Sardegna, c’è un tesoro archeologico
nel santuario dei Giganti di pietra
nel santuario dei Giganti di pietra
Una distesa di reperti comincia a venire alla luce: a
supportare il lavoro sul
campo il georadar dell’Università di Cagliari, l’unica al mondo a possederlo
campo il georadar dell’Università di Cagliari, l’unica al mondo a possederlo
NICOLA PINNA
CABRAS (ORISTANO)
Ci sono cinquantaseimila indizi che
rendono ottimisti i ricercatori. Sulle tavole elaborate dagli esperti di
geofisica appaiono come puntini rossi, ma in realtà si tratta di strade, muri,
tombe e forse altre statue.
Nel santuario (quale?) dei giganti (enfasi identitaria: non sono giganti) di Mont’e Prama (è il nome sardo di una
collina), sulla costa occidentale della Sardegna, c’è una grande scoperta
archeologica ancora da completare. In una collina che si affaccia sul mare di
Is Arutas e sullo stagno di Cabras, nel cuore della penisola del Sinis, stanno
venendo fuori i resti di un grande e sontuoso santuario (è ancora da vedere:
non anticipiamo le conclusioni) nuragico (e come lo hai datato? Considera che anche le statue
non sono affatto datate come ‘nuragiche’) e di una necropoli collegata. Nello
stesso luogo in cui sono tornate alla luce le statue di guerrieri, arcieri e pugilatori (una “baggianata”, secondo
tutti i ricercatori seri) che hanno rivoluzionato le teorie sulla storia del
Mediterraneo (quali teorie,
esattamente? E – soprattutto – nelle menti
di chi, esattamente?), c’è una distesa di reperti che ora comincia a venire
alla luce. Ci lavora da tre giorni un pool di studiosi delle Università di
Cagliari e Sassari, insieme ad alcuni disoccupati del paese e a un gruppo di
detenuti del carcere di Oristano.
Dodicimila giorni dopo la prima scoperta
gli scavi sono ricominciati, ma stavolta gli archeologi non partono da un
casuale ritrovamento come quello fatto nel 1974 da un contadino che preparava
la semina. Il suo aratro aveva portato in superficie una pietra troppo diversa
da tutte le altre ed è così che si è riusciti a recuperare i 28 giganti
(eccesso di enfasi, ancora: non sono giganti) che solo da due mesi sono in
mostra. Stavolta, a supportare il lavoro sul campo, c’è un’indagine realizzata
con il georadar dell’Università di Cagliari, l’unica al mondo a possedere uno
strumento di questo genere (questa è una grossa bugia: già nel 1978 fu usato in Inghilterra per
riparare le perdite del Reservoir Frankley (http://en.wikipedia.org/wiki/Frankley_Reservoir).
Una sorta di scanner con le ruote che ha fatto la radiografia del terreno e ha
consentito di vedere che a pochi metri di profondità, in un’area vasta almeno
sei ettari, c’è qualcosa di molto strano (‘strani’ possono definirsi i normali
resti archeologici, quando desideri fortemente vendere il tuo giornale!).
Gli studiosi le chiamano anomalie, ma in
altre parole si tratta di strutture o materiali che non sono né naturali né
compatibili con le caratteristiche geologiche dell’area (di solito i reperti archeologici possiedono la pervicace caratteristica di non rientrare nella definizione di 'caratteristica geologica'). Ad osservare con
attenzione le elaborazioni grafiche, poi, si nota che le conformazioni rilevate
dal georadar sembrano proprio strade e grandi edifici. «Quella che abbiamo
eseguito a Mont’e Prama è la stessa ricerca che in Marocco ci ha consentito di
scoprire l’anfiteatro romano di Volubilis e il tempio di Ercole a Lixus»,
racconta il professor Gaetano Ranieri, ordinario di geofisica applicata
all’Università di Cagliari, nonché ex docente al Politecnico di Torino. «Per
ora abbiamo analizzato soltanto sei ettari e abbiamo trovato tanti indizi che
ci fanno pensare che esistono strutture di grande interesse archeologico: di
certo non si tratta di conformazioni geologiche – aggiunge – A vedere i nostri
rilievi penso che ci sarà da scavare per molti anni: sarebbe bello che qui
venissero a lavorare gli esperti delle più prestigiose università del mondo».
La storia
mitica (che – manco a dirlo – non è affatto scientifica!) dei giganti di
Mont’e Prama, le più antiche e più
grandi statue (non è affatto così: non sono le più antiche: sono della
stessa epoca di tutta la grande statuaria Italica antica, né pìù, né meno!) realizzate
nel bacino del Mediterrano, ha già attirato l’attenzione di molte università e
la curiosità dei giornali di mezza Europa. Ora tutti si chiedono cosa nasconda
la terra che circonda il sito già scavato negli anni Settanta. Qualcuno (chi,
esattamente?) parla della più grande scoperta archeologica dell’ultimo secolo.
«Sicuramente grandiosa – dice con prudenza Raimondo Zucca, ordinario di storia
romana all’Università di Sassari e coordinatore dello scavo – In quest’area
ipotizziamo di ritrovare i resti di un grande santuario collegato a un
villaggio nuragico (ammesso che Zucca lo abbia detto, questo è un uso troppo
disinvolto del vocabolo “nuragico”: per fortuna di seguito si riprende e
fornisce la data presunta corretta - VIII
a. C. - che non è ‘nuragica’) molto
ricco che poteva permettersi di realizzare grandi statue ornamentali. Nella
zona – spiega Zucca – c’era una pluralità di insediamenti, organizzati
probabilmente sulla base della gerarchia economica. C’era, insomma, una sorta
di federazione a cantoni. Il santuario, secondo la nostra ipotesi, era stato
realizzato intorno all’VIII secolo avanti Cristo, in un’epoca in cui si era già
smesso di costruire i nuraghi, (appunto!) con l’intenzione di celebrare la grandiosità del
villaggio. Le statue che abbiamo recuperato sono le più antiche in assoluto».
Di quel misterioso e sfarzoso tempio
intanto è venuta fuori qualche traccia già nel primo giorno di scavi: due
blocchi di arenaria che apparentemente non hanno alcun significato ma che per
gli archeologi sono elementi tipici dei templi di età nuragica (ma per favore!)
Gli altri
segreti (!!!!) sono ancora nascosti nella grande cassaforte del Sinis.