domenica 30 settembre 2012

Succu Busachesu


Su succu





Su succu” è una minestra di tagliolini, conosciuta e diffusa in 
molte parti della Sardegna, (con alcune varianti). Lo zafferano 
sardo è ciò che più caratterizza il piatto e lo porta ad elevati livelli
gastronomici. Rinomato e famoso è quello di Busachi (provincia di
Oristano), paese in cui a “su succu” è anche dedicata una sagra (il
 5 di Settembre, data da non perdere!).

Ingredienti necessari:

- tagliolini ottenuti dalla lavorazione a mano di 500 g di semola di
 grano duro impastata con un uovo, un pizzico di sale e acqua q.b.
- un chilogrammo di carne mista (agnellone o pecora, manzo e 
gallina)
- almeno 30 fili di zafferano polverizzato sul momento
- 300 g di formaggio pecorino fresco, acido, fermentato almeno
 due giorni a temperatura ambiente
- 4 cucchiai di pecorino stagionato e parmigiano grattugiati
- alcuni cucchiai di sugo di pomodoro
- sale q.b. per il brodo

Preparazione:

Preparare il brodo con le carni indicate.
Sciogliere lo zafferano in pochissimo brodo (circa 3 cucchiai).
Portare il restante brodo, colato, ad ebollizione in un recipiente
largo, possibilmente di coccio.
Aggiungere lo zafferano dosandolo con un cucchiaino (in modo
da non eccedere) sino ad ottenere una colorazione intensa.
Aggiungere circa 150 g di formaggio fresco acido sminuzzato (si
può schiacciare in un piatto con una forchetta) e due cucchiai di
formaggio stagionato.
Riportare il brodo a forte ebollizione, aggiungere 100 g di
tagliolini secchi e spegnere dopo un minuto.
Ricoprire con formaggio fresco tagliato a fette e una spolverata 
di formaggio secco.
Decorare col rimanente zafferano sciolto nel brodo e un po’ di 
sugo.
Servire ben caldo.
 

Scoprirai che – come succede con quasi tutte le cose sarde – non
è solamente ciò che sembra all’inizio, bensì molto, molto di più…

sabato 29 settembre 2012

Sardi = Etruschi ?

Nell'Internet,
si trova spesso, perché ripetuta acriticamente e più di una volta, una frase estrapolata da Festo, autore latino del II d.C., che proverebbe, stando a chi la cita, un'origine nuragica degli Etruschi.
(a chi farebbe piacere, un’origine nuragica degli etruschi? Lasciamolo tra parentesi, per carità cristiana)
La frase in questione, o meglio la parte di frase, recita: "Reges soliti sunt esse Etruscorum, qui Sardi appellantur". Il significato della frase, così come si trova tradotta in alcuni siti, è: "I re sono soliti essere tra gli Etruschi, che vengono chiamati Sardi".
Dunque la frase sopra riportata dimostrerebbe (per coloro che sono tra parentesi e per i loro apparentati) che nell'antichità si sapeva, o si credeva di sapere, che gli Etruschi avessero origini sarde, (cioè proprio nuragiche, per coloro in parentesi).
In realtà, analizzando per bene la frase, vedremo subito come tale ipotesi sia soltanto frutto di ignoranza (sia del latino, sia del greco antico), oltre che un pretesto surrettizio (bel vocabolo, questo,no?!) per sviluppare una tesi successiva, favolistica, gradita alla platea incolta, ma assolutamente inconsistente e falsa come una moneta d’argento da un euro e mezzo.

