venerdì 31 luglio 2015

CRANNOG

C'è tutto: il "wattle and daub", i pali costituenti una costruzione circolare (in realtà una specie di palafitta fortificata), una datazione al radiocarbonio di 5.000 anni fa ed un'ipotesi ricostruttiva degli edifici suddetti (abbastanza rari)  e della società del Neolitico che li costruì con strumenti di pietra, ovviamente. 
Chissà poi perché non parlano di Sciardana....


5,000-year-old fort found in Monmouth 

ArchaeoHeritage, Archaeology, Breakingnews, Europe, UK, Western Europe 


Archaeologists in Monmouth have discovered the remains of an ancient wooden building that dates back 5,000 years. 


An artist impression of what the fort looked like nearly 5,000 years ago  
[Credit: Monmouth Archaeological Society] 


Steve Clarke, who two years ago uncovered the remains of a huge post-glacial lake at the Parc Glyndwr building site, said the timber remains found under the new Rockfield estate were once part of a crannog, an ancient fortified dwelling built into a lake

Part of the wooden building set into the bed of what was once Monmouth’s prehistoric lake, pre-dates the only other known crannog in England and Wales by 2,000 years. 

The New Stone Age timber (Neolithic), which was skilfully worked with a stone axe, was unearthed during the digging of house foundations at Jordan Way off Watery Lane by Martin Tuck of the Glamorgan Gwent Archaeological Trust in 2003 while overseeing the construction of the estate. 
It was preserved beneath the clay and peat of a lagoon which formed when the lake drained some 2,000 years ago and was recently given to Monmouth Archaeological Society whose professional wing- Monmouth Archaeology- is to be the archaeological unit covering the construction of 450 new homes on Wonastow Road. 



A slab of timber was discovered when the estate was constructed in 2003  [Credit: Monmouth Archaeological Society] 



The timber was sent to the Scottish Universities Environmental Research Centre in Glasgow for a radiocarbon study to be carried out which produced a date of 2,917 years BC.

The study took several months and was funded by the Monmouth Society. Mr Clarke, 72, who is the chairman and founding member of Monmouth Archaeological Society, said it is a very important and exciting discovery. 
“This is only the second one in England and Wales, the other being at Llangorse Lake, near Brecon.” 
“The timber, bearing cut marks left by stone or flint axes, formed the end of an oak post which had been carefully levelled to create a flat surface which would probably have rested on a post pad set in the bottom of the lake.” 




A reconstructed crannog at Llangorse Lake, Wales 
 [Credit: Monmouth Archaeological Society] 



“Archaeologists are excited, not only by the state and date of the timber, but also because the remains were so far out from the shore of the lake that the post has to be part of a building set on poles- called a crannog.” 

Crannogs are defended wooden structures found in Ireland and Scotland and date from the Stone Age onwards. 
They are thought to have been a mark of power and status- the one at Llangorse being claimed as a royal residence of the Dark Age King of Brycheiniog. 
“Martin realised the importance of the timber and kept it in water before handing it to us for our archives,” said Mr Clarke. 

Author: Kath Skellon | Source: Free Press

 [July 22, 2015]


sabato 25 luglio 2015

Antìfrasi

Lo dichiaro in parole piane, perché c'è sempre qualcuno che può fraintendere certe parole difficili e concetti espressi in modo elegantemente complicato: questo articolo di Marcello Madau sostiene esattamente il contrario di ciò che sembra. E' sarcastico e prende le distanze da una tesi (ormai vecchia, ma popolarissima nell'ambiente malsano del Fantarcheosardismo) tra numerosissime ipotesi ridicolmente farneticanti, che un certo ambiente sardo riesce meravigliosamente a produrre a getto continuo. Per "riscrivere la Storia Sarda", naturalmente... 

La cultura di Ötzieri


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Una nuova luce riscrive la storia della Sardegna, all’estremo confine dei limiti italiani, dove l’Italia è già Austria, e l’Austria italiana; ce la dona l’uomo dagli occhi marrone, eroico nei ghiacci a lui inconsueti eppure dominati, fiero nonostante il corpo pieno di zecche. Risplende la luce di un montanaro sardo il cui nome nasconde, alla semplicità dei simboli che si fanno lingua uno dei più antichi regni sherdanu, il Monte Acuto.

E’ nell’area sardo-corsa che si trovano le tracce del suo DNA, legate ad un antenato comune, con segni genetici affini, del Vicino Oriente
. Così la scienza.
La storia dei dominatori sta già scrivendo, con la sottile violenza del metodo scientifico, che le tracce orientali rimaste nelle isole gemelle e presenti in Ötzi siano quanto ci rimane di un fenomeno storico più vasto, di una migrazione di semi, tecniche agricole e uomini orientali dai tempi lontani (ora a noi vicini) del neolitico. Non ci faremo togliere anche Ötzi. Neppure l’Oriente, le ziqqurat da noi fondate in Mesopotamia partendo da Monte d’Akkoddi.
Le tracce antropologiche, la cronologia, la linguistica sono concordi, in una schiacciante prova indiziaria.
I tremila anni prima di Cristo corrispondono al nostro Neolitico recente, in quella fase finale che già conosceva e usava il rame. E Ötzi portava un pugnale di rame. Il nostro Neolitico recente è chiamato Cultura di O(t)zieri. Neanche lo storico più attento può negare questo calco!
Similaun è con evidenza un riadattamento linguistico locale: vi si annida un nome sardo composito, che ci porta sino al magico triplice flauto di canna: simi-lau.
I nomi delle persone, come Cotzia e Motzo, gli esseri del mondo marino, le Ortziadas. Di Ötzieri abbiamo già detto. E non vi è bisogno di insistere su questa folgorante corrispondenza linguistica, dove il confronto si fa scienza e la scienza diventa emozione. Assieme, orgoglio popolare e sogno che nessuno ci potrà più togliere.
Ötzi morì in una montagna lontana, ma conosceva questo elemento, come prova il nome del piccolo regno di cui è capitale Ötzieri, il Monte Acuto.
La sua vita è per noi un insegnamento storico, anche nelle intolleranze alimentari e nelle orrende infezioni: che non resistesse al lattosio ci fa cogliere le sue origini profonde, che risalgono agli antichi sardi cacciatori e raccoglitori, della cui avita vicenda, fatta di selce e cervi e grandi foreste, portava il testimone. Che non sopravvisse al morso delle zecche ci svela, nel sacrifico personale, il mito. Il corpo eroico lottò oltre l’inverosimile, ma nessuno, in quella terra lontana, conosceva la terapia della ballerina variopinta.
Perciò la sua sofferenza diventò la nostra liberazione, il ricordo diventò mito e rito, e nessuno dovette più temere l’attacco dell’arza, memoria di quella dolorosa tragedia.
Ora posso dirlo. Avevo ingiustamente ironizzato, nell’Appendice di una mia nota, su quanto scritto in diversi articoli del portale della liberazione nuragica: sulle affermazioni coraggiose che i Sherdanu fossero attestati già dal Neolitico, che alla fine di questo periodo nascesse la prima organizzazione statale della Sardegna (della quale forse proprio Ötzi fu l’eroico condottiero). Sul legame fra Sherdanu e Neolitico, fra Neolitico e nuraghi. Ora capisco la relazione fra l’eroe eponimo della cultura di Ötzieri e le meravigliose torri,  perché definire il nuraghe Santu Antine “la più importante costruzione megalitica del neolitico Mediterraneo”.

