Visualizzazione post con etichetta lingua sarda. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta lingua sarda. Mostra tutti i post

lunedì 19 gennaio 2015

Legami tra Castro e Castrare


CASTRO E CASTRARE

articolo di Massimo Pittau

Nella varietà logudorese della lingua sarda è molto usato l'appellativo castru, crastu, gastru, grastu coi significati di «ciottolo, sasso, macigno, rocca, roccia, roccione». Esso compare molto di frequente nella toponimia col significato prevalente di «macigno, roccia, roccione».

Max Leopold Wagner, nel suo Dizionario Etimologico Sardo (DES I 316) ha fatto derivare l'appellativo sardo dal lat. castrum «luogo fortificato» (diminutivo castellum «castello»; suff. -ell-; Norme 5). Senonché egli non si è accorto, nel prospettare la sua tesi, di una grossa difficoltà: lo sviluppo semantico «ciottolo, sasso → macigno → roccia → rocca → roccaforte → castello → luogo fortificato» è senz'altro concepibile, quello inverso è del tutto inverosimile.

Il Thesaurus Linguae Latinae (ThLL) presenta l'appellativo latino come di "origine dubbia" e il Dizionario Etimologico Italiano (DEI 801) come "probabilmemte mediterraneo".

A parere dello scrivente il lat. castrum è derivato dalla lingua etrusca, nella quale infatti esistono sia il gentilizio CASTRECE, al quale corrisponde chiaramente il gentilizio lat. Castricius, documentato in Sardegna (CIL X 7808, 7885, Sardinia), sia il lessema CASTRU (ThLE²). Questo potrebbe significare «castrone», adoperato come soprannome (cognomen; e infatti esisteva il gentilizio lat. Castronius e il cognomen Castricus; RNG) (alternanza e/i; suff. -on-/-ů; Norme 1, 7).
Sempre a parere dello scrivente il sardo castru «ciottolo, sasso, macigno, rocca, roccia, roccione» non può derivare dal corrispondente latino, a causa della suddetta grande difficoltà semantica, ma è un vocabolo protosardo o paleosardo, che risale cioè alla lingua che parlavano gli antichi Sardi Nuragici, prima della loro latinizzazione linguistica, effetto della conquista romana dell'isola.
La conferma viene da questa serie di toponimi che sono chiaramente protosardi, come dimostrano i vari suffissi e suffissoidi da cui sono caratterizzati: nuraghe Castrachesu (Cuglieri), Casturre (Ovodda), Crastaduresu (Bono), Crastadulesu (identico) e Crastorra (Orotelli), Crastalói (Sarule), Crastanile (Dualchi).
A. Ernout e A. Meillet, autori del Dictionnaire Étymologique de la Langue Latine (DELL, IV édit., IV tirage, Paris 1985) hanno mostrato di non trovare alcuna difficoltà a connettere l'appellativo lat. castrum «luogo fortificato, castello» col verbo castrare «castrare, tagliare i testicoli a un animale e pure all'uomo»; e ciò hanno fatto con il richiamo e con la connessione al sanscrito çastrám «coltello». Sta però di fatto che questa connessione non abbia convinto – come abbiamo già visto – gli autori dei ThLL e DEI.

Per parte mia faccio notare che il salto semantico dal significato di «tagliare» a quello di «luogo fortificato» nel latino e soprattutto a quello sardo di «ciottolo, sasso, macigno, rocc(i)a, roccione» è eccessivo, non è condivisibile e pertanto va respinto.
Nel sardo castru il significato di «ciottolo, sasso, macigno, rocc(i)a, roccione» è una singolarità linguistica, la quale trova riscontro in un'altra singolarità e pure arcaicità, questa etnografica: nelle zone appartate della Sardegna fino a un secolo fa circa la castrazione degli animali non si effettuava affatto col “taglio” dei testicoli, ma si effettuava col loro “schiacciamento” effettuato con “sassi” (uno grosso faceva da incudine e uno piccolo faceva da “martello”; con quale sofferenza per i poveri animali noi maschi umani possiamo facilmente immaginare!). Anticamente a Nùoro il dare un colpo i testicoli di un individuo si diceva tirare una crastada.

