giovedì 9 gennaio 2014

CAPITOLO XX

La terra dei Mucchi di Pietre, cap. XX
di Maurizio Feo

20.  Lo sbarco!



Procedeva veloce la nave, e l’acqua le si sottometteva docile, con il propizio assenso di Athirat, signora del mare e progenitrice degli dei.
Procedeva veloce, nel laborioso e rapace silenzio di bordo, che era poi un silenzio delle voci umane soltanto, continuamente rotto dal fruscio cantilenante dell’acqua sotto la chiglia lucida, dall’incessante scricchiolio dei legni, dai gemiti delle corde, dal crepitio delle vele e dai multipli cigolii dei remi sugli scalmi... 
Altre 29 navi seguivano obbedienti la più veloce capitana, che guidava quel furtivo e velocissimo procedere. Un uomo per ogni remo, la ciurma spingeva sincrona la nave, talvolta ricondotta al ritmo da un tamburo. Nelle stive erano le scorte - per l’andata soltanto - di pesce salato, di acqua, di frutta fresca e di pansecco. Il resto dello spazio era tutto per le armi e per gli armati. Le ulteriori necessarie scorte sarebbero state ottenute nel sangue, tra le grida delle donne e dei bambini, come già altre volte, com’è d’uso, come sempre. 
Chi vuol mangiar la noce, rompe il guscio.
I gemiti delle donne avrebbero sancito la fine della guerra, l’esaltante inizio dell’esercizio del potere. I sighiozzi delle donne avrebbero scandito l’attimo più intenso: esse erano il premio stesso per l’avvenuta vittoria. Tra i lamenti femminili avrebbero preso corpo l’ultima rapina ed il migliore affronto per il nemico appena vinto, ancora caldo, espropriato dell’onore, della vita, di tutto. 
Questo pensava, ghignando impaziente ed avido Meleck, i lunghi riccioli unti mossi dal vento, l’occhio aquilino socchiuso fisso all’orizzonte, dalla prua della sua nave capitana: finalmente una missione facile per i suoi veterani esperti.
Avrebbe avuto lui stesso un encomio pubblico, il trionfo e forse si sarebbe persino meritato la guida di un più grande esercito: e forse, anche, dello Stato!
Scesa la notte, avrebbero cercato il grande fuoco in direzione della costa. Quello era l’accordo convenuto.
Quello sarebbe stato il segnale di via libera e contemporaneamente la conferma della corretta direzione. Ma già Meleck non aveva alcun dubbio. Aveva osservato, con attenzione e spesso, in quale direzione deviasse il tronco assicurato con una corda dietro alla poppa della nave. Sempre aveva compensato la spinta della corrente marina, correggendo con esperienza la rotta, calcolando anche la forza e la direzione del vento.
La notte della partenza, Meleck aveva studiato la posizione delle stelle, tenendosi bene a sinistra la piccola stella fenicia più luminosa e puntando sicuramente verso la stella del nord.
Nel giorno seguente Meleck aveva più volte calcolato la velocità della nave, contando per tutto il tempo che un sughero - gettato in acqua a prua - impiegava a raggiungere la poppa. Non era mai riuscito a contare più di trenta, per quanto veloce contasse: questo significava che avrebbe potuto toccare terra al calare della notte seguente...
Le città del Grande Golfo sarebbero state sue, sarebbero cadute quasi subito, una dopo l’altra. Meleck avrebbe subito chiuso le strade, per potere agevolmente eliminare ogni possibile superstite ed ogni possibile richiesta di aiuto altrove. Poi non ci sarebbe stato altro da fare che attendere, ingannando il tempo con l’organizzazione della difesa e fortificando le zone conquistate.
In breve, il nuovo arrivo di sessanta navi lunghe avrebbe completato e reso permanente l’occupazione militare dell’avamposto. Quello sarebbe diventato il porto militare più importante di tutta la guerra, dopo quello rotondo e turrito di Cartagine. Proprio da quello, avrebbero potuto schiacciare la fastidiosa competizione dei Rasenna, e una volta per tutte. Qart-Hadasht avrebbe esteso i suoi confini su tutte le rive del mare, e di ciò memoria e merito grandi e imperituri sarebbero stati soltanto suoi, di Benreshef Meleck, figlio primogenito di Abibaal Reshef.
Egli ne avrebbe avuto più schiavi, più donne, più misure di argento dei sufeti e dei re... Sarebbe stato chiamato Benreshef “Barca”, il Lampo...