Inanzitutto la frase in questione è estratta da sola ed isolata dal suo intero contesto: infatti, la parte superiore precedente del passo di Festo, si riferisce ad un rito che veniva praticato dai Romani durante i Ludi Capitolini. In esso figurava un senex cum toga praetexta bullave aurea :cioè vi era "un vecchio con la toga pretesta ed una bulla d'oro". Il passo continua poi recitando: quo cultu reges soliti sunt esse Etruscorum ecc., che significa: "il quale abbigliamento (cioè la toga e la bulla) sono soliti portare i re degli Etruschi".
Quindi la frase si riferisce ad un abbigliamento, usato durante i Ludi Capitolini, che viene identificato come quello proprio dei re Etruschi. La notazione è importante, perché ne parla anche un'altra fonte, Plutarco, il quale nelle sue Questioni Romane (Aetia Romana, 53) si interroga sul perché durante i Ludi Capitolini si gridasse la frase “Sardi Venales” (Sardi in vendita) e si facesse avanzare un vecchio con una bulla al collo (che per i romani era il simbolo dell'età infantile e indossato da un vecchio era motivo di scherno: sarebbe come per noi oggi un vecchio con un poppatoio). La spiegazione di Plutarco, chiarisce la faccenda: infatti l'usanza si riferisce al fatto che ai tempi di Romolo i Veienti fecero guerra a Roma, ma vennero sconfitti e venduti come prigionieri.
Ora, Plutarco spiega molto bene la questione, dicendo: επει δε Λυδοι μεν ησαν οι Τυρρηνοι εξ αρχης, Λυδων δε μητροπολις αι Σαρδεισ, ουτω τους Ουηιους απεκηρυττον, frase che significa: siccome i Tirreni erano all'inizio dei Lidi e Sardi è la capitale della Lidia, essi (cioè i Romani dell'età di Romolo, che hanno sconfitto Veio) hanno venduto i Veienti gridando in quel modo (cioè “Sardi in vendita”).
La medesima spiegazione la ripete, sempre Plutarco, anche nella biografia di Romolo delle sue Vite Parallele (Romolo, 25,6-7). E' da notare che in entrambi i casi Plutarco per dire "Sardi in vendita" usa l'espressione Σαρδιανουσ ωνιους. Ebbene, basta sfogliare qualsiasi dizionario di greco (ad es. il Rocci) e si vede subito che Σαρδιανοι viene da Σαρδεισ città della Lidia e dunque si riferisce agli abitanti di quella città. Invece per indicare i Sardi della Sardegna in greco antico, il vocabolario riporta la dicitura Σαρδοι ben diversa dunque dall'altro lemma.
Ho parlato anche di ignoranza del latino, perché? Perché qualche sostenitore della tesi [Etruschi = Sardi], a conferma di questa identità riporta un altro pezzetto della famosa frase di Festo: Reges soliti sunt esse Etruscorum, quia Etrusca gens orta est Sardibus. Con tale aggiunta, secondo questi, Festo sancirebbe definitivamente l'equivalenza di cui sopra. In realtà, anche qui basta un semplice vocabolario di latino, per vedere come il sostantivo in questione si riferisca alla città di Sardi e non ai Sardi della Sardegna, in quanto Sardibus è un sostantivo della terza declinazione (come evidenzia la desinenza "ibus"), mentre il popolo dei Sardi, in latino, viene indicato con un sostantivo di seconda declinazione, Sardi, orum.

C'è però una finezza aggiuntiva, che denota anche una certa malafede nel riportare la seconda parte della frase di Festo, vale a dire l'aver omesso le ultime due parole di essa; infatti la frase intera recita: Reges soliti sunt esse Etruscorum, quia Etrusca gens orta est Sardibus, ex Lydia (vedere qui per il pezzo nella sua interezza e traduzione: http://books.google.co.uk/books?id=aVZJAAA...q=sardi&f=false).
Dunque anche per Festo gli Etruschi erano originari della Lidia, una tesi che risale ad Erodoto, ma che ha trovato conferme nell'analisi del DNA di una popolazione di bovini della Toscana (la razza chianina), che mostrano molte affinità con bovini del Medio Oriente, mentre invece oppongono molte differenze a quelli Italiani ed Europei. La Genetica, in più, nega che vi sia affinità tra Sardi ed Etruschi.
E la città di Sardi, all'epoca dei fatti, si chiamava Spardi (Saparda o Sparda) (*): l'etimologia è quindi più affine a quella della città di Sparta, che con qualsiasi cosa che riguarda la Sardegna.
 Nessuna origine degli Etruschi dalla civiltà Nuragica, quindi.

(*) La lettera Etrusco-Lidia che simbolizziamo con '8' e che si rende con un suono tra la nostra 'p' e la 'f' era originariamente una 'w'. Nel bronzo Tardo la parola era pronunciata 'Suard' ed il significato (derivantegli dall'origine Egizia 'Sp3t', era: 'città del distretto', o semplicemente 'distretto'). Nel secondo millennio, la sonorità della finale era annullata, per cui non c'è differenza tra 't' e 'd'. 

mercoledì 19 settembre 2012

La Verità.

