sabato 4 gennaio 2014

Chapter XI




La Terra dei Mucchi di Pietre, cap XI

di Maurizio Feo


11. Storie e leggende.


Si incamminarono con rinnovata convinzione per la strada scelta - che subito si rivelò migliore e più rapida di quella per­corsa fino lì. Salendo, parlavano sommessamente tra lo­ro, di caccia, o di pesca, o di viaggi per mare, o di batta­glie, o di leggende. Rendevano così meno penoso il cam­minare a piedi che erano talvolta costretti a fare nei tratti difficili, sotto il calo­re di un sole che si era fatto cocente...
Norax apprese in que­sto modo molti trucchi per cacciare il muflone - assai più furbo del cervo - e quanti fosse­ro i giorni di viaggio per mare prima di avvistare la terra nelle direzioni dei venti diversi, con il variare delle stagioni, che influivano molto sui venti stessi e sulle correnti del mare.
Apprese anche di grandi guerre passate, che - malgrado le fulgide gesta degli eroi - avevano devastato le terre dove nasce il sole e avevano costretto i popoli naviganti all’esodo: dal delta del più grande fiume d’oriente - Atlante - erano fuggiti attraver­sando il mare, in piccoli gruppi ed in tempi diversi. Inoltre seppe della più recente battaglia - di cui parlavano gli ultimi viandanti - proprio in quella che era stata la culla del Popoli Naviganti del Mare: in essa una grande città invincibile circondata da una doppia cer­chia di mura, Wilusa, era stata sconfitta con l’inganno da molti eserciti alleati.
Norax ascoltò con gran­de interesse come molti naufraghi fossero stati raccolti tra colo­ro che erano sopravvissuti e poi fuggiti per mare lontano dal terribile flagello. Essi avevano tutti lettere uguali, ma lingue diverse, e narravano strane storie. Nelle loro canzoni erano descritti i luoghi da essi conosciuti, le coste, le stelle, i venti, i giorni di viag­gio per terra e - specialmente - quelli per mare. Quindi, infallibile mera­viglia, conoscendo le loro canzoni si poteva con ogni sicurezza attraversare il mare per raggiungere ogni dove...
Molte domande affiorarono alla mente di Norax mentre ascoltava da Iolao questi vari e affascinanti racconti - coloriti con abbondanza di motti spiritosi e saggi proverbi - ma ogni volta un nuovo argomento lo distoglieva e lo confondeva, dandogli nuove meraviglie e nuovi mo­tivi per altre domande. Riuscì però a chiedere a Iolao - tra un boccone e l’altro, che ebbero modo di consumare senza fermarsi un solo momento - quali prove avesse lui che i Sartna e la Vera Gente fossero uno stesso popolo. Iolao era visibilmente soddisfatto del suo nuovo interlocutore, curioso ed avido di sapere. Fu molto contento di una domanda che gli permetteva di parlare a lungo delle leggende e delle tradizioni di cui era un esperto ed appassionato conosci­to­re. Iolao gli rispose: “Vedi” - mio pericoloso e giovane amico - “I popoli naviganti del mare hanno sempre avuto nel loro cuore due grandissime vocazioni ed in entrambe essi sono tuttora in­superati. Una di esse é il navigare abilmente per i mari, qualunque siano la stagione e la distanza; l’altra - che in fondo dipende dalla prima - é la capacità di creare magnifiche fortune portando a paesi lontani proprio quei prodotti di cui quelli non possiedono il segreto. Ma per far ciò, essi hanno spesso dovuto dividersi in gruppi e talvolta perdersi di vista anche per sempre. Si tramanda che essi ottennero il pos­sesso del delta del Grande Fiume - molto a sud, nella parte più lussureggiante della ricca terra di Mizraim - oltre che delle isole del grande mare verde, che stavano in mezzo e che erano predilette dagli Dei: la splendida Thera - l’isola rotonda - poi l’Isola Nuova, dalle molte lin­gue ed infine Kaftu, la sempre fiorita Isola del Rame... Inoltre possedevano mille altri approdi sicuri, che garantivano la loro grande potenza ed i loro floridi commerci. Ma come tutte le fortune anche quella creò invidia, e l’invidia fatalmente condusse alla guerra. Così i popoli naviganti del mare dai molti nomi - i Shalasha o Shakalasha, i Lukka o Lecou, i Twrshna o Twrsena, i Sartna o Shardana ed altri, che tutti insieme erano stati chiamati Hyksos - persero poco alla volta la loro terra natale, poi le loro ricche colonie e