la Terra dei Mucchi di Pietre, cap. XXII
di Maurizio Feo
22. Una sentenza di morte.
Lauchme stava seduto sullo scranno basso, nella sua
capanna: guardava nel nulla davanti a sé, mentre con un gesto lento e assente
si lisciava ripetutamente i baffi grigi con pollice ed indice della mano
sinistra, vagamente accigliato, un’aria svogliata e scontenta sul volto.
Indossava una laina - il doppio mantello sfrangiato - sul capo aveva il galero appuntito e
sul petto gli pendeva dal collo il coltello sacro.
Il cielo era grigio, pesante e cupo e l’aria
pungente si infilava tra le ricche pieghe del severo mantello. Nella mano
destra Lauchme stringeva il labrys del comando: un lungo e robusto bastone,
liscio e diritto, che terminava in basso con un puntale protettivo in bronzo,
ed in alto ostentava un’elegante e terribile ascia bipenne, sottile, anch’essa
in bronzo.
Erano questi i simboli sacri del potere che egli
portava sempre con sé, dentro di sé, intorno a sé ovunque, come un’aura, e che
però sapeva di doversi guadagnare ogni giorno in modi sempre differenti. Erano
simboli di un potere che a volte sembrava effimero ed elusivo e altre volte gli
si avvinghiava pesantemente addosso, come un’edera tenace, infelice tra le
piante infelici.
C’era una causa precisa, per quel suo stato d’animo,
un fatto accaduto.
Era successo il giorno prima, quando Lauchme aveva
riunito i saggi nella capanna del consiglio. Tutti seduti in cerchio sui sedili
di pietra, avevano parlato secondo l’ordine di rito.
Aczun era il
più anziano e di diritto sedeva sotto le borchie dalla testa dorata, le
lucide, scintillanti borchie-stelle, che essi appunto chiamavano “bulluncva”.
Ognuna di esse ricordava un evento importante della
storia di Tal-Ur.
La prima - tutta d’oro anche nel corpo - era stata
piantata sul palo tratto da un grosso ginepro, il giorno stesso della fondazione.
Ricordava il grande rifiuto di Avle Felske e la sua migrazione con tutto il
popolo, vecchi inclusi, dopo avere cambiato la legge sulla transumanza e
sull’uccisione necessaria dei vecchi.
Seguivano quelli piantati in occasione di un
grandissimo raccolto e del ritorno dell’acqua, dopo un lunga siccità che aveva
decimato il bestiame e gli uomini, con l’epidemia e la fame.
Subito dopo, ecco quello che commemorava il
sacrificio di Ioste e dei suoi eroi, spesi per la pace.
E quindi, ecco il chiodo infisso per ricordare il
primo grande mercato sul fiume, che coincise con la fugace presenza dei saggi
Twrshna, col miracoloso arrivo di Lauchme dai molti nomi e con le sue prime
opere di bene.
L’ultimo chiodo era dovuto alla prodigiosa
guarigione - da parte di Lauchme - del sacerdote di Lantiraxi, il paese dalle bellissime querce, ricco di
grandissime e ghiotte ghiande...
Ma di questo passato sembrava che nessuno volesse
ricordarsi adesso.
Aczun, risentito, aveva aspramente rimproverato
Lygmon - come egli ancora chiamava Lauchme - perché questi teneva in troppo
scarso conto il sacro consiglio degli anziani, quel curonio della giustizia
con i suoi sedili di pietra disposti come d’uso, in un cerchio antico, intorno
al fuoco sacrale: il coro rituale che moltiplica la saggezza e la forza d’animo
degli uomini.
Paziente era stato Lauchme nell’attendere
rispettosamente il proprio turno, docile nel parlare con rispetto e devozione,
malgrado l’inutile verbosità dell’altro e la sua garrula voce. E l’avversario
gli era sembrato simile alla dea egizia Nut, che divora le stelle del
cielo al mattino, tanto lui sembrava divorare la saggezza dei suoi compagni.
