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venerdì 24 ottobre 2014

Tir na nOg




Tra Favola e Scienza.

Tír na nÓg (Terra della giovinezza) è l’Aldilà della mitologia celtica, probabilmente meglio conosciuto grazie al mito dell’eroe terreno Oisìn, che s’innamora ricambiato della donna del mondo magico Niamh e va a vivere con lei a Tìr na nÓg, compiendo il viaggio sul suo cavallo magico capace di camminare sull’acqua.
Esistono molti mitici racconti d’avventure o di viaggi fantastici nella tradizione celtica, in cui alcuni dei più grandi eroi irlandesi visitano questa sede magica dietro invito dei residenti. Tír na NÓg è simile ad altre mitiche terre irlandesi come Mag Mell e Ablach. È un luogo ai confini del mondo, collocato su un’isola lontana, ad ovest. Lo si può raggiungere solo con impossibili viaggi che iniziano in grotte, oppure antichi luoghi di sepoltura, o attraversando il mare, oppureda parte  immergendosi sott’acqua. Molti racconti popolari risalenti al Medio evo narrano di numerose visite  a questa terra mitica d’eroi e di monaci irlandesi.
Tir na nÓg è un posto in cui malattia e morte non esistono. È un luogo d’eterna giovinezza e di bellezza, in cui benessere, musica, felicità ininterrotta coesistono in un singolo posto. È insomma l’equivalente celtico dei Campi Elisi greci e romani o del Valhalla vichingo.
Nella storia d’amore di Oisín e Niamh, dopo tre anni l’uomo sente la nostalgia di casa e chiede di poter tornare in patria. Quando giunge in Irlanda, apprende che lì non sono trascorsi solo tre, bensì addirittura 300 anni dall’inizio del suo viaggio. Oisín cade accidentalmente da cavallo e immediatamente diventa vecchissimo e subito muore...
Questo per la parte “Favola”: adesso vediamo quella che riguarda la “Scienza”.


Quando Ian Chalmers, scozzese, ricercatore dell’Università d’Edimburgo identificò – nel 2003 – un gene dotato di molte proprietà particolari, pensò a questa leggenda celtica e gli dette proprio il nome di ‘Nanog’.



Perché si tratta di un gene esistente solamente nelle cellule d’embrioni allo stato iniziale (ES cells).
Le cellule ES sono cellule dette ‘totipotenti’, fondamentali del corpo. Esse sono il materiale da cui originano tutti i tessuti: osso, fegato, polmone, cervello, incredibilmente differenti tra loro. Che cosa ha a che vedere l’eterna giovinezza con questo fatto?
Ebbene: innanzi tutto queste cellule si trovano proprio soltanto in embrioni giovani, ai primi stati. Inoltre, esse possiedono – indiscutibilmente – grandissime potenzialità. Si ha fiducia nel fatto che potranno generare ‘pezzi di ricambio’ piccoli o grandi (singole cellule, tessuti più o meno estesi, persino organi), per sostituire parti malate in modo irrecuperabile. Malattie quali Diabete, Morbo di Parkinson, Paralisi Spinale potrebbero essere guarite.
C’è – naturalmente – il problema etico rappresentato dal fatto che le cellule ES devono essere prelevate da embrioni…

- Le cellule Es erano già state isolate molti anni prima, nei topi (1981: Cambridge, Martin Evans).
- Nel 1998 furono isolate le cellule ES umane (J. Thomson, Univ. Wisconsin). Questo fece nascere la speranza di curare il Parkinson (se le cellule ES si fossero evolute in cellule dopaminergiche, che diventano carenti nel paziente parkinsoniano) ed il Diabete (per differenziazione delle cellule ES in cellule beta, produttrici d’insulina).

Le ricerche erano limitate agli embrioni che avanzavano dalle fertilizzazioni in vitro. Talvolta – però – si creavano intenzionalmente embrioni per scopi di studio su cellule ES.
Naturalmente, da questo fatto originavano polemiche.
Ma ne derivano anche le esperienze necessarie per creare colonie autorigenerantesi di cellule ES (spesso inizialmente si usava un letto di cellule murine come substrato di nutrienti fondamentali: una tecnica in via d’abbandono definitivo).
Fortunatamente, le cellule staminali (anche se non esattamente cellule ES – cioè embrionali staminali) si possono reperire in tessuti di feto, di bambino e perfino di adulto. Ad esempio: sono particolarmente ricche di cellule S il midollo osseo ed il sangue del cordone ombelicale.
Dato che queste cellule – e specialmente quelle d’adulto – non richiedono l’uccisione di un embrione, il loro uso è meno controverso: esse sono già state diffusamente usate nei trapianti di midollo osseo.

Attenzione, però: non si tratta di cellule con le medesime potenzialità delle cellule ES, perché si sono già in parte differenziate in qualche direzione ed hanno perso parte della loro ‘totipotenzialità’.
Il loro studio – è la convinzione generale degli studiosi – non dovrebbe essere sostituito a quello delle cellule ES, bensì dovrebbe essere condotto parallelamente ad esso.

Esistono difficoltà di varia natura. Una è costituita dal fatto che le cellule staminali – possedendo la capacità di produrre vari tessuti – possono andare incontro anche a particolari tipi di tumori: teratomi, più spesso, ma anche leucemie linfoblastiche acute. Per ridurre – se non proprio scongiurare – il rischio, le cellule ES sono preventivamente impiantate sui topi, al fine di controllare la loro potenzialità tumorale.