Non ci ruberete la storia.

Ötzi il logudorese, eroe eponimo del Neolitico recente della Sardegna, finì in quelle montagne sfidando la tragica alluvione atlantidea; lasciando la sua nave, costruita secondo gli ordini di chi sappiamo, nei ghiacci eterni delle Dolomiti. Fu l’arca sarda nella montagna, come quella di Noè sul Monte Ararat (che riprende la storia di Ötzi e del divino tsunami: un giorno la scienza si accorgerà di quanto la storia dell’uomo alla sua origine sia sarda) .
Quelle antiche parole divine si troveranno nelle iscrizioni neglette dalla scienza, nel segreto yawhista dei nuraghi.
La scienza cerca di nasconderci tutto questo, ma non ci riuscirà.
La storia è con noi. Dovremo ancora soffrire, ma terremo accesa la fiammella con le nostre interrogazioni parlamentari. Con una rogatoria internazionale chiederemo a Hollande di far smettere i fratelli corsi.
Un giorno nazionalizzeremo il museo di Bolzano, dove riposta l’eroe che non muore. E vi si arriverà percorrendo un viale di nuraghi, come nella 131.

domenica 19 luglio 2015

Protesi ortopedica egizia, 3000 anni fa!

Prosthetic pin 

discovered in ancient 

Egyptian mummy 


ArchaeoHeritage, Archaeology, Breakingnews, Egypt, Forensics, Greater Middle East, Near East 


Researchers during a routine DNA test on a male Egyptian have made an astonishing discovery after finding a 23 cm iron orthopaedic screw inside his knee. 




The mummy is believed to date to between the 16th and 11th centuries BC  
[Credit: Beyond Belief Archive] 


The mummy is thought to have died between the 16th and 11 century BC and the pin is held in place by organic resin, similar to modern bone cement. 
Medical experts were so amazed by this discovery they drilled through the bone to allow access for an arthroscopic camera to take a closer look. 

This confirmed what they believed was impossible – that this operation was performed over 3,000 years ago

Not only were the researchers astonished that the pin is ancient, but the highly advanced design had the visiting surgeons in awe. 



The 23cm long nail found inside the mummy's knee  
[Credit: Beyond Belief Archive] 


"The pin is made with some of the same designs we use today to get good stabilisation of the bone," said Dr. Richard Jackson, an orthopeadic surgeon from Brigham Young University. 
Apparently, the ancient Egyptian doctors knew how to use the flanges on a screw to stabilise the rotation of the leg.
 To date, no other mummy has ever been found with evidence of a similar surgery. "I have to give the ancients a lot of credit for what they have done," added Dr. Wilfred Griggs, who led the team of scientists conducting DNA research on the mummy when they made this incredible find. 


Author: Jenny Paschall | Source: Express [July 12, 2015]

La Spada (Magica) Vichinga

The last Viking and his 'magical' sword? 

ArchaeoHeritage, Archaeology, Breakingnews, Europe, Northern Europe, Norway 


Have you held the sword? 
Have you felt its weight? Have you felt how sharp and strong the blade is? 



Langeidsverdet helfigur 
[Credit: Ellen C. Holthe, Museum  of Cultural History, University of Oslo] 



A deadly weapon and symbol of power -- jewellery for a man, with magical properties. 
The sword gave power to the warrior, but the warrior's strength could also be transferred to the sword. 
That is how they were bound together: man and weapon, warrior and sword. 
This sword was found in Langeid in Bygland in Setesdal in 2011. It is a truly unique sword from the late Viking Age, embellished with gold, inscriptions and other ornamentation. 

The discovery of the sword has not been published until now, when it is being displayed for the first time in the exhibition 'Take It Personally' at the Historical Museum in Oslo. The sword must have belonged to a wealthy man in the late Viking Age. 
But who was he and what magic inscriptions are set into the decoration -- in gold? Was the owner of the sword in the Danish King Canute's army when it attacked England in 1014-15?

 "We just gaped" 
In the summer of 2011, archaeologists from the Museum of Cultural History in Oslo discovered a Viking burial ground in Langeid in Setesdal in southern Norway. 
In one of the graves they made a startling discovery. "Even before we began the excavation of this grave, I realised it was something quite special. 
The grave was so big and looked different from the other 20 graves in the burial ground. In each of the four corners of the grave there were post holes," said excavation leader Camilla Cecilie Wenn of the Museum of Cultural History. 
The post holes reveal that there was a roof over the grave, which is a sign that the grave had a prominent place in the burial ground. 
But when they dug down in the coffin in the bottom of the grave, there were few traces of gifts for the afterlife, only two small 
fragments of silver coins. The coins were from northern Europe; one was probably from the German Viking Age, judging by how it was embossed, while the other was a penny minted under Ethelred II in England dating from the period 978-1016. "But when we went on digging outside the coffin, our eyes really popped. Along both sides, something metal appeared, but it was hard to see what it was. 
Suddenly a lump of earth fell to one side so that the object became clearer. Our pulses raced when we realised it was the hilt of a sword! And on the other side of the coffin, the metal turned out to be a big battle-axe. 
Although the weapons were covered in rust when we found them, we realised straight away that they were special and unusual. Were they put there to protect the dead person from enemies, or to display power?" 
Dating of charcoal from one of the post holes shows that the grave is from around the year 1030, at the very end of the Viking Age. "And that fits in well with the discovery of the English coin." 

The sword 
The sword must have belonged to a wealthy man who lived in the late Viking Age. The sword is 94 cm long; although the iron blade has rusted, the handle is well preserved. 
It is wrapped with silver thread and the hilt and pommel at the top are covered in silver with details in gold, edged with a copper alloy thread," said project leader Zanette Glørstad. 