dovettero infine partire - chi prima, chi poi - nell’arco di molti anni di sofferen­za, per cercare una nuova patria tranquilla. Questa tragedia spense per sempre in alcuni la voglia di viaggiare per mare, che ad altri invece é rimasta tuttora. Come raccontano i canti, la Vera Gente giunse qui per prima, e riconobbe in questa terra il sacro sorriso della Grande Madre Ennin, amata dal Sole, fe­condata dall’acqua fertile, sacra alla Luna. Molto dopo giunse­ro i Twrshna sapienti ed i Shardana guerrieri - che noi chiamiamo Sartna - mentre gli Shalasha e gli altri più avventurosi - Akaivasha e Mahavasha - si spinsero ben ol­tre, su altre coste e altre isole più piccole: fino alla città d’argento e fino alle isole Kassitere... Ma ogni volta che hanno la ventura di reincontrarsi, i popoli del mare sempre si riconoscono: anche se tanto a lungo divisi da avere ormai accenti diversi, essi hanno le stesse usanze, gli stessi canti, gli stessi dei. Le loro donne guardano attraverso gli stessi occhi profondi e dolci e tessono gli stessi disegni sui loro tappeti. Ogni madre insegna il nodo alla figlia come lo imparò a suo tempo. E recide dal telaio l’ultimo filo del tappeto finito, proprio con le stesse parole con cui taglia il cordone ombelicale del figlio, augurandogli una buona vita. E’ il sangue stesso che si ribel­la nelle vene per poter es­sere riconosciuto uguale, per riabbracciare il fratello tanto a lungo lontano e finalmente ritrovato... Perché tutti gli Hyksos appartengono ad un’unica gente, che forse vera­mente un tempo viveva felice nella lontana culla chiamata Magan, presso i due fiumi. Vi fu l’era degli Dei, poi quella degli Eroi. Soltanto dopo iniziò quella degli Uomini, che all’inizio fu felice.. Poi essi dovettero migrare spinti dalla fame e dalla carestia, cambiando nome e mestiere, senza fermarsi mai... Perché mai ciò sia accaduto e tuttora accada senza tregua e senza apparente scopo, solo Mammethun - la dea ancestrale responsabile dei destini - potrebbe dire, se vo­lesse. Noi possiamo solo ubbidire agli or­dini degli dei, ringraziandoli quand’anche essi si degnino appe­na di an­nunciarci le decisioni già prese per noi”.
Norax aveva ascoltato, compunto e con attenzione, anche se per la veri­tà di qualche parte già conosceva bene le storie cantate in versi dai poeti ai raduni e alle feste. Ma ciò che più di tutto l’aveva at­tratto e persuaso erano state la forza e la convinzione con cui Iolao aveva descritto il senso di ap­partenenza ad un popolo, nello stesso modo in cui Norax lo provava da sempre...
Que­sto però, Norax non ebbe modo di comunicarglielo, come avrebbe voluto fare: una gros­sa pietra gli stava rotolando addosso e il suo cavallo scartò, scaraventandolo a terra. Iolao ebbe la prontezza di afferrarlo saldamente per un braccio e trascinarlo qualche passo più in là in salvo. Il macigno rimbalzò crepitando molto più in basso, lasciandoli tutti come affascinati, a seguirne la caduta nel vuoto echeggiante di secchi colpi maligni e mortali.
Solo Lauchme, che per tutto il tempo era stato muto, assorto nei propri pensieri, ora stava frugando con gli occhi il fianco della montagna, cercando febbrilmente qualche cosa. Ma il grido di un cacciatore attirò i lo­ro sguardi verso un punto più in alto, davanti a loro.
Vide­ro così che non avrebbero potuto passare oltre, se non chiedendo il passo o combattendo.
La montagna si era improvvisamente animata di numerosissimi uomini, prima nascosti, che li fronteggiavano dall’alto delle loro posizioni favorevoli, armati di tutto punto, contratti i lineamenti e durissimi gli sguardi.
“Fermi, state assoluta­mente fermi!” - gridò con autorevolezza Lauchme ai sol­dati che stavano per guadagnare armi e scudi. Tutti gli occhi furono quindi sul Gran Sacerdote, ciò che egli di fatto voleva: con gesti studiati, egli estrasse il proprio coltello sacrificale e lo mostrò tenendolo ben alto sul capo in modo che fosse ben visibile il manico a doppia T sovrap­posta - che lo caratterizzava come sacro. Con una voce così forte che neppure Norax gli avrebbe sospettato co­mandò: “Per il Grande Dio Sole! che non si macchi il cuore stesso della sua sacra terra con una guerra fratrici­da!”.