Le difficoltà non sono solamente scientifiche, ma anche di ordine etico-religioso e costituiscono un ginepraio ostico e complicato: in genere, coloro che sono contrari all’aborto sono anche contrari alla distruzione di un embrione per motivi di studio.
 Si sono creati due ‘fronti’: Inghilterra, Giappone, Cina, India e Singapore sono fortemente a favore e finanziano la ricerca sulle cellule Es anche con finanziamenti pubblici. Altre nazioni – ad esempio Italia e Germania – hanno opposto un veto, totale o parziale. Negli USA – pur trattandosi della maggiore potenza scientifica mondiale – esiste un forte movimento religioso conservatore. Questo ha creato notevoli difficoltà di ordine politico: nel 2001, Bush annunciò che i fondi federali potevano essere resi disponibili  solamente per le linee cellulari ES già esistenti e non per linee nuove: un compromesso pavido che non accontentò nessuno. La situazione è paradossale: chi difende i ‘diritti degli embrioni’ considera immorale qualsiasi ricerca sulle cellule ES e vorrebbe che tali studi fossero banditi. D’altra parte, coloro che sono a favore di tali ricerche sottolineano che le linee esistenti permesse da Bush sono inutili per i trapianti, essendo costituite da cellule murine.
Anche se non esistono ancora risultati clinici definitivi, molte società private stanno cercando di giungere a risultati pratici in campo terapeutico.

Ecco perché la Genetica è entrata in campo: con lo scopo (non privo anch’esso di controversie di tipo etico) di creare cellule staminali totipotenti ‘riprogrammando’ cellule di adulto.

Nelle cellule ES sono stati rinvenuti – oltre a Nanog – anche altri geni: i nomi sono in genere sigle scientifiche poco accattivanti, come LIN 21, oppure Oct-4; in più sono state trovate intere famiglie di geni, note come Sox, Myc e Klf.
Modificando geneticamente i tessuti adulti è oggi possibile attivare questo tipo di geni e ‘far tornare indietro’ nel tempo queste cellule, permettendo loro di riacquisire  la pluripotenzialità delle cellule embrionali.
I primi risultati riportati furono quelli di Shinya Yamanaka (Univ. Kioto, 2006), prima nel topo e successivamente nell’uomo. Queste cellule sono dette IPS (cellule Staminali Pluripotenti Indotte).  Hanno il vantaggio etico di

1) non richiedere uova, né embrioni umani: soprattutto, non richiedono l’uccisione di un embrione
2) essere ottenibili dagli stessi pazienti che ichiedono il trattamento
3) essere geneticamente identiche a quelle del pz e quindi esenti da rigetto immunitario.

Ma esistono anche alcuni svantaggi.
1)    La modificazione genetica è fatta con un virus:che può essere cancerogeno
2)    Il problema etico religioso di base non è risolto interamente: queste cellule non potrebbero esistere, se agli scienziati fosse stato eticamente proibito di studiare le cellule Es, come richiesto.
3)    Non si conosce affatto quale sarà il comportamento delle cellule IPS: nessuno può essere certo che sarà identico a quello delle cellule ES.

Ecco che si torna ad una situazione irreale – quasi di fiaba – ogni volta che l’uomo cerca di sostituirsi ad un’entità ineffabile e superiore che ha preordinato perfettamente tutte le cose nel mondo naturale.
Ci si rende conto che si corre pericolosamente il rischio di cadere da cavallo, proprio come nella fiaba celtica, con un irreversibile danno definitivo irrecuperabile. 

giovedì 23 ottobre 2014

Libertà di parola.


Diritti. 



Tutti rivendichiamo il diritto di potere esprimere la nostra opinione, quando leggiamo – oppure ascoltiamo – una tesi che è una completa min(inesattezza scientifica)ata. 
Deve essere un diritto dirlo liberamente anche all’autore, in modo che 1) abbandoni la tesi errata con beneficio di tutti, oppure 2) fornisca valide prove dell’esattezza della sua tesi (e magari anche della mia posizione errata).
È una sfida – sì – ma solamente una sfida scientifica. Non deve condurre, come invece è successo (risulta ben documentato) ad aggressioni fisiche con denuncia per lesioni, oppure a continui e biliosi riferimenti personali a base di offese più o meno scurrili, soprannomi velenosi, ed in genere epiteti poco creativi (più spesso a base di materiale fecale ed altre sorprendenti sostanze di rifiuto).

Mi rendo conto che le conseguenze del nostro dirgli: “Stai sostenendo una str(inesattezza scientificamente scomunicata)ata” non ce ne renderà certo amico l’autore o gli autori. Ma essere avversari intellettuali non costituisce un problema insormontabile, tra gente civile e matura, in una democrazia.



Percezione e comportamento. 
Una persona civile e matura cercherebbe a questo punto di migliorare i propri enunciati, per convincere (tutti, non solo l’avversario) con la logica. Come farebbe? Intanto potrebbe iniziare documentandosi di più e meglio; apporterebbe un po’ di sana bibliografia al proprio lavoro, recente ed accettata, possibilmente internazionale; eliminerebbe (oppure porrebbe in forma solo ipotetica e possibilistica) quanto di non assolutamente provato esista nella propria produzione intellettuale.

Il problema sopraggiunge quando si diventa avversari con persone non civili e non mature, che non possiedono il concetto di democrazia...

Invece di migliorare le proprie tesi, completandole ed approfondendo le proprie ricerche al riguardo, questo tipo di imb(soggetti)illi prenderà molto personalmente l’intera questione e conseguentemente cercherà di dire ‘peste e corna’ dell’avversario intellettuale, che diventerà (nella sua mente) un avversario per la vita. La situazione, insomma diventerà una di quelle situazioni da film western: “Non c’è abbastanza spazio per tutti e due in città, Johnny: uno deve andarsene. E non sarò io”…



Insomma: nella mente (?) di queste tes(persone irrazionali)chia, offendere la controparte, inventarne atteggiamenti deprecabili, falsare le loro posizioni renderà scientificamente valide  e più accettabili a tutti le proprie caz(tesi sbagliate)te.

Essi interpretano i riferimenti ad una bibliografia scientifica aggiornata esistente non come il desiderio di dimostrare che si sta seguendo un percorso scientificamente accettato (oppure ipotizzato come valido e accettato dal Consenso), bensì come incapacità creativa dell’autore, che “non è capace di produrre lavori originali”.
 

Come si vede, si tratta di un evidente e grave caso di strabismo mentale. Esattamente (spiace un po’ dirlo) come nel caso paradigmatico in cui il dito indica la luna ed il soggetto in esame guarda il dito. 