Oltre alla dovuta affettuosa deferenza, le sue parole espressero la convinzione
della assoluta necessità, della rapidità efficiente, della segretezza
dell’urgenza. Molto parlò Lauchme e con parole accorate, più che non in ogni
altra occasione, ed infine dichiarò che non del perdono di un popolo inattivo
gli importava, ma piuttosto della condanna di un popolo che si sarebbe salvato
con l’azione, dalla minaccia imminente.
Non sarebbe certo stato il giudizio sull’operato di
Lauchme - come ebbe a dire egli stesso - a far piantare un altro bulluncva
sulla colonna della storia passata. Ma - anzi - dopo una scelta errata non ci
sarebbe più stata alcuna storia del loro popolo degna di essere ricordata. Non
più sarebbero state adorate le spoglie esposte degli eroi nelle Vanas all’ingresso dei templi. Sarebbero state depredate e
devastate le sacre cambras degli
austeri nuraki. Non più avrebbe bruciato l’incenso sulle cortine oracolari a
tre piedi.
La Dea Madre non avrebbe più avuto un popolo
prediletto sulla terra del Sole.
Poi, rispettoso del turno, Lauchme aveva ceduto la
parola.
Lani e Calpys avevano parlato con toni meno aspri e aggressivi di Aczun, ma anch’essi non sembravano
del tutto convinti del fatto che l’urgenza fosse sufficiente giustificazione
per l’omissione di Lauchme.
Aczun ebbe quindi buon gioco nel rilevare come
Lygmon aveva viaggiato, incontrato pericoli, affrontato altre genti, preso
autonome decisioni, di fatto offendendoli tutti... Ma - di più - Lygmon aveva
anche abbandonato la Novena senza permesso, e ciò costituiva il tradimento del
suo stesso ruolo e dei suoi doveri di fronte a se stesso, a loro, alla
Tradizione, agli Dei. Non vi era dunque più alcunché di rispettabile, di sacro?
Doveva essere lui, Aczun, un umile ex stalliere a ricordarlo al Grande
Sacerdote di Tal Ur?
Altri del consiglio la pensavano più o meno così,
pur esprimendosi in modi più sfumati ed indecisi.
La Tradizione era il bene più prezioso, da sempre,
in quella terra. Per non avere rispettato la Tradizione gli Hyksos loro padri
erano stati scacciati dalla terra bruna e profonda del Grande Delta. Vi avevano con fatica fondato Rsht, la
grande capitale Larissa, che ora purtroppo si chiamava Avaris ed era un luogo
straniero.
A quel punto Lauchme, allarmato, si era sollevato in
tutta la propria statura, mettendo in evidenza tutti i simboli del comando
religioso e con voce ferma aveva loro ricordato come il suo primo motivo fosse
sempre stato il benessere e la salvezza del popolo di Tal-Ur e della Vera
Gente.
Aveva ricordato loro come già in passato, non sempre
essi avessero subito compreso le sue parole ed i suoi intendimenti. E ciò era
dovuto al fatto che quei sacri simboli e quelle insegne non erano certo le
fibule ornate e preziose di un mantello, né i bracciali o i gingilli di una
donnetta vana, né di un giocoliere da spettacolo: erano invece i segni sacri
del comando e della guida, che egli sempre aveva correttamente e dignitosamente
portato per un buon fine, grazie ad Ennin, proprio come intendeva fare tuttora
e continuare e fare in futuro...
Efix finalmente intervenne, quando fu il suo turno,
a portare come sempre il proprio sereno giudizio. Egli ricordò innanzi tutto
come ben tre di quei sette chiodi piantati - mostranti la loro testa dorata -
fossero dovuti a Lygmon e come ciò fosse già di per sé un argomento molto importante
circa il suo rispetto della storia e della tradizione. Quasi metà di quel
piccolo cielo stellato di bulluncva era
stato acceso dal Gran Sacerdote.
E di chi stavano mai parlando, dunque?