I delfini giocosi intanto facevano a gara con le navi, mostrando i dorsi pinnati neri e lucidi, ciangottando nella scia dei rifiuti...
Ancora Meleck non vedeva planare i gabbiani bianchi e grigi, ma già due volte gli era parso di annusare quasi famelicamente la terra e altrettante volte aveva impazientemente interrogato - senza ottenere soddisfazione - la vedetta. La dea Shapash si apprestava ormai a chiudere il proprio mantello sul disco solare, che portava sul petto.
La luce andava lentamente scemando sull’acqua blu, che le navi solcavano veloci ed avide. La brezza si faceva più fresca e la falce della luna si stagliava man mano più chiara sulla loro destra. Meleck fece allora rallentare l’andatura della sua velocissima capitana, in modo che il grosso delle navi non restasse fuori vista, troppo indietro, nel buio.
Gli uomini ne approfittarono per bere, per scambiare qualche parola, per massaggiarsi i muscoli e le giunture intorpiditi dalle corregge di cuoio e per gettare i rifiuti e gli escrementi della sentìna fuori di bordo - contenti per il fatto che il cambio di turno fosse ormai così vicino. Le sagome più tozze delle altre navi si approssimarono, piatte sul profilo del mare come scutigere brune dalle lunghe antenne, pronte a scattare. Meleck dette allora un cenno al battitore e subito ripresero i ritmici squittii degli scalmi: la capitana aumentò gradatamente velocità, procedendo aggressiva su di un mare ormai quasi nero.
Fu proprio allora che Meleck sentì netto il dolce e familiare profumo dei fichi e se ne riempì i polmoni, avidamente. La vedetta gli indicò alcune formazioni di uccelli migratori che si radunavano per partire, ma ancora non gli segnalava la terra.
Il cielo era ormai scuro.
Meleck fece quindi accendere una lampada controvento ad olio dietro alla prua di ogni nave, in modo che fosse ben nascosta per chi si trovasse di fronte - sulla terra - ma fosse invece chiaramente visibile, con il suo riflesso sulla alta prua, da parte di chi seguiva, sul mare. Le navi procedettero in fila più lentamente, ammainando le vele nel buio. Presto gli unici rumori furono lo sciabordio ritmico dei remi, l’ansimare sommesso e sincrono degli uomini ed il lamentoso accompagnamento degli scalmi.
Il vento sembrava soffiare più forte - adesso che le vele non li spingevano più - e ciò aumentava il senso di ansia e di anticipazione che facevano fremere Meleck, mentre questi nervosamente cercava nel buio di fronte a sé per scoprire subito dove mai fosse stato acceso il fuoco di segnalazione, che probabilmente avrebbe potuto brillare per poco. Quasi imprecò contro il dio-luna Yarikh, perché non gli aveva concesso una luna piena.

“Dov’é? Perché non si vede ancora? Perché non c’é?” - ringhiava, nel frattempo ideando con scarsa soddisfazione le mille terribili punizioni per l’incapace servo che ancora non gli sapeva mandare il tanto atteso segnale. Il dubbio del possibile errore aumentava la sua rabbia, moltiplicando l’intensità delle punizioni minacciate. Il cielo, che di giorno era stato totalmente libero da nubi, adesso era limpido e fittamente stellato in una visione di stupenda bellezza, da orizzonte ad orizzonte. Meleck era insensibile a quella bellezza.
Ma presto, davanti a loro - sulla sinistra - ci si accorse di un punto, una macchia nera che nascondeva le stelle più basse sul mare e ne inghiottiva man mano di più, gradatamente crescendo. L’odore di terra era acre e forte adesso, Meleck avrebbe quasi giurato al suo secondo che gli portasse oltre all’odore dei muschi e dei funghi anche quello, più casalingo, della carne arrosto.
Fece rallentare ancora l’andatura e raddoppiò invece le vedette. Avrebbe atteso ancora un poco e quindi - segnale o non segnale - sarebbe scattato in avanti per l’ultimo balzo.
Mentre, nel buio - appoggiato alla grande àncora di pietra bucata - comunicava questo fermo intendimento al suo secondo, vide negli occhi di quest’ultimo d’un tratto brillare due vivide fiammelle e quindi si voltò di scatto verso la riva.
La splendida Ashtart, protettrice dei marinai, era di nuovo con lui, per ricordargli che nulla è impossibile per chi  veramente vuole!