Quando si dovrebbe porre l’attenzione sulla sostanza di argomenti condotti erroneamente e conclusi peggio, questi soggetti si concentrano su tutt’altro, svicolano, offendono, interpretano (di solito, erroneamente) le intenzioni, vanno a caccia dell'oca selvaggia, fanno insomma di tutto meno che restare in argomento. Perché – se lo facessero (e credo che lo sappiano!) – sarebbero costretti ad un certo punto ad ammettere: “Me lo sono inventato”.

Documentazione, creazione originale ed invenzione.
Ripeto: se lo facessero sarebbero costretti ad un certo punto ad ammettere: “Me lo sono inventato”. E - notoriamente - l'invenzione è una creazione originale, ma non necessariamente coincide con la verità Scientifica: esiste anche la fiaba, esiste anche la millanteria, esiste la frode. Tutti esempi di creazioni - talvolta brillanti - che non frequentano la Verità, anche se purtroppo le incontriamo spesso nella realtà che ci circonda...

Si fa un po’ fatica a non imitarne i modi rozzi e diretti (io ho volutamente fatto ricorso ad una forma di autocensura del tipo vedo/non vedo, che considero almeno divertente e che alleggerisce un po’ i termini del conflitto rendendolo semi serio), ma è necessario farlo: 1) anche perché – spesso, troppo spesso – tra i due contendenti gli astanti non riescono bene ad individuare chi sia il cog(soggetto senza metodo scientifico)one e 2) una piazzata in pubblico è proprio qualche cosa in cui il soggetto non civile e non maturo (per il quale esistono numerose alte definizioni più succose sulle quali volentieri sorvolo, al momento) riesce meglio, in quanto trattasi di soggetto del tutto privo di intuizione scientifica, di capacità intellettuale superiore, spesso anche di normale percezione della realtà (vedasi il suo grave problema di ambliopia).
Non m’illudo di avere detto tutto, né di essere stato assolutamente convincente per tutti - figurarsi - e comunque mi astengo dalla puerile ed inutile elencazione alla lavagna delle due liste dei “buoni” e “cattivi” per quando arrivi la maestra...
Ma è evidente che - se un cortese magistrato me lo chiederà - sarò puntuale e preciso, nell'elencazione dei fatti, degli atti  e di chi abbia offeso prima e di più e più persone.

lunedì 13 gennaio 2014

Favola e Realtà

Questo libro è stato scritto molti anni fa: in esso si trovano infatti numerosissime imperfezioni ed errori di varia natura, circa l'interpretazione della storia passata della Sardegna, della Tirrenia Antica e del Mediterraneo in genere.

Ma questo è ovvio e non mi sorprende.

Quello che mi stupisce, semmai, è che ancora oggi molti sedicenti studiosi propugnino davvero - e con convinzione - proprio quelle favole che ho rappresentato qui sotto forma di racconto, così, tanto per passare piacevolmente il tempo...

sabato 5 ottobre 2013

Raccontare FAVOLE INDOEUROPEE

Il dio Hindu Varuna che cavalca un mostro marino. Acquarello del 1700 dopo Cristo.


Dal XIX secolo i linguisti sapevano che tutte le moderne lingue Indo-Europee discendono da una singola lingua. La lingua è chiamata ProtoIndoEuropeo, abbreviato in PIE, ed era parlata da una popolazione risalente ad un periodo temporale tra il 4.500 ed il 2.500 a.C., che non lasciò testi scritti. E' sorta la domanda: "Che suono aveva il PIE?". Nel 1868 il linguista tedesco August Schleicher fece uso di un vocabolario PIE ricostruito per creare una favola, in modo da potere udire una qualche approssimazione di PIE. E' chiamata "la favola della pecora e dei cavalli" ed è anche conosciuta come "la favola di Schleicher" e racconta dell'incontro di una pecora tosata con alcuni cavalli petulanti. Man mano che i linguisti scoprono altro, l'esperimento sonoro continua e la favola si aggiorna per riflettere l'attuale stato di conoscenza di quale sarebbe stato circa 6.000 anni fa il suono di questa lingua scomparsa. Non ne esiste una versione definitiva, dato che esistono disaccordi tra i vari studiosi. In questa versione, Andrew Byrd, linguista dell'Università del Kentuky, recita la propria versione, basata sulle ultime novità nel campo linguistico (e, purtroppo, sulla propria pronuncia inglese).

By the 19th century, linguists knew that all modern Indo-European languages descended from a single tongue. Called Proto-Indo-European, or PIE, it was spoken by a people who lived from roughly 4500 to 2500 B.C., and left no written texts. The question became, what did PIE sound like? In 1868, German linguist August Schleicher used reconstructed Proto-Indo-European vocabulary to create a fable in order to hear some approximation of PIE. Called “The Sheep and the Horses,” and also known today as Schleicher’s Fable, the short parable tells the story of a shorn sheep who encounters a group of unpleasant horses. As linguists have continued to discover more about PIE, this sonic experiment continues and the fable is periodically updated to reflect the most current understanding of how this extinct language would have sounded when it was spoken some six thousand years ago. Since there is considerable disagreement among scholars about PIE, no one version can be considered definitive. Here, University of Kentucky linguist Andrew Byrd recites his version of the fable using pronunciation informed by the latest insights into reconstructed PIE.









Schleicher originally rendered the fable like this:

Avis akvāsas ka

Avis, jasmin varnā na ā ast, dadarka akvams, tam, vāgham garum vaghantam, tam, bhāram magham, tam, manum āku bharantam. Avis akvabhjams ā vavakat: kard aghnutai mai vidanti manum akvams agantam. Akvāsas ā vavakant: krudhi avai, kard aghnutai vividvant-svas: manus patis varnām avisāms karnauti svabhjam gharmam vastram avibhjams ka varnā na asti. Tat kukruvants avis agram ā bhugat.

La Pecora e i cavalli.

Una pecora che non aveva lana vide alcuni cavalli, uno dei quali trascinava un carro pesante, un altro portava un grosso carico ed un altro portava velocemente un uomo, La pecora disse ai cavalli: "Mi duole il cuore nel vedere un uomo che conduce i cavalli". I cavalli dissero: "Senti, pecora, i nostri cuori soffrono quando vediamo questo: un uomo, il padrone, trasforma la lana della pecora in un caldo vestito per sé. E la pecora non ha lana".
Udito questo, la pecora fuggì nella pianura.