Con vari nomi e vari attributi egli era conosciuto
in ogni più remota regione come il Galerito Lygmon, il grande Lauchme, l’ultimo
dei Rasenna rimasto indietro, il Guaritore, il Grande Sacerdote del Massimo
Circolo di Tal-Ur, Colui che porta la luce e che guarisce, il Padre della
nostra Gente.
E molti altri buoni nomi erano stati coniati per
lui, nei più diversi accenti. Egli era conosciuto ed amato e rispettato su
tutta la terra del Sole e di certo molto temuto ormai oltre i suoi confini.
Proseguì Efix: “Forse alcuni tra noi non ricordano
più il tempo - lontano ormai - in cui egli giunse tra noi. E siccome é una
favola bella da dire, quanto da ascoltare, io voglio ripeterla per noi tutti
che oggi ne abbiamo così tanto bisogno...
Un mattino si sparse la voce che una nave -
un’autentica nave, come da molte stagioni ormai più non si vedeva - aveva silenziosamente
risalito il fiume ed aveva preso terra presso il luogo ove adesso, splendido,
sorge Mago Twrshna. Infatti furono visti nella bruma e nei vapori i marinai che
gettavano sulle sabbie calde della riva le grosse pietre bucate per ancorarvi
più saldamente il vascello. In molti vollero andare a vedere, non tanto perché
fossero poco avvezzi alle navi, quanto perché, tra gli uomini sbarcati in pace
era presente lui, che gli altri del vascello chiamavano rispettosamente
Lygmon. Già calzava - io lo ricordo bene - sandali ai piedi e portava spille
per fermare gli abiti sul corpo. Già indossava il Galero appuntito. E chiara si
vedeva intorno a lui un’aura di luce e di pace. Io ero lì, io posso dirlo.
Era giovane, come noi nella bella stagione della vita, ma già esperto in tutte
le sue arti. Fu incuriosito da quelle acque ribollenti presso il grande fiume,
come da tutta la nostra terra bella di cui egli si innamorò - nelle sue stesse
parole - come di una donna misteriosa ed affascinante.
Vi ricordate - fratelli - quanto fossero numerose allora
le dispute non sopite tra il nostro popolo - appena trasferitosi qui - e le
popolazioni che prima di noi, da sempre, abitavano questa località? O non é
vero? Essi da tempo vi avevano edificato un grande e maestoso tempio che é
Tal-Ur. E non vi ricordate come Lygmon seppe serenamente imporsi su tutti,
sanando i dissidi, sedando le rivalità, risolvendo i giudizi, unendoci tutti
insieme col rito dell’acqua che cura e che guarisce?
Egli stabilì l’obbligo dell’Ordalia, secondo cui chi dei due
contendenti ha torto - spruzzato o immerso nell’acqua fumante - soffre prima
orribilmente e perde poi magicamente la vista anche per sempre, a seconda della
gravità della propria colpa. Chi invece a torto era stato in precedenza
incolpato e aveva sopportato la diffamazione, non solo non avrebbe avuto a soffrire
dell’abluzione con l’acqua sacra, ma anzi ne avrebbe tratto grande giovamento:
le sue membra prendono a muoversi meglio e più lontano vedono i suoi occhi.
Tutto questo noi ben sappiamo e non dobbiamo
dimenticare, perché proprio dal nome di Hypsa - che da lui ebbe la fonte sacra di acqua calda - noi deriviamo
il nostro nome ed oggi ci chiamiamo Hypsitani e ne siamo fieri.
Certo é che dopo il suo arrivo ci fu la pace
finalmente, tra noi. Fu per magia?
Subito calarono i furti e le vendette. Se fu magia,
fu la sua magia.
Ed i colpevoli preferirono sempre comunque
confessare, piuttosto che doversi sottoporre al terribile giuramento
dell’acqua.
Questo fu solo il primo grande dono di Lygmon. Ma ne
seguirono altri. E’ per ciò che molti già lo chiamano il Padre della nostra
Gente.
