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venerdì 13 settembre 2013

Siparietto


 Per chi non è addentro alla questione, dirò che i personaggi che compaiono in questo 'siparietto' di circa 5 anni fa, nel blog del defunto Gianfranco Pintore, sono:

- Alfonso Stiglitz, archeologo;
- Aba Losi, ricercatrice in Fisica, una voce confusa prestata all'Epigrafia ed all'Archeologia sarde (che ne farebbero volentieri a meno);
- Un Anonimo (non mancano mai i figli di madre ignota che offendono gratuitamente, senza mostrare il proprio vero volto di figli di madre ignota, ma ne esprimono benissimo i concetti);
- Mirko Zaru, ricercatore autonomo, che ha almeno il merito di avere dimostrato al di là di ogni dubbio che Tzricottu è uno stampo unico e che i calchi che vorrebbero fare sembrare più numerose le 'tavolette' sono un poco abile falso.

Siamo sempre lì: da una parte si vuol dimostrare che le tavolette sono numerose ed autentiche, ma non si sopporta di essere definiti o "in palese errore" o addirittura "falsari".
A pensarci bene, non esiste altra possibilità.


Stiglitz e Losi




LUNEDÌ 21 LUGLIO 2008


Ma la scrittura risponde a necessità economico-politiche

di Alfonso Stiglitz
Caro Gianfranco,
voglio in primo luogo associarmi ai tuoi complimenti per Carlo Figari che con correttezza e sapienza ha saputo dare informazione su un tema archeologico dibattuto e, cosa rara, dando voce anche agli archeologi.
Devo dargli atto (ma, conoscendolo, non avevo dubbi) di essere stato in grado di sintetizzare correttamente in poche righe una conversazione durata più di un’ora. D’altra parte, è evidente che una sintesi, tiranneggiata dagli spazi invalicabili della carta stampata, non possa che rendere secche e categoriche posizioni e argomentazioni in realtà estremamente articolate. Quindi cerco di “riespandere” quelle argomentazioni, rispondendo anche alla chiamata in causa, un po’ supponente (anche in archeologia, come in biofisica, il “referaggio” presuppone una qualche competenza) di Aba Losi.
E parto proprio da un’affermazione a dir poco sorprendente per una ricercatrice, ancorché di Fisica, che dichiara di non capire cosa si intenda per documento scientifico.
Un documento (o, più genericamente, un dato) scientifico è, in campo storico, ma suppongo anche in quello fisico, un documento che ha subito quella che, con brutto termine oggi in voga, possiamo chiamare una validazione: cioè è stato verificato. Mi spiego meglio con quello che insegno nella prima lezione quando, di tanto in tanto, vengo chiamato a insegnare all’Università. La prima lezione è dedicata, ovviamente, ai primi rudimenti metodologici e agli ausili di studio e in essi richiamo due “leggi” della ricerca storica:
1. ogni fonte, fino a prova contraria, è “falsa”; ciò significa che ogni volta che ci troviamo di fronte a un documento di qualsiasi natura dobbiamo effettuare una serie di verifiche per valutare se è un originale, una copia, una falso, dobbiamo capire se è inserito in un contesto (vedi la seconda “legge”), quindi, se supera questi gradini valutare se è veritiero o meno (anche gli antichi dicevano bugie). In altre parole si cerca di insegnare la sana arte del dubbio (non so se anche in Fisica ....).
2. ogni accadimento storico (compresa la scrittura e le iscrizioni) avviene in un tempo e in uno spazio definiti e non in altro; tempo e spazio che vanno identificati.
Queste operazioni trasformano un documento in un “documento scientifico”.
Veniamo al problema della scrittura, dello Stato e della città. Spero sinteticamente.
Ci troviamo di fronte a due distinti problemi. Il primo riguarda la realtà materiale dell’esistenza concreta della scrittura nuragica; il secondo quello del contesto storico in cui la scrittura nasce e si sviluppa.
Per il primo caso la risposta è relativamente semplice ma, evidentemente, legata sempre e comunque allo stato delle conoscenze, perché è sui dati concreti e verificabili che la ricerca storica si muove.
Allo stato attuale delle conoscenze non esiste un documento che sia certificabile, “validabile”, come scrittura nuragica. Gli esemplari di Tziricottu sono, al di là di ogni ragionevole dubbio, matrici altomedievali (dato cronologico) di ambito artistico bizantino (dato culturale) e presenti anche nelle culture coeve, tra cui quella longobarda. Lo dimostrano ampiamente le decine e decine di esemplari simili per forma, aspetto e dimensioni, presenti nelle necropoli di quell’epoca, ben databili in quanto contesti chiusi, situate nella penisola italiana (e quindi, grazie a dio, non scavate ne studiate da quei cattivi e ignoranti di noi archeologi sardi) che il collega Paolo Serra ha richiamato in diverse sedi scientifiche con precisi riferimenti verificabili. A quei dati non è stata data risposta scientifica ma solo insulti e basse ironie, indegne della qualità della persona che li esprime e di quella che li riceve.