Here is the fable in English translation:

The Sheep and the Horses

A sheep that had no wool saw horses, one of them pulling a heavy wagon, one carrying a big load, and one carrying a man quickly. The sheep said to the horses: "My heart pains me, seeing a man driving horses." The horses said: "Listen, sheep, our hearts pain us when we see this: a man, the master, makes the wool of the sheep into a warm garment for himself. And the sheep has no wool." Having heard this, the sheep fled into the plain.

And here is the modern reconstruction recited by Andrew Byrd. It is based on recent work done by linguist H. Craig Melchert, and incorporates a number of sounds unknown at the time Schleicher first created the fable:

H2óu̯is h1éḱu̯ōs-kwe

h2áu̯ei̯ h1i̯osméi̯ h2u̯l̥h1náh2 né h1ést, só h1éḱu̯oms derḱt. só gwr̥hxúm u̯óǵhom u̯eǵhed; só méǵh2m̥ bhórom; só dhǵhémonm̥ h2ṓḱu bhered. h2óu̯is h1ékwoi̯bhi̯os u̯eu̯ked: “dhǵhémonm̥ spéḱi̯oh2 h1éḱu̯oms-kwe h2áǵeti, ḱḗr moi̯ aghnutor”. h1éḱu̯ōs tu u̯eu̯kond: “ḱludhí, h2ou̯ei̯! tód spéḱi̯omes, n̥sméi̯ aghnutór ḱḗr: dhǵhémō, pótis, sē h2áu̯i̯es h2u̯l̥h1náh2 gwhérmom u̯éstrom u̯ept, h2áu̯ibhi̯os tu h2u̯l̥h1náh2 né h1esti. tód ḱeḱluu̯ṓs h2óu̯is h2aǵróm bhuged.




Nel 1990 i linguisti storici  crearono un'altra corta parabola in PIE ricostruito. Essa è liberamente basata su di un passaggio tratto dai Rigveda, un'antica collezione di inni in Sanscrito, in cui un re implora il dio Varuna di garantirgli un figlio. Nella registrazione, A. Byrd recita la propria versione di "Il Re ed il Dio" in PIE, basandosi sul lavoro di Eric Hamp e Subhadra Kumar Sen.

In the 1990s, historical linguists created another short parable in reconstructed PIE. It is loosely based on a passage from the Rigveda, an ancient collection of Sanskrit hymns, in which a king beseeches the god Varuna to grant him a son. Here, Andrew Byrd recites his version of the “The King and the God” in PIE, based on the work of linguists Eric Hamp and the late Subhadra Kumar Sen.








Il Re ed il Dio

C'era una volta un Re. Non aveva figli. Il Re desiderava un figlio. Chiese al suo sacerdote: "Che mi possa nascere un figlio!" Il sacerdote disse al re: "Prega il Dio Weruno". Il Re si avvicinò al dio Weruno per pregare rivolto al dio: "Ascoltami, padre Weruno!" Il dio Weruno scese dal cielo. "Che cosa vuoi?" "Io voglio un figlio". "Che sia così!", disse il luminoso dio Weruno. La regina ebbe un figlio.



The King and the God

Once there was a king. He was childless. The king wanted a son. He asked his priest: "May a son be born to me!" The priest said to the king: "Pray to the god Werunos." The king approached the god Werunos to pray now to the god. "Hear me, father Werunos!" The god Werunos came down from heaven. "What do you want?" "I want a son." "Let this be so," said the bright god Werunos. The king's lady bore a son.

And here is the story rendered in reconstructed Proto-Indo-European:

H3rḗḱs dei̯u̯ós-kwe

H3rḗḱs h1est; só n̥putlós. H3rḗḱs súhxnum u̯l̥nh1to. Tósi̯o ǵʰéu̯torm̥ prēḱst: "Súhxnus moi̯ ǵn̥h1i̯etōd!" Ǵʰéu̯tōr tom h3rḗǵm̥ u̯eu̯ked: "h1i̯áǵesu̯o dei̯u̯óm U̯érunom". Úpo h3rḗḱs dei̯u̯óm U̯érunom sesole nú dei̯u̯óm h1i̯aǵeto. "ḱludʰí moi, pter U̯erune!" Dei̯u̯ós U̯érunos diu̯és km̥tá gʷah2t. "Kʷíd u̯ēlh1si?" "Súhxnum u̯ēlh1mi." "Tód h1estu", u̯éu̯ked leu̯kós dei̯u̯ós U̯érunos. Nu h3réḱs pótnih2 súhxnum ǵeǵonh1e.


(c) 2013 Archaeology Magazine, a Publication of the Archaeological Institute of America  

domenica 1 settembre 2013

TI LU NARU IEU - 2


“VOLERE E NON VOLERE”

C’era una volta una mamma buona e bella e laboriosa, ma povera, che aveva due figlie. Una delle due figlie, la maggiore, si chiamava Chicchina: era bella, ma pigra e vanitosa, invidiosa ed egoista e stupida e cocciuta proprio comente unu molente

Il nome della figlia minore era Luisedda: al confronto con la sorella sembrava quasi bruttina, ma era sveglia e volenterosa, generosa e buona come un pane appena sfornato, modesta e laboriosa. La famiglia era povera, perché i soldi che babbo portava a casa erano troppo pochi per la famiglia numerosa (c’erano anche altri tre fra fratelli e sorelle, ancora tutti troppo piccoli per lavorare e guadagnare).

Un giorno accadde proprio che la mamma si trovasse inaspettatamente senza sapone per lavare i panni. Soldi per comperarlo non ce n’erano, in casa, quindi pensò di mandare la figlia maggiore a chiederlo in prestito, mentre lei finiva di rassettare la casa, sbattere i materassi ed i tappeti e pulire il camino dalla cenere del fuoco del giorno prima.

Le chiese, quasi cantando una filastrocca:

“Oh Chicchina, Chicchinedda,

Figgia mea bellixedda,

Andresti a chiedere sapone

Per lavare i miei panni,

Chicchina, Chicchinedda?”.