Un gran fuoco ondeggiante si rifletteva dall’alto della costa sull’acqua e li invitava, disegnando una tremula e luccicante strada per le loro navi... Meleck diede ordine di riprendere la voga procedendo verso un punto sulla destra del falò. Fece allertare gli armati e preparare i ramponi e gli arpioni. Volle tutti svegli, e di fronte a loro uccise un pollo per Baal Safon, protettore delle navi, e ne buttò le parti migliori nell’acqua. Si fece portare le armi e l’elmo.
Uno strano crampo gli tormentava le viscere. Anticipazione? Non era stato così con i Sikani, né lungo le coste dell’Africa, dove molti giovani avrebbero avuto il suo volto.
Meleck ricordava i ricchi bottini e le lunghe file di schiavi e di schiave che aveva condotto con sé...
Ormai luci sparse - segni di vita sulla costa - gli indicavano chiaramente la direzione da prendere. Fece dividere la flottiglia in due parti secondo il piano che aveva studiato in precedenza e ciascuna puntò sul proprio bersaglio: una sulla Kar occidentale e l’altra sulla Kar orientale. Ormai procedevano più agevolmente, essendo entrati nelle acque - pur sempre profonde - più tranquille e protette del Grande Golfo. Meleck rivolse soltanto un altro breve pensiero distratto al segnale che ancora bruciava - brillante e disatteso - ben visibile dietro di lui e sulla sinistra: ma siccome altre impellenze subito lo assorbirono incalzanti, a queste egli rivolse la propria attenzione, senza riuscire però a cancellare quel nuovo fastidioso, inspiegabile senso di pericolo... Premonizione?
Gli armati erano tutti pronti e radunati sul ponte. Anche i vogatori di turno avevano ormai le loro armi a tracolla, gli archi con le corde già tese. Già si vedevano i moli deserti, controluce. Nessuno era in vista.
Ma presto la quiete sarebbe stata furia. Meleck rivolse un pensiero a Baal, di cui ancora una volta egli sarebbe stato il braccio impietoso senza perdono ed alla sua bellicosa sorella e compagna inseparabile, Anat, alla cui gloria avrebbe con gioia sacrificato le prime vittime.

Quand’ecco, d’improvviso, risuonarono alte urla dall’ultima nave dello schieramento.  Meleck si voltò e vide subito, con sorpresa, che l’imbarcazione stava andando rapidamente a fuoco. Altri fuochi si accesero lontano sull’acqua, in direzione del secondo gruppo di navi. Le rive si animarono e si illuminarono d’incanto. Una barriera di fuoco impenetrabile bloccava tutti i moli! Non una nave, né una barca erano attraccate: i moli erano deserti! Subito il cielo fu solcato dalle sinistre scie di fuoco di innumerevoli frecce accese che cercavano le navi Cartaginesi. Le sue navi! Tutto fu troppo veloce perché Meleck potesse capire o dare ordini: la sua capitana fu scossa terribilmente da un urto possente che lo scaraventò ruzzoloni tra i remi. Quando - disorientato e confuso - si rialzò, fu solo per vedere su di sé, tra le fiamme danzanti, una gigantesca, demoniaca figura con folta barba e corti capelli ricci che - il volto feroce sfigurato dall’odio - gli urlò: “Potrai dire al tuo Baal di avere conosciuto Mandras!” - e dopo quell’annuncio lo sgozzò, semplicemente, passando subito ad altro. “Ciò che alberga nel cuore dell’uomo, lo sanno solo gli dei... ed io” - era il motto spietato inciso sulla lama del suo coltello, ora lorda di sangue ed illegibile.
“Così periscano tutti i tuoi nemici, Signore! Ma coloro che Ti amano siano come il Sole, quando sorge con tutto il Suo splendore!”.
E splendore fu, ma non celestiale, né solare. Anzi, fu tutto un infernale accendersi di fuochi, che illuminavano l’ampio golfo, silenzioso e tranquillo fino a soltanto qualche attimo prima. Alte urla risuonavano ovunque, mentre sull’acqua mordeva e bruciava il lacerante artiglio della morte. Nell’aria spirava il suo fetido fiato ed il coro di mille demoni mostruosi l'accompagnava.