Ebbene, con tali arcaicità, una linguistica e l'altra etnografica, documentate in quella terra fortemente conservatrice che è la Sardegna, siamo in grado di ricostruire la esatta trafila semantica e linguistica dei vocaboli e dei fatti citati: protosardo castru «ciottolo, sasso, macigno, rocc(i)a, roccione», etr.-lat. castrum «luogo fortificato, castello», castra «accampamenti»; castrare «schiacciare i testicoli coi sassi».

  



martedì 23 dicembre 2014

Il Nome Della Nostra Isola


SARDIS SARDEGNA

SARTENE SARTEANO SARDAGNA

Sardegna dal satellite [fonte: Wiki]


 Articolo di Massimo Pittau
(mie aggiunte spaziature, fotografie e grassetto)


Il nome della nostra isola Sardegna risulta strettamente collegato a quello di altre località molto distanti fra loro, ma la cui stretta connessione linguistica è molto significativa ai fini di una importante tesi storiografica che vado sostenendo da anni. I toponimi in questione sono i seguenti: Sardis in Asia Minore, Sardinia la nostra isola, Sartena in Corsica, Sarteano in Toscana, Sardagna presso Trento.

Sardis o Sardeis era la capitale della Lidia, vasta regione e importante stato gravitante nella costa centro-occidentale dell'Asia Minore od Anatolia e bagnata dal Mare Egeo. La grande città costituiva il capolinea di importanti vie commerciali dell'Asia Minore, compresa la “strada regia” che la collegava con la Mesopotamia e con la Persia<1>.
Il toponimo Sárd(e)is, in lingua lidia propriamente Śfard-, etnico Śfarda-etn, probabilmente significava «anno» oppure «solstizio» e ciò in onore del dio Sole adorato dai Lidi, con una denominazione dunque teoforica o referente a una divinità<2>.
In un anonimo commento del dialogo «Timeo» di Platone viene riportata la notizia secondo cui, attraverso il nome di una leggendaria donna Sardō, l'isola di Sardegna avrebbe derivato la sua denominazione appunto da Sárd(e)is, capitale della Lidia<3>.
Sul piano linguistico il toponimo Sárd(e)is era connesso a questi altri toponimi dell'Asia Minore: Sardénē (nella Misia), Sardēssós e Sardemisus (nella Licia).

Nella lingua greca il nome della nostra isola era Sardó, Sardõnē, Sardõnia, Sardanía, Sardẽnia e l'aggettivo etnico era Sardó(o)s, Sardánios, Sardianós, Sardónios e il sostantivo Sardáioi, Serdáioi.
L'odierno nome della Sardegna deriva chiaramente da quello latino Sardinia e trova come odierne connessionei i toponimi protosardi o paleosardi Sárdara (OR), Sardasái (Esterzili), Sardajara (Nurri), Sardòri (2: Teulada, Villacidro), Serdiana (CA), Serdis (2: Escovedu, Uras).

Sartena, Sartene è il nome di un villaggio della Corsica meridionale, in una zona nella quale si trovano notevoli resti della cosiddetta “civiltà torreana”, così chiamata da “torri” del tutto simili ai nuraghi sardi, anche se meno imponenti. È del tutto verosimile che i Protosardi o Nuragici siano per l'appunto sbarcati anche nella Corsica meridionale, nella via diretta che, lungo la costa orientale della Corsica e di quelle dell'Arcipelago Toscano, costituiva per essi la via più facile per arrivare nella Penisola italiana e precisamente a Piombino, la antica città etrusca di Populonia.
Sarteano o Sartiano (Siena), Sartiana e Sartiano (Lucca) sono tre  toponimi toscani che risultano chiaramente connessi con l'etnico Sardianós, che era una delle varianti con cui i Greci chiamavano gli antichi Sardi. D'altra parte nel materiale linguistico della lingua etrusca che ci è stato conservato compaiono i seguenti antroponimi che sembrano pur essi corradicali dell'etnico Sardi: Sertna(-l), Zarta, Zertna(-i), Zertna(-s), ai quali corrisponde chiaramente l'odierno toponimo Sertino (Castellina in Chianti)<4>. Ed è appena il caso di accennare al fatto che la lingua etrusca non aveva la consonante dentale sonora /d/, alla quale invece corrispondeva quella sorda /t/.
Infine pure il toponimo trentino Sardagna è chiaramente connesso con uno dei nomi con cui gli antichi Greci chiamavano la nostra isola: Sardanía, con la normale ritrazione dell'accento tonico effettuata in bocca latina e all'epoca romana.