Langeidsverdet helfigur 
[Credit: Ellen C. Holthe, Museum  of Cultural History, University of Oslo] 



"When we examined the sword more closely, we also found remnants of wood and leather on the blade. They must be remains from a sheath to put the sword in," explained curator Vegard Vike. 
He has had the challenging task of cleaning up the handle and preserving the sword. The sword is decorated with large spirals, various combinations of letters and cross-like ornaments. 
The letters are probably Latin, but what the letter combinations meant is still a mystery. "At the top of the pommel, we can also clearly see a picture of a hand holding a cross. That's unique and we don't know of any similar findings on other swords from the Viking Age. Both the hand and the letters indicate that the sword was deliberately decorated with Christian symbolism. 
But how did such a sword end up in a pagan burial ground in Norway? The design of the sword, the symbols and the precious metal used all make it perfectly clear that this was a magnificent treasure, probably produced abroad and brought back to Norway by a very prominent man," added Camilla Cecilie Weenn. "The way swords are referred to in the sagas suggests that the sword is an important bearer of the identity of the warrior. 
A sword reveals the warrior's social status, his position of power and his strength. 
The sagas also tell us that gold had a special symbolic value in Norse society. In Norse literature gold represented power and potency. 
Gold is rarely found in archaeological material from Viking Period and then too, it stood for power and potency. 
This indicates that gold had considerable economic and symbolic value. Based on the descriptions in the literature, we can say that the sword was the male jewellery par excellence of the Viking Age," said Hanne Lovise Aannestad, the author of a recent article on ornate swords from the days of the Vikings. 

'Magic' 
The sagas emphasise the importance of the ornate sword. Swords could have hilts of gold with ornamentation and magical runes. 
The mythical sagas tell of magical swords forged by dwarfs. 
The creation of myths around the art of the blacksmith and the making of high-quality swords may be related to the fact that few people mastered the art. 
The production of metal objects of high quality may have been a form of hidden knowledge unavailable to most people. 
This gave the objects a magical aura. 
"In Mediaeval literature, swords are referred to as aesthetic, powerful and magical objects. The many similarities between the descriptions of swords in Norse and Mediaeval literature suggest that the splendour of the sword in the latter had roots in the Viking notions of the symbolic power, magic and ritual aspects of the ornate sword. The Viking Age was a period of great social upheaval. At times like that, certain symbolic objects may play an important role in negotiating social positions. There is much to suggest that these magnificent swords were such objects, reflecting the status and power of the warrior and his clan," said Hanne Lovise.

The battle-axe 
The axe found in the same grave has no gold decoration. But the shaft is coated with brass and it may well have flashed like gold when the sun shone. Such shaft coatings are very rare in Norway. But a number of similar battle-axes have been found in the River Thames in London. That makes the axe particularly interesting. 
Dating of the axe from Langeid shows that it belongs to the same period as the axes found in the Thames. 
There was a long series of battles along the Thames in the late 10th and early 11th centuries. 
The Danish king Sweyn Forkbeard and his son Canute led their armies against the English king in the battle for the English throne. 
Even the Norwegian king Olav (Haraldsson) the Holy was involved in the attack on London in 1009. 
The men under the Danish King were from all over Scandinavia. 
Did the axes get lost in the Thames during the numerous skirmishes, or did the victors throw them in the river? Did the sword belong to a Viking from King Canute's army? Further down the Setesdal Valley we find a runic stone, which says: "Arnstein raised this stone in memory of Bjor his son. He found death when Canute "went after" England. God is 
one." (Translated from the Old Norse).

The text probably refers to King Canute's attacks on England in 1013-14. 
It is likely that the stone was erected just after the incursions, by a father whose son never came back home. 
A written source from the 12th century states that King Canute's closest army had to meet certain requirements. 
Soldiers had to honour the king, had to belong to the leading families in society and also had to provide their own gilded axes and sword hilts. 
The Langeid sword would no doubt have been approved by King Canute, probably also the axe. 
The sword was made outside Norway and an Anglo-Saxon origin is quite possible. 
The axe is very similar to those found in the Thames, especially in its brass coating. 
The grave with the sword also contained the only coin found in Langeid from the Anglo-Saxon region, which increases the possibility that the dead man had a particular connection to the events in England. 
"It's quite possible that the dead man was one of King Canute's hand-picked men for the battles with King Ethelred of England. Seen in connection with the runic stone further down the valley, it is tempting to suggest that it is Bjor himself who was brought home and buried here. 
Another possibility is that his father Arnstein only got his son's magnificent weapons back and that, precisely for that reason, he decided to erect a runic stone for his son as a substitute for a grave. 
When Arnstein himself died, his son's glorious weapons were laid in his grave.
 The death of his son must have been very tough on an old man. Perhaps their relatives honoured both Arnstein and Bjor by letting Arnstein be buried with the weapons with such a heroic history," said Zanette Glørstad. The runic stone dates from the same period as the final phase of the burial ground and testifies that Christianity is about to take root in Norwegian society. 
It is the oldest runic stone in Norway that refers to Christianity. 
Could this also explain why the weapons were placed outside the coffin? In a transitional period, people may have chosen to use both pagan and Christian elements in a funeral. 
The Langeid grave is from one of the last pagan funerals we know of from Norway and marks both the greatness and the end of the Viking Age.

"Take it personally" 
Ever since the summer of 2011, the sword found in Langeid has been unpublished. Its display today has been made possible by the meticulous work and research of conservators and archaeologists at the Museum of Cultural History. 
Finally, it can be seen by the public and is displayed in the exhibition called "Take it personally" -- an exhibition of personal jewellery and adornment over time and space in the Historical Museum in Oslo.

Source: University of Museum of Cultural History Oslo [July 14, 2015]

Emigrati, emigrandi, emipiccoli






Questo caldo africano sta dando alla testa a tutti.
Sembrano tutti pazzi.
Sono irascibili, scattano per un nonnulla.

Forse è un effetto cerebrale mediato dallo squilibrio idroelettrolitico.
Forse è un complesso di cose più complicato, non so.
Il risultato, però, è devastante.

Esempi? Due, soltanto.

1) In coda al Self Service dell'IKEA: una signora anziana mi sposta con una certa veemenza e mi passa claudicando davanti borbottando che qualche suo parente è davanti a me e lo deve raggiungere. Scopro che quel qualche parente era appena passato sotto alla transenna qualche metro davanti a me (e quindi - a rigore - ormai era davvero geometricamente davanti a me!). Sussurro verso mia moglie un breve commento negativo su "quella gente", quando una donna mi rimprovera e mi sorpassa dicendo che tutti loro "erano effettivamente davanti a me nell'altra fila" e quindi "dovevano" essere davanti a me anche in questa.
Era successo che un'altra linea di self service aveva appena aperto e l'unica fila d'attesa si era quindi ridistribuita in due file più brevi. Ma io non ero mai stato in alcuna fila (quindi non potevo essere stato "dietro" a nessuno!): ero semplicemente arrivato ed avevo preso posizione.
Ma non trovo utile mettersi a litigare come i capponi di Renzo, come se il cibo stesse per finire e si rischiasse di restare senza.
Risultato, ho lasciato passare davanti a me quattro persone "furbe" inutilmente aggressive, ma certamente inferiori e quindi inconcludenti, che hanno perso molto tempo per fare le loro scelte alimentari banali e conseguentemente sono rimaste indietro e sono passate alla cassa molto dopo di me, scontrandosi nel frattempo con altri avventori, con esito molto più chiassoso e negativo.