Esistono davvero, Pasuco!
 Sono “persone che sanno”…
         È meraviglioso, a pensarci bene: non hanno un titolo relativo all’argomento, anzi, spesso non possiedono proprio alcun titolo e per lo più sono scrittori autodidatti (quasi dialettali, si direbbe!), sostengono teorie che definire oltraggiose è un eufemismo. Eppure vendono libri e si sostengono reciprocamente con ardore commovente.
Essi conoscono la Verità, con la “V” maiuscola e – per fortuna – ce ne mettono a parte: come faremmo noi, ciechi, senza di loro?
Essi conoscono le antiche popolazioni (tutte!) Shardana (sanno che si scriveva proprio così, non come si fa per convenzione internazionale – Sherden e ne conoscono vita, morte, miracoli e misure antropometriche), Etruschi , Nuragici … Hau Nebout (ma chi accidenti erano costoro?), Fenici, Egizi, e Veliterni. Conoscono in dettaglio il loro menù quotidiano, gli usi ed i costumi, le tradizioni in dettaglio. Sanno che scrivevano e come scrivevano, persino! Anche nel periodo del Bronzo Antico, facevano i carciofi sulla “matticella”.
Conoscono la Storia, perbacco: non la distorcerebbero mai ai loro fini politici ed identitari, oppure anche solo pecuniari. Amano la Verità e la rispettano profondamente: la verità – si sa – è nuda. Mi domando perché essi si diano tanto daffare a rivestirla, quindi. Perché tanto disturbo?
Che ne puoi sapere tu, comune mortale che t’informi da te, che leggi tantissimo, che cerchi con cura la bibliografia più attendibile e recente,  che rincorri pedissequamente il risultato scientifico più ineluttabile ed universalmente riconosciuto? Che cosa credi di fare? Neghi l'esistenza di Atlantide, povero stupido?
Essi sanno e tanto basta: possono usare il proprio sarcasmo di esseri superiori verso i “cosiddetti” scienziati, che sono – serve davvero dirlo? Non sei davvero informato? – tutti biecamente raccomandati e profondamente ignoranti. Quindi, per forza di cose, anche reazionari ed oscurantisti. E per tali loro numerose ed inique manchevolezze nascondono perfidamente la Verità con la “V” maiuscola a tutti  noi (con la “n” minuscola). Almeno, anzi, cercano di farlo, poverini, ma non ci riescono, perché – per  Fortuna! – ci sono loro, cioè coloro che sanno!
Chi sono?
Ma andiamo! sono un'allegra masnada di pervicaci combattenti: sono gli ultimi fieri discendenti di quei guerrieri dell'Anglona che ebbi a descrivere poch'anzi!
Non dirmi, Pasuco, che non li conosci!

sabato 15 settembre 2012

What's in a name

ORIGINE  DEL  COGNOME   “FEO”.

1.         L’ipotesi più accreditata è quella della derivazione da un originale gentilizio teoforo “Matteo” (e vari altri simili), attraverso l’intermedio “Maffeo”, infine abbreviato in “Feo”.  Matteo deriva dal nome biblico Matithyah, composto da matath, “dono” e Yah, abbreviazione di Yahweh, Dio. Pertanto, Matteo – termine d’origine ebraica –  significa “dono di Dio”. Matteo è il nome dell’apostolo, evangelista e martire che abbandonò il proprio lavoro di gabelliere a Cafarnao ed i propri beni, per seguire Gesù, scrivendo in aramaico il primo Vangelo dodici anni dopo la Sua morte.
So che la trasformazione fonetica e grafica dei nomi di famiglia può talvolta sottostare a strane regole. Mi consta, per esempio, che – in assenza di  discendenza maschile e per potere trasmettere titolo e proprietà  per via femminile – in almeno un caso, a Brescia, dove esiste ancora il palazzotto di famiglia con i segni dei bombardamenti austriaci dopo le “giornate di Brescia, il nome è diventato Fe’ (che tutto sembrerebbe, meno che un ramo cadetto dei Feo, come – probabilmente –  avviene dei Di Feo, De Feo, Feodi, Feode e Fei). Non è quindi da escludere che l’originario gentilizio differisca anche di molto dall’attuale Feo ed il teoforico Matteo mi sembra discretamente credibile e abbastanza dignitoso, in fondo, come nome di origine.
Esistono peraltro differenti possibilità – in rapporto con termini prestati da altre lingue e culture –  alcune confortate da assonanze oppure coincidenze precise con il nome stesso, come si vedrà.

