sabato 11 gennaio 2014

CAPITOLO XXII

la Terra dei Mucchi di Pietre, cap. XXII
di Maurizio Feo


22. Una sentenza di morte.



Lauchme stava seduto sullo scranno basso, nella sua ca­panna: guardava nel nulla davanti a sé, mentre con un ge­sto lento e assente si lisciava ripetutamente i baffi grigi con pollice ed indice della mano sinistra, vagamente ac­cigliato, un’aria svogliata e scontenta sul volto.
Indossava una laina - il doppio mantello sfrangiato - sul capo aveva il galero appuntito e sul petto gli pendeva dal collo il col­tello sacro.
Il cielo era grigio, pesante e cupo e l’aria pungente si infilava tra le ricche pieghe del severo mantello. Nella mano destra Lauchme stringeva il labrys del comando: un lungo e robusto bastone, liscio e diritto, che terminava in basso con un puntale protettivo in bronzo, ed in alto ostentava un’elegante e terribile ascia bipenne, sottile, anch’essa in bronzo.
Erano questi i simboli sacri del potere che egli portava sempre con sé, dentro di sé, intorno a sé ovunque, come un’aura, e che però sapeva di doversi guadagnare ogni giorno in modi sempre differenti. Erano simboli di un po­tere che a volte sembrava effimero ed elusivo e altre volte gli si avvinghiava pesantemente addosso, come un’edera tenace, infelice tra le piante infelici.
C’era una causa precisa, per quel suo stato d’animo, un fatto accaduto.
Era successo il giorno prima, quando Lauchme aveva riunito i saggi nella capanna del consiglio. Tutti seduti in cerchio sui sedili di pietra, avevano parlato secondo l’ordine di rito.
Aczun era il più anziano e di di­ritto sedeva sotto le borchie dalla testa dorata, le lucide, scintillanti borchie-stelle, che essi appunto chiamavano “bulluncva”.

Ognuna di esse ricordava un evento impor­tante della storia di Tal-Ur.
La prima - tutta d’oro anche nel corpo - era stata piantata sul palo tratto da un grosso ginepro, il giorno stesso della fondazione. Ricordava il grande rifiuto di Avle Felske e la sua migrazione con tutto il popolo, vecchi inclusi, dopo avere cambiato la legge sulla transumanza e sull’uccisione necessaria dei vecchi.
Seguivano quelli piantati in occasione di un grandissimo raccolto e del ritorno dell’acqua, dopo un lunga siccità che aveva decimato il bestiame e gli uomini, con l’epidemia e la fa­me.
Subito dopo, ecco quello che commemorava il sacrificio di Ioste e dei suoi eroi, spesi per la pace.
E quindi, ecco il chiodo infisso per ricordare il primo grande mercato sul fiume, che coincise con la fugace presenza dei saggi Twrshna, col miracoloso arrivo di Lauchme dai molti nomi e con le sue prime opere di bene.

L’ultimo chiodo era dovuto alla prodigiosa guarigione - da parte di Lauchme - del sacerdote di Lantiraxi, il paese dalle bellissime querce, ricco di grandissime e ghiotte ghiande...
Ma di questo pas­sato sembrava che nessuno volesse ricordarsi adesso.
Ac­zun, risentito, aveva aspramente rimproverato Lygmon - come egli ancora chiamava Lauchme - perché questi te­ne­va in troppo scarso conto il sacro consiglio degli anzia­ni, quel curonio della giustizia con i suoi sedili di pietra di­sposti come d’uso, in un cerchio antico, intorno al fuoco sacrale: il coro rituale che moltiplica la saggezza e la forza d’animo degli uomini.

