BAINZU E SU ATTU ARESTI (Gavino ed il Gatto Selvatico)
Bainzu era un pastore: suo padre era stato pastore e
 suo nonno era stato pastore. Non ci vedeva nulla di male ad essere 
pastore anche lui.  (Del suo bis-nonno nessuno in famiglia aveva mai parlato molto: non seppe mai esattamente perché. Ma questa è tutta un’altra storia… la racconterò un'altra volta).
Giovane e forte, pascolava le sue pecore in Gallura ed aveva buoni rapporti con tutti i pastori degli altri stazzi.
Le cose gli andavano sempre bene: primo, perché era di 
buona volontà e poi perché era davvero un gran lavoratore. Salutava sempre tutti 
con garbo e – quando gli chiedevano come andasse – rispondeva sempre: 
“Benissimo!” con un sorriso smagliante convincente, che già metteva il 
buonumore a chi glielo aveva domandato. 
Bainzu era sempre disposto a dare un aiuto agli altri, che glielo avessero richiesto, oppure no. Aveva i suoi metodi. A chi era troppo orgoglioso per chiedere, gli 
compariva quasi per caso davanti, guarda caso proprio mentre aveva più 
bisogno, e lo aiutava a portare un peso, a riparare un giassu, o a sostituire la copertura del cuile.
 “Tanto ormai sono qui – diceva – e non ho proprio niente da fare. Ahiò,
 lasciami provare, così imparo anche io come si fa, che mi può servire” –
 e questo lo diceva anche per lavori che già sapeva fare benissimo…
Insomma, era un buonissimo essere umano, di quelli 
che proprio vorremmo ce ne fossero di più anche oggi: buono ed onesto come il pane
 appena fatto in domu.
Ma ogni tanto Bainzu andava anche a caccia ed era 
bravissimo a catturare qualsiasi animale. Conosceva tutti i tipi di 
trappole e di trucchi; sapeva benissimo quali fossero esattamente le 
abitudini degli animali e quindi non gli mancava mai selvaggina. Nessun 
animale, dell’acqua, del cielo o della terra era troppo furbo per lui. 
Sapeva creare trappole efficaci persino per la volpe, che notoriamente è
 furba e diffidente e molto raramente ci casca, in una trappola, specie 
se soltanto annusa anche solo una parvenza dell’odore dell’uomo…
Un giorno, andando a caccia, catturò – per errore, va detto – un Attu Aresti,
 un gatto selvatico grande e grosso ed aggressivo, così forte e 
combattivo che a momenti rompeva la gabbia che lui gli aveva costruito 
apposta. Era un bellissimo esemplare, sontuosamente elegante, con due 
occhi magici e regali che a guardarli mettevano soggezione e con un 
portamento da vero padrone. Era, in tutto e per tutto, una vera piccola 
tigre, a parte solo i colori che erano di gatto selvatico. Forse per 
questo motivo, proprio perché era così bello e maestoso, anche se di 
certo non aveva l’intenzione di mangiarselo, Bainzu decise di tenerselo.
Questa sua decisione significava tenerlo 
prigioniero in una gabbia: ma – decise – lo avrebbe trattato bene e gli 
avrebbe dato da mangiare e da bere. Inutile dire che il gatto non era 
affatto d’accordo: e glielo faceva capire ogni volta che lui si 
avvicinava alla gabbia, soffiando in modo ostinato e rabbioso e tirando 
indietro le orecchie…
Bainzu non perdeva la speranza che – un giorno – il
 gatto si sarebbe finalmente abituato al suo ovile ed alla sua presenza,
 tanto che avrebbe anche potuto aprirgli la gabbia, senza che lui 
fuggisse via…
Per il momento, certamente no: il gatto selvatico 
rifiutava sdegnosamente qualsiasi tipo di cibo e non sembrava neppure 
voler toccare l’acqua…
Bainzu non ebbe modo di preoccuparsene troppo, 
però, perché subito un altro problema più urgente catturò tutta la sua 
attenzione…
Il giorno dopo, infatti, all’improvviso, trovò una pecora morta, chissà come e perché. 
La esaminò minuziosamente, per capirne la causa, ma non trovò assolutamente nulla.
