lunedì 6 gennaio 2014

CAPITOLO XVI


La Terra dei Mucchi di Pietre, cap. XVI

di Maurizio Feo


16. Ocra di colore rosso.


Il numero totale di morti era quasi uguale a quello dei compo­nenti - vivi, ma molto impressionati - della Compagnia. I corpi che avevano rinvenuto e contato giacevano scomposti e orren­damente mutilati, gli uni vicini agli altri. In certi punti erano così fitti da non potervi trovare un passaggio.
Non era certo impre­sa facile capire a quale dei due gruppi appartenesse ciascuno, vuoi per la scarsa dimestichezza che gli osservatori avevano con i colori di guerra della gente delle grotte, vuoi per il troppo sangue che copriva tutto di una impietosa coperta vermiglia, testimone di un sacrificio che nessun dio aveva richiesto, né gradito. Infatti, il sangue era stato versato in così grande quantità, che la terra non lo aveva ancora assorbito. Alti schizzi avevano imbrattato perfino tronchi e foglie degli alberi. In certe pozze scarlatte sembrava di riconoscere il sangue sacrificale degli al­tari... Non era ancora coagulato, e con­servava il terribile colo­re purpureo di cui si dipingono i morti prima di comporli per il loro ultimo sonno nelle loro favisse, ul­time ed eterne dimore dei mortali.
Insetti di ogni genere erano ormai convenuti a quell’insperato ed abbondante festino. Anche molti animali di varia taglia, disturbati appena dai nuovi venuti, avrebbero completato l’affronto su quei miseri resti ormai così poco umani, con competente e laboriosa voracità.
Intorno, regnava una quiete innaturale e maligna.
Un terribile e persistente odore di morte aleggiava dolciastro su quella vista impietosa, estendendosi ovunque, contaminando tutto. Questo rese ancor più ingrato il compito di effettuare l’inventario...
Comunque, alla fine di quell’orrido censimento, sembrò valida la stima di 26 morti per gli sconfitti contro 18 dei vincitori, i quali però ne avevano avuti almeno altri 25 contro le pattuglie della Compa­gnia... Tutto questo fu fedelmente ripor­tato dalla pattuglia di ritorno al campo e fu ascoltato da tutti con grande interesse.
Dalla descrizione del massacro risul­tava evidente - e tutti ne convennero - il grande vantaggio di cui go­deva la Compagnia. Essa poteva quasi sempre evitare i corpo a corpo grazie agli archi più precisi e più potenti, che permettevano di fermare gli avversari a distanza. Inoltre, in un eventuale scontro diretto, le armi di metallo avrebbero mostrato la propria superiorità crudele. Si valutò che tra gli sconfitti sbandati forse altri 10 o 15 erano stati raggiunti dagli inseguitori. Questo significava che, fra vinti e vincitori, almeno 80 erano i morti. In qua­lunque posto si fossero trovati - nel cuore della montagna, o persi nella foresta - almeno due interi villaggi avrebbero avuto sicuri motivi per piangere, quella notte. Ma la do­manda che tutti nella Compagnia si ponevano era: poteva mai la gente di quei due villaggi essere così numerosa, aggressiva e insensibile da volere e potere ancora combat­tere dopo quelle perdite? Questo era il timore soprattutto degli uomini di Hanys che già altre volte avevano speri­mentato su di sé gli effetti devastanti di quella furia improvvisa, e non solo vedendone gli esiti sul corpo di altri.
La notte, pietosa, stese egualmente il proprio bel manto oscuro sulle paure delle sentinelle - raddop­piate per l’occasione. Come l’aveva steso anche sopra quel prezioso sangue umano, perduto inutilmente, che adesso tingeva di cremisi e di porpora quella terra fertile e bella...
L’indomani mat­tina, quasi naturalmente non ci si preoccupò più tanto di non es­sere visti e si accesero i fuochi per potere così almeno mangiare cibo caldo. Da parte sua, il Gran Sacerdote cercò soprattutto di comunicare con Nugor, come voleva essere chiamato il ferito, che era stato da loro soccorso la notte prima. Il dolore, la sorpresa, l’incertezza, la riconoscenza, furono tutti puntualmente mimati da molti gesti, accompagnati da qualche parola.
Lo scambio ripetuto dei nomi servì a ricordarsi i nuovi amici. Qualche sorriso fu offerto e fu reso. Qualche altra parola prudente, per vincere le ultime incertezze.