Paziente era stato Lauchme nell’at­tendere rispettosamente il proprio turno, docile nel parlare con rispetto e devozione, malgrado l’inutile verbosità dell’altro e la sua garrula voce. E l’avversario gli era sembrato simile alla dea egizia Nut, che divora le stelle del cielo al mattino, tanto lui sembrava divorare la saggezza dei suoi compagni. Oltre alla dovuta affettuosa deferenza, le sue parole espressero la convinzione della assoluta necessità, della rapidità efficiente, della segretez­za dell’urgenza. Molto parlò Lauchme e con parole acco­rate, più che non in ogni altra occasione, ed infine dichiarò che non del perdono di un popolo inattivo gli importava, ma piuttosto della condanna di un popolo che si sarebbe salvato con l’azione, dalla minaccia imminente.
Non sa­rebbe certo stato il giudizio sull’operato di Lauchme - come ebbe a dire egli stesso - a far piantare un altro bul­luncva sulla colonna della storia passata. Ma - anzi - dopo una scelta errata non ci sarebbe più stata alcuna storia del loro popolo degna di essere ricordata. Non più sarebbero state adorate le spoglie esposte degli eroi nelle Vanas all’ingresso dei templi. Sarebbero state depredate e devastate le sacre cambras degli austeri nuraki. Non più avrebbe bruciato l’incenso sulle cortine oracolari a tre piedi.
La Dea Madre non avrebbe più avuto un popolo prediletto sulla terra del Sole.
Poi, rispettoso del turno, Lauchme aveva ceduto la parola.
Lani e Calpys avevano parlato con toni meno aspri e aggressivi di Aczun, ma anch’essi non sembravano del tutto convinti del fatto che l’urgenza fosse sufficiente giu­stificazione per l’omissione di Lauchme.
Per Enky e Nenky egli “non si era consultato con loro” - e questo li mortificava.

Aczun ebbe quindi buon gioco nel rilevare come Lygmon aveva viaggiato, incontrato pericoli, affrontato altre genti, preso autonome decisioni, di fatto offendendoli tutti... Ma - di più - Lygmon aveva anche abbandonato la Novena senza permesso, e ciò costituiva il tradimento del suo stesso ruolo e dei suoi doveri di fronte a se stesso, a loro, alla Tradizione, agli Dei. Non vi era dunque più alcunché di rispettabile, di sacro? Doveva essere lui, Aczun, un umile ex stalliere a ricordarlo al Grande Sacerdote di Tal Ur?
Altri del consiglio la pensavano più o meno così, pur esprimendosi in modi più sfumati ed indecisi.
La Tradizione era il bene più prezioso, da sempre, in quella terra. Per non avere rispettato la Tradizione gli Hyksos loro padri erano stati scacciati dalla terra bruna e profonda del Grande Delta. Vi  avevano con fatica fondato Rsht, la grande capitale Larissa, che ora purtroppo si chiamava Avaris ed era un luogo straniero.

A quel punto Lauchme, allarmato, si era sollevato in tutta la propria statura, mettendo in evidenza tutti i simboli del comando religioso e con voce ferma aveva lo­ro ricordato come il suo primo motivo fosse sempre stato il benessere e la salvezza del popolo di Tal-Ur e della Ve­ra Gente.
Aveva ricordato loro come già in passato, non sempre essi avessero subito compreso le sue parole ed i suoi intendimenti. E ciò era dovuto al fatto che quei sacri simboli e quelle insegne non erano certo le fibule ornate e preziose di un mantello, né i bracciali o i gingilli di una donnetta vana, né di un giocoliere da spettacolo: erano invece i segni sacri del comando e della guida, che egli sempre aveva correttamente e dignitosamente portato per un buon fine, grazie ad Ennin, proprio come intendeva fare tuttora e continuare e fare in futuro...

