardegna - prima fenicio e dopo cartaginese - sarà stato molto
ridotto in tutti i tempi. Una immigrazione notevole di individui di stirpe
fenicia e punica nell’Isola è da escludersi con decisione. Certamente è il caso di pensare
ad una immigrazione forzata nell'Isola di manodopera servile o semiservile
importata e adoperata dai Cartaginesi nelle miniere dell'Iglesiente e del
Sarrabus e nei lavori agricoli del Campidano, ma neppure questa avrà mai
raggiunto cifre rilevanti di individui e inoltre sarà stata non di etnia
fenicio-punica, bensì di etnia africana o berbera. Se tutto questo non fosse
vero, non potremmo in alcun modo spiegare la su indicata irrilevanza
dell'apporto linguistico fenicio-punico in Sardegna. Del tutto diversa ed
opposta invece è stata la successiva posizione di Roma: essa ha "cancellato"
quasi completamente la lingua sardiana o protosarda o nuragica - della quale
adesso restano soltanto pochi relitti toponimici e pochissimi relitti lessicali
- ed ha imposto totalmente la sua lingua latina.