Dunque, dal punto di vista tipicamente ed esclusivamente linguistico i seguenti toponimi Sardis (Lidia), Sardanía (Grecia), Sardinia (Sardegna in epoca romana), Sardara (Sardegna), Sartena/e (Corsica), Sarteano, Sartiana e Sartiano (Toscana), Sardagna (Trentino) si presentano come omoradicali o corradicali, si presentano cioè come le perline sciolte e disperse di un collana unica ma spezzata. La quale attende di essere ricostruita con un filo unico costituito di fatti e considerazioni di carattere propriamente storiografico.
E questa ricostruzione di quella collana o catena unica di toponimi può essere effettuata purché ci si rifaccia ad un notissimo passo di Erodoto (I 94), quello che narra del trasferimento della metà della popolazione della Lidia dall'Asia Minore nell'Occidente mediterraneo, e precisamente in quella regione che finirà per essere denominata Tuscia od Etruria, posta fra i due fiumi Tevere ed Arno ad oriente e il Mar Tirreno ad occidente.
Già l'autorevole archeologo e storico Pedro Bosch Gimpera aveva sostenuto che gli emigranti lidi erano arrivati in Etruria soltanto dopo aver soggiornato per qualche secolo in Sardegna, nelle vesti dei Sardi Nuragici, i quali dopo erano sbarcati in Etruria richiamati dalla scoperta degli importanti giacimenti di ferro nella Tolfa del Lazio e nell'isola d'Elba in Toscana<5>.
In seguito, dalle loro prime sedi di sbarco e di insediamento di Populonia, Vetulonia, Vulci, Tarquinia e Caere, gli emigrati avevano conquistato l'intera regione con una direzione che andava dal sud-ovest al nord-est.
E poi, col passare del tempo, gli Etruschi avevano superato l'Appennino tosco-romagnolo ed avevano conquistato e rifondato Felsina (= Bologna), Modena, Parma, Spina, Adria e Mantova. Infine avevano risalito le valli alpine, soprattutto quella dell'Adige sia alla ricerca di nuovi giacimenti di minerali sia perché cacciati dalla Padania verso le Alpi perché costretti dalla invasione dei Galli. Ed erano arrivai fino a Varna, Velturno, Vipiteno in Alto Adige<6>.

Ebbene proprio questo lungo tragitto dei Lidi, che si erano trasferiti prima in Sardegna e dopo nell'Italia centrale e infine avevano conquistato parte della Padania e la valle dell'Adige, è chiaramente indicato pure dalla trafila dei su citati toponimi, che trascrivo ancora una volta: Sardis (Lidia), Sardanía (Grecia), Sardinia, Sardara (Sardegna), Sartena/e (Corsica), Sarteano, Sartiana e Sartiano (Toscana), Sardagna
(Trentino).



A me è capitato spesso di entrare in polemica con archeologi e una volta rivolgendomi ad uno di loro scrissi: «È ben vero che le pietre, i vasi e i cocci di terracotta, i vasi di metallo, le armi  pure di metallo hanno una particolare consistenza documentaria in ordine alla ricostruzione di pagine di preistoria e di storia antica, ma molto spesso pietre, cocci, vasi ed armi sono del tutto muti, mentre le parole e i toponimi hanno la dote di “parlare” molto più e molto meglio».