Efix finalmente intervenne, quando fu il suo turno, a portare come sempre il proprio sereno giudizio. Egli ricordò innanzi tutto come ben tre di quei sette chiodi piantati - mostranti la loro testa dorata - fossero dovuti a Lygmon e come ciò fosse già di per sé un argomento molto importante circa il suo rispetto della storia e della tradizione. Quasi metà di quel piccolo cielo stellato di bulluncva era stato acceso dal Gran Sacerdote.
E di chi stavano mai parlando, dunque?
Con vari nomi e vari attributi egli era conosciuto in ogni più remota re­gione come il Galerito Lygmon, il grande Lauchme, l’ul­timo dei Rasenna rimasto indietro, il Guaritore, il Grande Sacerdote del Massimo Circolo di Tal-Ur, Colui che porta la luce e che guarisce, il Padre della nostra Gente.
E molti altri buoni nomi erano stati coniati per lui, nei più diversi accenti. Egli era conosciuto ed amato e rispettato su tutta la terra del Sole e di certo molto temuto ormai oltre i suoi confini.
Prose­guì Efix: “Forse alcuni tra noi non ricordano più il tempo - lontano ormai - in cui egli giunse tra noi. E siccome é una favola bella da dire, quanto da ascoltare, io voglio ripete­rla per noi tutti che oggi ne abbiamo così tanto bisogno...
Un mattino si sparse la voce che una nave - un’autentica nave, come da molte stagioni ormai più non si vedeva - aveva silenziosamente risalito il fiume ed aveva preso terra presso il luogo ove adesso, splendido, sorge Mago Twrshna. Infatti furono visti nella bruma e nei vapori i marinai che gettavano sulle sabbie calde della riva le grosse pietre bucate per ancorarvi più saldamente il va­scello. In molti vollero andare a vedere, non tanto perché fossero poco avvezzi alle navi, quanto perché, tra gli uo­mini sbarcati in pace era presente lui, che gli altri del va­scello chiamavano rispettosamente Lygmon. Già calzava - io lo ricordo bene - sandali ai piedi e portava spille per fermare gli abiti sul corpo. Già indossava il Galero appuntito. E chiara si ve­de­va intorno a lui un’aura di luce e di pace. Io ero lì, io posso dirlo. Era giovane, come noi nella bella stagione della vita, ma già esperto in tutte le sue arti. Fu incuriosito da quelle acque ribollenti presso il grande fiume, come da tutta la nostra terra bella di cui egli si innamorò - nelle sue stesse parole - come di una donna misteriosa ed affasci­nante.
Vi ricordate - fratelli - quanto fossero numerose al­lora le dispute non sopite tra il nostro popolo - appena tra­sferitosi qui - e le popolazioni che prima di noi, da sempre, abitavano questa località? O non é vero? Essi da tempo vi avevano edificato un grande e maestoso tempio che é Tal-Ur. E non vi ricordate come Lygmon seppe serenamente imporsi su tutti, sanando i dissidi, sedando le rivalità, risolvendo i giudizi, unendoci tutti insieme col rito dell’acqua che cura e che guarisce?
Egli stabilì l’obbligo dell’Ordalia, secondo cui chi dei due contendenti ha torto - spruzzato o immerso nell’acqua fumante - soffre prima orribilmente e perde poi magicamente la vista anche per sempre, a seconda della gravità della propria colpa. Chi invece a torto era stato in precedenza incolpato e aveva sopportato la diffamazio­ne, non solo non avrebbe avuto a soffrire dell’abluzione con l’ac­qua sacra, ma anzi ne avrebbe tratto grande gio­vamento: le sue membra prendono a muoversi meglio e più lontano vedono i suoi occhi.
Tutto questo noi ben sappiamo e non dobbiamo dimenticare, perché proprio dal nome di Hypsa - che da lui ebbe la fonte sacra di acqua calda - noi deri­viamo il nostro nome ed oggi ci chiamiamo Hypsitani e ne siamo fieri.
Certo é che dopo il suo arrivo ci fu la pace finalmente, tra noi. Fu per magia?
Subito calarono i furti e le vendette. Se fu magia, fu la sua magia.