Fu proprio lui a stabilire l’obbligo rigoroso
dell’aiuto reciproco nei lavori dei campi, della vigna, del bosco.
Fu lui a legare profondamente insieme tutti i più
diversi elementi del nostro popolo col giuramento di ricostituire il gregge o
la mandria di chi l’ha persa per epidemia o per vecchiaia. Ogni pastore dia
uno o due capi, che il beneficiato s’impegna a restituire, quando potrà.
Quanta pazienza, quanto insegnamento, quante buone
nuove idee, che tutte ci mancavano!
Come noi oggi le insegnamo ai nostri bambini, così
egli allora le insegnò a noi.
Egli, con parole semplici, ha spiegato ad ognuno
che noi tutti diventiamo - vincolati insieme - come una collana fatta di legno,
conchiglie e pietra. Nell’acqua agitata il legno terrà a galla le pietre,
queste ultime garantiranno resistenza contro i venti di rapina e le conchiglie
accenderanno i cuori d’orgoglio e risveglieranno il desiderio negli sguardi dei
compratori. ‘Ad ognuno il suo ruolo, ma tutti insieme’ amava dire”.
Tal-Ur - volle proseguire Efix - era diventata
grande e prosperosa sotto la guida di Lauchme e grazie a lui: dal primo
grande mercato sul fiume essi non avevano più conosciuto le durezze della
carestia, né il morso del freddo, né l’assillo dell’epidemia, né la guerra.
Ecco, per questo - certo - per scacciare quest’ultimo
nuovo demone, Lauchme aveva trasgredito la Tradizione: egli aveva visto più
lontano e più chiaro ed aveva dato inizio all’azione prima ancora di consultare
il Consiglio, ma non per escluderlo - tutt’altro - bensì per precederlo,
aprirgli la strada, e assumere su di sé il maggior peso dell’opera come
sempre.
Un ringraziamento, gli era dovuto, da parte di
tutti - e non certo un giudizio negativo da parte di pochi.
Ed invece di perdere inutilmente il tempo prezioso
con malposto biasimo e sterili risentimenti, era ora piuttosto di decidere
sugli argomenti pressanti che egli aveva doverosamente esposto loro, e che
richiedevano nuove rapide decisioni.
Ogni loro indugio - nel fare ciò - rappresentava una
grave perdita di tempo vitale e maggiormente giustificava la precedente scelta
di Lauchme nel non avvertirli. Urgenza non attende esitazione.
L’atto stesso, anzi il solo pensiero di volerlo
incolpare, di fatto già gli dava ragione, discolpandolo del tutto.
Si doveva, insomma, affrontare il tema della guerra
imminente. La morte, dopo avere spiato vogliosa verso i loro figli dalle
finestre, ora bussava impaziente alle porte delle loro case...
Malgrado la generosa arringa in sua difesa, Lauchme
aveva dovuto uscire dalla Curia e attendere nella propria capanna il verdetto
che gliene sarebbe venuto. Questo
era secondo il rituale della Tradizione, ma non gli parve egualmente un buon segno.
Ed ora era proprio lì, trepidante, nella sua modesta
capanna, tra i poveri oggetti di corteccia di quercia, qualche coccio di grana
grossa ed il suo succo di mirto, dal forte sapore profumato di resina e di
rimpianto.
Proprio da lì - ricordò - in principio aveva
faticosamente concepito il suo laborioso e ardito piano; proprio da lì era
baldanzosamente cominciata tutta questa storia, giunta adesso ad una strana ed
incresciosa svolta imprevista e maligna.
Questa poteva comprometterne il buon esito finale,
in cui tanto aveva sperato. Pensava, Lauchme, a ciò che era accaduto, a come
gli eventi sembravano concatenarsi ed inseguirsi come greggi di nuvole del
vasto cielo, indipendentemente da ogni terrena volontà.