Non ci fu niente da fare: Bainzu s’ingegnò in tutti
 i modi, fece di tutto, ricorse alle cure che conosceva (ed è sicuro che
 non ne conosceva poche!), ma il giorno dopo un’altra pecora gli morì, 
nello stesso modo misterioso, senza segni, senza sintomi; allora chiese aiuto ai pastori più esperti
 e più vecchi di lui; consultò persino un veterinario del paese, Mastro 
Francesco Cucca, che aveva salvato interi greggi e mandrie di buoi ed 
innumerevoli asini da sicura morte, in tutta l’isola. Ma nessuno riuscì a
 cavare un ragno dal buco: le sue pecore continuavano a morire, ogni 
giorno che passava erano una di meno.
Ma quale malattia – si chiedeva Bainzu – può 
uccidere le pecore una al giorno? Sembra quasi che il Pundaccju delle 
sette berrette si sia incattivito proprio contro di me!
Bainzu era uno spirito semplice e ricordava ancora 
tutte le favole che gli avevano raccontato da bambino. Le ricordava con 
un misto di nostalgia e gratitudine, per l’affetto profondo che ogni 
figlio porta ai genitori ed anche con un pizzico di paura superstiziosa.
 Specialmente adesso, nel momento in cui la parte brutta di una favola 
da bambini sembrava prendere corpo ed uscire dalle pagine sbiadite dei 
ricordi più cari…
La realtà è tutta un’altra cosa, si dirà.
Ah, se fosse stato così semplice come nelle favole!
 Vediamo: avrebbe dovuto semplicemente rubare uno dei sette berretti al 
Pundaccju – cosa che Bainzu era certamente capace di fare, visto che era
 sveltissimo di mano – per poi restituirla solo dietro la ricompensa 
della salvezza delle sue pecore. E si sa che i folletti possiedono 
enormi ricchezze, sufficienti per una vita da re: quindi avrebbe potuto 
anche chiedere di più.
Ormai, aveva già perso cinque pecore e la sua paura era fin troppo reale: un pastore senza gregge, si vedeva già.
Tornò a casa da un giro d’ispezione, sconsolato e 
cosciente della propria totale impotenza, di fronte a quel mistero: se 
non fosse riuscito ad arrestarlo, quel fenomeno terribile sarebbe 
proseguito, fino all’uccisione di tutte le sue pecore. Lo avrebbe 
completamente privato di tutto ciò che aveva. Bainzu guardò nel vuoto, 
lontano, e vide la voragine della povertà e – in fondo ad essa – lo 
spettro della fame.
Nell’entrare, dalla soglia guardò verso il gatto: 
era smagrito e d’aspetto meno battagliero, dopo cinque giorni di rifiuto
 del cibo. Malgrado ciò, non distoglieva lo sguardo da lui e seguiva 
ogni suo movimento, con attenzione e con uno sguardo ostile. Bainzu si commosse per l’animale 
fiero e deciso a morire in prigionia, se non poteva vivere in libertà, e
 si decise: meglio anche per lui allontanarsi da quel cuile ormai maledetto da un misterioso ed implacabile spirito malvagio.
Si avvicinò alla gabbia ed il gatto non soffiò, né abbassò le orecchie, ma semplicemente attese.
Lo liberò, allora, e gli sussurrò: “Vattene, gattone, sei libero. Che almeno tu possa vivere. Qui, moriresti e non voglio che ti accada. Buona fortuna…”.
Il gatto allora sgusciò fuori dalla gabbia, senza 
toccarne alcuna parte, come sanno fare i gatti. Si allontanò, con un 
passo leggero e felpato, camminando elegante e lento, come se il Tempo 
non esistesse, come se guidasse un corteo religioso, come fisse un Re. 
Sembrava noncurante, come sapendo che l’uomo non 
rappresentava più un pericolo per lui. Bainzu lo guardò allontanarsi, 
chiedendosi perché mai non potessero essere amici, come aveva 
desiderato, dispiaciuto di esserselo anzi fatto nemico, tanto da non 
accettare cibo da lui. Sei una gran bella bestia – mormorò tra sé – 
speriamo che ti salvi: avrei desiderato accarezzarti e tenerti con me.
Non aveva finito di esprimere quei desideri e quei 
pensieri, che il gatto saltò fulmineo e silenzioso su una pietra e si 
girò verso di lui. In quel momento si alzò un vento freddo improvviso e 
s’udì un tuono, non accompagnato da un lampo. Incominciò una pioggia fitta e fredda,  non annunciata.
