mercoledì 6 novembre 2013

COME CHIUNQUE PUO' RICONOSCERE UN FALSO (ED IL SUO AUTORE: IL FALSARIO).

Come riconoscere un falso 
se non si è archeologi, 
né storici, 
né esperti in alcuna materia (ad es.: l'epigrafia)?

Un metodo c’è, in fondo, anche per i non addetti ai lavori: basta utilizzare un poco di buon senso. Non si deve dimenticare che – nel formulare le proprie ipotesi – ognuno autodefinisce e legittima anche la propria posizione: uno scienziato offrirà sempre subito le proprie buone credenziali (magari, nel farlo, sarà pedante oppure antipatico, ma lo farà) ed un ciarlatano eviterà costantemente di farlo (ostentando buone maniere ed affabilità, magari, per 'intortarci' meglio). 
Ecco come fare, in dieci semplici passi. 

Partiamo dalla formulazione di un’ipotesi.
Un’ipotesi può essere formulata a seguito d’alcune osservazioni attente, meglio se numerose, tanto da costituire già un esempio significativo (campione) comprendente tutte le possibili variabilità di presentazione di un fenomeno. Talvolta si ha la fortuna che tutte le osservazioni iniziali puntino in una sola direzione, indicando già, quasi naturalmente, l’ipotesi da formulare.

Questa è la prima discriminante tra vero e falso: il ricercatore offrirà al lettore queste osservazioni iniziali per motivare solo il fatto di avere iniziato la propria ricerca, (che avrà un costo).
Il millantatore la considererà non come punto di sola partenza, bensì come punto d’arrivo definitivo e finale del proprio “lavoro”. 

In altre parole: l’ipotesi è solo l’inizio del lavoro scientifico, non il lavoro intero, come alcuni credono. Viene da chiedersi il perché nascano lavori “apocrifi”, infondati e non scientifici. I motivi sono molteplici: l’auto-celebrazione, la promozione di sé (e di un gruppo, spesso un cosiddetto “movimento di pensiero”, che appoggia le idee dell’autore), motivi economici e di potere politico, ma anche, più semplicemente e più spesso, la semplice necessità di evasione da una cronica e stagnante posizione di insoddisfazione nei confronti della realtà isolana presente e passata. Ne consegue la funzionale creazione, talvolta o almeno inizialmente innocente, di una “realtà secondaria”, che soddisfi la necessità, i desideri, le ambizioni di un singolo o di una comunità intera, di riconoscersi in caratteristiche idealizzate e distintive di se stessi. Ciascuna favola, poi, camminerà con le proprie gambe quanto più lontano possibile, in proporzione al gradimento che incontrerà. Questo è proprio ciò che sta accadendo in Sardegna, di questi tempi. I motivi d’insoddisfazione e di rivalsa insulare sono numerosi, vari, e di vecchia data. Su quelli storici, si sono ultimamente affastellate anche nuove ed urgenti istanze locali, regionali e nazionali, anche drammatiche. Ed hanno risvolti politici evidenti.

Ed ecco quindi il secondo punto utile, per distinguere falso da vero: Il lavoro falso racconterà sempre al proprio possibile pubblico soltanto cose gradite, che questo desidera sentirsi raccontare. Va da sé che – sardi o no – ci piaccia di più sapere che discendiamo da gente gloriosa e forte, d’intelligenze superiore,  invincibile, con tecnologia avanzata per i propri tempi, piuttosto che semplicemente da gente laboriosa e volenterosa, ma in fondo del tutto normale. E’ questo il vecchio e noto meccanismo della genesi del mito, che ha saputo trasformare efficacemente  i resti fossili di un elefantino nel terribile Ciclope, trovando anche splendidi cantori – come Omero – che ne hanno certificato e perpetuato l’esistenza fino a noi. E così, oggi, abbiamo miti grandi e piccoli, effimeri ed immortali, per alcuni dei quali nutriamo tanta irrazionale affezione che siamo quasi anche tentati, talvolta, di cercarne e trovarne i fondati motivi scientifici.

