lunedì 6 gennaio 2014

CAPITOLO XVII


La Terra dei Mucchi di Pietre, cap 17

di Maurizio Feo

17. Vertigine sull’altopiano.


“Presto!” - gridò Hanys, per l'urgenza digrignando i denti verso i riflessi rossastri dei pioppi tremuli, degli ontani robusti, dei molti salici che si piegavano ad accarezzare le acque lorde - “Presto, andiamo! non possiamo fermarci, o ci aggireranno traversando il fiume più in là!”.
Questo sembrò a tutti - come infatti era - un ragionamento estremamente sensato, pur in quei momenti di ansia dissennata. Tutti uniti prese­ro a salire insieme alla meglio il fianco del monte, chia­mandosi per nome per contarsi. Salirono e salirono e sali­rono, inseguendo inutilmente quel poco di chiarore che ancora indugiava in un angolo di cielo, dietro di loro, e che ben scarsa guida offriva ormai ai loro passi affannati. Salirono stanchi, sanguinando, sfuggendo il buio e quel nemico ottuso e urlante. Salirono senza fermarsi, come se il giorno - che di fatto era già terminato - potesse non avere mai fine per il loro rincorrerlo. Come se con quella marcia furiosa essi potessero cancellare gli orrendi avvenimenti lasciati in­dietro. Il lungo inerpicarsi sembrava non avere mai termi­ne. Nessuno sapeva più bene dove si trovasse: l’unica cosa certa era l’impervia strada in salita, con il rumore scomposto dei passi affrettati, con il suono angustiato delle voci intorno che chiamavano.
Norax si sentiva bruciare il petto, la testa gli girava, i suoi piedi incespicavano sempre più spesso, le mani scorticate e dolenti, il sapore del sangue in bocca. Un unico imperativo: correre!
Venne finalmente dato l’ordine di fermarsi.
Si cercò di organizzare un campo per un breve riposo e malgrado il freddo ed il vento non si accesero fuochi. Tre degli uomini di Hanys erano mancanti ed erano stati visti cadere, colpiti a morte. Questo riduceva la Compagnia a cinquanta uomini - includendo le due guide di Nugor - alcuni piuttosto malconci. Con questo triste, ultimo pensiero in mente Norax presto cadde egualmente nel sonno e fu ignaro di ogni altro avvenimento...
Al primo schiarirsi del cielo si poterono utilizzare nuovamente le bestie - cavalli e muli - che fortunatamente non erano an­date smarrite se non per alcuni capi. Per quanto guardasse­ro intorno e indietro - e dal punto in cui erano godevano di grandissima visibilità quasi in tutte le direzioni - non furono più avvistati i loro inseguitori.
“Io credo” - azzardò Mandras con voce incolore - “Che ci abbiano inseguito di slancio - dopo essersi riorganizzati, per tentare di vendica­rsi di come avevamo guastato la loro vittoria su Nugor e la sua gente: in realtà é una contesa che non ci riguarda, lo sappiamo noi, come lo sanno loro”.
Queste parole erano rivolte ad Hanys, che gli cavalcava affianco: “Forse é così - ammise quello - ma forse ancora una volta ci stanno in­seguendo, se non addirittura precedendo, per predisporre un altro agguato, che abbia migliore riuscita. Hai udito dalla descrizione del Sacerdote come essi conoscano i sentieri più nascosti e le viscere stesse di queste montagne. Tutto può darsi. Anche subito la terra potrebbe aprirsi sotto i nostri piedi”.