I guerrieri della monta­gna parvero allora incerti sul da farsi, ma uno tra loro che per aspetto e autorità doveva es­sere il capo si riprese per primo ed urlò una risposta di scherno: “E chi sei tu per venire qui sulle nostre montagne a darci ordini? Forse vuoi sostituirti al nostro sacerdote?”.
Lauchme non aspettava altro: “Non oserei mai fargli un tale oltraggio, ed anzi é proprio del suo aiuto che noi ab­biamo bisogno e del vostro! Per questo motivo questi uo­mini fe­deli mi hanno condotto fin qui, ma essi purtroppo non co­noscono il resto del cammino: puoi tu scortarmi in pace?”.
Il capo guerriero esitò, per poi consultarsi con qualcuno dei suoi luogotenenti.
Mandras ne approfittò per sussurra­re una prote­sta alla volta del Gran Sacerdote: “Quel bruto ha quasi ucciso due dei nostri!”.
“Si: hai detto bene, quasi ucciso” - am­mise il Gran Sacerdote, senza distogliere lo sguardo - “ma se noi non ci rifiutassimo di giocare il suo gioco potrebbe riuscire ad ucciderne davvero e del tutto molti di più. Conviene allora che sia lui a giocare il nostro, dobbiamo convincerlo”. Con rinno­vata sicurezza dopo il conciliabolo, il capo guerriero della montagna apostrofò di nuovo Lauchme: “Da dove vieni? E per quale motivo devi vedere il nostro sa­cerdote?”.
“Vengo dal Santuario di Tal-Ur, il Grande Cerchio, e ne sono il Massimo Sacerdote: Lauchme é il mio nome. Ho lasciato la festa dei nove giorni, vista la gravità e l’urgenza del motivo che mi spinge oltre le vostre terre, oltre le montagne, fino alla co­sta del Sole Nascente. Un grande pericolo minaccia la Ve­ra Gente. Più di molte parole ti basterà una prova di quel che dico” - e di­cendo questo, si era avvicinato a lui, rinfoderando il coltel­lo sacro - “Tieni ben salda la tua spada di taglio su questa roccia e osser­va...”.
Detto ciò, fra la tensione gene­rale estrasse lentamente la propria antica spada, quindi vi­brò un colpo improvviso e vio­lento sulla spada dell’altro, troncandola di netto. “Questa spada - che tre generazioni di sacerdoti hanno custodito a Tal-Ur - questa spada é il pericolo, insieme a tutte le altre come questa” - E nel dire ciò fece un ampio gesto vago, che poteva indicare chiunque, vicino o lontano. “Puoi tenerla, per rimpiazzare la tua che essa ha distrutto, ma sappi che molte altre, ancor più forti di questa, minacciano la terra del Sole, già ora, mentre noi perdiamo tempo a parlare”. Di volta in volta si era potuto leg­gere sul volto del capo guerriero ciò che egli provava: la sorpresa, per la violenta dimostrazione; la mortificazione e la rabbia, per la distruzione della propria spada; il timore, per l’ignota minaccia annunciata; il piacere, per l’inaspet­tato dono; l’incertezza, sulla reale consistenza delle altre spade dei nuovi venuti.
Abilmente, il Gran Sacerdote aveva sottinteso la possibilità che esse potessero tutte essere uguali a quella così mirabile eppur così facilmente regalata: fintanto che restavano inguainate nei foderi, non era possibile controllare a vista; sarebbero state sguainate solo per combattere, ma ciò avrebbe potuto rivelarsi un disastro: se la sentiva il capo guerriero della montagna di rischiare?
Alla fine sorrise, il capo guerriero, e disse: “Se guerrieri così bene ar­mati, e quindi certi della vittoria, non danno battaglia, devono essere amici, pur se alcuni di essi non vestono come la Vera Gente. Venite allora: Io, Hanys, vi condurrò dal mio sacerdote”...
I suoi luogote­nenti fischiarono il cessato allarme e subito - per la co­sterna­zione di Mandras, ma non di Lauchme - il costone di roccia si popolò ulteriormente di altri numero­sissimi armati, uomini della montagna, tanti quanti un intero grosso villaggio poteva contenerne. Fu più che chiaro allora, ad ogni componente della Compagnia di Ennin, che dar battaglia avrebbe signi­ficato una fine certa e breve, per la neonata Compagnia e per la sua missione.