2.         Il termine “feo” in Spagnolo significa “brutto” (e per esteso, familiarmente, “sgarbato”, “cattivo”), come è confermato dal significato che questo vocabolo ha conservato nei dialetti italiani in cui esiste tuttora una stratificazione spagnola (in particolare nel Sardo “feu”, di derivazione castigliana, ma anche in tutto il Sud dell’Italia).
Ho sempre considerato improbabile – ma non impossibile – la derivazione del nome di famiglia dall’attributo spagnolo. In forma scherzosa dirò che, per quanto i Feo che ho avuto modo di conoscere non fossero eccezionalmente belli, essi oggi non sono in genere di aspetto affatto sgradevole. Comunque sia, non ne ho mai rinvenuti di particolarmente brutti, tanto da giustificare l’attribuzione di un soprannome così infelice come l’aggettivo spagnolo.
Credo, soprattutto, che i soprannomi si subiscono forzatamente. Però, affinché essi possano divenire un cognome, e cioè un distintivo personale trasmissibile ai discendenti, è necessario che tali soprannomi siano accettati ed apprezzati dai diretti interessati. Non mi sembra certo questo il caso dell’aggettivo “Brutto”.  Ma, per quanto poco gradito – come attributo determinante di un patronimico – questo poco nobile aggettivo potrebbe anche essere all’origine del ramo italiano dei Feo, vediamo come:
·    Etimologicamente, il termine spagnolo deriva dal latino “foedus”, con significato di “vergognoso, ripugnante, brutto” . Si presenta in diverse forme, nei vari paesi di lingua spagnola e nelle varie epoche:  fedus, feo, hedo; esiste anche nel portoghese, come, feio e feo.
Sono degni di nota l’incrocio di “feo” con “fealdad”, che deriva dal latino “fidelitatem”, oltre all’influenza che il vocabolo ha giocato su altri vocaboli quali: feote, feotòn, feuco, feucho.
·    In Portogallo, Feo costituisce uno dei più antichi nomi familiari del paese, originariamente scritto Feio. I genealogisti Lusitani concordano nel far risalire tutti i Feio al lignaggio di don Gil Anes de Ataide, che fu padre di don Martin Gil. Questi fu soprannominato “Feio” perché non era molto aggraziato per natura: anzi, non lo era per niente. Per quanto è dato sapere inizialmente si trasferì alle isole Canarie, in una specie d’esilio volontario con la propria corte e quando si stabilì in Spagna, negli ultimi anni della propria vita (probabilmente perché ormai bisognoso di cure mediche) aveva già cambiato il proprio nome  in “Feo”.
Gli appartenenti alla linea spagnola dimostrarono numerose volte la propria nobiltà con l’ingresso nei diversi ordini militari, ai livelli più alti.
Si rinvengono – nell’Araldica – differenti stemmi nobiliari spagnoli dei Feo: alcuni mostrano colori rossi e bianchi, altri argento e blu.










Lo stemma nobiliare in Italia (vedi) consistette in uno scudo di foggia sannitica, con tre bande rosse su campo d’argento. Era sormontato da un elmo di profilo, con visiera alzata e cimiero multicolore, il tutto ornato con fregi in tinta e foglie verdi trilobate.


Altri rami della famiglia possiedono stemmi differenti.




3.         Il Greco interviene curiosamente con il vocabolo Faios, che significa “bruno, di colore scuro” e che in italiano diventa – appunto – Feo, costituendo il suffisso di numerosi vocaboli scientifici. Infatti, in termini quali: feoficee, feòdio, feofilla, feocromocitoma, feoretina, feofitina, il prefisso indica la presenza di pigmenti bruni oppure variamente colorati ma pur sempre di tonalità scura.
Il vocabolo greco è etimologicamente molto più antico di quello spagnolo, ma la priorità temporale non gli conferisce necessariamente maggiore autorità nel caso specifico, perché esso è stato utilizzato soltanto in tempi recenti ed in genere solo per comporre vocaboli scientifici, il che lo escluderebbe dalla nostra ricerca.
Non stupirebbe, comunque, che un gruppo familiare possa essere definito dal colore scuro della pelle, oppure dei capelli, ma che ciò sia realmente avvenuto anche in questo caso non è provato.
Alcuni tra i Feo, per la verità, avevano una carnagione scura e capelli corvini, caratteri che – insieme al viso ovale ed al taglio un poco a mandorla degli occhi – sono sempre stati considerati piuttosto caratteristici della famiglia, anche se oggi vanno lentamente perdendosi, nelle nuove generazioni, incrociatesi con lignaggi nordici, molto più pallidi e più biondi.

4.         Anche il prefisso greco Theo-  diviene spesso Feo- , come si nota in numerosi antroponimi introdotti dalla Grecia nella Russia ortodossa, contestualmente alla religione e all’alfabeto (Theodosia/Feodosia, Theodor/Feodor). Questa trasformazione fonetica si identifica – in realtà – con quella della prima ipotesi Matteo/Maffeo ed eventualmente ulteriormente la corrobora, anche se non rende perfettamente conto dell’ultimo passaggio, cioè il troncamento, per giungere a Feo.