Quindi Nugor si alzò, dapprima con una certa fatica. Eseguì qualche movimento di prova, per valutare le proprie capacità.  Il risultato lo vide più che soddisfatto. Allora indicò una direzione e la volontà di andare. Si terminò di smontare il campo e si partì, seguendo le indicazioni della nuova guida. Fu una salita quasi continua: molto presto lasciarono il fiume alla loro destra e presero a salire un canalone laterale, asciutto, in quest’epoca dell’anno. Nugor si muoveva con la sicurezza di chi percorre luoghi familiari e sicuri. In modo più agevole di quanto non sembrasse possibile a prima vista, superarono la cresta del monte che avevano avuto alla loro destra. Si aprì allora ai loro occhi uno scenario imponente e bellissimo per colori e sfumature: ovunque d’intorno stavano i monti, chiari e brillanti i più vicini, indistinti e di colori più tenui gli altri. Le fertili valli scure vi si interponevano armoniosamente all’infinito, finché l’occhio vedeva. Infine, lontano, tutto si confondeva col cielo azzurrissimo, ingombro di bianche nuvole trionfanti che vi troneggiavano, gonfie e leggere. Lungo la strada avevano potuto con qualche profitto cacciare, per cui disponevano ora di sufficiente selvaggina fresca, che fu subito spellata o spennata, svuotata ed infilata sugli spiedi. Per la prima volta da quando erano partiti si preparavano un vero pasto, senza nascondersi, senza ansie, ma anzi con quella anticipazione di piacere che già di per sé era gioia.
Mentre vicino ai fuochi iniziava a sfrigolare la carne, Nugor tentava di comunicare con il Gran Sacerdote.
Egli indicò una valle disposta in direzione obliqua verso il mare, a destra di un monte oblungo, non molto alto, dalla cima spe­lacchiata. Quella doveva essere la loro strada. In quella direzione Nugor destinò a gesti tutta la Compagnia. Ma subito dopo toccò in successione il petto del Gran Sacerdote, quello di Norax ed il proprio, indicando un’altra direzione, quasi opposta. Il dialogo durò per quasi tutta la cottura della selvaggina, interrotto ogni tanto dall’assaggio delle cotenne più vicine al fuoco o da qualcuna delle frattaglie. Fu un ghiotto dialogo tra amici.
Il Sacerdote fece notare alla guida che essi avevano fretta, perché un nemico molto, molto più potente della gente delle grotte li minacciava. Riuscì a spiegare come questo nemico non fosse ancora giunto, ma fosse presto atteso, dal mare. Nugor parve molto preoccupato: nella sua mente era chiaro che assai potente doveva essere quel nemico per potere incutere paura a guerrieri così bene armati e valorosi. Ciononostante - almeno così parve di capire - egli voleva almeno presentare alla sua gente chi lo aveva salvato e curato. Promise che sarebbero stati di ritorno alla Compagnia molto prima del tramonto e che dopo, prima di notte, molta strada ancora avrebbero potuto percorrere, con guide meglio in arnese di lui - e quindi più veloci - che egli solennemente prometteva loro fin da quel momento. E in questo senso si accordarono finalmente, godendo felici di quel nuovo patto di amicizia e del poter mangiare e bere insieme così vicini al cielo, abbracciando con gli occhi la loro Terra del Sole, madre comune.
Una ritrovata dignità gonfiava ora il petto di Nugor, e Norax raccolse un guizzo divertito negli occhi - ora sereni - del suo Maestro.
Ognuno avrebbe pagato qualcosa, ognuno avrebbe ricevuto qualcosa.
Alla fine, Hanys parve molto contrariato dal vederli partire in tre, soli e senza bestie da soma - che Nugor aveva con gran forza rifiutato di prendere con sé. Il Gran Sacerdote si consultò con Mandras ed Hanys e li rese solennemente depositari della Missione in sua assenza: se per qualche motivo egli non si fosse trovato al punto convenuto prima del tramonto, sarebbe stato loro preciso compito condurre a termine l’impresa della Compagnia di Ennin. Si accomiatarono e presero a scende­re la montagna per strade divergenti. Nugor, malgrado le recentissime ferite, riusciva a procedere a piedi in modo spedito. Le difficoltà del percorso, in realtà, consistevano principalmente nel riuscire a riconoscere il percorso stesso dalle molte false strade che, evidentemente - concluse tra se Norax - servivano a confondere gli intrusi. Per il resto si trattò di una marcia abbastanza agevole.