Godo moltissimo, quando riesco a fregare il popolo bue. E sembra che il popolo bue proprio non resista a dimostrare pienamente, in ogni occasione, la propria vera essenza. Anche in assenza del gran caldo, in verità...

2) G.R.A. - Roma - Rientro dal lavoro nel pomeriggio subito prima del week end di partenza delle masse: io no partirò. Intorno a me, però è tutto un sudare vociante di assatanati escursionisti del weekend in motoretta e costume da bagno (così, appena cascano, si grattugiano meglio sull'asfalto) e di turisti in partenza per "la vacanza" su auto stracariche.
Erano stati avvertiti a tappeto dai mezzi di comunicazione loro dedicati. Lo sapevano benissimo, quindi, che cosa sarebbe successo e pure esattamente a che ora... Erano stati avvertiti di evitare certi orari e naturalmente - tutti insieme - hanno lasciato che fossero "gli altri 'mbecilli" a cambiare orario...
E' quindi stato tutto inutile: sono tutti qui, insieme, contemporaneamente, sudati in posti dove altri esseri umani non possiedono neppure posti, tatuati anche sulle mucose più nascoste, zavorrati da "piercing" ormai bollenti e irritati da "tutti 'sti mortacci loro dde ggente"...
Il raccordo anulare romano è una torma fitta fitta di lemmings, lanciati in folle corsa incosciente verso il dirupo: sono insensibili a tutto, richiami, suoni, frecce, urla, incolumità, istinto di conservazione. Si alternano tratti nei quali sembra di trovarsi in un autodromo di autoscontro per berline, ad altri tratti, nei quali si procede a passo d'uomo o addirittura ci si ferma. Perché - naturalmente - c'è stato l'incidente, tra due, tre, quattro auto. e tutti, passando, devono guardare, per potere guardare e commentare, filmare, fotografare. Si mettono teatralmente le mani nei capelli, in modo che gli automobilisti dalle altre auto capiscano il tono generale del loro commento. siamo Italiani.

Un popolo veramente bue: non ci sono più neppure i poeti, gli eroi, i santi, né i navigatori. Erano tutti tra gli emigrati, gente saggia, quella...


sabato 18 luglio 2015

Liber Linteus di Zagabria


IL LIBER RITUALIS 

della MUMMIA DI ZAGABRIA  

Tradotto e commentato

Mummy at the Archaeological Museum in Zagreb - Source Wikipedia
Mummy at the Archaeological Museum in Zagreb Source Wikipedia

studio di Massimo Pittau
Professore Emerito dell’Università di Sassari

Il cosiddetto Liber della Mummia di Zagabria è il testo più lungo che possediamo della lingua etrusca. Esso è chiamato in questo modo perché custodito nel "Museo Archeologico" di Zagabria. E' detto Liber Linteus ("libro di lino") perché costituito da una fascia di lino lunga circa 13 metri e larga circa 40 centimetri. Fino al presente non si conosceva per nulla il modo e il motivo per i quali questa fascia fosse finita in Egitto; si era parlato in termini molto generici di un probabile “piccolo stanziamento” di individui di nazionalità etrusca nell’Egitto dei Tolomei, ma in realtà non si era fornita alcuna prova di ciò.