5.         Il vocabolo Feum e Fevum fa la prima apparizione nella Francia Meridionale, per stabilizzarsi più tardi (VIII secolo) in Feudum e Feodum, significando Feudo (e cioè sia l’istituto del Feudo – i benefici e legami particolari con esso dati in concessione – sia tutto ciò con esso abbia pertinenza: proprietà mobili ed immobili, uomini, strumenti, animali). Il vocabolo appare per la prima volta in Italia in un documento della seconda metà del secolo IX, che elenca le proprietà del Vescovado di Lucca.
L’etimologia è incerta, ma viene in qualche modo riportata ad una voce Germanica per “bestiame” (thiut), oppure “bene” (feoh). Si parla anche di una radice Franca (fehu), che significa “possesso”, “bestiame”.  Sono vocaboli di suono molto simile, che insistono tutti su di un medesimo tema.
C’è anche qui terreno a sufficienza per dare origine ad un nome di famiglia, oltre che ad un fenomeno sociale che ha molto influenzato la Civiltà Occidentale.
Va aggiunto per completezza che – circa l’origine ed il significato di Feudo e Feudalesimo – non esiste ancora una completa identità di vedute: per alcuni, il vocabolo deriverebbe da “fee” (ricompensa) e “od” (proprietà), indicando con il Feudo una proprietà limitata nel tempo (cioè da restituire, allo scadere di un termine definito), in opposizione all’Allodio, che indicherebbe la completa proprietà inalienabile (da “all”, completo e “od”).

6.         Feòne è l’adattamento Italiano di un termine che compare nell’araldica Inglese – Pheon – e che si riferisce ad una punta metallica di dardo, conformata ad arpione. L’etimologia del termine è incerta (curioso, no?) ed il possibile legame con il cognome Feo sembra, in realtà, più improponobile che tenue.

7.         Infine, restando nel mondo anglosassone e celtico, si deve ricordare che la prima runa dell’Elder Futhark (Vecchio Alfabeto in Inglese antico) è – appunto – il “Feo”. Il segno runico Feo assomiglia ad una F rudimentale e simboleggia una divinità – Feo, Feoh, Fehu, a seconda delle grafie – che si riferisce alla fertilità in generale e più in particolare al bestiame ed al nutrimento, quindi al benessere che deriva dall’operosità quotidiana e faticosa.



Conclusioni:

            Sono incuriosito dalla forma stessa e dai significati della runa Feo e confesso di essere perplesso e affascinato per l’identità formale con il nome della divinità del nutrimento. Sono psico - affettivamente molto attratto soprattutto dal suo significato di “guadagno sudato col duro lavoro”, che – come sperimento giornalmente su me stesso – costituisce ormai quasi un personale blasone familiare, seppure – questo è certo – io non possa assolutamente reclamarne l’esclusività per me stesso o per la mia famiglia come dovrebbe essere possibile invece per un blasone che si rispetti.
            Il mondo celtico è discretamente lontano dall’Italia, dal Portogallo e dalla Spagna (tre dei paesi in cui si riscontra il cognome).  
Sembrerebbe difficile trovare un nesso logico o semantico, eppure esiste.
            Il Giovane Alfabeto Runico risale a circa il 700 d.C. L’Antico Alfabeto Runico deve necessariamente essere precedente, anche se non è nota con precisione la data della prima trasmissione orale delle Rune (“runa” significa “sussurro”). Non è da escludersi che la prima Runa, la F, con il suo intrinseco significato di bene, bestiame, operosità e lavoro, abbia originato il vocabolo Feudo e che quest’ultimo sia servito per indicare famiglie di beneficiari dell’Istituto del Feudo, oppure (meno probabilmente) famiglie facenti parte dei beni compresi nel Feudo. 
In conclusione, le ipotesi 1 e 4 spingono a pensare che Feo derivi dalla lenta trasformazione nel tempo di un nome teoforico, inizialmente di persona: Matteo. 
            Le ipotesi 2 e 3 sono quelle dei cognomi “descrittivi”, Bruno e Brutto, non diversamente da come si riscontra in numerosissimi altri nomi di famiglia, anche se – in 2 – l’incrocio con la parola “fedeltà” potrebbe far propendere per un’analogia con le successive. In più, la vetustissima presenza nell’araldica portoghese conferisce una certa autorità all’ipotesi. 
            Le ipotesi 5 e 7 sono suggestive per un’altisonante origine mitica e storica del cognome ed un’umile origine della famiglia, che però – in seguito – si è anche fregiata di più  stemmi e di  titoli nobiliari vari. Feoh / Feodum / Feo.