Si intromise Lauchme - chiamato in causa dal pericoloso scoramento che aleggiava intorno e che traspariva da quelle parole - e subito portò la luce ed il calore che il sole ancora non offriva: “Comunque vada, credo che non potranno più essere molto superiori a noi di numero” - disse tormentan­dosi un baffo con pollice ed indice - “Ieri ho contato qua­ranta dei loro senza vita. So che non oseranno più un attacco frontale. Lo so per averlo letto chiaro negli occhi di quelli tra loro che sono sopravvissuti... E noi” - disse indi­cando le terre alte che avevano davanti a sé, verso il sole nascente - “non gli permetteremo certo, di giorno e su questo terreno, un agguato da terga”. Quindi riprese, con l’atteggiamento penetrante di chi consapevolmente fa il do­no del migliore argomento alla fine del proprio discorso: “Le bestie che montiamo - anche se usate a turno - ci consentiranno una velocità, e soprattutto una resistenza, che i nostri eventuali inseguitori non potrebbe­ro mai permettersi a piedi”.
Hanys e Mandras si scambiarono uno sguardo d’intesa: oltre ad essere parole molto convincenti, quelle frasi contenevano alcuni ordini precisi, che forse solo per stanchezza non erano stati da loro stessi già subito impartiti, per cui si disposero ciascuno ai propri dove­ri. Hanys stabilì i turni di utilizzazione delle bestie e Mandras dispose gli uomini più adatti in retroguardia.
Norax notò allora che Lauchme sembrava ora distrattamente annusare un fiore, o accarezzare le bacche di un cespuglio, o scrutare il cielo respirando l’aria pungente dell’altezza. Ma ogni cosa, ogni dettaglio dipendeva in realtà da lui e tutta quell’im­presa, in fondo, era stata da lui voluta, preparata e realizzata. A lui guardavano gli uomini ogni tanto e restavano rinfrancati dal suo sorriso sereno e sicuro, dalla sua evidente, incrollabile tranquillità: egli era veramente il Padre della Vera Gente, un dono benigno del cielo.
Saliro­no e scesero ancora numerose volte - sempre restando sulle terre alte - e attraversarono ancora due piccoli ru­scelli dalle acque musicali per le recenti piogge. I ruscelli scorrevano per valli, che erano anguste e tortuose per tutto il loro decorso e ne moltiplicavano il canto. Erano incorniciati dalle chiome regolari di fitti ed alti oleandri velenosi, alcuni qua e là ancora fioriti e prodighi del loro vago profumo dolce e amaro. 
Ad un certo punto si udì - chiaro e deciso -  l’ordine di alcu­ne sentinelle. A rendere piacevole la sorpresa, la lingua di quell’intimazione a fermarsi e farsi riconoscere, era quella della Vera Gente. Non si vedeva ancora il mare in nessun punto dell’orizzonte, ma qualche saltuario refolo di vento, ormai da un poco, ne portava discretamente il messaggio salmastro. Le ginestre qua e là accendevano con crescente frequenza i loro gialli mes­saggi intensamente profumanti, segnalando allegramente la prossimità di un lecceto, rubando lo spazio ai cisti odorosi, ormai spogli e scuri, a qualche lentisco pettinato dal vento marino, alternandosi con alcuni alberelli di filli­rea dalle foglie strette, soltanto cedendo il passo al discre­to luccicore del corbezzolo coriaceo e all’onnipresente mirto dal profumo resinoso e tenace.
Il cielo era nuova­mente carico di pioggia.
Gli uomini erano stanchi ed i fe­riti erano malfermi sulle gambe. Ma le sentinelle riconob­bero le insegne sacerdotali ed il loro atteggiamento subito cambiò. Vollero rendere omaggio al Grande Lauchme di Tal-Ur, alzando le mani disarmate. Quello - pensò Norax con riconoscenza - sarebbe stato finalmente un buon giorno. Si sentì stranamente leggero e quasi svenne. Esitò qualche momento, guardando lontano, da un punto in cui le pareti dell’altopiano cadevano giù a strapiombo per incontrare la verdissima pianura sottostante. Seguì con lo sguardo le colline e le montagne che la circondavano, chiudendola su altri due lati, gradatamente sfumandosi e scomparendo dietro un’umida foschia leggera.