I cocci di Orani appartengono ad altro ambito e cronologia; uno presenta caratteri chiaramente fenici, due degli antropomorfi e uno dei chiari simboli di Tanit. Dalle foto (e quindi in assenza di una validazione scientifica) non è possibile stabilire se si tratti di reperti appartenenti allo stesso contesto, ambito culturale e cronologico. Nel caso della scrittura si tratta di elementi privi di problemi di inquadramento, così come per i segni di Tanit, inseribili in note sequenze iconografiche di cui esistono repertori per la Sardegna, Sicilia, Africa, Spagna, Fenicia (dove peraltro c’è l’attestazione diretta della connessione tra il simbolo e la dea Tanit). Anche nel caso dell’interpretazione di questo segno nei “cocci di Orani” si è privilegiato di ignorare totalmente questi studi e repertori eppure solo per la Sardegna le evidenze (che ormai si avvicinano al centinaio) sono chiare e tutte riportabili a definiti ambiti culturali fenici con persistenze sino all’età romano-repubblicana (vedi le case “puniche” di Cagliari).
Nel caso delle iscrizioni su pietra a parte il caso con lettere palesemente di alfabeto latino e l’altra in alfabeto fenicio, per le altre bisogna approfondire con estrema cura l’analisi; ma sino a oggi, manca l’edizione scientifica: non mi sembra che gli attacchi a me o ad altri colleghi possa considerarsi l’equivalente di una spiegazione scientifica, come ho avuto modo di mostrare in un precedente intervento dove ponevo dei precisi riscontri all’iscrizione fenicia, per i quali non ho ricevuto risposte (e non pretendo di riceverle).
L’altro problema che si pone è se l’assenza di una scrittura nuragica “certificata” (sia essa originale o mutuata da altri sistemi di scrittura) sia effettiva o si basi semplicemente sull’assenza di ritrovamenti. Qui il discorso si complica perché, come è noto a chi si occupa anche distrattamente di ricerca storica, assenza di dati non significa che quei dati non esistano. Allora, fermo restando che l’eventuale rinvenimento di nuovi dati porterebbe a creare nuovi modelli interpretativi, resta il fatto che l’assenza di scrittura di per sé non è sorprendente.
In tutte le culture Mediterranee, Europee e Vicino-orientali la scrittura nasce in collegamento con precise necessità politiche ed economiche legate all’accentramento del potere, alla necessità di organizzare questo potere, soprattutto in campo economico, e all’interno di questo in culture di tipo urbano. Nel caso nuragico questi fenomeni non sono presenti per l’epoca dei nuraghi (Bronzo Medio e Recente, grosso modo secondo e terzo quarto del II millennio a.C.), mentre si colgono segni di formazione di processi simili nelle fasi finali della civiltà nuragica, post nuraghi (Bronzo finale e primo Ferro (dal 1200 a.C. in poi). Guarda caso la scrittura come elemento stabile, non occasionale (importato sugli ox-hide ad es.) compare con i primi fenomeni urbani fenici (anch’essi attestati al di là di ogni ragionevole dubbio) che in Sardegna datiamo alla metà dell’VIII sec. a.C. (a Cartagine nella seconda metà del IX sec. a.C. ecc.). Ovviamente possiamo far finta che la fase fenicia non esista, ma non basta prendersela con gli archeologi, bisogna dimostrarlo (e mi sembra difficile).
Altra cosa sono i marchi ceramici che conosciamo e da qualche anno iniziano a essere meglio studiati, in tutto il Mediterraneo.
Quindi scrittura non equivale a società più evoluta e mancanza di scrittura non equivale ad analfabetismo. Parliamo, invece, di differenti strutture economiche e sociali e, ovviamente, di differenti codici di comunicazione di cui la scrittura è uno dei tanti.
Nessuna negazione né della straordinaria qualità della storia della Sardegna né della capacità dei nuragici, vorrei far sommessamente notare che i materiali nuragici oltremare e le capacità di movimento di quella cultura l’hanno provata gli archeologi, spesso e volentieri sardi, con il faticosissimo cercare strato per strato, coccio per coccio, muro per muro, tomba per tomba, le tracce di questa cultura ovunque essa fosse, ma sempre legati a dati concreti, verificabili e discussi.