Ma Chicchinedda era pigra e si stava pettinando i bei capelli, dopo essersi messa il vestito buono, per farsi vedere in piazza da tutti i ragazzi che le facevano la corte. Poi, non voleva certamente fare la figura di andare a chiedere l’elemosina come una mischinedda, quindi le rispose, sgarbatamente: “Io oggi non mi sento affatto bene, faccio persino fatica a stare in piedi! E non so neppure se riuscirò ad andare agli appuntamenti che avevo preso, per cui - tra l'altro - sono già in ritardo!”

Il vicino era un vecchio vedovo burbero, molto ricco e solitario, che viveva in un palazzo sempre chiuso, e conduceva una vita molto ritirata, senza mai invitare alcuno, né uscire, per non incontrare nessuno. Era una persona piena di mistero. Qualcuno diceva fosse un mago, o uno stregone, o chissà …

Anche per questo motivo, malgrado le accorate richieste d’aiuto della madre, Chicchinedda si rifiutò assolutamente di andarci.

Allora, la madre fu costretta a chiedere alla figlia minore:

“Oh Luisa, Luisedda,

amore ‘e su coro,

Andresti a chiedere sapone

Per lavare i miei panni,

Luisedda, prenda ‘e oro?”

La piccola scattò subito in piedi e lasciò i suoi cinque ciottoli bianchi di fiume con i quali stava giocando a bruscheras e prontamente dichiarò, con un sorriso: “Certo che ci vado, mamma!”.

Il palazzo non era lontano e la strada era breve. Il giardino intorno al palazzo era quasi un parco, curato e pulito, con alberi ombrosi e maestosi e piante da fiore sempre fiorite: era un vero piacere per gli occhi. Luisedda bussò al portone timidamente e chiese educatamente il permesso d’entrare.

Una vocina da dentro rispose d’entrare, ché era sempre aperto.

Appena fu entrata, Luisedda vide una servetta, ancora più piccola di lei, che faticava inutilmente con uno straccio a pulire l’enorme lastricato dell’atrio del palazzo. La servetta ansimava e faticava, ma quel lavoro sembrava davvero troppo grande per lei. Luisedda le chiese allora se poteva aiutarla, ma ancora prima di ricevere una risposta era già in ginocchio e stava dando una mano. Il lavoro fu presto finito ed il risultato era splendido: la servetta la ringraziò di vero cuore e le chiese perché mai fosse venuta al palazzo.

Luisedda raccontò: “Mia madre è rimasta senza sapone così e così. Allora, alla fine sono venuta io: ah lo posso prendere in prestito un po’ del vostro sapone?”.

“Certamente per me: ma io sono solo una serva; devi chiederlo prima al padrone, che sta al piano di sopra”.

Allora Luisedda salì saltellando per un enorme scalone che portava al piano di sopra: era ornato di quadri d’antenati impettiti, ed austeri, ma certamente non spaventò Luisedda, intenzionata a trovare il padrone, per chiedergli il permesso per avere il sapone da dare alla madre per lavare i suoi panni.

Appena fu su, vide subito due sguattere che, poverine, stavano lavando una montagna di stoviglie più grande di loro: arrivavano appena alla vasca in pietra dove stavano i piatti e le pentole e facevano una gran fatica a riporre i piatti asciutti sul ripiano, anche usando sgabelli e scalette. Allora Luisedda, che era più alta di loro, si offrì subito di aiutarle, ma era già lì con le maniche rimboccate, prima ancora che loro le dicessero sì, a lavare, asciugare, riporre.

Quando anche questo lavoro fu fatto, le due sguattere non smettevano di ringraziarla per l’aiuto. Infine, vollero sapere perché mai fosse lì e lei rispose loro: “Così, così e così. Quindi mi servirebbe del sapone per lavare i panni: posso prenderne un po’ del vostro?”.

Le due risposero che senz’altro sì, ma doveva avere prima di tutto informarne il padrone, che stava al piano di sopra.

Luisedda salì allegramente cinguettando anche la seconda rampa di scale, che questa volta era ornata con viste meravigliose di tutti gli angoli più belli del paese. Infine giunse ad una camera dove tre cuoche stavano pasticciando incredibilmente con della pasta per fare il pane e i dolci, senza riuscire a concludere nulla e senza neppure riuscire ad accendere il fuoco del forno.

Luisedda, che era bravissima, perché aveva imparato osservando e aiutando sua madre, chiese il permesso di aiutarle e immediatamente iniziò a lavorare il pane, a farne delle forme, ad infornarle con grande abilità nel forno che aveva prima portato alla temperatura giusta. L’odore del pane appena fatto si sparse indiscreto per tutta la casa e – come al solito – rese subito tutti più allegri e contenti.

Le tre cuoche, dopo averla molto ringraziata per il suo aiuto, le chiesero come mai si trovasse lì ed ella cortesemente raccontò ancora tutta la storia: “Così e così. Quindi eccomi qui, a chiedervi un po’ del vostro sapone in prestito”.

Le tre cuoche le risposero che avrebbe certamente potuto prenderlo, ma che prima di portarlo via doveva avvertire il padrone, che stava sempre da solo nell’unica stanza del piano di sopra, dove la vista bellissima lo distraeva dai suoi pensieri tristi e dalle malefatte degli uomini.

Luisedda salì canticchiando fiduciosa ed allegra l’ultima rampa di scale, che era ornata da immagini varie e fantasiose, d’angeli e di fate, d’elfi e di folletti e finalmente giunse a quell’unica stanza, che era fatta con pareti tutte di vetro e fu subito rapita da un panorama bellissimo, che toglieva il fiato: si vedevano la campagna fertile, le montagne quiete, il fiume tortuoso e paziente, quasi fino al mare immenso. Una figura d’uomo anziano, ma ancora alto e snello, le dava le spalle, rivolto verso quella vista bellissima. Sentendola arrivare, si voltò e la salutò con cortesia, con una voce profonda e calda: “So che cosa desideri, piccola Luisedda. Ma quello che tu sei merita davvero molto di più di quello che tu chiedi.