Massimo Pittau


Costa nord della Sardegna [fonte: Wiki]

N O T E

<1> Vedi M. Pittau, Storia dei Sardi Nuragici, Selargius (CA) 2007, Domus de Janas edit. [Libreria Koinè, Sassari], §§ 7-9.
<2> Vedi M. Pittau, op. cit. § 36 pag. 147.
<3> Platonis dialogi, scholia in Timaeum (a cura di C. F. Hermann, Lipsia 1877), 25 B, pag. 368. Il testo greco è riportato da M. Pittau, La Lingua dei Sardi Nuragici e degli Etruschi, Sassari 1981, pag. 57.
<4> Vedi Silvio Pieri, Toponomastica della valle dell'Arno, in Atti della «R. Accademia dei Lincei», appendice al vol. XXVII, 1918, Roma (1919), pag. 47 (il quale però sbaglia di molto nella spiegazione linguistica); Silvio Pieri, Toponomastica della Toscana meridionale (valli della Fiora, dell'Ombrone, della Cècina e fiumi minori) e dell'Arcipelago toscano, Siena 1969 («Accademia Senese degli Intronati»), pag. 132.
<5> Vedi M. Pittau, op. cit., §§ 11, 25, 63.
<6> Vedi M. Pittau, Lessico Italiano di origine etrusca – 407 appellativi 207 toponimi, Roma, Società Editrice Romana, 2012 [Libreria Koinè, Sassari], pagg. 118, 119, 121.

L'asinello bianco dell'Isola di Asinara [fonte: Wiki]

martedì 11 novembre 2014

Autonomia speciale e Lingua Sarda (II)

Ripubblico l'articolo, con una nota aggiuntiva in calce, che l'autore ha ritenuto necessaria dopo le critiche alla prima stesura. Non posso entrare nel merito della questione in quanto non rientro nel novero degli esperti o periti della materia.
Ma non posso esimermi dall'esprimere una nota di tristezza, nel notare quotidianamente quanto in basso sia rotolata ogni considerazione per la Cultura in una Sardegna nella quale - ormai - l'Incultura è rampante...

di Massimo Pittau.