Quindi, Norax si volse verso il terzo lato della pianura, che in un grande golfo az­zurro accoglieva il mare. Una scogliera alta e rossa si spingeva nell’acqua fino a perdersi, protendendosi - senza però incontrarle - verso un gruppo di isolette rosse site al centro del golfo. Su queste ultime nereggiavano i cormo­rani sinuosi. Tra la scogliera e la pianura brillava uno sta­gno che si perdeva nel biancheggiare della foschia e - pur non essendo grande come quelli di Sirdan - più ancora che le familiari immagini del mare e delle rocce rosse, parlava a Norax nella cara lingua suadente di casa... Era una visione sfocata ed indistinta, che svaniva tremolante nei vapori leggeri della calura che saliva dal piano.
Ma nessuno della Compagnia poté godere dello stesso spettacolo, perché gli occhi nostalgici di Norax avevano, in quel momento, un potere più che umano, senza che egli se ne rendesse conto, e vedevano più lontano. Agli altri, sembrò soltanto che il suo sguardo fosse assorto e fisso nel nulla, ignaro del bellissimo panorama. Egli, invece, finalmente cominciava proprio allora a vedere più in là, come i pazienti insegnamenti del Maestro erano stati intesi ad ottenere da lui...
Si mossero.
E finalmente, presero a percorrere una vera strada, dopo tanto terreno selvaggio. Lauchme fece allora notare a Norax come il terreno degradasse nella di­rezione in cui procedevano impercettibilmente, ma conti­nuamente.
“Verso il mare, sicuramente”, disse convinto Norax.
“Non solo verso quello”, fu la laconica risposta che ne ottenne. Ambedue furono distolti dal richiedere e dal fornire ulteriori informazioni. Proprio in quel mentre, infatti, un gruppo di maiali sbandati si riunì con molto tramestio al branco e tutti in­sieme, poi - quasi offesi per essere stati disturbati - si al­lontanarono, olezzando e grugnendo, dagli inattesi e sgraditi nuovi venuti. La strada si infilò quindi presto in un bosco maestoso ed ininterrotto di vecchi lecci, scuri e ombriferi: un bosco profumato e silenzioso, sospeso nelle sue presenze ovattate e nella sua strana atmosfera. Un bo­sco che era del tutto insospettabile dal basso, prima di raggiungere l’altopiano, che le sentinelle dissero essere sacro a Sarapis. Qua e là si rico­noscevano come intrusioni accidentali ora una roverella, ora un acero, un’erica arborea. Qualche velenoso gigante­sco tasso, ammoniva del pericolo con il suo fogliame cupo, mentre il rosso brillante delle invitanti bacche mor­tali sembrava quasi il brillare ammiccante di un occhio malevolo. Il drappello proseguì quasi intimorito, in rispettoso silenzio, addentrandosi nel variopinto e mutevo­le spettacolo del bosco, che si chiamava Elike - come ap­presero dalle guardie di scorta - e nel cui sottobosco ci­clamini, orchidee, pungitopo, alaterno e viburno trovavano eterna protezione in una sola lunga stagione feconda, in­sieme a liane e festoni di edera, caprifoglio, smilace, ru­bia, rosa selvatica, tamaro e clematide.
Ancor più lungo ri­sultò l’elenco delle creature viventi del bosco, le quali, naturalmente, furono molto più elusive all’osservazio­ne di quanto non fossero state le loro sorelle vegetali, ma vennero altrettanto ammirate, in special modo apprezzate dal gruppo dei cacciatori. Un fitto e convulso volar via inesauribile di pernici rosse novelle strappò qualche esclamazione di sorpresa, più ancora che non l’avvistamento dei furbi ed agili mufloni e dei grossi cervi nervosi. Dopo avere sciorinato maliziosamente appena alcune soltanto tra le sue mille magiche bellezze, Elike prese a diradarsi, in piante ed arbusti più bassi, lasciando luogo - con un certo rammarico da parte dei componenti della Compagnia - ad una vasta distesa fertile e coltivata, posta al centro dell’altopiano sacro a Serapis, abitato da Bakis e dalla sua gente.
