giovedì 29 novembre 2012

ELVES / Folletti



http://www.youtube.com/watch?v=cNajUkcGr9M




Lyrics:

Are you going to Scarborough Fair?
Parsley Sage Rosemary and Thyme
Remember me to a girl who lives there
if she would be a true love of mine

Tell her to find me an acre of land
Parsley Sage Rosemary and Thyme
between the sea and silver sand
If she would be a true love of mine

Tell her to plough it with a dandelion thorn
Parsley Sage Rosemary and Thyme
and sow the field with spirits unborn
If she would be a true love of mine

Tell her to reap it with a sickle of leather
Parsley Sage Rosemary and Thyme
and gather it all in flowers of heather
If she would be a true love of mine

Tell her to weave it on Unicorn bone
Parsley Sage Rosemary and Thyme
and dye it red with the blood of old stone
If she would be a true love of mine

Tell her to make me a funeral shirt
Parsley Sage Rosemary and Thyme
with stitches of fine needle work
If she would be a true love of mine

Tell her to find me where the banshee sings
Parsley Sage Rosemary and Thyme
and fly to me on angelwings
then she will be a truelove of mine...

then she will be a truelove of mine...


martedì 27 novembre 2012

BENI: TI LU NARU IEU.


BAINZU E SU ATTU ARESTI (Gavino ed il Gatto Selvatico)


Bainzu era un pastore: suo padre era stato pastore e suo nonno era stato pastore. Non ci vedeva nulla di male ad essere pastore anche lui.  (Del suo bis-nonno nessuno in famiglia aveva mai parlato molto: non seppe mai esattamente perché. Ma questa è tutta un’altra storia… la racconterò un'altra volta).
Giovane e forte, pascolava le sue pecore in Gallura ed aveva buoni rapporti con tutti i pastori degli altri stazzi.

Le cose gli andavano sempre bene: primo, perché era di buona volontà e poi perché era davvero un gran lavoratore. Salutava sempre tutti con garbo e – quando gli chiedevano come andasse – rispondeva sempre: “Benissimo!” con un sorriso smagliante convincente, che già metteva il buonumore a chi glielo aveva domandato.
Bainzu era sempre disposto a dare un aiuto agli altri, che glielo avessero richiesto, oppure no. Aveva i suoi metodi. A chi era troppo orgoglioso per chiedere, gli compariva quasi per caso davanti, guarda caso proprio mentre aveva più bisogno, e lo aiutava a portare un peso, a riparare un giassu, o a sostituire la copertura del cuile. “Tanto ormai sono qui – diceva – e non ho proprio niente da fare. Ahiò, lasciami provare, così imparo anche io come si fa, che mi può servire” – e questo lo diceva anche per lavori che già sapeva fare benissimo…

Insomma, era un buonissimo essere umano, di quelli che proprio vorremmo ce ne fossero di più anche oggi: buono ed onesto come il pane appena fatto in domu.
Ma ogni tanto Bainzu andava anche a caccia ed era bravissimo a catturare qualsiasi animale. Conosceva tutti i tipi di trappole e di trucchi; sapeva benissimo quali fossero esattamente le abitudini degli animali e quindi non gli mancava mai selvaggina. Nessun animale, dell’acqua, del cielo o della terra era troppo furbo per lui. Sapeva creare trappole efficaci persino per la volpe, che notoriamente è furba e diffidente e molto raramente ci casca, in una trappola, specie se soltanto annusa anche solo una parvenza dell’odore dell’uomo…

Un giorno, andando a caccia, catturò – per errore, va detto – un Attu Aresti, un gatto selvatico grande e grosso ed aggressivo, così forte e combattivo che a momenti rompeva la gabbia che lui gli aveva costruito apposta. Era un bellissimo esemplare, sontuosamente elegante, con due occhi magici e regali che a guardarli mettevano soggezione e con un portamento da vero padrone. Era, in tutto e per tutto, una vera piccola tigre, a parte solo i colori che erano di gatto selvatico. Forse per questo motivo, proprio perché era così bello e maestoso, anche se di certo non aveva l’intenzione di mangiarselo, Bainzu decise di tenerselo.