= Un terzo punto è dato dal tono di trionfale rivelazione messianica dell’autore del falso: egli si pone molto spesso come colui che – primo ed unico – ha finalmente risolto un enigma che era lì, da sempre sotto gli occhi di ognuno, ma costantemente e inspiegabilmente ignorato da tutti (specialmente e colpevolmente dai cattedratici, notoriamente svogliati ed incapaci e tutti ovviamente raccomandati).  Ciò che egli solo ha scoperto, che per propria alta missione offre generosamente al Mondo, rivoluzionerà per sempre il Sapere umano e cambierà la Storia come noi l’abbiamo conosciuta fino ad oggi, avrà conseguenze epocali. Egli infila con irrisoria facilità, una dopo l’altra, come perle di una collana meravigliosa, tutti i presunti “fatti” che conducono alla dimostrazione della sua tesi, incurante di tutto: cronologia, chimica, fisica, geografia, gravità e logica. Per ingannare meglio il compratore, egli correderà la propria paccottiglia con abbondanti fotografie, mappe, grafici e disegni accattivanti e multicolori, di grande effetto, ma di poco significato, spesso inutili e ripetitivi e non correlati al testo: se gli specchietti funzionano con le allodole, perché non dovrebbero funzionare con i “polli”? Talvolta, l’italiano stesso è approssimativo, se non addirittura dialettale. Di solito, non conosce il lavoro d’equipe e firma da solo i propri lavori. Questo non avviene quasi mai in una pubblicazione scientifica, che deve incontrare una serie di filtri di controllo, di requisiti e d’approvazioni da parte d’esperti non sempre benevoli, prima di passare alle stampe, oltre che limitare le spese di pubblicazione.

=  E’ poi sufficiente applicare, come quarto punto, la sana e abituale prudenza – meglio se diffidenza – che ogni compratore deve usare di fronte al venditore: si noterà, leggendo la bibliografia del lavoro infondato, che essa è spesso inesistente, oppure rappresentata solo da testi antichi classici (Platone, Erodoto e simili, che notoriamente non sono scientificamente affidabili), oppure consta di pochissimi e ormai datati lavori scientifici, interpretandoli liberamente. 
Contrariamente, ogni ricercatore tiene sempre molto a dimostrare – già nella bibliografia – quanto le proprie conoscenze siano, oltre che profonde, anche aggiornate fino alle più recenti pubblicazioni (magari delle ultime settimane, o ancora in via di pubblicazione, ma già annunciate da una comunicazione orale: ogni categoria ha in fondo le proprie piccole vanità: i ricercatori non fanno eccezione).

Un quinto consiglio è insito nel verificare la presenza o assenza di un Metodo d’esposizione.
La Pubblicazione seria è ordinata, organica e consequenziale, quasi salendo progressivamente un’ideale scala, gradino per gradino e senza salti, per potere superare senza affanni l’ostacolo della trasformazione dell’ipotesi iniziale nella tesi finale dimostrata. Oltre a non fare salti pindarici sul vuoto, non mescola alla rinfusa fatti non dimostrati e quantità disomogenee tra loro.
Il Metodo Scientifico prevede innanzitutto un’introduzione, contenente l’esposizione dei motivi che hanno portato a considerare legittima la formulazione di un’ipotesi iniziale da dimostrare (detta ipotesi di lavoro), con la quale il ricercatore giustifica la ricerca (ogni ricerca ha un costo, in termini di tempo ed impegno del ricercatore e di denaro pubblico e privato).  Seguono l’esposizione chiara e completa (Materiali e Metodi) dell’elenco integrale delle osservazioni effettuate, dell’oggetto o degli oggetti delle osservazioni, del metodo adottato (spesso standardizzato ed accettato dal consenso comune) di trattamento di tali oggetti e delle interrelazioni rilevate o messe in atto, in quali condizioni naturali o artificiali: il tutto allo scopo di rendere quanto più possibile ripetibile l’esperimento effettuato, perché esso possa essere ripetuto precisamente anche da altri e sempre producendo risultati identici. Un esperimento scientificamente valido deve essere ripetibile. Ad esempio, nell’analisi della composizione dei bronzetti sardi, il risultato è noto, è stato descritto ed è ripetibile. Questo è talvolta meno vero per lavori quali le stratigrafie e per gli studi genetici di popolazione, ma regge per la maggior parte degli studi scientifici. È chiaro, però, che i falsari possono talvolta ingannare anche i veri esperti (è il caso dei falsi "dotti").
Risultati della ricerca scientifica devono essere elencati in modo chiaro e comprensibile, quanto più schematico ma completo, usando misure ed unità e concetti internazionalmente accettati, in modo da essere comparabili con altri lavori simili. Il ricercatore esporrà infine chiaramente le proprie Conclusioni, correlandole e motivandole logicamente con i risultati ottenuti dal trattamento del proprio materiale e dalle sue osservazioni. 
Tutto questo spessissimo non accade nei falsi: talvolta si sostengono alcune tesi con ragionamenti circolari che partono dalla loro già implicita accettazione a priori, per non parlare dell’approssimazione nel riferire datazioni ignote all’autore, o procedimenti che egli non ha evidentemente affatto compreso. Il falso s’insinua proprio in mezzo alle incertezze, ai fatti in ombra, di cui tutto può essere detto, perché poco o nulla è conosciuto o può essere provato. Ma – soprattutto – nel falso manca il Metodo Scientifico, perché troppo spesso è costruito da autori autodidatti, che al Metodo non sono stati educati.

