domenica 5 gennaio 2014

Capitolo XIV

La Terra dei Mucchi di Pietre
di Maurizio Feo


14. Un nuovo destino.


L’indomani il risveglio dei componenti della Compagnia fu fati­coso e tardo, ma il villaggio sembrava già animato da una rin­novata volontà: vi fervevano i preparativi di viaggio ed era grande l’eccitazione.
Hur aveva già raccolto il suo popolo di montanari ed aveva chiaramente espresso e motivato i propri ordini, che erano quelli del capo indi­scusso e della somma guida religiosa. Aveva usato molte parole, Hur, perché grande era il cambiamen­to di destini e grande - egli sa­peva bene - il sacrificio che esigeva.
Spie­gò che tale sacrificio sarebbe stato premiato dagli Dei, perché con esso si difendeva la loro terra da nemici che l’avreb­bero altrimenti oltraggiata. Ognuno si era convinto: se così parlava chi sempre li aveva condotti secondo la Tradizione e la volontà degli Dei, allora così doveva essere, e così tutti avrebbero fatto...
Presto, in capo a qualche ora, ogni cosa sarebbe stata raccolta, assicurata sui carri e in viaggio. Sarebbero rimaste indietro soltanto le pietre affumicate dei falò, ed i rimpianti - aggrappati con le loro ostinate e lunghe radici alle capanne natie ed al pas­sato...
Ma molto prima di allora la Compagnia avrebbe dovuto essere già in viaggio, equipaggiata, armata e ben guidata, pronta ad affrontare le insidie e le fatiche del percorso. Tutto era ormai pronto, ben prima che il sole raggiungesse il punto più alto nel cielo.
Mandras decise di lasciare in­dietro i suoi cinque messaggeri armati, che ben conosce­vano il percorso e la desti­nazione indicata da Lauchme sui Monti Neri. Inoltre, essi erano ben istruiti su come ottenere la collaborazione dei fedeli delle rispet­tive città di provenienza.
Gli mise a capo Iolao.
Questo riduceva la compagnia a venti uomini soltanto, ma Ha­nys fece prontamente sapere che egli stesso e trenta dei suoi guer­rieri li avreb­bero scortati attraverso la montagna. I cin­quantuno uomini partirono prima che il sole cominciasse a scendere...
L’esile figura di Larthy era lì, tra i cespugli brillanti del corbezzolo in fiore.
Ella guardava sfilare via quegli uomini e nel petto aveva un tumulto strano e inusi­tato.
Cercava con af­fanno quel giovane della sera prima - così diverso da tutti gli altri giovani - che non si abbandonava a futili gio­chi, ma che così semplicemente e così direttamente sapeva parlare al cuore.
E poi finalmente lo vide ed intrecciò lo sguardo con lui, che sentiva di non poter lasciare i ranghi ma che - lo si capiva - avrebbe tanto voluto farlo. Norax guardò verso il Grande Sacerdote e poi nervosamente in­torno. Quindi tornò a guardare verso di lei, con uno sguar­do adorante che l’abbracciava tutta: dalle molle di bronzo che le spartivano i capelli in ciocche, fino ai piedi, ancora scalzi per­ché ella era appena uscita dal tempio. Larthy portò la mano al collo e con essa seguì il laccio di cuoio fino a raggiun­gere il piccolo Bes di ambra e lo sollevò un po’ in alto tra due dita, quasi a mostrarlo per ricordargli il pegno, mentre con l’altra mano timidamente salutava... “E’ un dio buono del Grande Fiume da cui provengono i miei ante­nati” - gli aveva sussurrato Norax nel donarglielo  - “E’ un dono a me dal mio più caro amico e te lo affido. E’ un custode fedele della casa, della musica, della danza - per cui ti sarà be­nevolo. Protegge il sonno e riempie di benessere la casa. Così ti troverò felice quando ritornerò da te, ovunque tu sia, da qualunque distanza Mammethun ci avrà interpo­sto”.

Norax sentiva di non voler più essere uno. Voleva altrettanto ardentemente restare con Larthy e partire per assol­vere la Missione. Questi due desideri contrastanti gli davano una smania che egli non riusciva - per quanto pro­vasse - a nascondere.
Il suo Maestro - che fino ad allora non aveva dato segno di avvedersi di alcunché - gli disse allora, con tono solenne: “Se Ennin lo disporrà, tu la rive­drai ed ella sarà nel tuo tempio col benvolere degli dei - tu Wa Na Ka e lei Po Ti Ni Ja - ed ella diverrà per te tutto ciò che ASU Lèkere é tuttora per me”.
Poi aggiunse, con aria pre­murosa e maliziosa insieme: “Ma non dovresti salutarla prima di partire?”.
Norax lo guardò con muta e grande ri­conoscenza e quindi rispose raggiante al saluto di Larthy, portandosi la mano al petto, poi al capo e infine indicando lei, che gli sorrise in risposta, i begli occhi lucidi.
Ella se­gnò nell’aria gli ideogrammi di “uomo” e “donna” e poi fe­ce l’atto di stringerli stretti stretti insieme tra le mani...
Sul petto di Norax una piastra di rame con una doppia ascia incisa brillò rossastra, restituendo intorno, esultante, i caldi raggi del sole...