A giudizio dello scrivente esiste con grande probabilità una ragione precisa della presenza del Liber in Egitto. Si deve premettere che gli aruspici etruschi godevano di larga fama a Roma, fino ad un’epoca molto avanzata. Si tramanda che ancora nel 408, durante l’assedio di Roma, aruspici pronunciarono maledizioni in lingua etrusca per lanciare fulmini sui Visigoti di Alarico. Essi erano consultati anche dai comandati degli eserciti romani prima di prendere le loro decisioni importanti.  Ebbene, a giudizio dello scrivente il Liber molto probabilmente arrivò in Egitto con qualche aruspice che seguiva un esercito romano, ad iniziare da quando si insediò in Egitto Marco Antonio nell’anno 52 a. C.
Deceduto l’aruspice e finita dunque la sua attività di divinazione, la fascia di lino non fu più compresa nella sua natura e destinazione, per cui fu tagliata a strisce e adoperata, in maniera impropria, per fasciare una mummia.
Col passare dei secoli la mummia fu acquistata in Egitto nel 1848 da un collezionista croato e in seguito, nel 1867, fu acquisita dal Museo di Zagabria. Qui a un certo punto fu deciso di svolgere le bende della mummia e si constatò che esse contenevano un lungo testo, scritto in inchiostro nero su 12 colonne di circa 35 righe, con una impaginatura di linee in inchiostro rosso. Nel 1892 l’egittologo Jakob Krall, con una sua accurata pubblicazione, dichiarò e dimostrò che il testo era scritto in alfabeto e lingua etruschi, col normale andamento sinistrorso.
Nelle circa 200 righe conservate del Liber risultano scritti quasi 1.200 vocaboli, i quali però, tolte le numerose ripetizioni, si riducono a essere poco più di 500. Probabilmente il Liber costituisce la trascrizione, effettuata nel I secolo a. C., di un testo originario del V secolo, di area etrusca centro-settentrionale.
Com’era ovvio, il Liber attirò subito l’attenzione di tutti i linguisti che avevano interesse per la lingua etrusca e da allora esso è diventato il testo classico di questa lingua, del quale si sono interessati tutti i linguisti successivi. La bibliografia relativa a questo testo è immensa e praticamente si identifica quasi del tutto con quella relativa alla lingua etrusca in generale.
I risultati finora acquisiti dagli etruscologi intorno a questo importantissimo documento sono in primo luogo di carattere generale e in secondo luogo di carattere molto particolare.
Si è compreso abbastanza presto e abbastanza facilmente che il Liber è un «calendario liturgico», il quale registra le cerimonie o i riti dell’intero anno liturgico, con l’indicazione del mese e talvolta anche del giorno. Esso infatti è composto di 12 “colonne”, tante quanti sono i mesi, dei quali noi conosciamo, sia dal Liber stesso sia da glosse latine o greche, il nome, escluso quello di febbraio: ANIAX «gennaio», MARTI oVelcitanus «marzo», APIRE o Cabreas «aprile», AMPILES «maggio», ACALE/Aclus«giugno», Traneus «Luglio», Ermius «agosto»; Caelius, Celius «settembre», Xosfer«ottobre», MASN «dicembre».
Le cerimonie o i riti risultano effettuati in onore di quasi tutte le divinità etrusche, maggiori e minori, cioè Tecum (= Tinia Protettore?), Giunone, Nettuno, Saturno, Cerere, Lucifera, Lusa, Lustra, Maris, Terra, Tuchulcha, Veiove, Volta. E risultano pure indicate varie preghiere, le offerte, le vittime dei sacrifici, assieme con arredi dei vari riti e con gli atti rituali. Tutto ciò è relativo a sacrifici che un sacerdote, assieme coi suoi assistenti, effettua a favore di una o più città, delle loro popolazioni, cittadine e contadine, e delle loro leghe o federazioni.
I risultati di carattere particolare acquisiti dai linguisti fino al presente consistevano nella traduzione di poche e brevi frasi. Lo scarso numero e la brevità di queste frasi effettivamente tradotte induceva ovviamente ad affermare che rispetto alla questione della “traduzione” era ancora tutta in alto mare e che quanto un etruscologo poteva in effetti affermare era semplicemente una “interpretazione generale” del documento. Era questo infatti l’esatto titolo di uno dei più impegnati tentativi effettuato da uno dei più autorevoli etruscologi: Karl Olzscha, Interpretation der Agramer Mumienbinde (Leipzig 1939; ristampa 1979).
Anche l’autore della presente pubblicazione, quando pensò di affrontare di petto il testo del Liber, aveva deciso di intitolarne la pubblicazione in questo modo: Il Libro Etrusco della Mummia di Zagabria interpretato e commentato. Quando però andò costatando che i risultati ottenuti nel suo studio andavano molto al di là delle sue più rosee previsioni e speranze, alla fine prese la decisione di intitolarla senz’altro in quest’altro modo: Il Liber Ritualis della Mummia di Zagabria tradotto e commentato.
Per giustificare questa intitolazione della mia presente opera, invito i lettori a considerare questo solo e semplice dato: sui 500 vocaboli del testo non ne esiste alcuno sul quale io non abbia prospettato almeno un “significato compatibile”, ossia compatibile col contesto logico, specifico e generale, del documento. (Dal quale numero ovviamente vanno esclusi i numerosi guasti e lacune del testo e inoltre i raggruppamenti grafici che risultano non segmentabili oppure illeggibili).
*   *   *
I risultati di questo mio – non ho timore di dirlo – “successo ermeneutico” sono anche l’effetto di alcune circostanze favorevoli e convergenti:
I) Siccome io mi interesso della lingua etrusca da più di 35 anni, ritengo di aver fatto convergere nella mia presente opera tutti i risultati che fino ad ora erano stati ottenuti dai numerosi autori che si sono cimentati prima di me nell’argomento. In maniera particolare ritengo di essere debitore di numerosi suggerimenti soprattutto a due autori e alle rispettive opere, una già citata di Karl Olzscha, Interpretation der Agramer Mumienbinde (Leipzig 1939) e l’altra di Ambros Jopsef Pfiffig, Studien zu den Agramer Mumienbinden – Der Etruskische Linteus, Wien 1963 [tedesco Agram = ital. Zagabria].
II) Ovviamente i 76 anni di differenza fra la “interpretazione” di K. Olzscha e i 52 anni fra gli “studi” di A. J. Pfiffig da una parte e questa mia “traduzione” dall’altra, non sono passati inutilmente: e ciò non tanto e non soltanto per merito dell’Autore della presente opera, quanto per merito dei numerosi etruscologi che in epoca più recente hanno rivolto il loro studio a questo importante e cruciale documento della lingua etrusca. Inoltre è indubitabile che la conoscenza della lingua etrusca è andata avanti abbastanza in questi ultimi decenni, anche come effetto di numerosi nuovi rinvenimenti epigrafici effettuati un po’ dappertutto.
III) Dato che ormai risultava accertato che il Liber era fondamentalmente un «calendario liturgico», implicante dunque precisi riferimenti a cerimonie religiose, a riti sacri, a sacrifici, a festività religiose, ecc., io mi sono impegnato a studiare minutamente laterminologia religiosa della lingua latina, dato che da sempre si sapeva che molte credenze ed usanze religiose degli Etruschi erano diventate anche credenze ed usanze religiose dei Romani. E ciò ho fatto nella supposizione che nella terminologia religiosa dei Romani fosse entrata anche la terminologia religiosa degli Etruschi. E i risultati di questo mio impegno di studio hanno stupito anche me: per l’appunto molti vocaboli di carattere religioso della lingua latina trovano esatto riscontro in altrettanti vocaboli delLiber e per ciò stesso offrono la chiave di interpretazione e di traduzione dei corrispondenti vocaboli etruschi. E per questo motivo debbo precisare che lo strumento o il metodo migliore, ossia quello più funzionale e più fecondo, che mi è servito per effettuare e prospettare la presente “traduzione del Liber” è stata per l’appunto lacomparazione tra la terminologia religiosa latina e la terminologia religiosa etrusca.