I due restarono lì a guardarsi, come fosse nulla.
Poi, il gatto fece un gesto con le zampe anteriori,
 come grattando o graffiando la pietra muschiosa, sulla quale era 
salito, come fanno i gatti quando “si fanno le unghie” sui cuscini… E 
nel fare ciò, sembrava intenzionalmente guardare verso Bainzu, che lo 
fissava estasiato, ipnotizzato ed incurante dell’acqua.
Infine, scomparve nella macchia.
L’indomani, Bainzu si svegliò presto e subito corse
 fuori a controllare le sue pecore: la pioggia, dopo avere lavato ogni 
cosa, aveva ceduto il posto ad un sole vittorioso e prepotente. Di lei 
erano rimaste ovunque miriadi di goccioline che ora scintillavano sotto 
la luce, quasi per magia. L’aria era pulita e fresca e ferma e non 
portava alcun odore. Un tenue arcobaleno si disegnò per un minuto nel 
cielo e sembrò scendere verso quella pietra dove s’era soffermato il 
gatto. Scomparve quasi subito. Nessuna pecora era più morta o mancava. E
 così fu per tutti i giorni che seguirono. 
Ora, Bainzu era un tipo semplice, sì, ma non era stupido.
Ci pensò su, a modo suo.
Non fece parola ad alcuno di quello che era successo.
Perché non può proprio accadere che uno spirito sconosciuto
 (già definirlo così è strano, vero?) s’impossessi straordinariamente 
delle sembianze di un gatto selvatico, ma poi sia contraddittoriamente 
così indifeso da cadere in una semplice trappola fatta dall’uomo. E però
 sia contemporaneamente così potente, addirittura da costringerlo alla 
fine a liberarlo, uccidendo misteriosamente ma inesorabilmente ad una ad
 una le sue pecore!
Ma anche se – per ipotesi – potesse davvero 
accadere una cosa così strana e contraddittoria, Bainzu non lo avrebbe 
mai creduto, pur essendone stato testimone diretto! 
Ma – infine – se anche Bainzu avesse potuto 
ritenerlo possibile, e non è affatto detto che sia così, certamente non 
lo avrebbe mai raccontato, né confessato in giro. Proprio mai ed a 
nessuno, per nessuna ragione al mondo.
Però – tra sé e sé – Bainzu ci aveva pensato, a lungo e bene. Ed era arrivato ad una sua conclusione precisa: Bainzu era stato messo alla prova.
Non era davvero certo di avere superato proprio nel migliore dei modi quella prova, ma sapeva – di fatto, dai risultati – che non gli era andata del tutto male.
Ora, se questa fosse una favola, Bainzu avrebbe 
scavato sotto alla pietra che il gatto gli aveva indicato ed avrebbe 
immancabilmente trovato l’inesauribile tesoro del folletto delle sette 
berrette...
Ma questa non è una favola, è una storia vera e nella vita vera queste cose di solito non succedono.
Non che Bainzu non ci avesse pensato. Anzi, gli 
successe ancora molte volte – passando vicino alla pietra – di pensare 
ad iniziare lo scavo. Ogni volta alzava le spalle, e poi s’allontanava 
scuotendo il capo, con un sorrisetto divertito dipinto sul volto.
Bainzu smise di cacciare, naturalmente, perché forse
 questo era il messaggio principale di quell’avventura. Ed ebbe ancora 
il massimo rispetto per tutte le creature, specialmente quelle più 
indifese, uomini o animali che fossero.
E siccome tutti gli altri – uomini o animali – si 
accorgono della nostra buona disposizione, Bainzu visse da allora come 
circondato da una nuvola di amicizia, felicità e buoni sentimenti, da parte d'ogni essere vivente. E 
questa è una verità che dovremmo tenere presente tutti, ogni giorno.
Bainzu non incontrò mai più in vita sua un gatto 
selvatico, con un certo rammarico, forse – pensò sempre – proprio perché
 non aveva proprio compreso appieno il significato di quella sua 
volontaria e fugace comparsa nella sua vita di pastore.
Ma non gli morì mai più una pecora e visse fino a cent’anni senza un malanno.
Ogni diritto è di Maurizio Feo, autore di questo testo e ottimo amico personale di Bainzu.