La flotta Shardana aveva infatti atteso pazientemente nel buio, edotta del segnale, che - uccisa la spia - non era più stato spento. Le altre navi erano state prese in mezzo, governando in modo da imprigionarle del tutto. Il lupo si era scoperto agnello soltanto quell’attimo che gli era bastato appena per morire. Lo sbarco era fallito del tutto nella Kar occidentale - Kar Ul dalle dorate distese di delicati crisantemi gialli - mentre era soltanto parzialmente riuscito nella Kar orientale. In questa ebbero inizio scontri selvaggi e disordinati, che si sparsero nei rivoli dei vicoli bui, infrangendosi infine sulle barricate disposte in precedenza da Mandras.
Per mare proseguirono a lungo i ripetuti assalti nel buio, gli arpionamenti improvvisi, i lanci di frecce incendiarie, gli speronamenti violenti ed i feroci corpo a corpo senza pietà né speranza. Presto tutte le navi furono viste inseguirsi l’un l’altra, accese, per le acque infuocate del Golfo. Alcune di esse già affondavano, mentre numerosi gli uomini morivano, agitandosi come demoni - arsi dal fuoco, o trafitti dalle spade e dalle lance, o impietosamente spinti ad annegare nell’acqua.
Grande fu lo sgomento e lo sconforto degli esperti veterani di Qart-Hadasht, che si erano attesi una facile vittoria contro miti pescatori svegliati di soprassalto! Subito si erano trovati senza guida e presto senza più residue possibilità di vittoria. Presero quindi a combattere per salvarsi la vita, follemente sperando in un impossibile ritorno. Ciononostante erano numerosi, e dettero fiera battaglia e seppero elevare di molto il prezzo della libertà del popolo di Kar Ul dalle gialle distese di fiori. Fu un’ostinata ed estenuante gara a morire, spendendo l’ultima caparbia goccia di sangue fino al mattino...
Il nuovo aspetto che il Golfo presentava, alla luce desolata e scialba del nuovo giorno, dava una più precisa idea di quanto si fossero spalancate le fauci fameliche dell’Orco, nella notte precedente.
Rottami ancora fumanti ingombravano tutto il vasto specchio d’acqua, che era chiuso e protetto tuttora da sette navi Shardana superstiti in pieno assetto di governo. Barche più piccole, Quffah e fassoni, solcavano le acque lordate dall’olocausto, laboriosamente radunando i corpi dei pochi morti ancora a galla, cercando i radi superstiti. Molti erano i feriti di ambo le parti che si accalcavano sulle rive, alcuni gemendo, altri tacendo con occhi lucidi, febbricitanti. Si spegnevano gli ultimi scontri - ormai più circoscritti - sulla Kar occidentale.
Tutte le rive erano presidiate da orde di armati.
Sui punti alti non si nascondevano più le vedette, anzi adesso si rendevano ben visibili nel loro fiero orgoglio...  Ma le acque che erano state prima azzurrissime e trasparenti e gioiose, ora apparivano livide, opache, inospitali. 
Mandras balzò giù dalla prua bassa della sua nave colorata, l’occhio stanco e torvo, tutto il corpo bruttato di sangue, e stancamente grugnì alla sua scorta: “Abbiamo appena visto come ballano: sentiamo adesso come sanno cantare”. Mandras cominciò così subito ad interrogare i prigionieri: Milletrecento uomini erano stati uccisi in una sola notte insana e folle. Molti altri di più avrebbero seguito la stessa sorte se egli non avesse saputo apprendere tutto ciò che quei prigionieri conoscevano. Ed anche così - egli ben sapeva - sarebbe stato terribilmente difficile fermare le altre navi, gli altri uomini di Cartagine. Malconsigliata e perfida città, nata con l’inganno ideato da Elisha, una donna laida ed infedele al marito sacerdote, sorella di un finto re e di un vero assassino, che la rese vedova. Città nefasta, nata dalla pelle infetta di un bue maledetto, costruita sulle ceneri di Elisha, suicida per volere di dei giusti. Perciò Mandras fece uccidere pubblicamente senza alcuna pietà i primi prigionieri - che aveva appositamente scelto con cura fra quelli più bassi di rango - alla prima risposa negata. Il secondo gruppo fu prima brutalmente torturato e soltanto in seguito interrogato. Qualcuno di questi cominciò lamentosamente a parlare e fu quindi subito trattato in modo vistosamente più gentile ed accompagnato altrove, per essere curato e nutrito. Ma gli altri - che non avevano parlato - furono uccisi deliberatamente di fronte a tutti, lentamente, crudelmente. Il terzo gruppo di prigionieri aveva già visto quali scelte e quali sorti l’attendevano, per cui molti componenti di esso a gran voce urlavano disperati proclamando la propria disponibilità a qualunque rivelazione, mentre a forza, strisciando i piedi puntati, venivano trascinati verso lo spiazzo per affrontare l’interrogatorio. Altri invece mostravano più dignità, nel pallore teso del volto di chi sa di essere giunto alla fine ultima delle proprie angustie e di dovere provare l’estrema esperienza soltanto. Il terzo gruppo fu quindi diviso in due parti, una destinata ai carnefici e l’altra ai confessori. Nuovamente ed ancora si ripeté il macabro rito funereo, fino a quando - più volte - si dovettero persino sostituire per stanchezza i carnefici esausti.