Su questo stesso argomento ritengo importante segnalare pure che le corrispondenze tra la liturgia del sacrificio degli Etruschi con quella del sacrificio o “Messa” dei Cristiani sono evidenti, numerose e pure stringenti, per cui c’è da pensare a una fondamentale derivazione della liturgia cristiana da quella etrusca, però per via indiretta, cioè per il tramite di quella romana. Più esattamente i Cristiani hanno derivato molti elementi della loro liturgia sacrificale da quella dei Romani – ovviamente caricandoli di assai differenti contenuti religiosi e dogmatici – e i Romani in precedenza li avevano derivati da quelli degli Etruschi. Particolarmente importante e significativa è la continua presenza nel sacrificio etrusco del pane e della sua consumazione, del vino, dell’acquae dell’incenso, della presenza di lumi accesi, del calice d’oro e della sua elevazione, della patena, quasi esattamente come risulta nel sacrificio cristiano.
IV) È cosa abbastanza nota che agli inizi della storia di Roma, in età monarchica, c’era una notevole mescolanza e fusione delle due comunità etniche, quella romana e quella etrusca. La quale cosa si spiega abbastanza facilmente con due circostanze sicuramente accertate e sostenute dalla storiografia recente. Innanzi tutto il fiume Tevere all’inizio non era al centro del Latium, come sarà in seguito, ma ne costituiva il confine settentrionale rispetto all’Etruria, ragione per cui Roma era una città di confine tra le due etnie (non a caso lo stesso nome diRoma è molto probabilmente etrusco, uguale al vocabolo etrusco-latino ruma «mammella, seno», indicante la grande “insenatura” che il Tevere fa di fronte all’isola Tiberina; e pure il nome del fiume era quasi certamente etrusco). In secondo luogo sappiamo che per più di un secolo Roma fu governata da una dinastia etrusca, quella dei Tarquini, in virtù della quale si intravede che l’elemento antropico etrusco in quel periodo giocò un ruolo importante nella vita della città laziale.
Più in generale – mi sono detto – siccome è molto probabile e verosimile che siano stati numerosi i vocaboli latini entrati nella lingua etrusca e viceversa, ai fini della interpretazione dei singoli vocaboli etruschi è del tutto lecito e anche funzionale ed utile fare riferimento ad altrettanti vocaboli latini, i quali già nella veste fonetica si presentino come omoradicali o corradicali con quelli etruschi da interpretare; col risultato finale che il valore semantico o “significato” dei vocaboli latini è molto probabilmente anche il valore semantico o “significato” dei corrispondenti vocaboli etruschi.
A questo proposito però ritengo necessario precisare che questo mio procedimento ermeneutico od interpretativo ha avuto esclusivamente la direzione del “confronto” o della “comparazione”, mentre ha deliberatamente lasciato da parte la direzione “etimologica” o della “derivazione”: si tratta di vocaboli etruschi derivati da altrettanti vocaboli latini oppure si tratta della derivazione opposta? A questa domanda saranno altri linguisti e altri eventuali studi che cercheranno di dare una adeguata – ma nient’affatto facile – risposta.
In questo procedimento di semplice ed esclusivo “confronto” o “comparazione” tra vocaboli etruschi e altrettanti latini, per questi ultimi spesso ho fatto notare che essi risultano essere «di origine ignota» oppure «di origine incerta»; e con questa mia semplice notazione ho voluto indicare che questi vocaboli latini molto probabilmente potrebbero essere “di origine etrusca”. Ma sull’argomento niente di più ho detto né ho voluto dire.
Aggiungo che questa supposizione e questo procedimento ermeneutico di semplice ed esclusivo “confronto” o “comparazione” ho seguito anche rispetto alla lingua greca, però con risultati ovviamente assai più limitati.
Ma parlando in termini generali, aggiungo che, andando contro la corrente assurda tesi della “inconfrontabilità dell’etrusco con alcun’altra lingua”, tutto al contrario io ho adoperato sistematicamente il “metodo della comparazione o del confronto” di tutto il materiale linguistico etrusco con quello delle lingue dei popoli antichi che sono vissuti a contatto col popolo etrusco. In via specifica io ho confrontato l’intero patrimonio linguistico della lingua etrusca conservatoci con l’intero patrimonio lessicale delle lingue latina e greca, il quale supera le 300 mila (trecentomila!) voci: patrimonio lessicale latino e greco compatto ed immenso, col quale è pressoché assurdo ritenere che quello etrusco non avesse nessun rapporto o di derivazione reciproca o di corradicalità, cioè di comune origine. In realtà questo immenso patrimonio linguistico greco e latino è di gran lunga il più ricco che possediamo per tutti i domini linguistici ed è tale che con esso ha grandissimo interesse a fare i conti qualunque linguista si metta a studiare una qualsiasi lingua di quelle parlate attorno al bacino del Mediterraneo e pure in Europa, dai tempi più antichi fino al presente.
Infine tengo molto a precisare che ho sempre proceduto di volta in volta ad accertare e verificare  l’ipotizzato “significato” prospettato per un certo vocabolo etrusco col ricorso al cosiddetto “metodo combinatorio”, che si dovrebbe chiamare meglio metodo della “verifica comparativa interna”, ossia con la verifica del “significato” ipotizzato per un certo vocabolo etrusco rispetto a quello conosciuto o ipotizzato dei vocaboli vicini e pure con quelli che fanno parte del patrimonio lessicale etrusco già interpretato e tradotto dai linguisti. In maniera particolare ho sempre controllato e verificato che un ipotizzato significato di un vocabolo etrusco del Liber avesse il significato uguale o similare o almeno affine in tutti gli altri testi etruschi in cui esso compare.
La validità e la fecondità di questo mio lavoro di “verifica comparativa interna” ha trovato la sua spiegazione e motivazione di fondo nella circostanza che ho lavorato su tutto il materiale lessicale dei più grandi 13 testi della lingua etrusca, il quale raggiunge la notevole somma complessiva di più di 1.000 vocaboli.
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Tra gli studiosi di lingue sconosciute oppure poco conosciute è un fatto noto e accertato che, almeno in linea generale e a parità di altre condizioni, una iscrizione quanto più è lunga, tanto più facilmente può essere tradotta. Ciò avviene perché in una iscrizione lunga sono più numerosi gli elementi che si possono analizzare, controllare e confrontare fra loro e anche con elementi della medesima lingua e pure di altre lingue differenti.
Su questo piano il Liber poteva risultare un testo ideale di interpretazione e anche di traduzione, visto che esso contiene la somma notevole di circa 1.200 vocaboli. Senonché abbiamo già visto che, tolte le numerose ripetizioni, i vocaboli presenti nel Liber si riducono ad essere poco più di 500. Che però è pur sempre una buona somma di vocaboli, la quale avrebbe dovuto consentire una facile interpretazione e traduzione dell’intero documento.
Perché questo non sia avvenuto sono intervenuti alcuni fatti negativi che qui elenco e spiego brevemente.
