sabato 4 gennaio 2014

CHAPTER IX



La Terra dei Mucchi di pietre, cap. IX

di Maurizio Feo


9. La festa dei nove giorni.


Al primo calare della sera, come convenuto, i guerrieri Shardana si accomiatarono, ostentando pubblicamente e per segreto accordo un estraneo disinteresse verso il Grande Sacerdote.
Questo disinteresse, naturalmente, ormai non solo non esisteva più, ma aveva anzi lasciato il posto ad una stretta solidarietà vitale. Mandras lo ringraziò ad alta voce in modo formale e distaccato, sotto gli occhi di tutti, dando a vedere che così aveva termine un freddo e occasionale incontro ufficiale. Disse che al suo ri­torno da Kar Kar - la città sul Grande Golfo Ventoso a Sud - si sarebbe volentieri fermato nuovamente lì, forse anche prima della fine della prossima festa.
Questo sarebbe bastato ad ingannare gli eventuali osservatori interessati, mescolatisi tra i convenuti per l’imminente festa?  In cuor loro, tutti i componenti della  nuova Compagnia di Ennin - come si erano autodefiniti - se lo auguravano, per sé e per i propri cari. La popolazione di Tal-Ur fece più o meno distrattamente ala al drappello armato che usciva dal villaggio, quindi ritornò alle capanne e alle proprie attività.
Il Gran Sacerdote fece un sollecito giro preliminare delle case basse, le case del muro, salutando i visitatori e ringraziando per la fedeltà quelli tra loro che riconosceva e ricordava da precedenti raduni. Norax - che questa volta poté e dovette accompagnarlo - ebbe modo di vedere con che sguardo di ar­dente preghiera tutti si rivol­gessero a lui e come il Gran Sacer­dote procedesse lentamente, per potere almeno tutti guardare negli occhi - e poi stringere mani e braccia, ascoltare e ri­spondere a saluti ed auguri e dare a tutti appuntamento all’in­domani, o nei prossimi giorni. Lauchme volle comunque vedere subito i malati più gravi e prendere per essi i primi provvedimenti...
Per il dolore di alcuni consigliò infusi di erbe, o di foglie e bacche di gi­nepro rosso; oppure decotti di corteccia di ontano o di nocciolo; per i brividi scuotenti di altri consigliò abbondanti dosi di decotto di foglie di salice.
Uno dei convenuti, in particolare, presen­tava una grossa tume­fazione rossa e lucida su di un piede, tanto dolente che gli im­pediva di camminare. Lauchme si fermò di fronte a lui, si tolse il galero appuntito dal capo e si rimboccò le maniche, quindi saggiò la pelle, tesa e luci­da, in più punti, con meticolosa at­tenzione. Individuò un punto che sembrava fluttuare di più e lo segnò con succo di mirto.
Alla luce danzante delle fiaccole, il volto dei convenuti sembrava segnato da strane e mutevoli espressioni, ma erano tutti attenti e rispettosi, con le pupille dilatate e fisse sul sapiente operato di Lauchme.
Estrasse un piccolo coltello da un panno di lino e praticò con quello un buco, nel punto prescelto del piede, libe­rando un li­quame maleodorante, che schizzò fuori con forza.
Norax provò un momento di vera paura - non avendo mai visto alcunché di simile prima - e a quella seguì il disgusto per l’aspetto e l’odore di quella terribile poltiglia verde-bianca­stra. Ma poi - soprattutto - l’impressionò il sorriso di sol­lievo dipinto sul volto, pur sudato e sofferente, del malato, il quale sorprenden­temente ammise di star subito meglio.
Il Sacerdote sorrise impercettibilmente, mentre proteggeva il piede ferito con bende di lino profumato, dopo averne lavato la piaga con molta ac­qua sacra, salata in precedenza da Lekere, che era la custode del pozzo sacro.
Norax tutto osservò con viva attenzione, appren­dendo molto su come fare e su come aiutare chi fa. In tutto Lèkere fu accanto a Lauchme, e gli fu di puntiglioso aiuto, senza mai espri­mere emozione alcuna, se non una amorevole e sollecita partecipazione, silenziosa ed efficiente.
Lavorarono ancora fino a notte fonda.
Infine il terzetto, esausto, si ritirò per dormire, accompagnato dai buoni auguri di una umanità sofferente e grata, alleviata nel dolore, ravvivata nella spe­ranza.
Già pulsava forte la vena del miracolo annuale nel Grande Cerchio, già si rinnovava il prodigio della luce, voluta ed accesa nel buio dal Grande Sacerdote Lauchme, dai molti nomi...