Giunti al fondo della valle attraversarono un rigagnolo e presto presero a risalire lungo il pendio della montagna dalla cima spelac­chiata, percorrendone i costoni rocciosi inclinati. Questi ultimi costituivano comode rampe di ascesa, su cui non restavano tracce del passaggio, come Lauchme fece notare a Norax. Stavano procedendo - sempre salendo - con la valle a destra e la montagna sulla propria sinistra. In un punto che non portava alcun segno e non sembrava in al­cun modo differire dagli altri, Nugor svoltò repentinamen­te a sinistra, girando intorno ad una roccia, scavalcando un vecchio tronco caduto e cominciando a precorrere un ripidissimo sentiero tortuoso, che prima - dal basso - era ri­masto del tutto nascosto. Norax e Lauchme guardarono in alto - ché altro non si poteva fare - e quindi si scambiarono un’occhiata perplessa, in quanto più su, di fronte a loro, vi era soltanto una liscia parete di roccia...
Percorsa ancora, faticosamente, la lunghezza di dieci canne, videro la loro guida scomparire infilandosi in una stretta fessura che si apriva obliquamente nella parete rocciosa, e che diventava visibile solo quando la si aveva proprio davanti, a pochi passi.
Con fatica, aiutandosi con le mani, si avvicinarono anch’essi alla fessura...
Era una profonda spaccatura di uno sperone roccioso, il cui pavimento irregolare dapprima saliva in modo impervio, per poi scendere più comodamente sullo stesso versante del monte, verso una terrazzatura altrimenti irraggiungibile senza ali. Provarono un brivido di freddo, a causa del vento che sembrava soffiare con più forza all’interno della fessura, forse anche raf­freddato - nel suo passaggio - dalle rocce in ombra. Giunti sulla terrazza, Nugor prese a parlare a qualcuno nella sua lingua gutturale e strana.
Nessuno si mostrò, ma i tre pro­seguirono indisturbati.
Per quanto cercasse, voltandosi più volte indietro, Norax non riuscì a capire dove si nascondesse il misterioso guardiano. Procedevano adesso spediti su di un piano, con il dirupo alla loro sinistra - avendo invertito direzione alla fessura - e Norax notò che stavano camminando, apparentemente, su di una pietraia. In realtà, questa non era altro che un unico enorme blocco di pietra, minutamente scavato e fittamente frastagliato, tanto da dare l’impressione di una pietraia. Infatti, quelle che sembravano singole pietre staccate non si spostavano affatto sotto i loro piedi col peso di un uomo. Sulla loro destra, il solido blocco di pietra assumeva un aspetto più compatto, e appariva striato da solchi paralleli che confluivano tra loro, nel contempo appianandosi, seguendo la curvatura rotondeggiante della roccia e formando un vero e proprio riparo sulle loro teste.
Sembrava un’onda di pietra.
Se fosse piovuto - pensò Norax - nessuno di loro si sarebbe bagnato, e l’acqua non si sarebbe potuta mai raccogliere in pozze sotto i loro piedi, filtrando invece attraverso le fessure. Alla fine di quel tratto rettilineo ed in piano - dal quale non visti si poteva vedere tutta la valle - incontrarono alcune sentinelle, visibili questa volta, che erano già state in qualche modo avvertite del loro arrivo. Nugor non dovette nemmeno parlare, questa volta. Essi li lasciarono passare per un viottolo che sembrava buttarsi a capofitto nel burrone e per il quale i nuovi venuti si inoltrarono solo con molta riluttanza, te­mendo per la propria incolumità. Dopo pochi passi soltan­to furono però su di uno spiazzo che sembrava angusto dall’alto, ma - videro poi - si apriva nella montagna, formando l’ingresso dell’enorme grotta del popolo di Nu­gor. In realtà, non era poi propriamente una grotta, come ebbero modo di vedere. Non era affatto una caverna - anzi - comunque era enorme. Videro chiaramente che il pavi­mento si stendeva ineguale e obliquo, più sotto di loro di una distanza di circa venti passi. Se si fosse trattato di una grotta non sarebbe stata possibile tutta quella luce dentro di essa. Infatti, mentre scendevano incuriositi una scala in parte di pietra scavata ed in parte ricavata da pioli di legno, riuscirono a vedere che solo alcune zone di quello strano posto erano in ombra. Vi si vedevano alme­no quaranta modeste capanne sparse qua e là, più qualche costruzione maggiore. Finalmente, appena furono a terra si resero conto di dove mai provenisse quella luce: le pareti scabre di quell’enorme spiazzo quasi circolare non si ri­chiudevano in alto - molto al di sopra di loro - invece si arricciavano un poco, man mano avvicinandosi tra loro senza toccarsi. Il resto era cielo aperto. Al centro dello spiazzo si ergeva un’enorme roccia conica, attorno alla cui larga base stavano alcuni alberi di lentisco. Il pavimento - obliquo - degradava verso la parte più bassa e più buia della conca, ove questa assumeva in modo più deciso i caratteri propri di una grotta, con grosse colonne che uni­vano la volta al pavimento. Su quest’ultimo, nel punto più basso, si radunava un laghetto di acqua limpidissima e fre­sca.
