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domenica 3 gennaio 2016

PRIDE & PREJUDICE

Orgoglio e Pregiudizio.



No, no: tranquillo, Pasuco! Non intendo certo scrivere di “Pride and Prejudice” di Jane Austen (anche se – a guardare bene – il tema non si discosta poi troppo da ciò che desidero trattare). Intendo parlare di un fenomeno un poco più recente.

Di questi tempi, infatti, si legge sempre più spesso l'affermazione curiosa:

Sono nato in [XXXX] e ne sono fiero”.

La definizione di “fiero” è:
1 Che esprime, dimostra fermezza morale, grande dignità e orgoglio: carattere, sguardo f.; coraggioso, intrepido: un popolo f.
  • 2 Profondamente orgoglioso di qlcu. o qlco.

Pertanto, si deve dedurre che quel “fiero” è usato nel senso di “orgoglioso”.

La definizione di “orgoglioso” è:
1 Pieno d'orgoglio, superbo: è troppo o. per riconoscere i suoi errori; che ha un carattere fiero, un forte amor proprio: è un giovane o., non si arrende facilmente; che rivela superbia o fierezza: atteggiamento o.
  • 2 Soddisfatto, fiero di qlco. o qlcu.: sono o. dei risultati ottenuti
Concludendo, si deve intendere che l'autore della frase intende informarci del fatto che l'essere nato in [XXXX] lo rende “orgoglioso”. A prima vista sembra una frase innocente ed innocua e forse – in fondo – vorrebbe anche esserlo... Ma non lo è.

Non vedi perché, Pasuco?

Male, per due motivi, l'uno dei quali non esclude affatto l'atro.

  1. Si può essere “orgogliosi” – del tutto legittimamente – di una acquisizione, o di un successo, di un risultato pratico o teorico ottenuti attraverso l'impegno, l'applicazione, il lavoro, la propria opera prestata, la propria irriducibile e coraggiosa volontà.
    Si può insomma essere orgogliosi per avere ottenuto, con maggiore o minore fatica, un risultato finale positivo – per sé o per gli altri – che non è da tutti raggiungere.
    Ma l'essere stati scodellati dalla propria genitrice in un posto, piuttosto che in un altro non rientra nel novero dei “risultati ottenuti” da un individuo. Si tratta – piuttosto – di un accidente fortuito, un capriccio del caso, che ognuno subisce così come viene e nel quale non ha ovviamente auto alcuna parte.
    Si obietterà che si può essere più che soddisfatti di essere nati in un posto bellissimo, salutare ed in un buono strato sociale, piuttosto che essere nati in un paese povero e brutto, in un ghetto maleodorante. Questo è certamente vero – oltre che noiosamente lapalissiano – ma con altrettanta certezza non ha proprio alcunché a che vedere con l'orgoglio o la fierezza... Si tratta di una sensazione che può più appropriatamente essere espressa con vocaboli meglio descrittivi, quali: “fortunato”, “felice”, “sollevato”, “contento” e così via. Insomma, si può amare il proprio paese, con il Folklore che vi si è sviluppato (usi, costumi, lingua e tradizioni etc), con tutte le cose buone che vi si trovano e malgrado i difetti (che certamente ci saranno: nessuno è perfetto). Riproponendosi, anzi, di contribuire a eliminarli: quindi una dichiarazione d'intenti positivi. In quel caso, la frase diventerebbe un'affermazione propositiva per tutto un programma di amore verso ambiente ed abitanti di una determinata località: un po' sdolcinata, forse, ma totalmente buona...
    Se ne potrebbe dedurre che chi ha usato l'espressione “orgoglioso” oppure “fiero”, si sia sbagliato, oppure che non conosca appieno il significato di questi vocaboli italiani. Il che equivale a dire, ahimé, che si tratta di un sempliciotto superficiale e provinciale, che non ha mai varcato i confini del proprio angusto paesello di poche centinaia di anime e che scrive per altri provinciali sempliciotti come lui, animati dai medesimi pensieri semplici e limitati. Qualcuno qui – avendo usato tale espressione in precedenza – potrebbe offendersi: negherebbe senz'altro di avere sbagliato vocabolo e negherebbe di riconoscersi nella descrizione di un sempliciotto provinciale. Probabilmente, affermerebbe di conoscere l'italiano e di non avere affatto sbagliato espressione né vocabolo. Eppure, essere un sempliciotto provinciale che non conosce la lingua italiana è per lui è la migliore tra le due possibili eventualità: la seconda è infatti molto peggiore e molto più lesiva (per tutti, in verità, non solo per l'autore della frase)...
  2. Nel secondo caso – infatti – l'autore non ha sbagliato vocabolo, bensì lo ha intenzionalmente usato a ragion veduta e ben conoscendone appieno il significato e le implicazioni: egli è veramente, genuinamente “orgoglioso” di essere nato in [XXXX], perché questo fatto (pure se fortuito e non dipendente da lui) gli ha consegnato un determinato ambiente, un determinato patrimonio genetico, una ben precisa “diversità” da tutti gli altri esseri umani intorno, che magari vivono nel medismo Stato, ma non godono delle medesime peculiarità. Orbene: questo – in nuce – è un pensiero pericolosamente razzista, che prelude a tutto ciò che il razzisamo sa ineluttabilmente portare con sé.