Il bo­sco che presero ad attraversare, ben presto divenne un’impene­trabile ed immenso intrico di piante, ogni tanto solcato dai viottoli tracciati dai grossi animali sel­vatici. Sarebbero stati più facili da percorrere, ma purtroppo seguivano direzioni erratiche del tutto inutili per la Com­pagnia, eccettuati brevi e benvenuti tratti. In alcuni punti essi sfruttavano - procedendo in fila indiana - i sentieri tracciati dai cacciatori di Hanys nelle loro battute abituali.
In questo modo - fortunatamente per loro - i tratti vera­mente impenetrabili, che richiedevano un alto pedaggio in tempo e fa­tica, erano alternati ad altri più agevoli, se non proprio riposan­ti. Le alte sagome dei vari tipi di cerri, lecci, roveri, si mescola­vano con le chiome dei rari pioppi dai fusti più chiari e con le forme più snelle e minute dei lentischi più vecchi. I ginepri avevano as­sunto man mano aghi più piccoli e chiome più fitte, forse - pensò Norax - perché ri­cevevano meno acqua. Anche qui c’era ovunque intorno il mirto, che diffondeva il proprio odore forte e grato al passaggio ed ostentava già - tra il verde cupo delle foglie lucide - il viola invitante dei suoi piccoli frutti golosi (più piccoli e sapo­riti, giudicò Norax, dopo essersi servito).
Il mirto porta­va sempre alla mente l’idea di Lèkere, e Norax si sorprese a pensare che cosa mai ella stesse facendo in quel mo­mento...
Proprio allora, una colomba bianca gli volteggiò leggera intor­no tre volte in un frullio d’ali, quindi si allon­tanò silenziosa verso la luna già alta. Norax se ne sentì confortato.
Il percorso si andava facendo più ripido ed il bosco, meno intricato, permetteva ogni tanto di vedere un cielo imbronciato e malevolo, che sembrava pesare sulla Com­pagnia, accrescendo la fatica del viaggio... Presto fu l’ora del pasto.
Hanys dette con riluttanza l’ordine di fermarsi in un punto che sembrò vo­ler scegliere con molta cura - anche se per la verità a No­rax non parve affatto né più comodo, né più riparato di altri. Non fu certo un pasto allegro, con il cielo che faceva le peggiori minacce ed Hanys che con evidente malu­more faceva pesare a tutti l’esigua distanza percorsa fino a quel momento, con in più la grande stanchezza che tutti ormai sentiva­no. Inoltre, non poté essere un pasto molto vario, data l’asso­luta proibizione di accendere fuochi: la scelta fu sol­tanto tra “puls” e “maza” - cioè, o pappa di frumento rinve­nuta in acqua salata o gallette di farina d’orzo inumidite e insaporite con olio e vino... Ceci, pistacchi e formaggio fu­rono il piatto forte.
Ha­nys volle quindi tenere un breve consiglio, cui presero parte Lauchme, Norax, Mandras, e alcuni luogotenenti scelti tra guerrieri e cacciatori.
“Dobbiamo riposarci il più possibile adesso” - disse Hanys - “Più in là ben presto nessuna delle mie guide potrà esse­rci utile ed inoltre il cammino non sarà più sicuro. Non ci saranno garantiti né il riposo, né il pasto, né il sonno. Que­ste saranno le uniche certezze in mezzo all’ignoto. Il tempo si fa sempre più minaccioso, e anche que­sto non ci sarà di aiuto. Se ora avete qualcosa da dire o da chiedere, fatelo: più tardi anche le parole dovranno essere assai po­che e soltanto la fatica sarà sicura ed abbondante”.
Mandras grugnì qual­cosa di incomprensibile, con l’aria di chi é pronto ad agire e non si aspetta comunque niente di meglio. Naturalmente, non essendo per mare. Norax avrebbe voluto dire e chiedere diverse cose, ma non sapeva bene da quale argomento cominciare, né voleva far perdere tempo prezioso con domande che potevano sembrare sciocche o intempestive. Il Grande Sa­cerdote ruppe quel si­lenzio imbarazzato e lentamente disse con la sua calda voce serena e ferma: “Abbiamo una Mis­sione da compiere. In essa noi crediamo con una forza che ci permetterà di superare gli ostacoli. Non conosciamo an­cora per intero il prezzo - questo é vero - ma sappiamo che la rinuncia sarebbe di certo più gravosa di qualsiasi pedaggio gli dei ci vorranno imporre. E più colpevole”.