Ed i colpevoli preferirono sempre comunque confessare, piut­tosto che doversi sottoporre al terribile giuramento dell’acqua.
Questo fu solo il primo grande dono di Lygmon. Ma ne seguirono altri. E’ per ciò che molti già lo chiamano il Padre della nostra Gente.
Fu proprio lui a stabilire l’obbligo rigoroso dell’aiuto reciproco nei lavori dei campi, della vigna, del bosco.
Fu lui a legare profon­damente insieme tutti i più diversi elementi del nostro po­polo col giuramento di ri­costituire il gregge o la mandria di chi l’ha persa per epi­demia o per vecchiaia. Ogni pastore dia uno o due capi, che il beneficiato s’impegna a restituire, quando potrà.
Quanta pazienza, quanto insegna­mento, quante buone nuove idee, che tutte ci mancavano!
Come noi oggi le insegnamo ai nostri bambini, così egli allora le insegnò a noi.
Egli, con parole semplici, ha spie­gato ad ognuno che noi tutti diventiamo - vincolati insieme - come una collana fatta di legno, conchiglie e pietra. Nell’acqua agitata il legno terrà a galla le pietre, queste ultime garantiranno resistenza contro i venti di rapina e le conchiglie accenderanno i cuori d’orgoglio e risveglieranno il desiderio negli sguardi dei compratori. ‘Ad ognuno il suo ruolo, ma tutti insieme’ amava dire”.
Tal-Ur - volle proseguire Efix - era diventata grande e pro­sperosa sotto la guida di Lau­chme e grazie a lui: dal primo grande mercato sul fiume essi non avevano più conosciuto le durezze della carestia, né il morso del freddo, né l’as­sillo dell’epidemia, né la guerra.
Ecco, per questo - certo - per scacciare quest’ulti­mo nuovo demone, Lauchme aveva trasgredito la Tradizio­ne: egli aveva visto più lontano e più chiaro ed aveva dato inizio all’azione prima ancora di consultare il Consiglio, ma non per escluderlo - tutt’altro - bensì per precederlo, aprirgli la strada, e assumere su di sé il maggior peso dell’opera come sempre. 
Un ringrazia­mento, gli era dovuto, da parte di tutti - e non certo un giudizio negativo da parte di pochi.
Ed invece di perdere inutilmente il tempo prezioso con malposto biasimo e sterili risentimenti, era ora piuttosto di decidere sugli argomenti pressanti che egli aveva doverosamente esposto loro, e che richiedevano nuove rapide decisioni.
Ogni loro indugio - nel fare ciò - rappresentava una grave perdita di tempo vitale e maggiormente giustificava la precedente scelta di Lauchme nel non avvertirli. Urgenza non attende esitazione.
L’atto stesso, anzi il solo pensiero di volerlo incolpare, di fatto già gli dava ragione, discolpandolo del tutto.
Si doveva, insomma, affrontare il tema della guerra imminente. La morte, dopo avere spiato vogliosa verso i loro figli dalle finestre, ora bussava impaziente alle porte delle loro case...
Malgrado la generosa arringa in sua difesa, Lauchme aveva dovuto uscire dalla Curia e attendere nella propria capanna il ver­detto che gliene sarebbe venuto. Questo era secondo il rituale della Tradizione, ma non gli parve egualmente un buon segno.
Ed ora era proprio lì, trepidante, nella sua modesta capanna, tra i poveri oggetti di corteccia di quercia, qualche coccio di grana grossa ed il suo succo di mirto, dal forte sapore profumato di resina e di rimpianto.
Proprio da lì - ricordò - in principio aveva faticosamente concepito il suo laborioso e ardito piano; proprio da lì era baldanzosamente cominciata tutta questa storia, giunta adesso ad una strana ed incresciosa svolta imprevista e maligna.
Questa poteva comprometterne il buon esito finale, in cui tanto aveva sperato. Pensava, Lauchme, a ciò che era accaduto, a come gli eventi sembravano concatenarsi ed inseguirsi come greggi di nuvole del vasto cielo, indipendentemente da ogni ter­rena volontà.