L’indomani si levarono tardi, risvegliati dal vociare intru­sivo degli ultimi arrivati, che si aggiungeva a quello di tutti gli altri, intenti nel barattare, organizzare, trattare, stringere patti e nuove amicizie, condurre usuali commerci o perfino trovare moglie o marito. Tal-Ur si era ancora una volta prodigiosamen­te trasformata: la sua popolazione era adesso, in occasione della festa annuale, più di sette volte quella abituale. Si contava numeroso bestiame di tutti i tipi, portato dai vari allevatori per essere venduto, scambiato o soltanto vantaggiosamen­te incrociato. Si vedeva­no intorno  molte stuoie distese a terra, con esposizione - su teli variamente colorati - di mirabili quantità di merce di ogni gene­re: dai vasi di piccoli pesci salati, al miele, al sale, all’olio; dalle ceste di asfodelo e di rami di sa­lice alle stuoie di vimini e rafia ai tappeti, agli abiti, alle pelli. Al­cuni banchi piccoli - più preziosi - offrivano soltanto monili, specchi, fermacapelli a spirale, pietre dure lavorate. Queste ultime erano corniole, diaspri, sardonelle, opali, agate, ambra es­sicca­ta e pasta di vetro colorato. Su altri banchi, meno curati, erano esposti attrezzi: corde intrecciate, corregge o bande di cuoio, coltelli, rasoi e raschiatoi, accette, zappe, spiedi; oppure vasi di terracotta, semplici o dipinti, e poi tazze, ciotole, piatti, pentole, calderoni.
Ogni banco, telo o recinto trova­va il suo pubblico curioso, critici esperti e qualche interessato cliente. In ogni angolo l’eterno rituale della contrattazione si rinnovava sempre uguale, tra sguardi intensi, orgogliosi e furbi, tra paro­le irrimediabilmente date e sempre immutabilmen­te mantenute - pena sicura ogni maledizione per molte generazioni - e infine grandi sorrisi e una buona bevuta di birra, densa e torbi­da, a suggellare il patto.
Quando fu tempo, il Grande Sacerdo­te si portò sull’area sacra, indos­sando tutti i grandi paramenti dell’occasione ed il cappello a cono, con in cima il pileo. Fece con­durre a sé le prime of­ferte, una di ciascun tipo: con mano esperta e gesti rapidi, le immolò tutte, affondando l’affilatissi­mo coltello sacri­ficale prima là, dove si toglie ogni movimento, poi nei punti cruciali da cui più rapida esce la vita. Per immola­re un torello usò un labrys - sacro al dio Sole - cioè l’ascia bi­penne che solo in questa occasione usciva dal suo abituale ruolo di simbolo, per tornare ad essere anche nella realtà il ful­mineo potere che abbatte e dà la morte e poi di nuovo la vita oltre di essa. Lauchme anche con quella fu rapido e preciso, per cui il grosso animale partì veloce ad ingrazia­rgli i cieli... Di quello, il Grande Sacerdote estrasse il fe­gato e lo mostrò alla gente.
Come appariva terribile e ma­gnifico il Galerito Lauchme - così lordo di sangue e di de­stino - le mani protese verso l’alto cielo in preghiera, mentre per la propria gente egli studiava i segni nelle mi­steriose viscere dell’animale sacro, nell’erratico volo degli uccelli tra le candide nubi, per indicare la via, spar­gendovi la luce!
Egli rivolgeva le proprie preghiere e quelle dei fedeli alla Grande Madre - ché li proteggesse - e a Suo Figlio, che era morto ancora una volta per tornare a dormire nei mesi freddi e - ci si augurava - per tornare poi a nascere, alla nuova stagione dei doni. Lauchme pregò per i frutti del suolo e del mare, per la salute delle famiglie e l’amicizia tra le tribù, per l’amore tra i due po­poli fratelli che vivevano insieme sulla Terra del Sole.
Infine - lanciando gli astragali per ogni richiesta - chiese ed ot­tenne dalla Grande Madre Ennin che confondesse le rotte delle navi nemiche, che mandasse invece buoni venti die­tro a quelle amiche, affinché la Sua Terra Prediletta fosse sempre una terra felice in onore a Lei, alla Luna e al Sole.
Quindi diede solennemente inizio alla festa dei nove giorni, accendendo il fuoco sotto ad un tronco di quercia - così grosso che tre uomini riuscivano ad abbracciarlo a malapena - che avrebbe bruciato per tutti i nove giorni e le nove notti - insieme a timo, mirto, rosmarino, pervinca, riem­piendo con la propria presenza gli occhi, le narici, il cuore stes­so dei presenti...
I primi ad occupare il campo furono giovani coppie locali, che cominciarono con abilità ad inanellare un ballo tondo, guidati e seguiti dalla musica. Dapprima fu un moto lento e zoppi­cante, muovendosi i ballerini da sinistra a destra e una coppia per volta; poi si fece più veloce e saltellante, tenendosi per ambedue le mani, fino a diventare un vorticare di vesti colorate e di veli leggeri, velocissimo, estenuante.