Ancora una volta, Lauchme aveva saputo restituire alla cenere del fuoco la sua forma primitiva di albero intero e vivo, quale essa aveva prima di bruciare. E questo mirabi­le ri­sultato egli aveva ottenuto tanto con la forza delle sue parole dirette e suadenti, quanto con l’espressione intensa del volto, i lampi degli occhi, la compostezza e la dignità profonde che emanavano dalla sua figura intera. Ed infatti, tutti fu­rono rassicurati nella loro convinzione; pur se non si sentirono certo più allegri, sentirono più forte il richiamo al dovere da assolvere.
Ripresero dunque ad iner­picarsi per la montagna attraverso il bosco, con la consapevole lentezza di chi viaggerà finché la luce permetterà di indirizzare i passi. Le guide di Hanys presto presero a procedere caute, ognuna incaricata della sorveglianza di un arco di orizzonte, in modo da coprire insieme tutte le direzioni. Alcune scruta­vano lontano, altre - le più esterne - frugavano con occhi attenti e addestrati il fitto della vicina vegetazione.
Il Sacerdote - preoc­cupato, più che incuriosito - chiese il motivo di tanta cautela e la risposta che ottenne da Hanys non fece che confermare i suoi timori: “Vi é la gente delle grotte. Poco più in là. Aggrediscono all’improvviso. Poi scompaiono. Sempre senza tracce. Escono dalla montagna. Nessuno riesce a seguirne i passi. Nemmeno i migliori cacciatori. Dopo quella cresta lassù - vedi? - il pericolo sarà continuo”.
Hanys parlava con frasi brevi, adesso, con una cadenza dettata dai suoi passi. Per conservare fiato prezioso. Dal canto suo, il Sacerdote era ben contento di dover soltanto ascoltare ed annuire, mentre le parole dell’altro accompagnavano il ritmo regolare della mar­cia comune.
“In passato abbiamo sempre aumentato il numero dei nostri cacciatori, ad ogni battuta, su queste terre” - prose­guì Hanys - “Ad ogni attacco essi erano comunque sempre più numerosi di noi”.
Il Sacerdote quasi pensò a voce alta, profit­tando di una pausa dell’altro: “Perché li chiami gente delle grotte, se non hai mai visto dove vivono?”.
Hanys gli rispose: “Perché vestono solo di pelli.  Non sanno tessere. Usano ac­cette e clave di pietra bianca. Scheggiano la pietra nera per farne coltelli, punte di freccia e di lancia. I loro scudi sono di pelli e di legno. Sono abitanti delle grotte, ma non vivono presso il mare, bensì nel cuore della montagna”. Norax, che di questo colloquio non perdeva neppure una parola, pensò che questo discorso era, da una parte, assai convincente per spiegare l’appartenenza al popolo delle grotte dei loro potenziali prossimi nemici. Ma considerò che nel contempo era inquietante e assai poco convincente nel de­scrivere la strana capacità di scomparire - senza lasciare trac­cia alcuna - nel cuore della montagna, ciò di cui invece Hanys mostrava di essere più che sicuro.
Sia il Sacerdote, sia Norax, suo allievo, presero a studiare criticamente Hanys, quasi si fossero accordati in precedenza. Questi si muoveva come un gatto: deciso, silenzioso, agile, esperto. Sceglieva il percorso più agevole e più sicuro, senza esitazioni, né errori. In precedenza - adesso era chiaro - aveva scelto per la sosta, una zona ove la Compagnia fosse assolutamente invisibile dal territorio del nemico. Certamente, Hanys sapeva riconoscere l’ingannevole mantello della selvaggina camuffata tra le rocce ed il fogliame, ne conosceva le tracce, l’odore, le abitudini, le debolezze, la pericolosità e le esigenze. Ma nel contempo era un guerriero della montagna e sapeva distinguere i rumori naturali ed animali dal diverso fru­scio causato da un uomo che si muova furtivo e nascosto.
Malgrado ciò, Hanys ammetteva che i suoi cacciatori e lui stesso erano stati più volte sorpresi dagli uomini delle grotte.
Raccontava che questi combattevano con furore, di sorpresa e in maggior numero, in modo da bilanciare l’inferiorità delle proprie armi. In questo modo - ammise Hanys - avevano otte­nuto che le incursioni nel loro territorio fossero rare e motivate da periodi di grave scarsità di selvaggina.
Il Sacerdote prese nota del fatto che non parlava con acredine dei nemici ed anzi ricono­sceva loro un certo diritto alla difesa del proprio territorio.
Questo atteggiamento di sostanziale lealtà, ben si accordava con i piani di Lauchme ed egli ne fu soddisfatto, tra sé...