Un sesto punto importante è che l’autore di un falso riesce sempre e costantemente a dimostrare la propria tesi, per quanto assurda essa sia. Nel lavoro scientifico questo, invece, non accade invariabilmente ogni volta: esistono lavori seri che ammettono di offrire risultati solamente parziali o provvisori, da migliorare o espandere in future ricerche. Esistono addirittura lavori con conclusioni negative: in questi lavori i ricercatori mettono in guardia gli altri scienziati dal percorrere inutilmente la loro stessa particolare strada, dimostrata concettualmente erronea e quindi da evitare, proprio grazie al loro lavoro. Questi lavori, se eseguiti in modo ineccepibile, sono altrettanto utili alla Scienza quanto gli altri: la  ricerca procede infatti per tentativo ed errore, allo scopo di trovare la strada giusta da seguire. Essi sono una dimostrazione di vera onestà intellettuale.
Non è pensabile, invece, che il millantatore faccia una simile ammissione: per definizione, egli conosce e riferisce sempre il Vero.
Nell’esposizione scientifica seria, si esegue una “Discussione”, nella quale l’autore veste i panni di un critico o detrattore del proprio lavoro (quasi un “avvocato del Diavolo”), allo scopo di trovarne i possibili punti deboli, gli aspetti discutibili, gli eventuali errori e le controversie, controbattendo punto per punto ogni singola obiezione circa ogni scelta effettuata nel proprio lavoro: se questo procedimento è assolto con cura e onestà, il lavoro sarà, alla fine, inoppugnabile (e scientificamente molto apprezzato).
Ma, così, si vede bene come un lavoro scientifico sia sempre e comunque un po’ prolisso e noioso, per il lettore comune, anche quando l’autore cerchi di esprimersi in modo discorsivo e divulgativo (il che non avviene molto spesso, per la verità: purtroppo si cade spesso in tecnicismi e riferimenti che risultano piuttosto oscuri ai profani). Inoltre, in genere, il lavoro scientifico non offre mirabolanti novità o conclusioni reboanti, che possano facilmente catturare la fantasia del lettore.

Ed ecco quindi il settimo punto: il lavoro scientifico non è – in genere – uno scoppiettante rendiconto di novità meravigliose, d’avvenimenti brillanti o d’affascinanti episodi d’avventura. 
Indiana Jones appartiene alla fantasia. Il lavoro scientifico formula ipotesi prudenti e ponderate (talvolta un po’ troppo, è vero: ma chi non è criticabile?), giungendo a conclusioni finali che siano, quanto più possibile, verosimilmente correlate ai dati obiettivi disponibili al momento. Senza fuochi d’artificio, né razze superiori, né squilli di tromba, né epopee “Salgariane” di Popoli del Mare o simili. 