Al centro stava un instancabile aulete, suona­tore di flauto a tre canne, che sembrava non avere mai bi­sogno di fermarsi a prendere fiato, le gote sempre gonfie, rosso in viso, le agili dita animate da una magica destrezza.
Più in là vi erano suonatori di trunfa, tamburi, campanelli e altri strumenti a fiato, tutti impegnati ad inseguire i ballerini nella loro sempre più frenetica danza.
Tutto intorno stava la gente, che batteva le mani e intonava canzoni in coro.
At­torno al fuoco furono pian­tati diritti settanta grossi spiedi, ciascuno con il rispettivo carico ben assicurato, in un con­certo a parte, fatto di sfrigolii, scop­piettii ed inebriante profumo.
Quindi cominciarono le gare di poesia cantata all’impronta: si fece scegliere alla folla il primo tema del giorno e via che si alternarono i concorrenti improvvisando sopra un podio ben illuminato dal fuoco. La folla reagiva all’unisono alle battute brillanti ed alle rime azzeccate, ora ridendo, ora applaudendo. Essa dava così ai cantori il tempo necessario per trovare - nell’inesauribile bagaglio della loro memoria - altre gradite e sempre nuove idee per deliziare l’uditoro con uno spettacolo migliore.
Tutti i volti erano accesi dalla luce del fuoco, dal vino e dalla birra, dal piacere di essere tutti insieme adesso e dalla speranza di una vita migliore domani.
Anche i ma­lati, che guardavano la bella scena di lontano - dalle finestrelle delle basse case del muro, con i tetti di cannicci - ascoltavano intenti e talvolta ride­vano alle battute migliori, talaltra sussurravano litanie liberato­rie: “Luna nuova, luna vecchia, malato mi trovasti, lasciami guarito, Luna Lèkere”.
Qualcuno si aspergeva di acqua dal pozzo sacro con un ramo di sambuco, per liberarsi di un malefi­cio di Menacra. Altri bruciavano ruta e ne respiravano avidamente i fumi, pregando Papore di ridare loro il re­spiro perduto.
Tutta la gamma dei sentimenti umani copriva un fazzoletto di terra sacra: si gridava di gioia e di dolore, si cantavano versi sacri e profani e si piangeva mormorando preghiere e speranze, si vinceva e si perdeva con uguale vergogna ed orgoglio, si davano e si ricevevano amore, bevande, cibo e conforto. 
Tutti insieme.
Tutta la folla era magicamente per­corsa da un solo fre­mito collettivo di piacere, da una rinnovata consapevolezza di essere tutti buoni, di essere finalmente in­sieme, di poter cercare e darsi aiuto reciproco, di parlare la stessa lingua, di cantare le stesse canzoni, di essere una sola gente: la Vera Gente sulla terra preferita dal Sole, di avere tutti una sola speranza, una sola fede, una famiglia. 
Insieme.
Norax guardava rapito il grande spettacolo ed era orgoglioso e ad un tempo commosso dalla vista del potente cuore palpitante di quel popolo sincero, messo a nudo co­sì, vero - soltanto una volta all’anno, in quel raro e prodigioso evento, che aveva imparato ad amare, oltre che a rispettare profondamente, con tutto se stesso.
Lacrime di gratitudine gli rigavano le guance per l’onore di esserne parte, mentre dentro di lui il sangue correndo forte gli gridava di essere davvero sangue della Vera Gente...
A furor di popolo, intanto, furono scelti i due più bravi poeti cantori e si fissò un nuovo tema, con il quale essi avreb­bero dovuto misurarsi, stuzzicarsi, sfidandosi, complimen­tan­dosi e irridendosi fino a potere stabilire chi fosse il migliore.
Già si preparavano i ballerini delle contrade lontane, e poi gli arcieri per la gara di tiro a cavallo; i gio­vani si cambiavano trepide promesse, i vecchi seppelliva­no antichi rancori.
Tutto era un pulsare fatato di linfa vitale, un grato riconoscersi nell’unica medesima origine, una rituale liberazione dal male, un rassicu­rante rifugiarsi nella forza ineffabile, ma infinita, della Tradizione e della Fede...
____