Pensava che certamente avrebbe compiuto gli stessi gesti, ripetuto le stesse parole e preso le stesse decisioni, se anche avesse potuto vivere ancora attraverso la sua recente avventura. Non riusciva a trovare errori nel proprio operato: eppure, comprendeva la mortificazione dei suoi compagni del Consiglio degli anziani. I pensieri e le immagini gli si affollavano nella mente. Egli avrebbe dovuto essere sereno e non lo era. Se la buona coscienza è un cuscino soffice, da dove gli veniva quello  scomodo sconforto? I mulini degli dei son tardi, ma sicuri. Perché allora egli trepidava come un fanciullo? Quando ancora cantilenava le insensate filastrocche degli astragali: “Non fare tutto ciò che puoi, non spender tutto ciò che hai, non creder tutto ciò che odi, non dire tutto ciò che sai”... 
E venne ad interrompere i suoi pensieri, silenziosa, Lèkere. Il bel volto tirato mostrava la sua preoccupazione.
Dopo una breve esitazione: “Partiranno, Lauchme - gli disse lei - se tu lo chiedi. Non ho parlato con nessuno, ed essi non sanno ancora nulla, ma so che partiranno. Gli uomini forse non saranno così numerosi, come sarebbero con il consenso degli anziani, ma saranno ugualmente un buon numero: chiedilo, Lau­chme, ed essi partiranno armati per Orwa”.
Il Grande Sa­cerdote parve allora stanco e infastidito, ma queste espressioni furono subito cancellate dal consueto guizzo vivace dei suoi occhi, mentre già rispondeva: “No, Asu, non deve accade­re questo. Per nessuna ragione devono dividersi. Io li ho riuniti e li ho sempre voluti insieme. Io li ho fatti come essi sono adesso. E sono bellissimi ed orgogliosi e onesti. Se partiranno, essi de­vono partire numerosi e compatti. E - soprattutto - nel loro cuore deve essere il conforto di di­fendere la Terra del Sole unita, per volere degli Dei e at­traverso il consenso armo­nioso del Consiglio e del Grande Sacerdote. Forte deve es­sere l’orgoglio di appartenere ad una sola gente. Solo così i curiti troveranno sicuri  il ber­saglio.
Non il minimo dub­bio!
Oppure i nostri ragazzi presto parleranno la lingua di Qart-Hadasht, le nostre donne danzeranno balli lascivi con il ventre scoperto, per un piacere straniero. E i nostri figli primogeniti saranno sacrificati nel fuoco”.
Asu Lèkere allora fu scossa da un impercettibile brivido e soc­chiuse i begli occhi felini su quelle immagini orribili. Chiese quindi a Lauchme, con tono suadente di conforto, di raccontarle cosa fosse acca­duto nel chiuso della Curia, ove nessuna donna - neppure la Bithia - era ammessa.
Negli occhi le brillava un nuovo fuoco, freddo, inquietan­te, inarrestabile.
Un riluttante Lauchme,  in breve, le spie­gò dell’indecisione dei più, che non comprendevano pie­namente gli eventi e ne erano confusi. Le disse dell’astio ottuso del vecchio Aczun, che aveva colto di sorpresa anche lui. Raccontò del generoso e saggio intervento di Efix, che però da solo non sembrava potere bastare a decidere gli equilibri.
La Tradizione non poteva essere impunemente offesa.
Gli oc­chi di Lèkere erano due sottili fessure adesso, eppure mandavano lampi, men­tre, inginocchiata a fianco del suo sacerdote gli posava il capo sul grembo. All’improvviso, con una voce ruvida, ella chiese: “Perché Aczun, un servo di stal­la, una volta che sia diventato vecchio, può decidere la sorte di un popolo? Perché un uomo che mediocremente é stato utile alle be­stie soltanto, nella sua vita, acquista poi il pote­re di diventare così esiziale ai suoi simili, senza che questi si ribellino? Lauchme, mio sposo, perché lasciano che egli - per invidia, io lo so - ti faccia questo?”.
Non rispose subito, Lau­chme, cercando di dissimulare il disappunto. Un anziano asinaio aveva il potere di ridicolizzarlo nella Curia... Le accarezzava i lunghi capelli neri con un gesto lento e delicato. Egli l’amava, perché lei era misterio­sa, affa­scinante e bella come quella terra che fin da giova­ne lo aveva irretito e voluto.
Ambedue gli offrivano sempre nuovi ineffabili regali, legandolo con le inossidabili catene della più genuina semplicità. Infine: “E’ la nostra legge” - le disse, in tono esitante - “la nostra Tradizione vuole così, Asu: gli anziani hanno lunghe stagioni di esperienza nei loro occhi e poche passioni, ormai, residue nei cuori a sbi­lanciarne il giudizio”.
Poi, pensando proprio ad Aczun, aggiunse: “O almeno, così dovrebbe essere. Ennin certo non permetterà che dal Curonio Sacro esca un giudizio ingiusto per me e dannoso per la Sua gente prediletta”.
Ma il tono di Lauchme aveva una nota incrinata di scarsa convinzione.
E gli occhi e il volto di Asu Lèkere tradivano adesso una nuova e diversa determinazione, come le parole del Gran­de Sacerdote suo sposo tradivano la sfiducia.