Tutte le volte che incontro l’amico Diego Corraine provo un senso di malinconia e pure di mortificazione: perché corro con la memoria agli anni Settanta, quando fondammo la «Sotziedade pro sa Limba Sarda», io presidente e lui segretario, e in questa veste organizzammo incontri e manifestazioni in tutta la Sardegna per la salvaguardia e il recupero della lingua sarda. Dopo però ci separammo e la Sotziedade scomparve, quando lui credette di proporre per la Sardegna una “lingua unificata”, creata a tavolino e scritta alla maniera della lingua spagnola, mentre io non ci credetti per nulla. Sta però di fatto che il suo tentativo fallì per due volte per l’ostilità dei Sardi, soprattutto dei Campidanesi – che sono i parlanti più numerosi – quando si accorsero che avrebbero dovuto adoperare una “lingua unificata”, che era una forma di logudorese annacquato. E da allora abbiamo continuato ad assistere alla dissardizzazione linguistica dei Sardi, effettuato in forma massiccia dalla scuola, dai mass media, dalle canzonette, dallo sport, ecc.
E malinconia unita a mortificazione mi è venuta quando qualche giorno fa Diego ha pubblicato un articolo, del quale condivido quasi tutte le considerazioni: che la lingua costituisce il fattore primo e principale di ogni etnia; che la Regione Sarda non si è impegnata al fine di applicare e far applicare realmente una legge regionale e una statale, che pure sono state promulgate, in difesa del sardo e delle altre lingue di minoranza; che una politica in difesa della lingua sarda, mandata avanti con chiarezza e con impegno avrebbe anche le sue ricadute positive di carattere occupazionale a favore dei giovani sardi, ecc.
Eppure, come ho detto e scritto altre volte, ci sarebbe un mezzo del tutto facile e molto efficare, il quale, adottato, consentirebbe non soltanto la salvaguardia della lingua sarda, ma pure il suo recupero nella scuola, nell’amministrazione, nella politica e nella cultura. Si tratterebbe di fare entrare nello Statuto della Regione Autonoma Sarda, un solo nuovo articolo, in perfetta analogia con quanto avviene per gli Statuti delle Regioni Autonome Valdostana e Altoatesina: nella Val d’Aosta e in Alto Adige nessuno può entrare e operare nella scuola e negli uffici pubblici se non conosce la lingua francese e quella tedesca rispettivamente. Ebbene, se noi Sardi vogliamo salvaguardare veramente la nostra lingua sarda, la nostra cultura e la nostra etnia, dovremmo chiedere e pretendere l’inserimento nello Statuto Regionale Sardo di questo nuovo unico articolo, con tre commi: «In Sardegna nessuno può insegnare e operare nelle scuole se non conosce e adopera la lingua sarda. A) Ogni insegnante ha l’obbligo di conoscere in maniera passiva e attiva una delle varietà dialettali della lingua sarda e conoscere in maniera passiva almeno un’altra varietà. B) Nell’elenco e nella scelta delle varietà dialettali da adoperare nelle scuole sono da includere, con uguali diritti e uguale dignità, anche quelle di ulteriore minoranza, cioè alloglotte: gallurese, sassarese, algherese e tabarchina. C) L’uso della lingua sarda e/o delle varietà alloglotte, unitamente a quello della lingua italiana, deve avere anche un carattere strumentale, cioè deve valere anche nell’insegnamento di tutte le altre discipline scolastiche».
A questo punto prevedo un’obiezione: quale sarebbe la lingua sarda da adoperare nelle scuole? Per me la risposta è del tutto facile e semplice: la lingua sarda ha due varietà fondamentali, il logudorese e il campidanese, entrambe ormai formalizzate, entrambe intercomprensibili per tutti i Sardi, la prima adoperata nel Capo di Sopra, la seconda nel Capo di Sotto, entrambe ormai in possesso di un notevole patrimonio di letteratura in poesia e in prosa. A questo proposito si deve pur sapere che ormai abbiamo sia nella varietà logudorese sia in quella campidanese, componimenti poetici di elevato valore letterario, spesso molto superiore a quello della poesiola “T’amo o pio bove” o alla lunga tiritera di “Davanti San Guido”.
Però io escludo con decisione che come lingua sarda sia considerata quella che è stata inventata e denominata la “limba comuna”: secondo me – che sono il linguista che ha scritto più di tutti sulla lingua sarda – questa non è altro che un “grosso pasticcio messo su da grandi pasticcioni”, che la Regione ha avuto la sventatezza di adottare ufficialmente, mentre, esclusi gli inventori, nessun altro Sardo la adopera e nessun altro Sardo la vuole.
Un’ultima considerazione, ma non la meno importante: nell’insegnamento e nell’uso del sardo nelle scuole si dovrebbero distinguere bene due momenti, l’”orale” e lo “scritto”: ebbene rispetto all’orale nelle scuole si dovrebbe insegnare e adoperare il “suddialetto locale”, anche quello del più piccolo villaggio dell’Isola: a Cagliari si dovrebbe insegnare e adoperare su casteddaju, a Villaputzu su sarrabbesu, a Lanusei sulanuseinu, a Nùoro su nugoresu, a Ollolai su ollollaesu, a Ozieri su ottieresu e via dicendo. Con questo procedimento si otterrebbe il grande risultato di coinvolgere nell’operazione della salvaguardia e del recupero della lingua sarda anche la generazione dei vecchi, i quali sarebbero assai contenti di poter insegnare ai loro nipotini il suddialetto del loro sito natale. Invece nel momento dello scritto gli insegnanti dovrebbero richiedere dagli alunni l’uso del logudorese comune nel Capo di Sopra e del campidanese comune nel Capo di Sotto. Nelle zone alloglotte, Carloforte, Alghero, Sassari, Castelsardo, Gallura si dovrebbero ovviamente insegnare e adoperare le rispettive parlate.
—————
ADDENDUM

Ho saputo che alcuni “periti” od “esperti” si sono lamentati del fatto che io abbia definito “sa limba comuna” un “grosso pasticcio messo su da grandi pasticcioni”, che però è stata adottata – niente meno – dalla Regione Autonoma Sarda. Ma io non ritiro il mio giudizio e sono tentato di peggiorarlo per le seguenti considerazioni:

I) “Sa limba comuna” estranea ed esclude dalla operazione della salvaguardia e del rilancio della lingua sarda due intere generazioni di Sardi, quella degli adulti e quella dei vecchi; questi infatti non si presteranno mai a studiare ex novo questo “pasticcio” per poi insegnarlo alla generazione dei giovani.

II) Essa estranea ed esclude tutti i Campidannesi parlanti, con is Casteddajus in testa, i quali non accetteranno mai “sa limba comuna”, che non è altro che un logudorese annacquato e che d’altronde sono molto più numerosi dei Logudoresi parlanti.