P.S. Una umile richiesta alla dott. Losi, mi critichi, anche duramente, per affermazioni che faccio e non su “sillogismi” inventati: “i nuragici erano contadini, la scrittura non serviva loro, ergo i nuragici non scrivevano”; non l’ho mai detto né pensato; per di più, mi consenta, le mie pur scarse frequentazioni di Aristotele mi avrebbero portato a formularlo in modo diverso e più logico: “i contadini non utilizzavano la scrittura, i nuragici erano contadini, ergo non scrivevano” e così via. Sarò antipatico ma certe sciocchezze non mi appartengono.

1 COMMENTI:

Aba ha detto...
Gentile sig. Stiglitz
intanto grazie per la sua risposta. La mia domanda su cosa sia un documento scientifico non é ne´ingenua né banale: se ne discute molto, soprattutto in un campo come il mio dove il problema della validazione di teorie e risultati cresce esponenzialmente, parallelamente al numero di dati prodotti e pubblicati. Noi pero´partiamo da presupposti un po´diversi: ogni dato, fino a prova contraria, é vero e se vi sono dubbi viene verificato da esperimenti ripetuti. Mi rendo conto che questo nel suo campo é un po´difficile (un dato archeologico non é un risultato di laboratorio ripetibile).
Io non intendevo attaccare nessuno, ci tengo a dirlo,ma gli anacronismi nell´articolo c´erano eccome e non credo di dover essere una esperta epigrafista o archeologa per permettermi di esprimere la mia opinione. Il sillogismo non l´avro´ri-formulato rigorosamente (tenga presente che ho detto simile, almeno cosi´appariva dalla stampa), ma il take-home message era quello, questo non puó negarlo.
Ripeto, cosí pareva dalla stampa. Quanto alla sua personale opinione, le confesso che io, anche dalla sua lunga lettera di risposta, non l´ho molto capita...
distinti saluti e , se vuole, mi scriva pure al mio indirizzo (lo trova sulla mia homepage).
Aba

domenica 17 febbraio 2013

Shardana, Stiglitz, Unione Sarda?



 
Ma i balentes Shardana non abitavano qui.