Era quindi un villaggio nascosto e segreto, ben protetto da ostacoli naturali e dall’organizzazione degli uomini, e ben approvvigionato di tutto ciò che è più necessario alla sopravvivenza. Ecco spiegate - in un sol colpo - sia la magica sparizione degli uomini delle grotte, sia il loro improvviso apparire dal nulla.
Subito la gente del villaggio si fece loro incontro e vi si assiepò intorno, distraendoli dalle loro meraviglie per quel rifugio nascosto. La gente del villaggio pronunciava in coro il nome di Nugor, nel contempo cercando se vi fossero altri sopravvissuti con lui. Lauchme e Norax ebbe­ro a notare come quella piccola folla fosse prevalentemen­te composta di donne, bambini e vecchi. Pochi erano gli uomini adulti rimasti, ed evidentemente quasi tutti destinati alla guardia. Nugor non dovette dare buone noti­zie, come fu chiaro dalle loro reazioni. Norax comprende­va qua e là qualche parola, ma per il resto si affidava ai toni delle voci, alle espressioni dei volti. Si scopriva vieppiù affascinato da quel dialetto a lui quasi del tutto ignoto, eppure capace di toccare alcune corde appena sopite del suo essere, traendone una segreta vibrante me­lodia, così stranamente consueta e solo apparentemente nuova.
Non ci volle molto per comprendere che Nugor era una persona di alto rango e che l’averlo salvato e curato costituiva un grande merito. Ma Nugor stesso impedì subi­to ogni tentativo di rendergli onore ed ogni preparativo di festa con fermezza ed autorità. Egli prima chiese che il Gran Sacerdote medicasse alcuni degli altri feriti che in qualche modo erano scampati alla strage e giacevano nelle loro capanne. Nugor volle seguire ogni gesto, per poterlo a sua volta ripetere, oppure almeno insegnare. Quindi radu­nò la sua gente - o meglio, ciò che ne restava - presso il grande sperone roccioso e là, presso quel luogo che dove­va essere sacro per lui, pronunciò un solenne discorso. Di­chiarò l’alleanza con il Grande Sacerdote Guaritore: i due popoli non si sarebbero mai più incontrati con le armi. Nugor assicurò a Lauchme che la sua riconoscenza lo avrebbe seguito ovunque egli andasse. Quando fosse tor­nato avrebbe sempre trovato ospitalità e compagnia per attraversare il territorio. Ma a questo punto Nugor si rab­buiò e si dichiarò incerto sulla possibilità che il suo popolo risiedesse ancora a lungo in quel villaggio, così pressato da tribù nemiche. Forse, si sarebbero allontanati più a nord. Ma il patto tra loro sarebbe rimasto valido ed immutato per sempre, in ogni luogo, in ogni stagione, finché ci fossero mai stati luoghi e stagioni. Il Gran Sacer­dote di Tal Ur dai molti nomi oscuri - Lygmon per i saggi Rasenna, Guaritore per il popolo di Nugor, Colui che porta la luce nel buio per altri, Lauchme per altri ancora - sorri­se, mentre già un’altra, nuova buona idea germinava nella sua fertile mente. Giudicando ancora prematuro il momento, il saggio Padre della Vera Gente non la espresse in parole e la tenne per sé. In­vece, badando a scegliere accuratamente le parole comuni ai due linguaggi, egli ringraziò altrettanto solennemente per l’onore di quella visita. Promise ogni necessario aiuto al popolo di Nugor,  se questi invece che più a Nord, avesse mai preferito dimorare nelle terre di Tal-Ur, il Grande Cerchio, il suo Tempio.  Aggiunse che qualunque fosse stata la loro scelta, il giuramento lo avrebbe impe­gnato ad un felice vincolo di fratellanza per sempre. Le mani intinte nell’ocra impressero il proprio stampo alla base dello sperone di roccia e così fu sancito il patto tra Lygmon e Nugor. Quindi Lauchme si scusò, dicendo che era ormai angustiato dal tempo, per cui doveva purtroppo lasciarli e non trascurare più oltre la propria Missione, di cui Nugor bene sapeva. E a quell’accenno Nugor assentì gravemente, con atteg­giamento iniziatico, guardato con stupore ed ammirazione dalla sua gente. Ma la prossima volta - promise argu­tamente Lauchme - avrebbero festeggiato e banchettato insieme, anche per questa occasione perduta e così sarebbe certamente stata una festa doppiamente felice. Le sue pa­role furono molto gradite, ancorché forse più interpretate che realmente comprese.