La piana brilla­va già tutta di molti fuochi e delle fiammelle delle lampa­de, accese in segno di festa e di gioia, per l’inaspettato arri­vo di nuovi e antichi amici. Rapidamente, i guerrieri si scrollarono di dosso la stanchezza del viaggio e gli spiacevoli ricordi e si dispersero nell’allegro raduno festoso...

Gli astragali già rotolavano volubili sulla pietra bianca e liscia, accarezzati dal vociare discontinuo degli uomini, che ad ogni punteg­gio prorompevano in un clamore congiunto fatto di sorpresa, piacere e disappunto mescolati insieme. I gio­vani animali uccisi - maialini e capretti, per lo più - veni­vano con laboriosa allegria preparati per la cottura. Ri­mosse le setole sulla fiamma, o pazientemente scuoiati per liberarli del vello, venivano poi affidati ad altre mani. Abilmente aperti dalla coda fino al collo, venivano privati delle interiora, nessuna delle quali veniva scartata. Anzi, tutte venivano accuratamente pulite e lavate: il cuore, il fegato, la milza, i reni. L’intestino veniva rego­larmente aperto per tutta la sua lunghezza e lavato ancor più a lungo del resto con tutta cura, per essere infine la­sciato a bagno nel vino forte, insieme a sale, cipolle, crescione, prezzemolo, sedano, aceto, rosmarino. Un lungo e dritto spiedo, duro ed appuntito di legno di frassi­no veniva - con maestria e precisione - prima infilato at­traverso la punta delle zampe posteriori, quindi fatto pas­sare anteriormente a fianco delle ossa del dorso ed infine fatto uscire attraverso le fauci. Le zampe anteriori venivano infilate ed assicurate in piccole tasche tagliate all’uopo nello spessore delle due pareti, poco sotto i costati. Questo minuzioso rituale preparativo - al quale non solo i cuochi e gli apprendisti prendevano parte - era già di per se stesso gioiosa, comune anticipazione della festa, anzi era la festa stessa già iniziata, cui si attendeva con piacere, perché vera e palpitante nei suoi antichi e semplici umori. I grandi spiedi carichi venivano ben piantati nel terreno in posizione verticale, posti in cerchio attorno al fuoco, dapprima distanti un braccio o più, quindi man mano ruo­tati pazientemente e prudentemente avvicinati al calore. Nel frattempo si parlava, chi ne aveva bi­sogno si riposava; ci si divertiva passando insieme il tempo nel più vario e ameno dei modi. Si assaggiava il fe­gato - crudo, ma ben condito di chiacchiere e di amicizia - pazientemente intrecciando insieme i lunghi speziatissimi intestini, che rapidissima­mente si sarebbero cotti sul fuoco (e altrettanto in fretta sarebbero andati a ruba) fra una risata ed un brindisi augu­rale, un ringraziamento a Ennin.


Continuamente si rubavano agli arrosti le ghiotte parti che per prime giungevano a cottura e che quindi - se lasciate sul fuoco - si sarebbero troppo abbrustolite: le orecchie, le code, le cotenne più esposte delle pareti addominali, tutti ghiotti bocconi per cui si stabiliva tra i bambini - fin dalle prime fasi della preparazione - un’al­legra ed accesa gara. Gli odori tantalizzanti deliziosi e speziati della carne di capra arrosto, o in umido, e del maialino, si diffondevano ormai dovunque in successive ondate tentatrici. Serapis aveva distribuito con abbondan­za sull’altipiano a lui sacro ogni specie di pianta aromatica, di cui quelle bestie - ed in special modo le ca­pre - generosamente si cibavano. La loro carne aveva tutti i misteriosi e più pregiati profumi di quella terra, di quei boschi. E per quanto su quell’altopiano sacro la Grande Madre Terra fosse stata meno benevola che altrove con i suoi figli, proprio di lì più facilmente vedevano ogni mat­tina levarsi dal mare il Sole, che essi amavano chiamare tuttora Sarapis, forse in memoria di tempi trascorsi e di lidi remoti... Di tutta la Terra del Sole, quel lido era il migliore, il più inaccessibile, il più sacro.