            L’ipotesi 6 più probabilmente costituisce soltanto una curiosità ed un assonanza casuale.


Notizie  sulla Casata:

La Casata Italiana dei Feo ebbe uno stemma gentilizio (vedi) e fu insignita di privilegio nobiliare. Lo stemma consta di: un elmo in pieno profilo, in smalto azzurro, con cancelli aperti e collana equestre nera sulla gorgera e con cimiero verde; uno scudo di foggia sannitica, interzato in sbarra, con due campi in smalto rosso e sbarra in smalto nero. In ciascuno dei due campi vi è un giglio in smalto azzurro. (Certificato presso l’archivio Araldico Cimino di Palermo  in data 8/10/1922, Vol. 11, numero 4572).
Molti dei suoi rappresentanti ebbero proprietà terriere, bestiame, castelli e cariche militari di significato, o comunque riuscirono a primeggiare in altri campi, un po’ dovunque in Italia.
Appare difficile la ricostruzione di un albero genealogico, sia per la frammentazione che i vari spostamenti ne hanno prodotto, sia per i gravi motivi che li hanno determinati (in genere, fatti di sangue) e – infine – per l’essere la Casata stessa non di primissimo piano nella storia. 
Le notizie più antiche documentate negli archivi risalgono al 1486 (MARCHIONE Feo, castellano).

JACOPO Feo fu sposo (o, secondo alcune fonti, forse soltanto amante poco segreto) di Caterina Sforza Riario (1463-1509), figlia legalizzata di Galeazzo Maria Sforza, futuro Duca di Milano. Se ne fu sposo, fu il secondo di tre mariti (vedi alla voce Caterina Sforza Riario [1]). Fu fatto castellano della Rocca di Ravaldino a Forlì (1490), divenne molto potente ed ebbe parte molto importante in tutti i maneggi politici di Caterina, signora di Forlì, specialmente con l’arrivo di Carlo VIII in Italia, quando avere alleata la Romagna era di capitale importanza, sia per I Medici, sia per Ludovico il Moro. Morì assassinato il 27/8/1495 e fu da Caterina vendicato immediatamente nel sangue.

Un GIOVANNI Feo fu Reggente, col grado di sergente maggiore, a Cagliari, nel 1605, in un periodo in cui il Regno di Sardegna, col simbolo statuale dei “4 Mori” era Catalano-Aragonese.

Un Feo senza eredi, in Brescia, diede nel XV secolo il nome ai figli del fratello cadetto (Bettoncelli del Feo e poi, dal XVI secolo, dopo l’accettazione da parte del Patriziato locale, semplicemente Fe’), i cui discendenti tutt’ora sono proprietari di una casa signorile nella zona detta Contrada Bassa.

Si sa di una MARIANNA Feo che andò sposa al conte Giuseppe Peyrani de Peglione.

Dal 1842 la Casata dei Feo è presente in Sicilia (NICOLÒ Feo, proveniente da Castelvetrano, probabilmente dopo un fatto di sangue).

In Liguria (e nel Lazio) è presente il nome famigliare Naselli-Feo:


Scaglione di rosso accompagnato da -3 teste di moro al naturale attorcigliate di argento di profilo poste 2,1 le superiori affrontate e da - 4 stelle (8 raggi) di oro poste 3 in alto in fascia e una sotto la punta dello scaglione tutto su azzurro.
 

-  LUIGI (di Francesco, di Camillo) Conte, Nobile di Savona;
- CAROLINA (di Marcello, di Francesco), Nobile dei Conti, Nobile di Savona;
- VINCENZO FRANCESCO (di Giovanni, di Francesco), Nobile dei Conti, Nobile di Savona.
Esistono poco meno di 300 Feo, in Italia, oggi (circa 278). La regione italiana con il più elevato numero di Feo è oggi di gran lunga la Campania (117), seguita dalla Lombardia (28), Sicilia (26), Piemonte (19), Lazio(15), Calabria (15), Basilicata (11), Liguria (10), Toscana (9): evidentemente, le terribili vicende di violenza politica della zona emiliana ne hanno sconsigliato la permanenza in loco (ne rimangono solo 8). 
FRANCESCO Feo (Napoli, 1691-1741) http://www.mashpedia.com/Francesco_Feo fine musicista e compositore, fu autore di 150 composizioni di musica sacra, religiosa, teatrale, vocale da camera (tra queste figurano una messa a dieci voci con orchestra, salmi, Magnificat, oratori, opere didattiche di grande valore ed alcuni melodrammi: Ipermestra, Arianna, Andromaca). Rappresentante tipico del “Bel Canto” Napoletano. 