Questa sua decisione significava tenerlo prigioniero in una gabbia: ma – decise – lo avrebbe trattato bene e gli avrebbe dato da mangiare e da bere. Inutile dire che il gatto non era affatto d’accordo: e glielo faceva capire ogni volta che lui si avvicinava alla gabbia, soffiando in modo ostinato e rabbioso e tirando indietro le orecchie…
Bainzu non perdeva la speranza che – un giorno – il gatto si sarebbe finalmente abituato al suo ovile ed alla sua presenza, tanto che avrebbe anche potuto aprirgli la gabbia, senza che lui fuggisse via…
Per il momento, certamente no: il gatto selvatico rifiutava sdegnosamente qualsiasi tipo di cibo e non sembrava neppure voler toccare l’acqua…

Bainzu non ebbe modo di preoccuparsene troppo, però, perché subito un altro problema più urgente catturò tutta la sua attenzione…
Il giorno dopo, infatti, all’improvviso, trovò una pecora morta, chissà come e perché.
La esaminò minuziosamente, per capirne la causa, ma non trovò assolutamente nulla.
Non ci fu niente da fare: Bainzu s’ingegnò in tutti i modi, fece di tutto, ricorse alle cure che conosceva (ed è sicuro che non ne conosceva poche!), ma il giorno dopo un’altra pecora gli morì, nello stesso modo misterioso, senza segni, senza sintomi; allora chiese aiuto ai pastori più esperti e più vecchi di lui; consultò persino un veterinario del paese, Mastro Francesco Cucca, che aveva salvato interi greggi e mandrie di buoi ed innumerevoli asini da sicura morte, in tutta l’isola. Ma nessuno riuscì a cavare un ragno dal buco: le sue pecore continuavano a morire, ogni giorno che passava erano una di meno.

Ma quale malattia – si chiedeva Bainzu – può uccidere le pecore una al giorno? Sembra quasi che il Pundaccju delle sette berrette si sia incattivito proprio contro di me!
Bainzu era uno spirito semplice e ricordava ancora tutte le favole che gli avevano raccontato da bambino. Le ricordava con un misto di nostalgia e gratitudine, per l’affetto profondo che ogni figlio porta ai genitori ed anche con un pizzico di paura superstiziosa. Specialmente adesso, nel momento in cui la parte brutta di una favola da bambini sembrava prendere corpo ed uscire dalle pagine sbiadite dei ricordi più cari…
La realtà è tutta un’altra cosa, si dirà.

Ah, se fosse stato così semplice come nelle favole! Vediamo: avrebbe dovuto semplicemente rubare uno dei sette berretti al Pundaccju – cosa che Bainzu era certamente capace di fare, visto che era sveltissimo di mano – per poi restituirla solo dietro la ricompensa della salvezza delle sue pecore. E si sa che i folletti possiedono enormi ricchezze, sufficienti per una vita da re: quindi avrebbe potuto anche chiedere di più.
Ormai, aveva già perso cinque pecore e la sua paura era fin troppo reale: un pastore senza gregge, si vedeva già.

Tornò a casa da un giro d’ispezione, sconsolato e cosciente della propria totale impotenza, di fronte a quel mistero: se non fosse riuscito ad arrestarlo, quel fenomeno terribile sarebbe proseguito, fino all’uccisione di tutte le sue pecore. Lo avrebbe completamente privato di tutto ciò che aveva. Bainzu guardò nel vuoto, lontano, e vide la voragine della povertà e – in fondo ad essa – lo spettro della fame.
Nell’entrare, dalla soglia guardò verso il gatto: era smagrito e d’aspetto meno battagliero, dopo cinque giorni di rifiuto del cibo. Malgrado ciò, non distoglieva lo sguardo da lui e seguiva ogni suo movimento, con attenzione e con uno sguardo ostile. Bainzu si commosse per l’animale fiero e deciso a morire in prigionia, se non poteva vivere in libertà, e si decise: meglio anche per lui allontanarsi da quel cuile ormai maledetto da un misterioso ed implacabile spirito malvagio.