Il viaggio segreto era dunque finito, era festa! Lauchme esausto aveva abbracciato Bakis ed insieme avevano bruciato la ruta. Quindi avevano mangiato di quei frutti di mare che riproducono nel guscio il sacro simbolo del sole, lo stesso magico simbolo che, con gli stampi di terracotta, le donne imprimono diligentemente sul pane rotondo di farina d’orzo, prima di cuocerlo. Bakis li aveva accolti con il caldo affetto fraterno che affonda le sue ra­dici negli anni migliori, che vive del caro ricordo di una giovinezza trascorsa alacremente insieme, e che non soffre certo l’aridità della lontananza.
Con curiosità e stupore Norax aveva visto, prima di giungere a Sarapis - quel sin­golare tempio non rotondo, bensì fatto di muri dritti e spi­goli vivi, con pietre bianche, non di basalto scuro. Si trovava un poco discosto dal villaggio, arroccato ai piedi di un’impervia cima e gli pareva in qualche modo familiare. Quel tempio sovrastava silenzioso ogni punto dell’alto­piano, dalla sua solitaria posizione, isolato, in alto, volontariamente appartato. Incombeva comunque con la propria muta e corrucciata presenza: rimproverando un fastigio del passa­to o forse ammonendo contro il troppo facile oblio...  Immagini ed impressioni erano vaghe e confuse nella mente di Norax, che stranamente - più volte - si trovò a ripensare a Lèkere senza capirne la ragione...
E adesso che Norax avrebbe voluto al riguardo dell’inquie­tante mole bianca mille risposte ad altrettante domande, tutto congiurava ad impedirglielo, in un volontario e scompigliato oblio collettivo, nel banchetto, nella festa, nei giochi. Norax vagò, un po’ confuso dal fortissimo vino della valle, ma ancora incuriosito dalle novità del posto. Giunse ad uno spiazzo nel villaggio che doveva essere il più grande ed il più importante.
Vi giunse all’improvviso, e subito notò - tra gli altri edifici che vi gravitavano intor­no - il tempio del villaggio: questo era rotondo, maestoso e torreggiava molto simile a quello di Tal-Ur, seppure non fosse così enorme. La pietra che lo componeva era la stessa, eguale il modo di sovrapporla. Si ergeva al limitare del villaggio, sul bordo dell’altopiano, circondato dalle consuete casette basse del muro, che gli giravano intorno, affacciate verso di esso, in modo del tutto familiare. Il tempio si stagliava imperioso sul diseguale paesaggio re­trostante, fatto di cime impervie e di forme selvagge, al di là delle quali s’indovinava il mare. E mentre Norax si ac­costava devotamente al tempio la sua attenzione fu attratta da un picco­lo menhir, che stava quasi al centro dello spiazzo. La pie­tra - infitta nel terreno - era poco più alta del suo ginocchio e portava una nic­chia su di un lato, ove deporre l’offerta.

Sotto l’incisura votiva stava, composto e ieratico, il volto scolpito di Ennin.
Norax sostò perplesso al contrasto fra le dimensioni - pensando che una pietra così piccola e modesta sarebbe stata più adatta ad una semplice capanna, mentre al centro del villaggio, o vicino al tem­pio, era aduso a vedere pietre infitte ben più grandi, alte anche due o tre volte un uomo. Poi, poco più in là vide - sobbalzando - una statua dalle forme a lui ben note: era il corpo di un leone accovacciato, che terminava anteriormente con il busto scoperto ed il volto adorno di una vergine. La giovane donna portava un copricapo tipico della terra  in cui Norax era nato: il delta di Atlante, il Grande Fiume d’Oriente, che per venti generazioni era appartenuto agli Shardana.