Asu, quindi, sollevò il capo e guardò Lauchme fisso negli occhi: “Si, Grande Sacerdote: Ennin non può permettere un giudizio nefasto. Io ti dico che ne sono certa, molto di più di quanto lo sia tu stesso... Perché ne sono lo strumento più sottile”
E nel dire ciò, repentinamente si levò in piedi per uscire, ogni muscolo del suo corpo con­tratto.
Lauchme, improvvi­samente allarmato, cercò di prenderle un braccio, poi di di­re qualcosa per trattenerla, ma la voce stranamente strozzata di Lèkere gli giunse già dalla soglia della capanna: “Non puoi fer­marmi adesso -  mio sposo - né tu, né nessuno. La falce affilata della luna non lo permette, né lo vuole: é affamata di sacrificio”.
E i suoi occhi, i suoi begli occhi erano appuntiti, co­me due pietre di sale.
Quella frase e quell’espressione la­sciarono Lauchme sgo­mento e solo nella sua capanna, con le sue insegne sacre che - ora sì, davvero - gli sembravano inutili orpelli di una donnicciola vana.
Il destino ancora aveva preso a correre da solo e libero come una bestia sel­vaggia, avvezzo a travolgere ogni volontà umana al pro­prio passaggio...
Asu era uscita, leggera e sicura, dalla capanna del Gran Sacerdote. Si era diretta verso il Recinto Sacro, perché così meno persone la avrebbero notata e più naturale sarebbe stato il suo percorso nella sera. La Curia si trovava dall’altra parte del villaggio. Asu scavalcò furente il muretto sacro e fu subito nello spiazzo. Quindi si diresse velocemente verso il portale sud, passando noncurante fra le due pietre infitte, levigate e scolpite, ancora recanti qualche abituale offerta di devoti. Quindi Lèkere si ricompose, ed uscì con studiata naturalezza dal portale sud del recinto sacro, incamminandosi pigramente, come d’abitudine, verso il pozzo sacro, che stava proprio di fronte alla Curia.
Ma un fuoco travolgente le bruciava dentro, che di fuori non s’indovinava.
Salutò con quotidiano ritegno coloro che incontrò lungo la strada, te­nendo bassi gli occhi, e in­fine - giunta al pozzo sacro - vi entrò. Scese rapidamente i pochi gradini della scalinata stretta e dritta e andò a specchiarsi nell’acqua immobile, cercandovi la familiare falce della Luna, placidamente iscritta nel rifles­so della soprastante bocca cir­colare del pozzo, alla sommi­tà della cupola.
Quindi, pro­nunciò a se stessa e alla falce lunare alcune antichissime parole che solo una Bithia co­nosce, con una voce che non era la sua...