Mandras con uno sguardo d’inte­sa disse, non senza sollievo: “Forse il prezzo é stato un po’ al­to, ma in fondo siamo salvi e sulla strada buona”.
E il Gran Sa­cerdote, cui non era sfuggita una sfumatura di ironia: “Per il marchio che il sole ha im­presso sulla fronte del toro, questo é sacro” - disse, stropicciandosi tra le dita un’erbetta aromatica e respiran­done il  profumo acre - “Se lo stesso marchio é impresso nel cuore della Vera Gente, come io credo, noi non abbiamo perso una spada, oggi, ma guadagnato un valido braccio alla nostra causa”.
Quindi sorrise appena, e si lisciò i baffi con l’indice e il pollice della mano sinistra, torcendoli un poco. La lunga fila di guerrieri aveva pun­tato verso destra, diritto verso il gruppo di montagne più alto, cioè quello che la spedizione fino ad allora aveva molto fa­ticosamente aggirato.
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Hiram pagò all’oste il dovuto e lo trattò cordialmente, chiedendogli se mai gli servisse il suo miele di Serdiana, oppure altro, visto che presto contava di fare ritorno a Kar. L’oste lo ringraziò, ma gli disse che aveva già un altro fornitore, che tra l’altro era il marito della figlia, per cui non poteva cambiarlo. Hiram gli promise che gliene avrebbe comunque portato un assaggio gratuito, con il prossimo viaggio. Cercava di apparire quanto più familiare ed accattivante, in modo da non destare sospetti. Gli chiese se conoscesse chi avesse bisogno della sua bestia da soma per trasportare qualcosa a Serdiana, oppure ad Arsémini. Disse, infatti, che gli dispiaceva di fare un viaggio di ritorno a vuoto. L’oste - proprio come Hiram aveva previsto - lo indirizzò genericamente al mercato del porto, cioè esattamente il luogo in cui Hiram poteva incontrare, indisturbato, un altro complice. Ma Hiram desiderava che la sua spedizione al mercato non apparisse come una sua iniziativa, bensì come un imprevisto cambio di programma, dietro consiglio dell’oste. Hiram contava sul fatto che proprio l’oste avrebbe subito riferito a chi di dovere di quel breve colloquio. Lo salutò sorridendo, complimentandosi con lui per il suo ottimo vino ed uscì dalla locanda, con un buon motivo innocente per andare al mercato ed incontrarvi chiunque gli paresse, senza tradirlo...
Nella folla fitta fitta del mercato, non fu facile seguire i movimenti di Hiram. Askalos, travestito da marinaio, lo perse più volte di vista, perché l’altro adesso si muoveva più veloce e senza il suo asino non esisteva più un facile punto di riferimento.
Hiram ebbe così modo di sapere che Mandras era stato localizzato presso i Bagni di Mittsa; poi, però, era stato nuovamente perso. A quanto sembrava si stava allontanado da Othoca, forse per raggiungere Kar. Era abile, Mandras, non solo a far perdere le sue tracce - pensò Hiram - Forse aveva anche capito che quello sarebbe stato il luogo dello sbarco.
Hiram decise di disporre delle sentinelle sulla strada di Kar, con l’ordine tassativo di fermare Mandras, ad ogni costo.
Non fu difficile fare ciò: andò a comperare delle aragoste, che scarseggiavano dalle parti di Serdiana. Mentre camminava a passo svelto tra le nasse tirate in secca a riparare, estrasse dalla veste un pezzo di canna, su cui la notte prima aveva già arrotolato un nastro di stoffa di lino. Scrisse rapidamente solo poche righe, lungo l’asse maggiore della canna. Infine, srotolò il nastro e sbriciolò in piccoli pezzi la canna.
Passare ad un altra persona - non visto - il nastro con il messaggio fu semplicissimo: bastò fermarsi un attimo per dire: “Visto che belle aragoste?” - E il nastro cambiò mano, insieme ad un anello che indicava la giusta misura per decifrarlo.
Se anche fosse stato intercettato dal nemico, non gli sarebbe stato possibile comprendere il significato di quelle lettere, apparentemente sparse a caso per ornamento. Per ricomporre il messaggio era infatti necessario riavvolgere il nastro intorno ad una canna dell’esatta misura di quella su cui era stato originariamente scritto... Era un nuovo sistema, detto 'Skytale' dai greci, pessimi marinai, ma grandi militari e congiurati...