Alfonso Stiglitz (Archeologo)
Uno dei miti più profondamente radicati nel nostro immaginario quotidiano è quello degli “Shardana dal cuore ribelle”, balentes ante litteram, portatori di un ribellismo permanente, al quale gli ideologi colonialisti (consapevoli o meno) condannano la Sardegna e le altre terre: nobili, ribelli e sconfitti.
Agenzie di viaggio, marchi commerciali, modelli di scarpe, libri di successo, società per lo studio della genetica, sono tutti portatori di quel nome e propagatori di una lettura ideologica della storia. Ma è una storia vera? Chi erano veramente gli Shardana?
Mentre da noi si continuano a ripetere gli stereotipi di un secolo fa, basati su una lettura credulona dei testi propagandistici dei faraoni, in Vicino Oriente gli archeologi scavano i luoghi delle gesta degli Shardana e degli altri “popoli del mare”, fornendoci dati oggettivi sulla loro vita quotidiana, mostrandoci sempre più come  niente avessero a che fare con la Sardegna.
I popoli del mare. I testi dei faraoni ci hanno fatto credere a un’invasione che, tra il XIII e il XII sec. a.C., avrebbe causato un vero crollo di civiltà nel Vicino Oriente: palazzi micenei, città (Ugarit), regni (Ittiti) tutti spazzati via dal maglio di questi barbari devastatori. Oggi a quella invasione dei “popoli del mare” nessuno, salvo i distratti e qualche nostalgico, crede più; d’altra parte nessuno crede più al vecchio racconto ottocentesco di una storia fatta di invasioni e migrazioni, è stata cancellata quella degli Hyksos, non è mai esistita quella degli Amorrei e forti dubbi abbiamo su quella dei Dori. Lo stesso nome “popoli del mare” è frutto di un’errata lettura, come ha mostrato Sergio Donadoni negli anni ’60, sarebbe meglio tradurre “i barbari della pirateria” che, all’epoca, era un’attività commerciale aggressiva e antistatale, ma lontana dalle invasioni.
Shardana nel Vicino Oriente. Se abbandoniamo la propaganda faraonica (e le nostre esaltazioni pseudosardiste) e ci rivolgiamo ai dati concreti, vediamo che gli Shardana sono presenti nel Vicino Oriente, a Biblo e a Ugarit, secoli prima della presunta invasione. A Ugarit una decina di documenti giuridici li mostrano pienamente integrati nella compagine sociale della città tanto da condividerne la lingua, la cultura e, finanche, i culti; uno di loro si chiama Mutbaal, tipico nome semitico che significa “dono di Baal”, e ci fa sapere che il padre era un devoto della principale divinità cananea.
Shardana in Egitto. Nello stesso Egitto i papiri amministrativi ci restituiscono un’immagine degli Shardana pienamente integrati e stanziati nel centro e nel sud del paese, ma non nella costa. Pagano le tasse, possiedono terreni da coltivare, hanno servitori, contadini e pastori alle proprie dipendenze; di loro conosciamo il nome, almeno una settantina tra uomini e donne. Di uno, Pagezef, vediamo il volto mentre offre un voto a Harashef, il dio di Eracleopoli, nel Medio Egitto. Non a caso qualche studioso si chiede se il termine Shardana indichi un etnico o una funzione (militare o mercenario)
La ceramica micenea. Si parla tanto della ceramica “micenea III C”, che è considerata la ceramica dei “popoli del mare”, ebbene, gli studi condotti negli ultimi anni hanno permesso di precisare che essa è connessa con i Filistei e non con gli Shardana o gli Shekelesh; ciò significa che i frammenti di quella ceramica trovati in Sardegna attestano relazioni commerciali con mercanti levantini tra i quali dovevano esserci Filistei. Questo dato è rafforzato anche dal rinvenimento di un frammento di sarcofago filisteo, databile tra XI e X sec. a.C., a Neapolis nel golfo di Oristano e da altre attestazioni.
La Sardegna è il crocevia di movimenti commerciali marittimi di cui essa è protagonista, soprattutto negli ultimi secoli del II millennio (per intenderci quelli dei pozzi sacri, dei santuari e dei grandi villaggi del Bronzo Finale) e i primi del I millennio; tra i mercanti che passano qui a commerciare ci sono Micenei, Ciprioti, Filistei, Aramei, Siriani, Fenici, ma non Shardana; finora non è stato trovato niente di loro. E i commercianti nuragici che navigano nel Mediterraneo hanno lasciato oggetti a Creta, in Sicilia e poi in Spagna e in Italia, ma non nei luoghi Shardana (Ugarit, Biblo, Acco e dintorni, Egitto).