Perciò ti farò avere tutto il sapone che servirà a tua madre per mesi, il servizio di piatti in porcellana fine che hai lavato ed asciugato per bene, un servizio di posate in argento che hai trattato con cura, pane carasatu e focacce a sufficienza per tutta la tua numerosa famiglia. Inoltre, ti darò vestiti di seta preziosa per te e gioielli che saranno un giorno la tua dote. Infine ti donerò una fata tutta tua, che vegli su te e che ti assista sempre” – poi, si rabbuiò in volto, e proseguì, con voce severa: – “Tua sorella Chicchinedda, invece, che non è voluta venire qui, con la scusa di stare male, da ora in poi merita di stare male davvero e di perdere quella bellezza che adesso cura così tanto, come se fosse la cosa più importante al mondo. E si merita d’incontrare persone che la tratteranno male, esattamente come lei tratta gli altri, con egoismo e cattiveria. Questo è giusto ed è stato deciso così, ormai”.

E questa è tutta la storia, che vi piaccia e ci crediate, oppure no.

E da allora Luisedda fu davvero felice e ben accetta da tutti, mentre Chicchinedda fu evitata e compatita da tutti.

Perché qualcuno c’è – in fondo – che ci guarda e ci giudica, in ogni momento, anche se non ci sembra affatto che sia così, e sembra che davvero sappia molte più cose di ognuno di noi, di quanto ciascuno non creda possibile…

E qualche volta, anche se forse non proprio sempre, succede che il giusto premio infine arriva, a premiare le buone azioni e la buona disposizione d’animo: magari quando davvero non ci speriamo quasi più e quando ormai fatichiamo un po’ a sorridere…

E questo vale, naturalmente, anche per la giusta punizione.

Maurizio Feo

martedì 5 febbraio 2013

PRETESTI & PROMESSE




(Latino)
« Ad rivum eundem lupus et agnus venerant, siti compulsi.
Superior stabat lupus, longeque inferior agnus.

Tunc fauce improba latro incitatus iurgii causam intulit:

"Cur - inquit - turbulentam fecisti mihi aquam bibenti?
"
Laniger contra timens:

"Qui possum - quaeso - facere quod quereris, lupe?
A te decurrit ad meos haustus liquor.
"
Repulsus ille veritatis viribus:

"Ante hos sex menses male - ait - dixisti mihi".

Respondit agnus:

"Equidem natus non eram!"

"Pater, hercle, tuus - ille inquit - male dixit mihi!
"
Atque ita correptum lacerat iniusta nece.

Haec propter illos scripta est homines fabula qui fictis causis innocentes opprimunt. »

(Italiano)
« Un lupo e un agnello, spinti dalla sete, vanno allo stesso ruscello.
Il lupo sta più in alto e, un po' più lontano, in basso, l'agnello.

Allora il malvagio, incitato dalla gola insaziabile, cerca una causa di litigio.

"Perché - dice - mi hai fatto diventare torbida l'acqua che sto bevendo?

E l'agnello, tremando:

"Come posso - dice - fare quello che lamenti, lupo?
L'acqua scorre da te alle mie sorsate!"

Quello, respinto dalla forza della verità:

"Sei mesi fa - aggiunge - hai parlato male di me!"

Risponde l'agnello:

"Ma veramente... non ero ancora nato!"

"Per Ercole! Tuo padre - dice - ha parlato male di me!"

E così, lo afferra e lo uccide dandogli una morte ingiusta.

Questa favola è scritta per quegli uomini che opprimono gli innocenti con falsi pretesti. »

(Fedro, Phaedrus, circa 20 a.C.)

Anche con promesse elettorali...

giovedì 13 dicembre 2012

COME T'INVENTO UNA FAVOLA



Caro Pasuco, 

amico mio: t'invito a Paulilatino, per venire a scoprire 
come s'inventa una favola
scritta a più mani da eruditi nel corso di trecento anni


ATOBIOS DE PAULE 2012 
Rassegna di eventi culturali 
Comune di Paulilatino             Guilcier Real Paulilatino
Sabato 22 Dicembre 2012 ore 17,30 – Locali ex ISOLA
Storia, paleoclimatologia, geologia  e spostamento di popoli nel mediterraneo   sul finire   del II millennio a. C.
Presentazione del libro
L’IRA DEGLI DEI
e  I “POPOLI DEL MARE”
Coordinamento: Associazione Guilcier Real
Presentazione: L’autore Maurizio Feo
Sarà presente il direttore scientifico della C.S.C.M. Editrice, Giacobbe Manca.
Introduce l’evento l’assessore alla cultura, intervento  finale del sindaco



“…non soltanto archeologia e storia, ma anche altro: per esempio, le maggiori novità al riguardo ci sono giunte negli ultimi anni da due discipline – geologia e paleoclimatologia – che ci hanno permesso di modificare di molto le nostre posizioni stantie sull’argomento…”
“….Sono stati rappresentati in modo scorretto per circa trecento anni: predoni organizzati in un’alleanza internazionale; marinai guerrieri inarrestabili che – inventando una guerra lampo impossibile per i mezzi logistici di allora, avrebbero distrutto città, regni ed imperi di quasi tutto il mondo conosciuto e creato una crisi economica di tale portata da determinare il passaggio dall’uso del bronzo a quello del ferro. Inverosimile. Il fatto più incredibile è che i cosiddetti Popoli del Mare – dopo avere conquistato facilmente paesi ricchi e produttivi – subito li abbandonavano inspiegabilmente, per fuggire a bordo delle proprie navi verso paesi inventati sulla base di “assonanze……..” 


Ti prometto che ci saranno 
parole, colori e suoni,
le parole saranno mie, 
i colori saranno quelli - inventati - dei copricapi  dei popoli del mare, 

i suoni saranno quelli delle divertenti e non scientifiche assonanze che sarebbero dovute servire per identificarli.

quindi non tradirò certamente la filosofia fondante di questo WeBlog.
TI ASPETTO.

martedì 27 novembre 2012

BENI: TI LU NARU IEU.