III)   Essa estranea ed esclude tutti i parlanti delle varietà alloglotte, Carlofortini, Algheresi, Sassaresi, Castellanesi e Galluresi, i quali non ci tengono per nulla ad avere “sa limba comuna” come lingua ufficiale della loro Regione.

IV) “Sa limba comuna” è un pasticcio anche sul piano della ortografia, dato che viene scritta con le lettere scempie, anziché doppie, per indicare le esplosive sorde, forti o lunghe, cioè atu, fatu, note, oto, sete, ecc., invece che attu, fattu, notte, otto, sette, ecc., secondo la rispettiva etimologia latina actu(m), factu(m), nocte(m), octo, septe(m), ecc. ed inoltre secondo una lunga tradizione di ortografia sardaSu questo specifico argomento mente sapendo di mentire chi va in giro dicendo che questa decisione era stata adottata dalla I Commissione regionale per la lingua sarda, di cui facevo parte anche io: quella I Commissione invece aveva adottato alla unanimità la delibera di mantenere la duplicazione delle consonanti anche per indicare la loro particolare lunghezza o forza.
 
Si facciano avanti i “periti ed esperti” per difendere la loro creatura; citino i loro nomi e dimostrino su che cosa si fonda la loro “perizia ed esperienza” linguistica.
 
MASSIMO PITTAU

lunedì 27 ottobre 2014

LIMBA e AUTONOMIA

Si può dissentire, oppure condividere la medesima linea di pensiero, oppure (come me, non sardo) stare alla finestra ed assistere con interesse agli eventi, non avendo i mezzi per entrare nel merito della questione.

Ma è evidente che chi fa Cultura propone disinteressatamente argomenti, problemi e possibili soluzioni a chiunque sia interessato, in proposte ragionate che potranno essere accettate o respinte, ma che possiedono tutta la dignità dell'intelletto.

Chi fa Cultura non vende porta a porta pamphlets politici e certamente non va a frugare nelle tasche del pubblico per cercare finanziamenti...
Ecco, proprio qui, un' altra grande differenza con le persone permalose che s'offendono orribilmente se chiamate 'cialtroni'.

Autonomia speciale e Lingua Sarda

articolo
di Massimo Pittau
Il prof. Pittau, in una foto di alcuni anni fa.
Tutte le volte che incontro l'amico Diego Corraine provo un senso di malinconia e pure di mortificazione: perché corro con la memoria agli anni Settanta, quando fondammo la «Sotziedade pro sa Limba Sarda», io presidente e lui segretario, e in questa veste organizzammo incontri e manifestazioni in tutta la Sardegna per la salvaguardia e il recupero della lingua sarda. 

Dopo però ci separammo e la Sotziedade scomparve, quando lui credette di proporre per la Sardegna una “lingua unificata”, creata a tavolino e scritta alla maniera della lingua spagnola, mentre io non ci credetti per nulla. 

Sta però di fatto che il suo tentativo fallì per due volte per l'ostilità dei Sardi, soprattutto dei Campidanesi - che sono i parlanti più numerosi - quando si accorsero che avrebbero dovuto adoperare una “lingua unificata”, che era una forma di logudorese annacquato. E da allora abbiamo continuato ad assistere alla dissardizzazione linguistica dei Sardi, effettuato in forma massiccia dalla scuola, dai mass media, dalle canzonette, dallo sport, ecc.

E malinconia unita a mortificazione mi è venuta quando qualche giorno fa Diego ha pubblicato un articolo, del quale condivido quasi tutte le considerazioni: che la lingua costituisce il fattore primo e principale di ogni etnia; che la Regione Sarda non si è impegnata al fine di applicare e far applicare realmente una legge regionale e una statale, che pure sono state promulgate, in difesa del sardo e delle altre lingue di minoranza; che una politica in difesa della lingua sarda, mandata avanti con chiarezza e con impegno avrebbe anche le sue ricadute positive di carattere occupazionale a favore dei giovani sardi, ecc.