Non desidero proseguire oltre: a buon intenditor, poche parole. Intendo solamente sottolineare che nel primo caso si pecca, innocentemente, di troppo grande superficialità. Nel secondo caso, invece, si è pienamente e coscientemente razzisti e – come tali – anche nemici dell'Umanità intera.

I Sardi che sono "orgogliosi d'essere nati in Sardegna" ci pensino un po' su tra sé e si chiariscano molto bene e presto le idee su che cosa realmente significhi il termine “sardità” e se realmente esista una qualità che possa essere così descritta. A quel punto dovremmo accettare anche “Lombardità” e “Abbruzzesità”, "Piemontesità" e così via.

A mio vedere, senza alcun vantaggio pratico...

lunedì 19 gennaio 2015

Legami tra Castro e Castrare


CASTRO E CASTRARE

articolo di Massimo Pittau

Nella varietà logudorese della lingua sarda è molto usato l'appellativo castru, crastu, gastru, grastu coi significati di «ciottolo, sasso, macigno, rocca, roccia, roccione». Esso compare molto di frequente nella toponimia col significato prevalente di «macigno, roccia, roccione».

Max Leopold Wagner, nel suo Dizionario Etimologico Sardo (DES I 316) ha fatto derivare l'appellativo sardo dal lat. castrum «luogo fortificato» (diminutivo castellum «castello»; suff. -ell-; Norme 5). Senonché egli non si è accorto, nel prospettare la sua tesi, di una grossa difficoltà: lo sviluppo semantico «ciottolo, sasso → macigno → roccia → rocca → roccaforte → castello → luogo fortificato» è senz'altro concepibile, quello inverso è del tutto inverosimile.

Il Thesaurus Linguae Latinae (ThLL) presenta l'appellativo latino come di "origine dubbia" e il Dizionario Etimologico Italiano (DEI 801) come "probabilmemte mediterraneo".

A parere dello scrivente il lat. castrum è derivato dalla lingua etrusca, nella quale infatti esistono sia il gentilizio CASTRECE, al quale corrisponde chiaramente il gentilizio lat. Castricius, documentato in Sardegna (CIL X 7808, 7885, Sardinia), sia il lessema CASTRU (ThLE²). Questo potrebbe significare «castrone», adoperato come soprannome (cognomen; e infatti esisteva il gentilizio lat. Castronius e il cognomen Castricus; RNG) (alternanza e/i; suff. -on-/-ů; Norme 1, 7).
Sempre a parere dello scrivente il sardo castru «ciottolo, sasso, macigno, rocca, roccia, roccione» non può derivare dal corrispondente latino, a causa della suddetta grande difficoltà semantica, ma è un vocabolo protosardo o paleosardo, che risale cioè alla lingua che parlavano gli antichi Sardi Nuragici, prima della loro latinizzazione linguistica, effetto della conquista romana dell'isola.
La conferma viene da questa serie di toponimi che sono chiaramente protosardi, come dimostrano i vari suffissi e suffissoidi da cui sono caratterizzati: nuraghe Castrachesu (Cuglieri), Casturre (Ovodda), Crastaduresu (Bono), Crastadulesu (identico) e Crastorra (Orotelli), Crastalói (Sarule), Crastanile (Dualchi).
A. Ernout e A. Meillet, autori del Dictionnaire Étymologique de la Langue Latine (DELL, IV édit., IV tirage, Paris 1985) hanno mostrato di non trovare alcuna difficoltà a connettere l'appellativo lat. castrum «luogo fortificato, castello» col verbo castrare «castrare, tagliare i testicoli a un animale e pure all'uomo»; e ciò hanno fatto con il richiamo e con la connessione al sanscrito çastrám «coltello». Sta però di fatto che questa connessione non abbia convinto – come abbiamo già visto – gli autori dei ThLL e DEI.