BAINZU E SU ATTU ARESTI (Gavino ed il Gatto Selvatico)


Bainzu era un pastore: suo padre era stato pastore e suo nonno era stato pastore. Non ci vedeva nulla di male ad essere pastore anche lui.  (Del suo bis-nonno nessuno in famiglia aveva mai parlato molto: non seppe mai esattamente perché. Ma questa è tutta un’altra storia… la racconterò un'altra volta).
Giovane e forte, pascolava le sue pecore in Gallura ed aveva buoni rapporti con tutti i pastori degli altri stazzi.

Le cose gli andavano sempre bene: primo, perché era di buona volontà e poi perché era davvero un gran lavoratore. Salutava sempre tutti con garbo e – quando gli chiedevano come andasse – rispondeva sempre: “Benissimo!” con un sorriso smagliante convincente, che già metteva il buonumore a chi glielo aveva domandato.
Bainzu era sempre disposto a dare un aiuto agli altri, che glielo avessero richiesto, oppure no. Aveva i suoi metodi. A chi era troppo orgoglioso per chiedere, gli compariva quasi per caso davanti, guarda caso proprio mentre aveva più bisogno, e lo aiutava a portare un peso, a riparare un giassu, o a sostituire la copertura del cuile. “Tanto ormai sono qui – diceva – e non ho proprio niente da fare. Ahiò, lasciami provare, così imparo anche io come si fa, che mi può servire” – e questo lo diceva anche per lavori che già sapeva fare benissimo…

Insomma, era un buonissimo essere umano, di quelli che proprio vorremmo ce ne fossero di più anche oggi: buono ed onesto come il pane appena fatto in domu.
Ma ogni tanto Bainzu andava anche a caccia ed era bravissimo a catturare qualsiasi animale. Conosceva tutti i tipi di trappole e di trucchi; sapeva benissimo quali fossero esattamente le abitudini degli animali e quindi non gli mancava mai selvaggina. Nessun animale, dell’acqua, del cielo o della terra era troppo furbo per lui. Sapeva creare trappole efficaci persino per la volpe, che notoriamente è furba e diffidente e molto raramente ci casca, in una trappola, specie se soltanto annusa anche solo una parvenza dell’odore dell’uomo…

Un giorno, andando a caccia, catturò – per errore, va detto – un Attu Aresti, un gatto selvatico grande e grosso ed aggressivo, così forte e combattivo che a momenti rompeva la gabbia che lui gli aveva costruito apposta. Era un bellissimo esemplare, sontuosamente elegante, con due occhi magici e regali che a guardarli mettevano soggezione e con un portamento da vero padrone. Era, in tutto e per tutto, una vera piccola tigre, a parte solo i colori che erano di gatto selvatico. Forse per questo motivo, proprio perché era così bello e maestoso, anche se di certo non aveva l’intenzione di mangiarselo, Bainzu decise di tenerselo.

Questa sua decisione significava tenerlo prigioniero in una gabbia: ma – decise – lo avrebbe trattato bene e gli avrebbe dato da mangiare e da bere. Inutile dire che il gatto non era affatto d’accordo: e glielo faceva capire ogni volta che lui si avvicinava alla gabbia, soffiando in modo ostinato e rabbioso e tirando indietro le orecchie…
Bainzu non perdeva la speranza che – un giorno – il gatto si sarebbe finalmente abituato al suo ovile ed alla sua presenza, tanto che avrebbe anche potuto aprirgli la gabbia, senza che lui fuggisse via…
Per il momento, certamente no: il gatto selvatico rifiutava sdegnosamente qualsiasi tipo di cibo e non sembrava neppure voler toccare l’acqua…

Bainzu non ebbe modo di preoccuparsene troppo, però, perché subito un altro problema più urgente catturò tutta la sua attenzione…
Il giorno dopo, infatti, all’improvviso, trovò una pecora morta, chissà come e perché.
La esaminò minuziosamente, per capirne la causa, ma non trovò assolutamente nulla.
Non ci fu niente da fare: Bainzu s’ingegnò in tutti i modi, fece di tutto, ricorse alle cure che conosceva (ed è sicuro che non ne conosceva poche!), ma il giorno dopo un’altra pecora gli morì, nello stesso modo misterioso, senza segni, senza sintomi; allora chiese aiuto ai pastori più esperti e più vecchi di lui; consultò persino un veterinario del paese, Mastro Francesco Cucca, che aveva salvato interi greggi e mandrie di buoi ed innumerevoli asini da sicura morte, in tutta l’isola. Ma nessuno riuscì a cavare un ragno dal buco: le sue pecore continuavano a morire, ogni giorno che passava erano una di meno.

Ma quale malattia – si chiedeva Bainzu – può uccidere le pecore una al giorno? Sembra quasi che il Pundaccju delle sette berrette si sia incattivito proprio contro di me!
Bainzu era uno spirito semplice e ricordava ancora tutte le favole che gli avevano raccontato da bambino. Le ricordava con un misto di nostalgia e gratitudine, per l’affetto profondo che ogni figlio porta ai genitori ed anche con un pizzico di paura superstiziosa. Specialmente adesso, nel momento in cui la parte brutta di una favola da bambini sembrava prendere corpo ed uscire dalle pagine sbiadite dei ricordi più cari…
La realtà è tutta un’altra cosa, si dirà.

Ah, se fosse stato così semplice come nelle favole! Vediamo: avrebbe dovuto semplicemente rubare uno dei sette berretti al Pundaccju – cosa che Bainzu era certamente capace di fare, visto che era sveltissimo di mano – per poi restituirla solo dietro la ricompensa della salvezza delle sue pecore. E si sa che i folletti possiedono enormi ricchezze, sufficienti per una vita da re: quindi avrebbe potuto anche chiedere di più.
Ormai, aveva già perso cinque pecore e la sua paura era fin troppo reale: un pastore senza gregge, si vedeva già.