Norax sgranò gli occhi incredulo.
Dovette ripetersi più volte che si trovava sulla terra della Vera Gente, la terra della Grande Madre, prediletta dal Sole, prima di poterlo credere realmente, prima di riuscire a spegnere un improvviso prepotente coro di voci nella sua testa.
Quel simbolo Shardana non doveva essere lì, a due passi dal tempio.
A meno che - davvero - i due popoli non fossero più che fratelli, forse anzi lo stesso popolo perso e ritrovato, di là dal mare. Gli tornarono subito in mente i lunghi cori remoti della Tradi­zione, che a volte aveva imparato con dispetto. Decise che avrebbe mostrato molto più interesse e rispetto per quei vetusti rotoli di steli di papiro che Lauchme si ostinava a proteggere religiosamente.
Norax avrebbe imparato a leg­gerli: avrebbe conosciuto, avrebbe saputo.
Immerso in questi ed in altri pensieri, Norax aveva preso a vagare, di­mentico della festa, isolato in se stesso come spesso, stra­namente, gli accadeva. Si chiedeva - soffrendo - cosa ne fosse di Larthy, ora più lontana e assente che mai, e si giurava che l’avrebbe raggiunta ovunque e tenuta con sé per sempre, una volta che fosse finita quella folle avventura.
Mentre procedeva, la sua mente ritornò indie­tro al giorno del suo incontro con Larthy. Egli si rivide affianco a lei, il rosso pulsare della brace che si consuma­va lentamente nel fuoco ed ancora una volta rivisse - con un’espressione grata e sognante, che gli illuminava il viso e gli occhi - il magico rituale che era seguito.
Larthy aveva usato due foglie d’ulivo, che aveva delicatamente staccato da un ramoscello scelto con cura.

Quindi aveva imposto ad una il nome di Larthy e all’altra quello di Norax. Poi aveva bagnato completamente con la propria lingua la faccia convessa, più scura, di ciascuna foglia, mentre intensamente fissava negli occhi Norax che attento la osservava, curioso ed af­fascinato... E finalmente, Larthy aveva deposto le due foglie parallele, fianco a fianco, sulla parte migliore del fuoco. Solo allora ella si era seduta soddisfatta affianco a lui, in atteggiamento di suprema ed impaziente attesa di un imminente, sicuro responso...
Le foglie sfrigolarono e scoppiettarono, quindi saltarono su insieme ed insieme ri­caddero una sull’altra, insieme unite per brevissimi, ma­gici momenti. Quindi, improvvisamente annerite, bru­ciarono e leggere volarono su nell’aria, dove le loro ceneri impalpabili ormai si disfecero nella brezza più fresca, di­sperdendosi per sempre, ma insieme.
Questo - aveva divinato Larthy - era il fato di Larthy e Norax!
Avrebbero avuto una vita insieme per sé da dividere, proba­bilmente insieme ne avrebbero preso commiato dopo averne felicemente, umanamente diviso, insieme, la stagione calda della giovinezza e dell’amore e quella più prudente, ma non più fredda, dei ricordi...
Norax intanto guardava la campagna intorno e cercava di distrarsi da queste considerazioni. Notò che si trovava su un piano alquanto brullo, fatto di rocce muschiate e tondeggianti, miste a vegetazione bassa - potata e piegata dai venti - a tratti anche molto fitta. Re­stavano scoperti numerosissimi ed intricati sentieri trac­ciati dagli animali, di cui riconobbe le impronte: cinghiali, asini, capre, conigli. Una scrofa si allontanò, guardandolo obliquo di sottecchi e - seguita dai suoi piccoli dai fianchi striati - con fare indaffarato si infilò rumorosamente tra gli spini. Norax dette un’occhiata intorno, e notò che anche qui il terreno non era perfettamente in piano, ma degradava sensibilmente in una direzione che - da dove si trovava - non era certo quella del mare.