Pensava che certamente avrebbe compiuto gli stessi gesti, ripetuto le stesse parole e preso le stesse decisioni, se anche avesse potuto vivere ancora attraverso la sua recente avventura. Non riusciva a trovare errori nel proprio operato: eppure, comprendeva la mortificazione dei suoi compagni del Consiglio degli anziani. I pensieri e le immagini gli si affollavano nella mente. Egli avrebbe dovuto essere sereno e non lo era. Se la buona coscienza è un cuscino soffice, da dove gli veniva quello scomodo sconforto? I mulini degli dei son tardi, ma sicuri. Perché allora egli trepidava come un fanciullo? Quando ancora cantilenava le insensate filastrocche degli astragali: “Non fare tutto ciò che puoi, non spender tutto ciò che hai, non creder tutto ciò che odi, non dire tutto ciò che sai”...
E venne ad interrompere i suoi pensieri, silenziosa,
Lèkere. Il bel volto tirato mostrava la sua preoccupazione.
Dopo una breve esitazione: “Partiranno, Lauchme -
gli disse lei - se tu lo chiedi. Non ho
parlato con nessuno, ed essi non sanno ancora nulla, ma so che partiranno. Gli uomini forse non saranno così numerosi, come
sarebbero con il consenso degli anziani, ma saranno ugualmente un buon numero:
chiedilo, Lauchme, ed essi partiranno armati per Orwa”.
Il Grande Sacerdote parve allora stanco e
infastidito, ma queste espressioni furono subito cancellate dal consueto guizzo
vivace dei suoi occhi, mentre già rispondeva: “No, Asu, non deve accadere
questo. Per nessuna ragione devono dividersi. Io li ho riuniti e li ho sempre voluti insieme. Io li ho fatti come
essi sono adesso. E sono bellissimi ed orgogliosi e onesti. Se partiranno, essi
devono partire numerosi e compatti. E - soprattutto - nel loro cuore deve
essere il conforto di difendere la Terra del Sole unita, per volere degli Dei
e attraverso il consenso armonioso del Consiglio e del Grande Sacerdote.
Forte deve essere l’orgoglio di appartenere ad una sola gente. Solo così i
curiti troveranno sicuri il bersaglio.
Non il minimo dubbio!
Oppure i nostri ragazzi presto parleranno la lingua
di Qart-Hadasht, le nostre donne danzeranno balli lascivi con il ventre
scoperto, per un piacere straniero. E i nostri figli primogeniti saranno
sacrificati nel fuoco”.
Asu Lèkere allora fu scossa da un impercettibile
brivido e socchiuse i begli occhi felini su quelle immagini orribili. Chiese
quindi a Lauchme, con tono suadente di conforto, di raccontarle cosa fosse accaduto
nel chiuso della Curia, ove nessuna donna - neppure la Bithia - era ammessa.
Negli occhi le brillava un nuovo fuoco, freddo,
inquietante, inarrestabile.
Un riluttante Lauchme, in breve, le spiegò dell’indecisione dei più, che non
comprendevano pienamente gli eventi e ne erano confusi. Le disse dell’astio
ottuso del vecchio Aczun, che aveva colto di sorpresa anche lui. Raccontò del
generoso e saggio intervento di Efix, che però da solo non sembrava potere
bastare a decidere gli equilibri.
La Tradizione non poteva essere impunemente offesa.
Gli occhi di Lèkere erano due sottili fessure
adesso, eppure mandavano lampi, mentre, inginocchiata a fianco del suo sacerdote
gli posava il capo sul grembo. All’improvviso, con una voce ruvida, ella
chiese: “Perché Aczun, un servo di stalla,
una volta che sia diventato vecchio,
può decidere la sorte di un popolo? Perché un uomo che mediocremente é stato
utile alle bestie soltanto, nella sua vita, acquista poi il potere di
diventare così esiziale ai suoi simili, senza che questi si ribellino? Lauchme,
mio sposo, perché lasciano che egli - per invidia, io lo so - ti faccia questo?”.