Lauchme volle assicurare che, se avesse incontrato altri superstiti lungo il viaggio, avrebbe riservato loro le stesse cure che aveva offerto a Nugor. Avrebbe trovato il modo per restituirli al villaggio, o comunque di mandare segnali. Per questo motivo, Nugor non doveva partire per il Nord prima di avere ricevuto indicazioni da lui. Anche su questo si accordarono. Nugor li salutò con un abbraccio ed essi subito si rimisero in viaggio. 
Due guide li riaccompagnarono giù dalla montagna, per una strada diversa da quella che già conoscevano, e che si trovava sul versante opposto. Giunsero ad un costone impervio, dal quale dovettero esse­re calati - con lunghe corde - da altri uomini che apposita­mente li attendevano. Certo qualunque quadrupede sareb­be stato di impaccio per la maggior parte del percorso, il che giustificava il reciso rifiuto opposto prima da Nugor a qualunque bestia da soma. Molto velocemente e molto prima del tramonto - proprio come promesso - si riunirono con il resto della Compagnia. Appena essi furono in vista, li ac­colsero con grida spontanee di giubilo e di franco sollievo. Quindi tutti insieme, i cinquantun uomini della Compa­gnia e le due guide, ripresero di buona lena la loro marcia verso il mare. Superarono un crinale alto poco di più del villaggio segreto - che comunque anche da lì restava del tutto invisibile - e presto furono in vista di un fiume molto grande, sito in una valle stretta e buia.
Il sole accennava ormai a tramontare alle loro spalle.
Le guide indicarono nella direzione opposta al tramonto, un poco mimando a gesti e un poco dicendo a parole che là si trovava più vicino il mare e che quella era la loro meta, a quanto gli era stato detto. Il Gran Sacerdote parve un poco perplesso a quella notizia. Confrontò brevemente le proprie osservazioni delle stelle con quelle fatte da Mandras. Infine risolse di tracciare al­cuni segni sul terreno con uno stecco... Cercando di farsi ben comprendere dalle guide, dapprima disegnò il mare - molte linee spezzate una vicina all’altra. Quindi - nel punto ove terminavano queste linee - disegnò una terra alta, ripetendo più volte il termine “kia” che indicava ap­punto la terra ed era comprensibile anche alle guide. Sull’altopiano, quasi al centro, disegnò un grande buco profon­do, che impresse  infiggendo con forza  uno stecco nel terreno, roteandolo con decisione e ripetendo più volte la parola “nurra”, che le guide mostrarono di comprendere vagamente. Accanto alla vo­ragine - per la crescente curiosità di Norax - disegnò un enorme ser­pente con un capo di fattezza umana, che chiamò con il nome “Serapis”...
Le guide di Nugor parvero intimorite da alcune delle parole e dall’intero disegno, in special modo poi dal serpente, ma, pur avendo ben compresa la descri­zione del luogo, non dettero alcun segno di riconoscimento, nemmeno a sentire pronunciare il suo nome. Ma non era certo Lauchme uomo da perdersi al primo ostacolo, per cui pazientemente prese a completare il disegno, estendendolo verso l’alto. Tracciò i segni di molte grotte affiancate, che dalla terra si aprivano sul mare, scorrendo parallele una affianco all’altra, mentre un’altra grotta, più discosta, disegnò più grande, più lunga e con più rami...