Non solo verso quello - ricordava - erano state le poche parole di Lauchme.
Norax si lasciò guidare dal pendio, seguendo a tratti l’intreccio dei sentieri e a tratti invece - dove la vegetazione era più fitta - saltando sulle grosse rocce arrotondate, già coperte da uno spesso strato di verde e soffice lana di pietra. Una strana, inaspettata ansia s’impadronì di lui, mentre una forza cui non riusciva a sottrarsi prese a chiamarlo verso una meta ignota.
Vide fi­nalmente, lontano, un pendio di opposta inclinazione, ma questo - stranamente - non fece che aumentare la sua oscura agitazione. Procedette quindi più cauto, nel perfetto silenzio, scendendo lentamente e quasi controvoglia in un grande avvallamento che andava assumendo una forma circolare.
Si arrestò, per riprendere un poco il fiato che - senza motivo - si era fatto più corto. Riusciva ad intuire il punto lontano in cui si doveva trovare il fondo di quella strana valle e vide - con fastidio - che era nascosto dall’ombra di alcuni fitti alberi piccoli e contorti e anch’essi inclinati gli uni contro gli altri in atteggiamento tormentato. Procedendo, incrociò un sentiero più ampio, dall’aspetto ormai poco battuto, e seguendolo - poco più oltre si imbatté in una grossa pietra squadrata, sulla cui faccia erano incisi i segni: OGLOG KELAB.
Poco sotto, stavano l’immagine capovolta di un serpente con la testa umana e l’immagine - anch’essa capovolta, di una testa di toro.
Norax non comprese i primi segni, ma gli furono fin troppo chiari i simboli capovolti, di morte, che li seguivano.
Restò fermo, cercando di vincere l’ineluttabile forza che lo spingeva ancora avanti, quindi, con passo riluttante e malfermo, ri­prese a seguire il sentiero verso quell’inquietante, ignoto luogo di morte. Ancora pochi passi e vide con raccapriccio che l’ombra degli alberi contorti ed aggettanti non si proiettava sul suolo, bensì sulle pareti scabre e buie di una enorme voragine rotonda - che solo adesso si era resa vi­sibile - sul cui margine forse ottanta, cento e più uomini avrebbero potuto tenersi per mano e chiudere il cerchio. Gli alberi ed i cespugli si inchinavano sul bordo, anch’essi attratti da quell’orrido, buio e maligno. Poco sotto al bordo, la vege­tazione aveva un colore pallido ed un aspetto malato, quasi inghiottita dal buio, che sembrava cibarsi della sua linfa, attirandola giù insieme ad ogni altra cosa vivente. Norax guardava sconvolto verso quel buio impenetrabile che invincibilmente lo aveva chiamato a sé, e che adesso stava umiliando la sua stessa volontà di vivere e di portare a termine una missione sacra. Un'orrida fascinazione lo colse e lo avviluppò tutto...
Più in alto, lontano, incom­beva la vigile sagoma del tempio bianco, la punta rivolta al cielo. Norax allungò incerto una mano verso un ce­spuglio, che sembrava nascere dal cuore duro di una roc­cia, per vincere un crescente senso di vertigine che si an­dava impossessando di lui.


Era proprio come un grande gorgo nell’acqua, che già da lontano atterrisce, ma che non può esser visto da più vicino senza restarne inghiottiti, e perire...
In quel preciso momento il cespuglio di mirto agitò le pro­prie bacche viola verso Norax e gli tradusse in una voce familiare le illeggibili parole incise sulla pietra: “Allontanati dal Golgo!” - udì chiara e vicina, nella mente, la voce di Lèkere.
Allo­ra Norax si scosse e fuggì via senza voltarsi più, con un bruciante senso di rimorso nel cuore - che egli non com­prendeva e sapeva di non meritare - mentre in lacrime e singhiozzi gli si scioglieva l’ansia ed egli correva, correva via veloce...