            Si può infine ipotizzare che la Casata Italiana derivi da quella Portoghese molto antica, che alzava uno stemma nobiliare così costituito: scudo sannitico con tre bande in smalto rosso su fondo argenteo, sormontato da un elmo in pieno profilo con cancelli aperti, cimiero sfrangiato multicolore (bruno, rosso, giallo), fregi bruni e rossi ad ambo i lati dell’elmo, con foglie verdi trilobate.
            Una tradizione orale della famiglia indicherebbe la prima presenza italiana in Savoia.


La dama dei gelsomini di Lorenzo Credi
Presunto ritratto di Caterina Sforza
(Pinacoteca di Forlì)

Primavera, Botticelli
la dama a destra sarebbe Caterina Sforza


[1]
Caterina da Forli'
Contessa di Forlì In carica 1473 - 1500 
Altri titoli Signora di Imola: Reggente di Imola e Forlì
Nascita      Milano, 1463 
Morte        Firenze, 28 maggio 1509 

Casa reale Sforza

Padre        Galeazzo Maria Sforza
Madre       Lucrezia Landriani

Consorte:  Girolamo Riario (1473-1488)
                 Giacomo Feo (Jacopo) (1488-1495)
                 Giovanni de' Medici (1496-1498)
Figli:
                 Ottaviano Riario
                 Cesare Riario
                 Bianca Riario
                 Giovanni Livio Riario
                 Galeazzo Maria Riario
                 Francesco Riario

                 Bernardino Carlo Feo

                  Ludovico de' Medici

Era nata da Galeazzo Maria Sforza, una dei tre figli illegittimi che il Duca aveva avuto dalla bellissima Lucrezia Landriani, nel 1463 era stata allevata prima da quella santa donna che fu Bianca Maria, vedova del grande Francesco Sforza ed alla morte di questa dalla moglie di Galeazzo Maria, Bona di Savoia che la ebbe carissima e la educo' come se fosse una figlia sua.
Galeazzo Maria pensava invece di disporne per fini politici: questo era infatti a quei tempi il destino delle principesse.
Era ancora bambina quando fu promessa al conte Onorato Torelli che ebbe pero' il buon senso di morire opportunamente presto. Caterina era molto vivace e di ingegno assai superiore a quello dei fratelli. All' eta' di 10 anni e cioe' nel 1473 era stata fidanzata al Conte Gerolamo Riario nipote del Papa Sisto IV°, giovane arrogante ed inetto.Il patto nuziale fu stipulato a Pavia come racconta il Simonetta nei suoi diari in data 16 Gennaio 1473, la bambina portava in dote 10.000 ducati da versare al Conte quando fosse stata in eta' legittima per consumare il matrimonio. In questo modo Galezzo Maria si assicurava buoni rapporti con il Papa, anzi per rendere piu' saldi questi legami cedette al genero la citta' di Imola per soli 40.000 ducati che tardarono pero' ad arrivare...
Le nozze furono celebrate nella primavera del 1477, la sposa aveva 14 anni. Bella, colta e d' energia virile, seppe subito imporre al marito la propria volonta' cosi' con la connivenza del Papa e di Venezia lo spinse ad impadronirsi nel 1480 di Forli', citta' che le fu sempre molto cara.
Quando nel 1484 mori' Papa Sisto si reco' a Roma, sperando di poter influire sul conclave, ma senza successo. Ottenne pero' che il nuovo pontefice, Innocenzo VIII confermasse al marito l' investitura di Imola e Forli'.
Riario fu ucciso il 14 Aprile 1488 e Forli' fu assalita dalle soldataglie di Cesare Borgia, che mirava con l' aiuto francese a farsi un regno in Romagna, prese il comando del suo piccolo esercito e resistette ad oltranza nella rocca di Ravaldino. Quando gli assalitori minacciarono di ucciderle i figli, sollevando le gonne fino all' ombelico rispose " Ho qui quanto basta per farne degli altri!!"Alla fine la rocca fu conquistata. Il re di Francia la ammirava e chiese che fosse consegnata a lui, ma il Borgia rifiuto'.
Caterina fu portata prigioniera in Vaticano, poi in Castel S. Angelo, morto Alessandro VI° padre di Cesare Borgia le fortune di costui precipitarono: fu imprigionato e consegnato al re di Spagna che vedeva i Borgia come il fumo negli occhi.
Caterina riusci' con l' aiuto del Duca di Milano e dei Bentivoglio di Bologna a rientrare a Forli' come tutrice del figlio Ottaviano. Sposo' in seconde nozze un ufficiale, Jacopo Feo, giovane tanto bello quanto valoroso (quindi: tutt'altro che "feo"). Quando questo fu ucciso in esito ad una congiura politica il 27 agosto 1495 Caterina non esito' a montare a cavallo e ad inseguire con la sua guardia i congiurati che furono massacrati senza pieta'.
Nel 1498 sposo' con matrimonio segreto per non perdere la tutela dei figli Giovanni di Pier Francesco de Medici e da questo matrimonio nacque Ludovico, più noto come Giovanni dalle Bande Nere.Uno storico la defini' "femina crudelissima quasi virago e di grande animo". Machiavelli e Guicciardini la ammirarono, mori' a Firenze nel 1509.
Un particolare curioso: questa donna cosi' attiva e pugnace (soprannominata "Tygre", con la Y) compilo' il piu' grande ricettario del suo tempo. Vi si dice fra l' altro che il finocchio migliora la vista, che il corallo "molto conforta lo core" e infine che la calamita placa i dissidi fra moglie e marito.
E lei - che di mariti ne aveva avuti tre - va considerata un'esperta, in materia...