Questo luogo fu subito riconosciuto, e proprio per raggiungerlo le guide di Nugor indicarono nuovamente e con più convinzione la medesima direzione che avevano segnalato prima, verso il mare.
“Non ci sono dubbi” - concluse allora il Sacerdote - “Siamo molto vicini al mare, ma siamo anche più a nord di quanto te­messi. Inoltre, come avrete capito, le guide di Nugor non conoscono il territorio nel quale dobbiamo addentrarci, se non per la prima piccolissima parte. In ogni caso ci sono state utili e so che fino a che lo potranno - ci serviranno bene e fedelmente”... Si decise quindi - malgrado la stan­chezza di tutti e l’ora ormai tarda - di attraversare il fiume, di risalire la montagna di fronte a loro in modo da potere utilizzare fino in fondo la luce del sole calante per guidare i loro passi e per recuperare anche il poco tempo perduto nell’interrogare le guide.
Questo pizzico di buona volontà in più, questo spirito di sacrificio - come avrebbero saputo subito dopo - furono probabilmente la loro salvezza...
Nuvole bianchissime e delicate traboccavano dalla cima delle montagne e cadevano giù lentissime, adagiate appena lungo il pendio scosceso. Erano qua e là leggermente tinte di rosa dal tramonto, stagliate contro il cielo azzurro intenso cangiante. Sembrava l’immagine irreale di una cascata resa immobile, come per una magia del fato, in muta e stupita attesa della volontà divina...
Erano appena giunti, tutti, sull’altra sponda.
Già i primi si erano inerpicati sul fianco della montagna che as­secondava il decorso sinuoso del fiume.

D’improvviso ri­suonarono le agghiaccianti urla furenti che ormai tutti conoscevano fin troppo bene... I nemici - numerosi - si tuffavano disordinatamente in acqua, mentre alcuni di essi si attardavano in un lancio di frecce che fortunatamente non riusciva a far vittime, data la provvidenziale distanza dell’altra sponda del fiume, poco profondo ma largo in quel punto. In quel momento i componenti della Compagnia erano sparpagliati in un terreno disegua­le ed erano inoltre - ad onore del vero - piuttosto imprepa­rati a difendersi. Ciononostante ognuno reagì con la mas­sima rapidità - brandendo le proprie armi - specialmente con gli archi, che si erano già dimostrati determinanti nei precedenti scontri con gli stessi avversari.
La prima nuvola di frecce che uscì ronzando dai grandi archi fu purtroppo un po’ tardiva: rese incerta l’avanzata nemica per un attimo, ma non la arrestò. Se non ci fosse stato il fiume, provvidenzialmente largo, a rallentare il nemico, l’agguato sarebbe stato ben più repentino e devastante di quanto non fosse. E già così era una esperienza agghiacciante e terribile. I guerrieri, dipinti orribilmente di ocre colorate, uscivano dal bosco sempre più numerosi, incuranti della morte che li attendeva e che gli andava incontro, delle frecce che li decimavano, della forza e della decisione degli avversari...
Gli arcieri della Compagnia stavano schierati più in alto, in posizione favorevole per il tiro - ormai difficoltoso, per­ché la visibilità era scarsa: in più, la fretta dettata dall’imprevisto li costringeva a piccoli errori, per cui si ferirono le labbra ed il mento con le corde tese e continuarono, imprecando e sanguinando, a mirare con troppa ansia e poca cura.

Anche per questo motivo non riuscirono a tenerli lontani.
Il primo violento corpo a corpo fu con gli uomini di Mandras, i quali brandeggiando con destrezza le loro pesanti spade di metallo, infransero l’attacco forsennato sulla riva del fiume. Il raccolto mortale fu rapido e terribile ed in un momento il fiume si tinse di sangue. Dai due lati e dal centro, i guerrieri di Hanys balzarono quasi nell’acqua a respingere il nemico con pari rabbia e violenza.
Quello parve quasi essere il segnale della fine.
Subitaneamente, gli altri si ritirarono al di là del fiume, da dove venivano. Molti corpi galleggiavano inerti nell’acqua, trascinati pigramente via dalla corrente, mentre la ringhiosa retroguardia  nemica scompariva riluttante tra gli alberi, inseguita dagli ultimi sibili velenosi delle frecce esperte...