Ad un certo punto Hanys li ammonì tutti nuovamente, sottovoce: “Da qui in poi, se li vedremo, sarà già un attimo troppo tardi: teniamo quindi sempre pronta un’arma. Tendete le corde degli archi. Non parliamo, se non per dare un allarme. Quelli che hanno la vista migliore si dispongano all’interno e sorveglino lontano. Chi ha buon udito stia all’esterno e guardi subito intorno, con la freccia incoccata”.
Era un messaggio di massima allerta.
Il gruppo procedeva ormai il più silenziosamente possibile, guardingo e teso, più lentamente ancora di prima, sotto una pioggia leggera e fitta, che tormentava gli uomini e acuiva il volubile morso del vento sulla loro pelle... Hanys sceglieva ancora il percorso, questa volta su zone che permettessero sempre un’alternativa di fuga, evitando le gole troppo strette, come i sentieri troppo vicini a precipizi e tutti i terreni troppo rischiosi.
Quando non restava alcuna possibilità di scelta, faceva dividere il gruppo in squadre di dieci uomini. Una sola squadra per volta si muoveva a turno, sotto il controllo delle altre. In questo modo sperava di non esporre mai tutti gli uomini in­sieme. La pioggia si fece più forte man mano e prese a scendere con improvvisi scrosci violenti, alternati a momenti in cui - pur restando fitta e grossa - permetteva almeno di vedere qualcosa intorno. La terra, che fino ad allora aveva avidamente assorbito la pioggia, adesso cominciava a mostrare di essersi dissetata a sufficienza. Fango ed acqua in alcuni punti ostaco­lavano già l’avanzare di uomini e animali. L’ordine a gesti di Hanys, che non giunse inaspettato, fu di non fermarsi neanche allora. Per quanto fosse sgradito a tutti proseguire con quel tempo, a tutti era parimenti chiaro che in quelle condizioni nes­sun orecchio avrebbe potuto udirli e - con un po’ di fortuna - nessun occhio li avrebbe scorti. Gli uomini ciononostante scrutavano sospet­tosi gli anfratti visibili nei costoni, le profonde fenditure delle alte creste di roccia,  ripetendo tra sé che certamente ben più nascosta e segreta era l’entrata ai remoti quartieri del popolo delle grotte.
Fangosi ruscelli neoformati ormai cercavano ognuno la propria strada a valle, quasi in tutte le direzioni, ali­mentati dalla pioggia incessante.  Il vento si era fatto più conti­nuo e più forte, mentre la pur pallida luce del sole cominciava a venire meno. Cercare l’eventuale nemico in agguato diventava sempre più penoso.
Gli uomini erano stanchi. Il rischio aumen­tava in proporzione.
Hanys raccolse un ciuffo di erbetta gri­giastra, con piccole foglie simmetriche e piccoli fiori viola, ormai appassiti, su tutte le cime. Quindi lo strofinò tra le mani e inspirò forte, chiudendo gli occhi e rovesciando il capo all’in­dietro. Anche altri dei suoi uomini ripetevano gli stessi, curiosi gesti. Norax, individuato il tipo di erba, che cresceva in fitti cuscini, volle provare anch’egli. Inspirò profondamente l’erba stropicciata ed un aroma acre e violento lo costrinse a chiudere gli occhi.


Per un attimo gli bruciò forte nel petto. Poco dopo ne scoprì l’effetto ricercato dagli uomini di Hanys: prese a respi­rare più facilmente, con un respiro più calmo e profondo, non più ansimando di fatica.
Il Sacerdote, che lo aveva osservato divertito, gli sussurrò, sorridendo: “Simile al timo... molto più forte... non muore ogni anno”: è l'erba di Papore.
Il buio stava ormai guadagnando tutto l’arco del cielo, che restava un po’ più chiaro alle loro spalle, soltanto illuminando di residua luce appena rosata il pendio di fronte a loro. Hanys decise di non superare la cresta in quelle condizioni sfavorevoli di luce, perché nel farlo si sa­rebbero stagliati contro il tramonto in modo troppo evidente, esponendosi eccessivamente, malgrado la pioggia. Perciò si portarono più in alto possibile, con proibizione di sporgersi ol­tre il margine, e si cercarono ognuno un posto - il più asciutto possibile - ove dormire qualche ora. Qualcuno si sistemò sotto una roccia sporgente, qualcuno sulla biforcazione, oppure nel cavo, di un grosso albero. Gli altri stesero le coperte sopra di sé per ripararsi.
Per tutti fu una miserevole notte...