Nuragici in Israele. Si è detto che è stata trovata una fortezza nuragica in Israele, nel sito di el-Ahwat, ma i raffronti portati dallo scavatore, A. Zemer, sono molto generici e anacronistici; si è proposto, infatti, di confrontare i corridoi della fortezza con quelli dei “nuraghi a corridoio”. In altre parole un gruppo di nuragici della fine del XIII sec. avrebbero importato in Israele non le tecniche costruttive loro, ma quelle dei loro lontani antenati; mi sembra, francamente, inverosimile. D’altra parte non è stato trovato alcun elemento culturale nuragico, neanche un coccio: l’unico frammento ceramico portato come esempio, in realtà, non ha nulla di nuragico. Allo stesso modo gli scavi nel centro di Acco (Israele) e nel suo territorio e nella fortezza di Tell es-Saidiyeh (Giordania), connessi con gli Shardana, 
hanno restituito una cultura materiale molto diversa da quella della Sardegna.
Egiziani in Sardegna. Si è detto che la Sardegna è ricca di oggetti egiziani derivanti, appunto, dagli Shardana. È una favola ottocentesca nata al momento della scoperta delle grandi tombe puniche e romane di Cagliari e Tharros, dalle quali, è vero, provengono numerosi amuleti, scarabei e gioielli egiziani o egittizzanti. Ma si tratta dei normali oggetti di corredo dell’età fenicio-punica e romana, che si rinvengono in tutte le loro necropoli, ovunque nel Mediterraneo.
Bronzetti e navicelle. I bronzetti e le navicelle votive databili tra il X e il VII sec. a.C. sono stati confrontati con i bassorilievi egiziani di XIII sec. a.C. Si è notata la rassomiglianza degli elmi cornuti, degli scudi rotondi e delle spade lunghe. Peccato che gli stessi elementi siano presenti nel Vicino Oriente in epoca contemporanea e anche più antica e che l’appicagnolo sugli elmi, presente in quelle terre, sia assente nei bronzetti nuragici.  Non solo, gli Shardana si presentano perfettamente rasati, anche i capelli, oppure con barba, baffi, folta chioma e orecchino; i bronzetti (e le statue) nuragici sfoggiano eleganti capigliature a trecce. Le navicelle, poi, sono completamente diverse, lo si vede ad esempio dalle prue e dalle poppe delle navi dei rilievi egiziani che, invece, sono molto simili a quelle raffigurate nei vasi tipo Miceneo IIIC, probabilmente filistee.
I porti Shardana. Si favoleggia di città sommerse in Sardegna. È una leggenda metropolitana che deriva da un’errata lettura fatta molti anni fa di alcune foto aeree di Nora e Tharros. Decenni di ricerche archeologiche e geologiche nei due centri hanno dimostrato che non esistono città sommerse; quei pochi resti sotto costa derivano dall’erosione costiera e dall’innalzamento del livello del mare, di circa 50 cm, avvenuto dopo l’età romana Non esistono città Shardana in Sardegna, può dispiacere ma i dati concreti sono più chiari dei sogni: Cagliari, Nora, Sulci, Tharros e le altre sono città fenicie, sorte da originari scali fenici in aree occupate da villaggi nuragici.
Il nome Sardegna. L’accostamento dei due nomi, Shardana e Sardegna, si basa sulla loro assonanza e questo, da solo, dovrebbe mettere in guardia dai facili entusiasmi. In realtà la radice Serd/Sard è diffusa in tutto il Mediterraneo e non è così distintiva (a meno che non si voglia pensare, come qualche appassionato fantasioso fa, a una sorta di razza dominante l’intero Mediterraneo e oltre, di cui non sarebbe però rimasta alcuna traccia materiale: fantasmi, cioè). Va ricordato, peraltro, che il nome Sardegna è utilizzato per la prima volta dai Fenici e che, come faceva notare il buon Pausania, non ha niente a che vedere con i nuragici.
Si potrebbe continuare a lungo, ma mi pare già chiaro che quella degli Shardana e della Sardegna è una leggenda metropolitana, alimentata in buona parte da una male indirizzata volontà di nobilitare la nostra storia, quasi ci si vergognasse di essa e fosse necessario nasconderla dietro il paravento di “nobili miti” fondanti. Ma la nostra identità non ha bisogno di miti “patacca”, essa nasce da una lunga storia di incontri (pacifici o meno) che ha prodotto quello che siamo, dei meticci portatori di tante belle culture.
Alla domanda “e gli Shardana ?” mi sto abituando a rispondere “no, grazie, siamo sardi”.

da un articolo di Alfonso Stigliz, comparso su Unione Sarda 02.01.2006 



N.B. In grassetto le parti non pubblicate nell’Unione

Toro Androcefalo di Su Casteddu de Santu Lisei (Nule)