“...s’arza, sa pinta, sa solifuga, s’abiolu,
 s’iscopone numqua nde ida
Luna illos malaigat
chin tottu sas puppias malas,
chin tottu sas umbras de sa cussorza...

Ritornò sui suoi passi, uscì dal pozzo sacro e si diresse come per caso - ma questa volta badando bene che nessu­no fosse lì intorno a vederla - verso il lato esterno della Curia. Raggiunse il punto preciso che corrispondeva al grosso trave di ginepro dalle borchie dorate e allora i suoi gesti si fecero più simili a quelli di un ragno. Agilissima e silenziosa si arrampicò leggera sul muro di pietra, fino a giungere col capo all’altezza del tetto conico di tronchi di ginepro.
Lame sottili di luce delle lanterne e del fuoco sfuggivano, qua e là, tra i rami del tetto.
Asu Lèkere vi posò sopra il viso, in modo che i due occhi coincidessero con due larghe fessure illuminate: in quel momento il suo sguardo era terribile, minaccioso, insostenibile.
Poche al­tre volte aveva assunto quell’aspetto orrido e mai nessuno aveva potuto prima vederlo e poi raccontarne il racca­priccio: era, quello, il più grande e terribile potere di una Bithia...
Dall’interno della capanna proveniva intanto un monologo gracchiante nella voce sgradevole e tronfia di Aczun, in veste di accusatore.
Il corpo di Asu si irrigidì, premendo forte sul tetto di ginepro, facendolo scricchiolare, come per voler passa­re attraverso di esso.
Aczun si interruppe un attimo, fer­mandosi a riflettere su come dire con migliore effetto qualche nuova malevolenza sull’odiato Lygmon. All’in­terno della Curia, l’auditorio dei vecchi saggi sedeva am­mutolito, gli occhi bassi, soggiogato da quella volontà punitrice, segretamente corrotta e pagata con denaro straniero. Aczun sentiva di avere ormai raggiunto il proprio scopo: avrebbe avuto il premio promesso e sarebbe stato il padrone di Othoca! “Sette cose pensa l’asino ed otto l’asinaio” - Gongolava tra sé, soddisfatto.
Uno scricchiolio, proveniente dal tetto, attirò in alto lo sguardo protervo di Aczun e fu allora, pro­prio allora che il filo di ragnatela sottile cui era legata la sua vita venne reciso.

Senza gioia le Moire compivano il loro eterno dovere: una reggeva il fuso della vita, una ne filava un sottile, esile filo e la terza, con indifferenza, tagliava il filato con cesoie infallibili, quando era giunto il momento. 
E pronunciare il loro nome è peccato.

Aczun cadde di schianto, la bocca semiaperta e distorta, gli occhi stralunati, il corpo abbandonato, riverso al centro della capanna, sopra il fuoco acceso, che subito sprizzò intorno nugoli di faville sfrigolanti e indispettite. Gli altri anziani cerca­rono di portargli subito aiuto, lo allontanarono dal fuoco che già gli bruciava le carni, ma contemporaneamente si accorsero che nulla più era rimasto da salvare - se mai v’era stato...
Intanto il destino silenzioso già si allontanava - figuretta snella e leggera, non vista - tra le capanne del villaggio, all’ombra del sorriso osceno delle Parche Vittoriose.

La sua veste era bianca come il fiore del mirto ed il man­tello era scuro come il suo frutto, il viso ovale e pallido ormai più sereno, nel cuore un urlo selvaggio di strega. Ma gli occhi, quegli occhi, non erano umani.

Lèkere corse per l’ultimo tratto che la separava dalla sua capanna. Corse via da sè stessa coi suoi piedi leggeri, annusando farsi più forte il familiare profumo dei suoi cespugli di mirto. Lì stava la sola salvezza, lì stava la quiete. Cadde stremata sul proprio giaciglio, gli occhi ancora arrovesciati all’indietro, ansimante, sconvolta - e subito avvertì una presenza, vici­no a sé.