Non rispose subito, Lauchme, cercando di
dissimulare il disappunto. Un anziano asinaio aveva il potere di
ridicolizzarlo nella Curia... Le accarezzava
i lunghi capelli neri con un gesto lento e delicato. Egli l’amava, perché lei
era misteriosa, affascinante e bella come quella terra che fin da giovane lo
aveva irretito e voluto.
Ambedue gli offrivano sempre nuovi ineffabili
regali, legandolo con le inossidabili catene della più genuina semplicità. Infine:
“E’ la nostra legge” - le disse, in tono esitante - “la nostra Tradizione vuole
così, Asu: gli anziani hanno lunghe stagioni di esperienza nei loro occhi e
poche passioni, ormai, residue nei cuori a sbilanciarne il giudizio”.
Poi, pensando proprio ad Aczun, aggiunse: “O almeno,
così dovrebbe essere. Ennin certo non permetterà che dal Curonio Sacro esca un
giudizio ingiusto per me e dannoso per la Sua gente prediletta”.
Ma il tono di Lauchme aveva una nota incrinata di
scarsa convinzione.
E gli occhi e il volto di Asu Lèkere tradivano
adesso una nuova e diversa determinazione, come le parole del Grande Sacerdote
suo sposo tradivano la sfiducia.
Asu, quindi, sollevò il capo e guardò Lauchme fisso
negli occhi: “Si, Grande Sacerdote: Ennin non può permettere un giudizio
nefasto. Io ti dico che ne sono certa, molto di più di quanto lo sia tu
stesso... Perché ne sono lo strumento più sottile”
E nel dire ciò, repentinamente si levò in piedi per
uscire, ogni muscolo del suo corpo contratto.
Lauchme, improvvisamente allarmato, cercò di
prenderle un braccio, poi di dire qualcosa per trattenerla, ma la voce stranamente
strozzata di Lèkere gli giunse già dalla soglia della capanna: “Non puoi fermarmi
adesso - mio sposo - né tu, né nessuno. La falce affilata della luna non lo permette, né lo
vuole: é affamata di sacrificio”.
E i suoi occhi, i suoi begli occhi erano appuntiti,
come due pietre di sale.
Quella frase e quell’espressione lasciarono Lauchme
sgomento e solo nella sua capanna, con le sue insegne sacre che - ora sì,
davvero - gli sembravano inutili orpelli di una donnicciola vana.
Il destino ancora aveva preso a correre da solo e
libero come una bestia selvaggia, avvezzo a travolgere ogni volontà umana al
proprio passaggio...
Asu era uscita, leggera e sicura, dalla capanna del
Gran Sacerdote. Si era diretta verso il Recinto Sacro, perché così meno persone
la avrebbero notata e più naturale sarebbe stato il suo percorso nella sera. La
Curia si trovava dall’altra parte del villaggio. Asu scavalcò furente il
muretto sacro e fu subito nello spiazzo. Quindi si diresse velocemente verso il
portale sud, passando noncurante fra le due pietre infitte, levigate e
scolpite, ancora recanti qualche abituale offerta di devoti. Quindi Lèkere si
ricompose, ed uscì con studiata naturalezza dal portale sud del recinto sacro,
incamminandosi pigramente, come d’abitudine, verso il pozzo sacro, che stava
proprio di fronte alla Curia.
Ma un fuoco travolgente le bruciava dentro, che di
fuori non s’indovinava.
Salutò con quotidiano ritegno coloro che incontrò
lungo la strada, tenendo bassi gli occhi, e infine - giunta al pozzo sacro -
vi entrò. Scese rapidamente i pochi gradini della scalinata stretta e dritta e
andò a specchiarsi nell’acqua immobile, cercandovi la familiare falce della
Luna, placidamente iscritta nel riflesso della soprastante bocca circolare
del pozzo, alla sommità della cupola.
Quindi, pronunciò a se stessa e alla falce lunare
alcune antichissime parole che solo una Bithia conosce, con una voce che non
era la sua...