Ardys ed Aliatte avevano vegliato tutta la notte, per non perdere di vista né Hiram, né il pescatore. Askalos ed altri li avevano raggiunti. Avevano anche organizzato una eventuale intercettazione del peschereccio prima che uscisse dalle acque del porto, nel caso arrivasse l’ordine di farlo.
Fu invece deciso di lasciarlo andare, per non destare sospetti.
Hiram, dal momento in cui vi aveva messo piede, non si era più mosso dalla locanda e non aveva avuto altri incontri, né fuori, né dentro di essa. L’oste era un  fidato amico degli Shardana.
Quando il sole fu alto, li stupì molto vedere che la barca - con il pescatore a bordo - non si era ancora mossa dal molo, né vi erano segni che dessero a vedere una prossima partenza. Tutti gli altri pescatori avevano salpato di buon ora ed erano già in alto mare. Perfino la nave oneraria proveniente da Cipro aveva pigramente preso il largo indisturbata, dopo che era stato laboriosamente equilibrato un carico di anfore a bordo. I molto ben pagati zavorratori del porto - tra cui si contavano alcuni levantini - avevano dovuto lavorare per ore, in un confuso e continuo andirivieni indaffarato... Ciascuna anfora era stata fissata con cura: era infitta a metà nella sabbia in fondo alla stiva. E intorno alla parte esposta di ogni anfora erano stipati numerosi cespugli di mirto e terebinto, che avrebbero attutito gli eventuali urti durante il tragitto, se fosse stato agitato.
Finalmente, il pescatore apparve sul ponte della barca, barcollante e visibilmente sofferente; mandò un mozzo in cerca di un medico. Preoccupato, questi saltò dalla passerella sul molo e corse via veloce, scalzo e vestito di stracci. Quindi il pescatore spedì l’altro mozzo a casa di un amico, perché potesse aiutarlo e portargli conforto. Anche lui fuggì via velocemente quanto il primo, ma in tutt’altra direzione.
Il pescatore stava naturalmente seguendo i precisi ordini, sussurrati di nascosto, con i quali Hiram sperava di confondere e tenere impegnati i rivali in numerose piste false perditempo. Anche gli zavorratori avevano suscitato, probabilmente con ragione, molti sospetti...
Ardys ed Aliatte si resero conto di non avere abbastanza uomini per controllare così tante persone, in posti diversi. Per necessità e di comune accordo con Askalos decisero che la persona da seguire era soltanto Hiram e nessun altro, perché non si doveva in alcun modo disturbare il messaggio di ritorno a Qart-Hadasht, per qualunque strada esso viaggiasse. 
E così i guardiani shardana abbandonarono il molo e - senza saperlo - annullarono l’efficacia della contromossa di Hiram...