Un ottavo consiglio utile può essere quello di considerare quale sia l’editore che ha prodotto il lavoro. Normalmente, l’editore non tiene molto conto della reale scientificità del lavoro che pubblica, ma ha ben presente invece la vendibilità – quindi gli introiti possibili – che gli garantisce l’autore. Il che significa che un affermato autore di favole troverà facilmente un editore, proprio come qualsiasi altro romanziere. Chi desideri essere sicuro d’acquistare un lavoro scientifico, invece che una storiella, farà quindi meglio ad affidarsi a Case Editrici Universitarie e alle riviste scientifiche specializzate. Potrà forse restare deluso ed anche annoiarsi, ma almeno avrà molte più probabilità di non essere preso in giro.

Un nono consiglio utile è dato dalla valutazione sull'Autore. Il falsario cerca fama, visibilità e vantaggi solo per sé. Quindi il lavoro del falsario avrà - in genere - un unico autore, splendido e solo. I lavori scientifici, invece, richiedono un'intera equipe di collaboratori, per raccogliere una vasta messe di dati dal materiale iniziale (spesso abbondante e non facilmente accessibile), valutarne l'opportunità di includere detti dati nel presente lavoro, oppure la necessità di escluderli, riordinarli, presentarli nel modo più chiaro e comprensibile nella ricerca ed infine produrne una convincente elaborazione, che sia di utilità ad una maggiore conoscenza.


Un decimo consiglio utile è quello di effettuare un'attenta valutazione dello scopo che l'Autore si propone con il presente lavoro. Se si scopre (in genere risulta abbastanza agevole) uno scopo di autopromozione, un motivo strumentale di qualsiasi genere (ad esempio politico, identitario, o altro), non ci si trova di fronte ad un lavoro scientifico, bensì ad altro. Che potrà anche essere scritto bene e possedere un contenuto accattivante o addirittura affascinante, ma non sarà mai Scienza.

Se si è scoperto un falso (e quindi un falsario), è bene ricordarne il nome, per includerlo nel novero di quel gruppo dannoso che è stato variamente definito: ora 'Fantarcheologi', ora 'Fanta-X', ora 'Armata Brancaleone Sciardariana'. Pierre Vidal-Naquet aveva coniato il termine: "Nazionalisti Atlantoidei" per un gruppo simile di visionari che egli considerava con grande e meritato disprezzo. Un gruppo cui la Storia ha dato l'opportunità - purtroppo - di dimostrare appieno la propria pericolosità in tutti i campi, per sé e per l'umanità intera.