Eppure, come ho detto e scritto altre volte, ci sarebbe un mezzo del tutto facile e molto efficace, il quale, adottato, consentirebbe non soltanto la salvaguardia della lingua sarda, ma pure il suo recupero nella scuola, nell'amministrazione, nella politica e nella cultura. 

Si tratterebbe di fare entrare nello Statuto della Regione Autonoma Sarda, un solo nuovo articolo, in perfetta analogia con quanto avviene per gli Statuti delle Regioni Autonome Valdostana e Altoatesina: nella Val d'Aosta e in Alto Adige nessuno può entrare e operare nella scuola e negli uffici pubblici se non conosce la lingua francese e quella tedesca rispettivamente. 

Ebbene, se noi Sardi vogliamo salvaguardare veramente la nostra lingua sarda, la nostra cultura e la nostra etnia, dovremmo chiedere e pretendere l'inserimento nello Statuto Regionale Sardo di questo nuovo unico articolo, con tre commi: «In Sardegna nessuno può insegnare e operare nelle scuole se non conosce e adopera la lingua sarda. 

A) Ogni insegnante ha l'obbligo di conoscere in maniera passiva e attiva una delle varietà dialettali della lingua sarda e conoscere in maniera passiva almeno un'altra varietà. 

B) Nell'elenco e nella scelta delle varietà dialettali da adoperare nelle scuole sono da includere, con uguali diritti e uguale dignità, anche quelle di ulteriore minoranza, cioè alloglotte: gallurese, sassarese, algherese e tabarchina. 

C)  L'uso della lingua sarda e/o delle varietà alloglotte, unitamente a quello della lingua italiana, deve avere anche un carattere strumentale, cioè deve valere anche nell'insegnamento di tutte le altre discipline scolastiche».

A questo punto prevedo un'obiezione: quale sarebbe la lingua sarda da adoperare nelle scuole? Per me la risposta è del tutto facile e semplice: la lingua sarda ha due varietà fondamentali, il logudorese e il campidanese, entrambe ormai formalizzate, entrambe intercomprensibili per tutti i Sardi, la prima adoperata nel Capo di Sopra, la seconda nel Capo di Sotto, entrambe ormai in possesso di un notevole patrimonio di letteratura in poesia e in prosa.  A questo proposito si deve pur sapere che ormai abbiamo sia nella varietà logudorese sia in quella campidanese, componimenti poetici di elevato valore letterario, spesso molto superiore a quello della poesiola “T'amo o pio bove” o alla lunga tiritera di “Davanti San Guido”.

 Però io escludo con decisione che come lingua sarda sia considerata quella che è stata inventata e denominata la “limba comuna”: secondo me - che sono il linguista che ha scritto più di tutti sulla lingua sarda - questa non è altro che un “grosso pasticcio messo su da grandi pasticcioni”, che la Regione ha avuto la sventatezza di adottare ufficialmente, mentre, esclusi gli inventori, nessun altro Sardo la adopera e nessun altro Sardo la vuole.

Un'ultima considerazione, ma non la meno importante: nell'insegnamento e nell'uso del sardo nelle scuole si dovrebbero distinguere bene due momenti, l' ”orale” e lo “scritto”: ebbene rispetto all'orale nelle scuole si dovrebbe insegnare e adoperare il “suddialetto locale”, anche quello del più piccolo villaggio dell'Isola: a Cagliari si dovrebbe insegnare su casteddaju, a Villaputzu su sarrabbesu, a Lanusei su lanuseinu, a Nùoro su nugoresu, a Ollolai su ollollaesu, a Ozieri su ottieresu e via dicendo. 
Con questo procedimento si otterrebbe il grande risultato di coinvolgere nell'operazione della salvaguardia e del recupero della lingua sarda anche la generazione dei vecchi, i quali sarebbero assai contenti di poter insegnare ai loro nipotini il suddialetto del loro sito natale. 
Invece nel momento dello scritto gli insegnanti dovrebbero richiedere dagli alunni l'uso del logudorese comune nel Capo di Sopra e del campidanese comune nel Capo di Sotto. 

Nelle zone alloglotte, Carloforte, Alghero, Sassari, Castelsardo, Gallura si dovrebbero ovviamente insegnare le rispettive parlate.


Massimo Pittau, dell'Università di Sassari