Tornò a casa da un giro d’ispezione, sconsolato e cosciente della propria totale impotenza, di fronte a quel mistero: se non fosse riuscito ad arrestarlo, quel fenomeno terribile sarebbe proseguito, fino all’uccisione di tutte le sue pecore. Lo avrebbe completamente privato di tutto ciò che aveva. Bainzu guardò nel vuoto, lontano, e vide la voragine della povertà e – in fondo ad essa – lo spettro della fame.
Nell’entrare, dalla soglia guardò verso il gatto: era smagrito e d’aspetto meno battagliero, dopo cinque giorni di rifiuto del cibo. Malgrado ciò, non distoglieva lo sguardo da lui e seguiva ogni suo movimento, con attenzione e con uno sguardo ostile. Bainzu si commosse per l’animale fiero e deciso a morire in prigionia, se non poteva vivere in libertà, e si decise: meglio anche per lui allontanarsi da quel cuile ormai maledetto da un misterioso ed implacabile spirito malvagio.

Si avvicinò alla gabbia ed il gatto non soffiò, né abbassò le orecchie, ma semplicemente attese.
Lo liberò, allora, e gli sussurrò: “Vattene, gattone, sei libero. Che almeno tu possa vivere. Qui, moriresti e non voglio che ti accada. Buona fortuna…”.
Il gatto allora sgusciò fuori dalla gabbia, senza toccarne alcuna parte, come sanno fare i gatti. Si allontanò, con un passo leggero e felpato, camminando elegante e lento, come se il Tempo non esistesse, come se guidasse un corteo religioso, come fisse un Re.
Sembrava noncurante, come sapendo che l’uomo non rappresentava più un pericolo per lui. Bainzu lo guardò allontanarsi, chiedendosi perché mai non potessero essere amici, come aveva desiderato, dispiaciuto di esserselo anzi fatto nemico, tanto da non accettare cibo da lui. Sei una gran bella bestia – mormorò tra sé – speriamo che ti salvi: avrei desiderato accarezzarti e tenerti con me.

Non aveva finito di esprimere quei desideri e quei pensieri, che il gatto saltò fulmineo e silenzioso su una pietra e si girò verso di lui. In quel momento si alzò un vento freddo improvviso e s’udì un tuono, non accompagnato da un lampo. Incominciò una pioggia fitta e fredda,  non annunciata.
I due restarono lì a guardarsi, come fosse nulla.
Poi, il gatto fece un gesto con le zampe anteriori, come grattando o graffiando la pietra muschiosa, sulla quale era salito, come fanno i gatti quando “si fanno le unghie” sui cuscini… E nel fare ciò, sembrava intenzionalmente guardare verso Bainzu, che lo fissava estasiato, ipnotizzato ed incurante dell’acqua.
Infine, scomparve nella macchia.

L’indomani, Bainzu si svegliò presto e subito corse fuori a controllare le sue pecore: la pioggia, dopo avere lavato ogni cosa, aveva ceduto il posto ad un sole vittorioso e prepotente. Di lei erano rimaste ovunque miriadi di goccioline che ora scintillavano sotto la luce, quasi per magia. L’aria era pulita e fresca e ferma e non portava alcun odore. Un tenue arcobaleno si disegnò per un minuto nel cielo e sembrò scendere verso quella pietra dove s’era soffermato il gatto. Scomparve quasi subito. Nessuna pecora era più morta o mancava. E così fu per tutti i giorni che seguirono.
Ora, Bainzu era un tipo semplice, sì, ma non era stupido.
Ci pensò su, a modo suo.

Non fece parola ad alcuno di quello che era successo.
Perché non può proprio accadere che uno spirito sconosciuto (già definirlo così è strano, vero?) s’impossessi straordinariamente delle sembianze di un gatto selvatico, ma poi sia contraddittoriamente così indifeso da cadere in una semplice trappola fatta dall’uomo. E però sia contemporaneamente così potente, addirittura da costringerlo alla fine a liberarlo, uccidendo misteriosamente ma inesorabilmente ad una ad una le sue pecore!

Ma anche se – per ipotesi – potesse davvero accadere una cosa così strana e contraddittoria, Bainzu non lo avrebbe mai creduto, pur essendone stato testimone diretto!
Ma – infine – se anche Bainzu avesse potuto ritenerlo possibile, e non è affatto detto che sia così, certamente non lo avrebbe mai raccontato, né confessato in giro. Proprio mai ed a nessuno, per nessuna ragione al mondo.
Però – tra sé e sé – Bainzu ci aveva pensato, a lungo e bene. Ed era arrivato ad una sua conclusione precisa: Bainzu era stato messo alla prova.

Non era davvero certo di avere superato proprio nel migliore dei modi quella prova, ma sapeva – di fatto, dai risultati – che non gli era andata del tutto male.
Ora, se questa fosse una favola, Bainzu avrebbe scavato sotto alla pietra che il gatto gli aveva indicato ed avrebbe immancabilmente trovato l’inesauribile tesoro del folletto delle sette berrette...
Ma questa non è una favola, è una storia vera e nella vita vera queste cose di solito non succedono.
Non che Bainzu non ci avesse pensato. Anzi, gli successe ancora molte volte – passando vicino alla pietra – di pensare ad iniziare lo scavo. Ogni volta alzava le spalle, e poi s’allontanava scuotendo il capo, con un sorrisetto divertito dipinto sul volto.

Bainzu smise di cacciare, naturalmente, perché forse questo era il messaggio principale di quell’avventura. Ed ebbe ancora il massimo rispetto per tutte le creature, specialmente quelle più indifese, uomini o animali che fossero.
E siccome tutti gli altri – uomini o animali – si accorgono della nostra buona disposizione, Bainzu visse da allora come circondato da una nuvola di amicizia, felicità e buoni sentimenti, da parte d'ogni essere vivente. E questa è una verità che dovremmo tenere presente tutti, ogni giorno.

Bainzu non incontrò mai più in vita sua un gatto selvatico, con un certo rammarico, forse – pensò sempre – proprio perché non aveva proprio compreso appieno il significato di quella sua volontaria e fugace comparsa nella sua vita di pastore.

Ma non gli morì mai più una pecora e visse fino a cent’anni senza un malanno.

Ogni diritto è di Maurizio Feo, autore di questo testo e ottimo amico personale di Bainzu.