Perché si devono combattere i falsi?
Un buon esempio del motivo è dato dal cosiddetto “Uomo di Piltdown”. Nel 1912 l’archeologo dilettante Charles Dawson riferì alla Geological Society di avere trovato parecchi frammenti cranici molto spessi ed una mandibola incompleta in uno strato che conteneva ossa d’animali estinti, presso Piltdown Commons, nel Sussex. Il Curatore del reparto di Storia Naturale del British Museum (l’anatomista Smith Woodward) lo appoggiò: secondo lui si trattava dell’anello mancante, come si diceva allora, cioè di un uomo estremamente antico e primitivo (anzi, il più antico), con un cranio voluminoso simile in tutto all’uomo moderno, e con una mandibola ancora scimmiesca i cui canini (mancanti nel reperto) avrebbero dovuto essere a forma di zanne sporgenti ed acute (secondo un’errata teoria in voga allora e derivata da Darwin) e propose il nome di Eoanthropus Dawsoni (uomo primitivo di Dawson). Un sacerdote cattolico francese (Teilhard de Chardin) appassionato d’archeologia, trovò proprio quei canini nel sito: erano perfettamente uguali a quelli di una scimmia. Niente di strano: qualcuno – rimasto ancora oggi ignoto – aveva costruito un abile falso. Si era procurato un cranio moderno insolitamente spesso, lo aveva spezzato in frammenti, aveva dipinto le ossa di marrone con materiale terroso fossile, aveva aggiunto una mandibola d’orango spezzata all’estremità articolare (altrimenti si sarebbe capito che non apparteneva al cranio umano), e ne aveva limato i molari per simulare il consumo dato dalla masticazione umana. Completò il tutto mettendo nel sito (solo in un secondo tempo, in un posto dove sarebbero state trovate dal sacerdote) zanne di scimpanzè, anch’esse limate e trattate ad arte per renderle “fossili”.
L’uomo di Piltdown fu chiuso sotto chiave, in una bacheca del Museo di Storia Naturale, gioiello della corona britannica. Gli studiosi non avevano accesso altro che a calchi in gesso: ecco perché il falso durò così tanto. Solo nel 1953, nel corso di un programma di verifica generale, si esaminò il reperto con l’allora nuovo metodo di datazione al fluoro, che denunciò il falso. Poi bastò il microscopio per riconoscere i segni della lima (J.S. Weiner, antropologo, Oxford). Infine si trapanò l’osso e si scoprì che l’interno era chiaro e moderno.  Una beffa umiliante!
Ma questo era stato considerato per 41 anni l’uomo più antico del Mondo intero. Aveva distolto ogni attenzione accademico-scientifica dagli studi faticosi e seri che da anni erano condotti in Sudafrica sull’Australopithecus Africanus (scimmia meridionale dell’Africa) da Raymond Dart dell’Università di Witwatersrand. Nel 1950 Robert Broom aveva rinvenuto, oltre ad altri esemplari d’Africanus, anche un’altra australopitecina che chiamò, per le sue caratteristiche Australopitecus Robustus. Con la dimostrazione del falso di Piltdown, gli studi s’incentrarono finalmente sull’Africa: oggi sappiamo con certezza che la Rift Valley fu abitata da almeno due tipi di scimmie antropomorfe, in un periodo compreso tra 3 milioni e un milione e trecentomila anni fa. Nel 1973 D. Johanson scoprì, nel Triangolo di Afar, un’australopitecina ancora più antica, (Australopitecus Afarensis, 3.250.000 aa fa),  che divenne più nota con il nome di Lucy, essendo di sesso femminile. Da allora, una vasta messe di nuove ricerche (Mary Leakey, Steven Ward e Andrew Hill)  dimostrarono che l’età degli ominidi era ancora più antica: fino a 5 milioni di anni fa.
E rivelarono che questi ominidi lasciarono per 25 metri le impronte solamente dei piedi, su uno strato di cenere proveniente dal vulcano Sadiman, che ci è stato gentilmente conservato dalla natura: camminavano come noi. Altre, numerose e più recenti scoperte ci parlano dell’antichità dell’Ardipithecus Ramidus (e dell’Ard. Kadabba, suo predecessore, risalente ad epoche anche precedenti), scoperto nel 1993 e pubblicato nel 2009.
Tutte queste rigorose ed affascinanti ricerche sull’origine vera dell’Uomo sono state terribilmente ritardate ed ostacolate da un falso, che adesso – forse – ci può far sorridere, ma che ha indubbiamente prodotto danni gravi alla scienza e mietuto numerose vittime innocenti tra i ricercatori seri. La sola considerazione finale dei danni creati dal falsario e dalla sua opera è sufficiente per convincersi che questo fenomeno va combattuto in ogni modo, sempre.

In fondo si tratta solamente di seguire un semplice percorso di qualità, con lo stesso buon senso con il quale le massaie scelgono con amorevole saggezza ogni giorno il cibo con cui alimentare la propria famiglia. Sono ben consce dei problemi che la produzione industriale, la distribuzione globalizzata e le filiere troppo lunghe possono produrre: diffidano di quei pomodori troppo rossi e clonati tutti uguali, di quelle mele troppo lucide e belle, quasi finte, tutte senza sapore... Quando sono fortunate, si rivolgono direttamente al piccolo produttore, di cui conoscono orti e frutteti, allevamenti e metodi affidabili, anche quando i loro prodotti possiedono un aspetto ben più dimesso e meno accattivante degli altri prodotti in massa. Ecco il consiglio finale, quindi: anche nel nutrimento della mente, seguire la qualità e l’affidabilità.

A meno che davvero non si desideri proprio scoprire – addentando con avidità una merendina sintetica, colore ed aromi artificiali – in quali e quanti modi bellissimi i Sardi attuali discendano eroicamente da Atlantide e dal folletto delle sette berrette, e come essi dettero gloriosamente origine alla Civiltà Occidentale con le formule trigonometriche annotate per comodità nei propri bronzetti, scrivendo ed operando nel nome di Yahvé, già duemila anni prima di Cristo.