Mandras era pervaso da un odio così grande che straripava ben oltre gli argini di ogni umana pietà. Il suo disgusto naturale per ciò che stava facendo non lo avrebbe potuto fermare nell’orrida e necessaria missione di strappare - insieme agli occhi e alla carne - ogni recondito segreto a quella genìa nemica e infida, che minacciava la sua gente e la sua terra. E così, agli orrori di una notte infausta e assassina si aggiunsero le spietate vendette del giorno feroce che inesorabilmente seguì. Alla fine però, Mandras ebbe per sé ogni prezioso dettaglio richiesto circa il numero delle navi, i segnali convenuti, i giorni stabiliti, le destinazioni, il percorso e l’armamento. Nulla fu tralasciato. Subito spedì precisi messaggi ad Hanys, a Tal-Ur e - per via mare - ad Orwa ed alle altre lontane città sulla costa.
Nessuna delle dodici città fu ignorata.
Chiese subito rinforzi dalle località dell’interno e diede imperiosi consigli a quelle sul mare. Fece schierare tutti i propri uomini disponibili, perché potessero assistere alla rapida esecuzione dei prigionieri Cartaginesi, che prima aveva premiato per la loro collaborazione. Spiegò che anche molto peggiore sarebbe stato il trattamento che i prigionieri dei Cartaginesi avrebbero ricevuto, a loro volta. E che quindi nessuno dei suoi poteva anche solo pensare di collaborare con loro. Perché egli era l’unico che già avesse visto - prima ed altrove - i rinnovati orrori della guerra e pertanto mostrava tutta l’autorevole consapevolezza di chi ha ben dimostrato di saperne spegnere la furia profanatrice.
Per molti anni ancora nei cerchi radunati intorno al fuoco si sarebbe cantato e parlato di lui come di un eroe leggendario già in vita, insuperabile nel gestire la triste arte mortifera della guerra. Per quanti anni mai sarebbe stato solo, con dentro al petto quel ruggito continuo che sfugge dal ghigno crudele della fornace infernale?
Gli Dei non amavano Mandras, gli uomini lo temevano, e questa missione lo legava e lo isolava ancora di più in quel ruolo reietto. Ma non lo allontanava, almeno, da quei pochi uomini che prevedevano il pericolo con la sua stessa chiarezza e come lui si sentivano obbligati a reagire ad esso, in nome e per il bene di tutti. A costoro egli si rivolgeva con il cuore e con i suoi più veloci ed instancabili messaggeri, per la salvezza di quella terra, delle sue alte torri di pietra, della sua gente semplice ed ignara. Egli difendeva allo stesso modo chi vestiva di pelli e chi vestiva di bisso e di lino. Ma il suo animo era triste e gonfio di amarezza. Il suo era un obbligo crudele.
Un oscuro presagio di morte colorava di tinte ancor più fosche il desolante spettacolo offertosi ai suoi occhi. Mandras aveva già superato altre esperienze terribili... Gli tornarono così in mente le orride tempeste del mare d’inverno, che sa inghiottire con vorace rapidità il migliore vanto della flotta assieme alla ciurma più fiera.
Mandras - pur se non lo ammetteva, né tantomeno lo dava a vedere - era in realtà sconvolto, come lo era stato all’udire per la prima volta i lugubri canti dell’antica terribile catastrofe che distrusse la splendida Thera - l’isola rotonda - la più bella nel mare verde delle mille isole. In passato - si narrava - si erano spopolate tutte le coste del mare a nord della Grande Isola dalle molte genti.