“...s’arza, sa pinta, sa solifuga, s’abiolu,
s’iscopone numqua nde ida
Luna illos malaigat
chin tottu sas puppias
malas,
chin tottu sas umbras
de sa cussorza...”
Ritornò sui suoi passi, uscì dal pozzo sacro e si
diresse come per caso - ma questa volta badando bene che nessuno fosse lì
intorno a vederla - verso il lato esterno della Curia. Raggiunse il punto
preciso che corrispondeva al grosso trave di ginepro dalle borchie dorate e
allora i suoi gesti si fecero più simili a quelli di un ragno. Agilissima e silenziosa si arrampicò leggera sul
muro di pietra, fino a giungere col capo all’altezza del tetto conico di
tronchi di ginepro.
Lame sottili di luce delle lanterne e del fuoco
sfuggivano, qua e là, tra i rami del tetto.
Asu Lèkere vi posò sopra il viso, in modo che i due
occhi coincidessero con due larghe fessure illuminate: in quel momento il suo
sguardo era terribile, minaccioso, insostenibile.
Poche altre volte aveva assunto quell’aspetto
orrido e mai nessuno aveva potuto prima vederlo e poi raccontarne il raccapriccio:
era, quello, il più grande e terribile potere di una Bithia...
Dall’interno della capanna proveniva intanto un
monologo gracchiante nella voce sgradevole e tronfia di Aczun, in veste di accusatore.
Il corpo di Asu si irrigidì, premendo forte sul
tetto di ginepro, facendolo scricchiolare, come per voler passare attraverso di esso.
Aczun si interruppe un attimo, fermandosi a
riflettere su come dire con migliore effetto qualche nuova malevolenza
sull’odiato Lygmon. All’interno della Curia, l’auditorio dei vecchi saggi
sedeva ammutolito, gli occhi bassi, soggiogato da quella volontà punitrice, segretamente corrotta e pagata con denaro straniero.
Aczun sentiva di avere ormai raggiunto il proprio scopo: avrebbe avuto il
premio promesso e sarebbe stato il padrone di Othoca! “Sette cose pensa l’asino
ed otto l’asinaio” - Gongolava tra sé, soddisfatto.
Uno scricchiolio, proveniente dal tetto, attirò in
alto lo sguardo protervo di Aczun e fu allora, proprio allora che il filo di ragnatela sottile cui era legata la
sua vita venne reciso.
Senza gioia le Moire compivano il loro eterno dovere: una
reggeva il fuso della vita, una ne filava un sottile, esile filo e la terza,
con indifferenza, tagliava il filato con cesoie infallibili, quando era giunto il
momento.
E pronunciare il loro nome è peccato.
E pronunciare il loro nome è peccato.
Aczun cadde di schianto, la bocca semiaperta e
distorta, gli occhi stralunati, il corpo abbandonato, riverso al centro della capanna,
sopra il fuoco acceso, che subito sprizzò intorno nugoli di faville sfrigolanti
e indispettite. Gli altri anziani cercarono di portargli subito aiuto, lo
allontanarono dal fuoco che già gli bruciava le carni, ma contemporaneamente si
accorsero che nulla più era rimasto da salvare - se mai v’era stato...
Intanto il destino silenzioso già si allontanava -
figuretta snella e leggera, non vista - tra le capanne del villaggio, all’ombra
del sorriso osceno delle Parche Vittoriose.
La sua veste era bianca come il fiore del mirto ed
il mantello era scuro come il suo frutto, il viso ovale e pallido ormai più sereno,
nel cuore un urlo selvaggio di strega. Ma gli occhi, quegli occhi, non erano
umani.
Lèkere corse per l’ultimo tratto che la separava
dalla sua capanna. Corse via da sè stessa coi suoi piedi leggeri, annusando
farsi più forte il familiare profumo dei suoi cespugli di mirto. Lì stava la
sola salvezza, lì stava la quiete. Cadde stremata sul proprio giaciglio, gli
occhi ancora arrovesciati all’indietro, ansimante, sconvolta - e subito avvertì
una presenza, vicino a sé.