Per parte mia faccio notare che il salto semantico dal significato di «tagliare» a quello di «luogo fortificato» nel latino e soprattutto a quello sardo di «ciottolo, sasso, macigno, rocc(i)a, roccione» è eccessivo, non è condivisibile e pertanto va respinto.
Nel sardo castru il significato di «ciottolo, sasso, macigno, rocc(i)a, roccione» è una singolarità linguistica, la quale trova riscontro in un'altra singolarità e pure arcaicità, questa etnografica: nelle zone appartate della Sardegna fino a un secolo fa circa la castrazione degli animali non si effettuava affatto col “taglio” dei testicoli, ma si effettuava col loro “schiacciamento” effettuato con “sassi” (uno grosso faceva da incudine e uno piccolo faceva da “martello”; con quale sofferenza per i poveri animali noi maschi umani possiamo facilmente immaginare!). Anticamente a Nùoro il dare un colpo i testicoli di un individuo si diceva tirare una crastada.

Ebbene, con tali arcaicità, una linguistica e l'altra etnografica, documentate in quella terra fortemente conservatrice che è la Sardegna, siamo in grado di ricostruire la esatta trafila semantica e linguistica dei vocaboli e dei fatti citati: protosardo castru «ciottolo, sasso, macigno, rocc(i)a, roccione», etr.-lat. castrum «luogo fortificato, castello», castra «accampamenti»; castrare «schiacciare i testicoli coi sassi».

  



martedì 21 agosto 2012

Caro Pasuco,
amico mio: torno a parlarti di parole, ma - ahimé - non per il meglio...


Un grave effetto perverso della globalizzazione consiste in un processo inesorabile di amalgama, il cui effetto ultimo  è l’estinzione delle lingue.

Gli studiosi del linguaggio calcolano in circa 15.000 le lingue che si parlavano verso l’anno 1.500 dopo Cristo.

Era il principio della cosiddetta "Era delle Grandi Esplorazioni" (che furono rese possibili dall'uso intensivo della vela "latina" ricordi?).

Oggi (circa 500 anni dopo, soltanto!) restano circa 6.000 lingue superstiti. 
Gli studiosi pensano che alla fine del secolo in corso, circa il 90% di queste saranno perdute.

Il fenomeno di migrazione e rimescolamento etnico delle popolazioni, che sta facendo perdere le tracce delle linee genetiche "tradizionali" è il medesimo che sta cancellando le lingue.
Noi naturalmente ci auguriamo tutti che le migliori e più rapide comunicazioni ed un superiore livello di comprensione portino, finalmente, qualche buon risultato, con sè.

Ma – di fatto – stiamo perdendo le lingue ancora esistenti, al ritmo di una ogni due settimane. 

Tratto dal National Geographic DEEP ANCESTRY GENOGRAPHIC PROJECT – Spencer Wells e coll. 




C’è chi teme già per la lingua Greca moderna, 
parlata "solo" da 12.000.000 milioni di abitanti. 
 
Si conosce ormai quale sarà il fato, ormai prossimo, delle lingue  (e dei dialetti) cosiddette di minoranza
Ladino, Basco, Sardo, etc.
 
Il processo è continuo, rapido ed inarrestabile: 
è fatto di un torrente di parole straniere 
che entrano continuamente nell’uso comune; 
è fatto dalla moda sovrana, 
dall’introduzione quotidiana di novità tecnologiche 
che non possiedono nomi nazionali; 
è determinato persino da immagini 
(televisive, cinematografiche e telematiche), 
che entrano senza chiedere il permesso 
nelle nostre case in ogni momento, 
spesso con l’ammiccante grimaldello della musica.
Alcune ci piacciono, altre certamente no: ma non è questo il punto....
 
Quanto Italiano è rimasto, nell’Italiano di oggi?
 
Confrontalo con quello di uno, cinque, dieci anni fa, 
(prendi una copia vecchia di un giornale, ad esempio)
poi dimmi non dove stiamo andando, 
ma a che velocità stiamo correndo