1) Contrariamente a quanto si potrebbe di primo acchito pensare, il fatto che il testo del Liber ci sia giunto non integro e pure guasto in non poche sue parti e inoltre il fatto che lo scriba-copista abbia commesso non pochi errori di trascrizione, non sono questi i fattori negativi che hanno finora reso difficile la interpretazione e la traduzione del prezioso documento. Infatti, siccome il testo implica numerose ripetizioni di interi brani, in virtù di queste ripetizioni sia i vuoti del testo sia i suoi guasti sia infine gli errori dello scriba-copista sono in buona misura eliminabili. Da questa opera di recupero e di ricostruzione va esclusa la sola parte iniziale, la quale certamente aveva una sua particolare e importante funzione, come mostrano anche alcuni vocaboli rimasti che non si ritrovano in nessun’altra parte del documento, parte iniziale che però risulta per noi ormai perduta irrimediabilmente.
Invece avviene che proprio per il fatto che il testo contenga numerose ripetizioni di interi brani, esso va avanti “a spezzoni”, quasi “a singhiozzo”, con la mancanza di un unico e logico significato globale. La interpretazione e la traduzione di ciascuno degli “spezzoni” del testo pertanto non viene accertata né confortata da un unico e logico significato globale, dato che questo non esiste affatto.
A ciò si aggiunge l’altro fatto negativo, che questi “spezzoni” non sono determinabili con esattezza, dato che manca la “punteggiatura” quale noi moderni concepiamo e adoperiamo, cioè come indicazione degli “stacchi concettuali del discorso” oppure delle “pause del parlato” (è noto che invece gli Etruschi usavano la “punteggiatura” per indicare la divisione dei vocaboli o anche delle semplici sillabe).
2) Una seconda circostanza che rende molto difficile l’approccio ermeneutico al Liberconsiste nella sua particolare caratteristica di documento linguistico: esso è un documento molto ellittico, il quale non descrive né narra i reali fatti liturgici o i gesti rituali, né riporta il testo delle preghiere, bensì si limita sempre ad accennare osuggerire quei fatti, quei gesti e quelle preghiere, finendo col caratterizzarsi come una semplice ”traccia”, molto ellittica e molto schematica, di fatti e di atti. Detto in altro modo: il testo linguistico del Liber risulta “staccato”, anche di parecchio, dalle cose, dai fatti e dai gesti ai quali esso fa riferimento.
In questa sua caratteristica di documento linguistico semplicemente “suggestivo osuggeritorio” od “allusivo”, esso di certo era del tutto comprensibile per gli antichi lettori etruschi, i quali quei fatti liturgici, quei gesti rituali e quelle preghiere conoscevano alla perfezione, mentre riesce in larga misura incomprensibile per noi lettori moderni che quei fatti liturgici, quei gesti rituali e quelle preghiere non conosciamo affatto.
Il carattere fondamentalmente “suggestivo od allusivo” del nostro documento è dimostrato anche dal fatto – già spiegato e sottolineato – che esso va avanti “a spezzoni”senza cioè l’esatta continuità di un discorso unico e unitario, dall’inizio sino alla fine, e ciò in conseguenza diretta della diversità e della discontinuità delle varie operazioni rituali che si susseguivano una dopo l’altra, spesso molto differenti fra di loro.
Da tutto ciò deriva che spesse volte noi lettori moderni abbiamo la certezza o la quasi certezza che la nostra traduzione di una frase del testo etrusco sia esatta, ma ciononostante non riusciamo neppure lontanamente a intravedere quale operazione rituale, quale gesto, quale preghiera effettivamente essa volesse indicare e suggerire. E purtroppo questa è una difficoltà interpretativa che neppure gli sviluppi futuri della ermeneutica della lingua etrusca riusciranno mai a superare del tutto.
3) Il testo, secondo le comuni modalità prescrittive delle cerimonie sacre ed anche di quelle civili, presenta numerosi verbi di “modo imperativo”, ridotti – come capita in molte altre lingue – alla sola sillaba radicale: AR, Śin, ΘEC, TUL, UN, URX, vocaboli per i quali è molto difficile, se non impossibile, sul piano comparativo, fare accostamenti effettivi e soprattutto consistenti con altri vocaboli etruschi o anche di altre lingue.
4) Lo scriba-copista del I secolo a. C., che ha effettuato la trascrizione del testo originale del V secolo, è stato scorretto parecchie volte, tanto che non può non provare anche stizza l’odierno lettore ed interprete di fronte alle scorrettezze che incontra passo passo. Questo avviene, anche se – come ho già detto – in virtù delle numerose ripetizioni del testo, molte volte riusciamo a recuperare il testo esatto del documento originario.
Sono particolarmente numerose le ripetizioni di varianti dei vocaboli: AIS ed EIS, AISER ed EISER, AISERAŚ ed EISERAŚ, AISNA ed EISNA, CAΘNIS e CATNIS, CITZ e CIZ, ZAMΘIC e ZAMTIC, ZUŚLEVE e ZUSLEVE, HAΘEC e HATEC, ΘACLΘ e ΘACLΘI, ΘUNT e TUNT, IC e IX, MULAC e MULAX, NEΘUNŚL e NEΘUNSL, RACΘ e RAXΘ, TUR, TURA; TURE, TURI, ecc.
Si può tentare di spiegare e di giustificare codesto modo trasandato di scrivere del copista, pensando che al suo tempo la lingua etrusca stesse subendo un notevole processo di trasformazione fonologica soprattutto a causa dell’impatto con la lingua latina, cioè con quella dei conquistatori e dominatori.
Una possibile spiegazione dell’alternanza delle vocali A/E nei vocaboli potrebbe forse essere quella per cui in realtà quelle vocali fossero pronunziate indistinte, cioè /Ə/ : AIS ed EIS, AISER ed EISER, AISNA ed EISNA, ZUŚLEVA e ZUŚLEVE, HALXZA e HALXZE, HILARΘUNA e HILARΘUNE, HUSLNA e HUSLNEMAΘCVA e MAΘCVE, MULA e MULE.
Molto varia e perfino capricciosa è la maniera in cui si presentano le terminazioni di parecchi vocaboli, con l’ovvia e grave conseguenza che spesse volte non si riesce a determinare il loro esatto valore morfo-sintattico. E da questo grave difetto deriva l’impossibilità di ricostruire un esatto sistema morfologico della lingua etrusca facendo precipuo riferimento a questo che pure è il più lungo testo etrusco. Dal testo del Liber si evince in maniera quasi certa che i “casi” fondamentali della “declinazione” etrusca erano il genitivo, il dativo e, coi pronomi, l’accusativo, e forse qualche altro (al singolare e al plurale)ma non si evince per nulla come i molto più numerosi “complementi” si assiepassero in ciascuno dei “casi”. E proprio per questa grossa difficoltà nella mia traduzione ho tenuto molto più in considerazione il contesto logico dei singoli vocaboli che non i “casi” da cui sembrerebbero marcati.
Qualche volta sembra pure che lo scriba-copista non avesse afferrato il significato esatto di una frase, dato che ha tralasciato del tutto la punteggiatura oppure ha sbagliato in maniera vistosa nell’inserirla tra una sillaba e l’altra.
Altre volte lo scriba-copista, che di solito scrive in maniera molto chiara, ha scritto qualche vocabolo in maniera molto confusa, dando l’impressione al lettore ed interprete moderno che in realtà egli non riuscisse a leggere bene il vocabolo nel testo che aveva di fronte e doveva ricopiare e pertanto decidesse di trascriverlo in maniera confusa, con l’implicito invito al lettore di arrangiarsi lui…
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Ai fini della mia presente interpretazione e traduzione del Liber è stato per me di capitale importanza l’aver compreso e scoperto i seguenti fatti linguistici fondamentali:
1) Il Liber, in virtù del suo carattere di «calendario liturgico», è anche un “cerimoniale o rituale religioso”, il quale contiene numerosi verbi con corrispondenti “precetti o prescrizioni” nel modo verbale dell’”imperativo”.