MELOZZO DEGLI AMBROSI (Forlì, 1438), autore del  grande affresco dell'Ascensione di Cristo nell'abside dei SS. Apostoli a Roma, di un ritratto politico della corte papale nella Biblioteca Vaticana e degli affreschi della sagrestia di S. Marco a Loreto, negli ultimi anni eseguì la decorazione della cappella dei Feo in S. Biagio a Forlì, andata purtroppo distrutta durante l'ultima guerra.





mercoledì 12 settembre 2012

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Caro Pasuco: eccomi qui, di ritorno.

I giorni di sole sono stati pochini...

E non proprio tutto è andato bene, purtroppo: i giorni di freddo improvviso mi hanno procurato una di quelle riniti virali che ti trasformano in uno zombie, incapace di comunicare col mondo (e di uscire dal letto, per un paio di giorni).

Poi, sono stato anche proditoriamente punto da unu ghespe terranzu (una vespa terricola, in costume oroseino), che ammetto di non avere io per primo trattato troppo amichevolmente: in realtà stavo cercando di sterminare tutto il favo terricolo con acido muriatico (non farlo mai: tanto non è efficace).
Uno spettacolo mostruoso, per chi - come me - ha poca esperienza di cose di campagna: ho affidato la cosa a gente più esperta di me (e molto più pericolosa).
Ho cercato - e forse ci sono riuscito - di debellare con feroce determinazione un misterioso insetto xilofago nero che stava spietatamente trasformando due miei carrubi in una struttura simile al Colosseo, poverini. Proseguirò il trattamento ad oltranza: o li uccido io, oppure li salvo. Ma li salvo di sicuro, perbacco!

Ma  poi, in fondo, il resto è andato tutto bene: la presentazione del mio libro a Fordongianus è stata principesca, mi hanno trattato come se fossi un fordongianese DOC e questo mi ha veramente commosso. Mi hanno persino invitato ad una nuova presentazione a Paulilatino, cosa che mi ha fatto indubbiamente piacere (e mi procurerà altri problemi organizzativi).

Ho partecipato con piacere al matrimonio di mia nipote ad Alghero, che incidentalmente è la mia città sarda preferita, e che devo dire è stato un avvenimento anche divertente ed interessante (hanno partecipato persone di varie parti d'Europa, con i loro variopinti costumi ed i loro idiomi variegati e incomprensibili). Ad Alghero, in compagnia di uno straniero, cantava Giuni Russo, con la sua voce potente e singolare.

Nel tornarmene via, ho fatto una puntatina archeologica al Nuraghe Palmavera: che cosa potevo chiedere di più, Pasuco? (sì, lo so: Monte Baranta ed Anghelu Ruju, il Lago Baratz e Monte D'Accoddi li lascio per le prossime volte, va bene?).

Posso anche aggiungere - se mai tu fossi curioso - che non sono certamente stato a dieta, ma per pudore mi esimo dal descriverti quale sia stato il mio menù: ti dico solo che la gamma è stata diciamo così, "di mare e di terra" e le quantità - talvolta, non sempre - veramente vergognose, più simili al "come se non ci fosse domani".
Ho conosciuto ristoranti, locande e trattorie che voi umani non potete neanche immaginare.

Adesso lascia che mi riprenda dallo shock del ritorno e della ripresa del lavoro, Pasuco: poi riprenderò il discorso con te.
Ho - naturalmente - già in mente qualche idea, per te, che dovrebbe piacerti...