Mandras provava adesso un eguale sgomento, quale dovette dare quel grande, improvviso boato proveniente dal mare e poi la vista di quella enorme nuvola rossa di fuoco e nera di cenere e di morte. Gli sembrava di udire le voci monotone del coro descrivere come quella nuvola saliva inarrestabile nel cielo, ammantava il sole, uccideva gli uccelli, avvelenava le acque, rendeva sterile la terra, accendeva le notti insonni di una luce innaturale e spaventosa.
Era un minacciosa ed enorme colonna nera di giorno.
Gli uomini e gli animali superstiti correvano qua e là atterriti, uniti in un unico lamento pietoso, senza meta, senza possibile salvezza sotto quella opprimente e soffocante minaccia onnipresente. La terra stessa - là dove non era già sprofondata nel mare - come molte isole scomparse - tremava e sussultava e si apriva in profondi squarci fumanti e famelici. Il mare si ribellava al proprio antico letto e ne usciva levandosi in minacciose muraglie lucide e nere che frantumavano le navi e sbriciolavano i moli, volgendo all’inverso la corrente dei fiumi più poderosi.
Per giorni e giorni, interminabili e bui, la nuvola continuò ad aleggiare coprendo il sole, mentre le notti erano dominate da una enorme e minacciosa colonna di fuoco, come se un dio di vendetta stesse puntigliosamente completando il proprio compito punitivo, lungamente annunciato.
Furono cambiate le stagioni, che con venti umidi e freddi e con una cupa e malsana oscurità stravolsero la terra e gli uomini, tutto coprendo con un fitto manto uniforme di polvere grigia. La polvere si impastò con l’acqua, diventando una durissima crosta sterile. Gli dei non permisero più pascolo, né vollero raccolti. Sotto il perdurare del buio le donne persero i loro bambini e lividi incubi di pestilenza costrinsero le genti a lasciare i loro ricchi palazzi protetti e le loro eleganti ed antiche scritture per cercare altri e più primitivi lidi sui quali, forse, potesse splendere ancora il sole e pulsare la vita.
Così nacquero i germogli di nuove città in Ereb, nella terra del Sole e così pure nacque - purtroppo, si poteva aggiungere adesso - Qart-Hadasht.
E proprio grazie a quest’ultima, adesso similmente ad allora, sembrava incombere su tutti un altrettanto tetro futuro di morte.
Così oppresso era l’animo di un incupito Mandras, da considerare del tutto simili le due minacce.
Ostinatamente, però, egli ancora non disperava di potere condurre la sua gente fuori da quelle strette, in salvo. E confidava che Inanna fosse, ancora una volta, più astuta e più veloce di Baal, come Ella sapeva spesso fare, per i suoi figli...

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Hiram lesse il messaggio che Elibaal gli mandava dalle Terme di Mittsa: “Trovato soggetto giusto. Vecchio asinaio, nel Consiglio degli Anziani. Ha sempre odiato Lauchme. Non necessaria offerta denaro, né animali di fattoria, né altro. Proposta solo posizione di rango in Othoca e occasionali servigi di Neera. Accettato subito. Agirà presto. Gloria a Baal, nostro Signore; lodi a Te, che ci guidi”.
Hiram sorrise di soddisfazione e sospirò appena tra sé. Ah, se tutti i suoi servitori in quella terra fossero stati altrettanto dediti e così efficaci!
Ma la realtà - purtroppo - era un’altra. Qart-Hadasht era servita in massima parte da servitori interessati, infedeli e scaltri. Essi annusavano l’aria con i loro nasi esperti. E come sapevano correre in fretta da chi eventualmente pagasse meglio! E purtroppo solo chi vince può permettersi il lusso di pagare meglio. Il denaro è il nervo della guerra, e dove è guerra è fame e carestia. Si tratta di un circolo vizioso e perverso, che non si può arrestare e che cresce a dismisura...
Hiram inoltre sapeva bene, perché di questo si era discusso a lungo in Senato, che Qart-Hadasht aveva assolutamente bisogno di impadronirsi della terra del Sole. Non era per vezzo o volontà di conquista. Ne andava della vita stessa del popolo discendente di Tiro. Il clima era ideale per garantire abbondanti raccolti di grano e cereali di cui non si poteva più fare a meno per nutrire gli alleati e così - solo così - conservarseli tali.
In Sicilia, malgrado la sottomissione e l’alleanza degli Elimi e dei Sikani, gli Egei di Sirakoussa non cedevano un palmo di terra. E anzi diventavano ogni giorno più combattivi. Avevano ormai ridotto i possedimenti su cui Qart-Hadasht poteva contare ai soli territori di Solunto, Panormo e Mozia.