2) I verbi all’imperativo sono in misura prevalente al «singolare», in misura limitata al «plurale» a seconda che si rivolgano al solo sacerdote oppure anche ai suoi assistenti e pure ai fedeli presenti alla cerimonia. Si ha anche l’impressione che talvolta il singolare e il plurale di tali imperativi siano stati confusi, intesi male e sbagliati.
3) Sempre in virtù del suo carattere di «cerimoniale o rituale religioso» il Liber contiene numerosi sostantivi nella forma della “invocazione”, cioè nel caso del «vocativo». Ed è forse questa la più importante e funzionale scoperta che mi sembra di avere effettuato sul piano morfo-sintattico, cioè il riconoscimento che il nome delle divinità e pure quello dell’officiante o celebrante sono quasi sempre al vocativo (per il quale però – è bene precisarlo – in etrusco non esiste il relativo caso e morfema). Questa circostanza adesso si comprende facilmente in un testo di carattere religioso, nel quale ovviamente le “invocazioni” alle divinità e gli “inviti” e le “esortazioni” ai sacerdoti e ai fedeli non potevano non essere molto frequenti.
4) Nel Liber l’appellativo VACL, col significato di «rito, secondo il rito», è quello che compare con frequenza maggiore, ben 23 volte, e già soltanto questa circostanza doveva spingere – ma di fatto non è avvenuto – a ritenere che il nostro documento in realtà non è altro che uno dei Libri Rituales, di cui era conosciuta l’esistenza nell’antica Roma per tradizione storica (Cicerone, Div. 1.72; Ammiano Marcellino 29.1.29) e di cui c’è un duplice accenno nell’altro lungo testo etrusco che è la Tabula di Capua (TCap 12, 14): RIΘNAITA «il rituale, il Libro Rituale». Ebbene, proprio per questa ragione ho deciso di denominare il nostro testo non più Liber linteus, bensì Liber Ritualis.
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Espongo adesso quelle che sono o vorrebbero essere le caratteristiche fondamentali di questa mia nuova interpretazione e traduzione del Liber Ritualis della Mummia di Zagabria.
1) In primo luogo preciso che per il testo ho fatto riferimento a quello presentato da Francesco Roncalli nell’opera «Scrivere Etrusco» (Milano, ediz. Electa), pubblicata in occasione del II Congresso Internazionale Etrusco del 1985. Si tratta di un’opera importantissima, costituita, come è, da un chiarissimo e utilissimo apparato iconografico, compreso l’apografo, relativo al Liber e anche ad altri due fondamentali testi etruschi, laTavola di Capua e il Cippo di Perugia. Per questa sua opera il Roncalli è degno del massimo elogio; anche perché ha dimostrato che il Liber, anche se era un volumen (in assoluto l’unico che ci sia pervenuto dell’intera epoca classica), era conservato non “avvolto” o “arrotolato”, bensì disposto a “fisarmonica” o a “soffietto”, cioè a zig-zag.
Ho studiato con la massima attenzione il testo presentato dal Roncalli ottenendo come primo risultato quello di constatare e di assicurare che la lettura che questo studioso ha fatto del testo originale costituisce sicuramente un notevole progresso rispetto alla lettura che in precedenza ne avevano fatto altri pur benemeriti studiosi. Però ho ottenuto anche un altro importante risultato: quello di correggere la lettura fatta dal Roncalli in un discreto numero di casi, come la divisione dei vocaboli, l’inserimento di lettere mancanti, la espunzione di lettere errate, lo scambio fra il sigma e il sade (o san)Inoltre ho constatato che egli ha tralasciato la riga 20 della colonna X, col conseguente scalo della numerazione successiva, che ovviamente io ho corretto e integrato.
Ho pure tenuto sempre presente il testo del Liber come compare nell’opera di Massimo Pallottino, Testimonia Linguae Etruscae (II ediz., Firenze 1968), traendone anche la conclusione che la lettura e trascrizione del testo risulta fatta molto bene ed è anch’essa degna di grande lode.
Nel seguire passo passo il testo del Liber presentato dal Roncalli, ho effettuato anche il suo controllo col testo quale compare, voce per voce, nel ThLE (Thesaurus Linguae Etruscae, I Indice lessicale, Pisa Roma 2009, 2ª edizione curata da Enrico Benelli e in maniera particolare da Valentina Belfiore).
Infine ho tenuto presente anche la nuova lettura che del Liber ha presentato Helmut Rix nella sua opera Etruskische Texte, Editio Minor, I Einleitung, Konkordanz, Indices; II Texte (Tübingen 1991). Ma, come ho avuto già modo di fare per quest’opera del Rix parlandone in generale in altra sede, anche facendo riferimento alla nuova lettura delLiber il mio giudizio è sostanzialmente negativo: a parte la stravagante decisione dell’Autore di trascrivere le due sibilanti sigma e sade niente meno che con otto nuovi grafemi, molte sue letture e ricostruzioni del testo sono da definirsi almeno “avventurose”; e tanto più lo sono in quanto non risulta che egli abbia mai mostrato particolare interesse per il Liber. Un nuovo interprete e traduttore del Liber, se non vuole correre rischi di errori e di equivoci, ha interesse a consultare con la massima cautela il testo presentato dal Rix e dai suoi collaboratori, forse troppo numerosi (quattro und vielen anderen [sic!]).
2) Questa mia interpretazione e traduzione del Liber presenta una lettura più certa del testo, conseguente al fatto che ho proceduto a correggere errori di lettura fatti anche dalle più recenti edizioni del testo stesso.
3) In particolare presenta una lettura filologica più esatta, relativa alla segmentazione o separazione dei vocaboli, alla interpretazione di gruppi grafici, all’inserimento o all’espunzione di lettere oppure del punto di separazione (procedimenti di cui in genere presento la giustificazione nel commento dei singoli vocaboli).
4) Presenta una ricostruzione più ampia dei brani guasti del testo, da me effettuata con un “procedimento analogico”, ossia in base alla circostanza che, come abbiamo già visto, intere frasi vengono ripetute in diversi punti del documento. E preciso che in questa operazione della “ricostruzione” sono stato aiutato enormemente dall’uso delcomputer.
5) In linea generale mi sembra chiaro e certo che la mia traduzione mostra di essere sempre in perfetta congruenza col carattere di «calendario liturgico rituale», che da subito era stato riconosciuto al Liber. Essa, comunque, di certo va molto al di là delle semplici “interpretazioni” che studiosi precedenti avevano dato di questo importante e cruciale documento della lingua etrusca, non fosse altro perché investe il testo nella sua interezza, non lasciando vuoti di interpretazione e di traduzione, esclusi ovviamente quelli derivanti dalle lacune e dai guasti del testo.
D’altra parte è pure certo ed evidente che ci sono anche passi della mia traduzione nei quali si incontrano effettivi “intoppi” per la esatta interpretazione del passo. A mio avviso questi intoppi sono l’effetto di alcune circostanze negative: a) Caratteristica di testo semplicemente suggestivo od allusivo che – come ho spiegato prima – esso ha rispetto a noi lettori moderni; b) Lacune e guasti del testo; c) Errori di trascrizione commessi dallo scriba-copista; d) Infine – ovviamente – errori del traduttore moderno, che sono io. Ed ovviamente è su questi previsti e prevedibili errori dell’Autore che si dovranno fare avanti altri studiosi per eliminarli del tutto o almeno per ridurli di numero.
Liber Ritualis di Zagabria
Testo Etrusco
e traduzione interlineare