Le forze mercenarie di Meleck - mercenario lui stesso, anche se mezzo sidonio - erano state inviate in Sicilia. Meleck aveva riportato alcune vittorie, di cui si era fatto grande parlare, ma non era riuscito ad annullare la forza militare nemica. Hiram non si fidava di Meleck e l’aveva dichiarato più volte ai senatori. Meleck non sapeva condurre un esercito: era solo un pirata capace di fare le sue scorrerie di rapina, ma niente di più. Riusciva a procurare al suo esercito gli stipendi, di che nutrirsi e di che divertirsi: ma non sapeva conquistare un regno. E invece un regno, un regno vero era proprio ciò che serviva a Qart-Hadasht.
La terra del Sole doveva essere presa. E si doveva assolutamente procedere con il piano di abbattere tutti gli alberi, per fare posto alle colture di grano. Tutto il terreno fertile dell’isola poteva e doveva diventare un enorme granaio.
Inoltre, sulle sue coste, almeno due porti militari avrebbero assicurato la proprietà del mare anche così tanto a Nord di Qart-Hadasht. E cinque porti commerciali avrebbero garantito la sosta ed il rifornimento delle navi di casa. Essi si sarebbero mantenuti già soltanto con i ricchi pedaggi delle navi straniere.
Infine, Shardani, Tursheni e Pelliti sarebbero stati ottimi schiavi su tutte le coste del mare, mentre molti libici sarebbero stati più che felici di lavorare su quell’isola per Qart-Hadasht.
La terra del Sole era la terra dell’oro, in realtà. E della vita. 
O della morte, se si fosse mancato il bersaglio!
Ah, tutto era già stato studiato! Ma bisognava ancora trasformarlo in realtà. Ed un enorme, famelico altare stava già per arrossarsi tutto, nel giocare le sorti incerte di quella scommessa...
Hiram era immerso in questi pensieri, nell’immediata imminemza dello sbarco. Aveva un’aria ansiosa, passeggiava avanti e indietro nel giardino interno della sua casa-prigione e si tormentava continuamente le mani. Sapeva di avere davanti dei validi antagonisti, che non avevano mercenari prezzolati tra le loro truppe...
La piccola Frine, la sua schiava prediletta, non sopportava di vederlo così e gli chiese: “Nobile Hiram, qualcosa ti tormenta, perché non lasci che io ti distragga da ciò che ti preoccupa?” - E gli lanciò una mela, su cui aveva scritto esattamente in quale modo aveva in programma di intrattenerlo. Frine sapeva che questi piccoli trucchi maliziosi stuzzicavano molto la voglia del suo padrone, per cui non mancava mai di inventarne di nuovi ogni giorno, per svagarlo nei momenti più brutti, in quel suo esilio nella terra straniera.
Hiram lesse il messaggio licenzioso e sorrise: si rivolse verso di lei, con la stessa tenerezza di un padre. Quella giovane, poco più di una bimba, era ciò che di più caro egli avesse portato con sé. Senza quella piccola schiava corinzia impudica e perversa, che egli amava come una moglie, una figlia ed una concubina, tutte fuse insieme nella stessa persona, forse Hiram sarebbe impazzito in quella prigione ostile. Non le avrebbe mai fatto del male. Quando - e se - un giorno fosse stato troppo vecchio per tenerla ancora con sé, l’avrebbe affrancata e le avrebbe dato una ricca dote. Frine lo meritava. Ed ecco che lei gliene dava ancora un’altra prova, se mai ce ne fosse bisogno: si preoccupava per la sua agitazione e voleva distrarlo. E sicuramente sapeva più che bene come farlo nel migliore dei modi. “Ecco, così va già meglio” - gli sussurrava Frine all’orecchio - “Le rughe sulla fronte si stanno appianando. Vieni, sù, lascia che io mi occupi del resto”.
Hiram, difendendosi debolmente dalle fin troppo esplicite carezze della sua piccola schiava, pensò che in fondo non ci fosse nulla di urgente che lui potesse o dovesse fare al momento. Si preoccupava sempre troppo: aveva proprio pensato a tutto. Allora si lasciò docilmente condurre all’interno della casa, verso il profumo e la penombra della loro stanza e non vide che il cielo, a sud, proprio allora si andava arrossando tutto, di fuoco...