Si avvicinò alla gabbia ed il gatto non soffiò, né abbassò le orecchie, ma semplicemente attese.
Lo liberò, allora, e gli sussurrò: “Vattene, gattone, sei libero. Che almeno tu possa vivere. Qui, moriresti e non voglio che ti accada. Buona fortuna…”.
Il gatto allora sgusciò fuori dalla gabbia, senza toccarne alcuna parte, come sanno fare i gatti. Si allontanò, con un passo leggero e felpato, camminando elegante e lento, come se il Tempo non esistesse, come se guidasse un corteo religioso, come fisse un Re.
Sembrava noncurante, come sapendo che l’uomo non rappresentava più un pericolo per lui. Bainzu lo guardò allontanarsi, chiedendosi perché mai non potessero essere amici, come aveva desiderato, dispiaciuto di esserselo anzi fatto nemico, tanto da non accettare cibo da lui. Sei una gran bella bestia – mormorò tra sé – speriamo che ti salvi: avrei desiderato accarezzarti e tenerti con me.

Non aveva finito di esprimere quei desideri e quei pensieri, che il gatto saltò fulmineo e silenzioso su una pietra e si girò verso di lui. In quel momento si alzò un vento freddo improvviso e s’udì un tuono, non accompagnato da un lampo. Incominciò una pioggia fitta e fredda,  non annunciata.
I due restarono lì a guardarsi, come fosse nulla.
Poi, il gatto fece un gesto con le zampe anteriori, come grattando o graffiando la pietra muschiosa, sulla quale era salito, come fanno i gatti quando “si fanno le unghie” sui cuscini… E nel fare ciò, sembrava intenzionalmente guardare verso Bainzu, che lo fissava estasiato, ipnotizzato ed incurante dell’acqua.
Infine, scomparve nella macchia.

L’indomani, Bainzu si svegliò presto e subito corse fuori a controllare le sue pecore: la pioggia, dopo avere lavato ogni cosa, aveva ceduto il posto ad un sole vittorioso e prepotente. Di lei erano rimaste ovunque miriadi di goccioline che ora scintillavano sotto la luce, quasi per magia. L’aria era pulita e fresca e ferma e non portava alcun odore. Un tenue arcobaleno si disegnò per un minuto nel cielo e sembrò scendere verso quella pietra dove s’era soffermato il gatto. Scomparve quasi subito. Nessuna pecora era più morta o mancava. E così fu per tutti i giorni che seguirono.
Ora, Bainzu era un tipo semplice, sì, ma non era stupido.
Ci pensò su, a modo suo.

Non fece parola ad alcuno di quello che era successo.
Perché non può proprio accadere che uno spirito sconosciuto (già definirlo così è strano, vero?) s’impossessi straordinariamente delle sembianze di un gatto selvatico, ma poi sia contraddittoriamente così indifeso da cadere in una semplice trappola fatta dall’uomo. E però sia contemporaneamente così potente, addirittura da costringerlo alla fine a liberarlo, uccidendo misteriosamente ma inesorabilmente ad una ad una le sue pecore!

Ma anche se – per ipotesi – potesse davvero accadere una cosa così strana e contraddittoria, Bainzu non lo avrebbe mai creduto, pur essendone stato testimone diretto!
Ma – infine – se anche Bainzu avesse potuto ritenerlo possibile, e non è affatto detto che sia così, certamente non lo avrebbe mai raccontato, né confessato in giro. Proprio mai ed a nessuno, per nessuna ragione al mondo.
Però – tra sé e sé – Bainzu ci aveva pensato, a lungo e bene. Ed era arrivato ad una sua conclusione precisa: Bainzu era stato messo alla prova.

Non era davvero certo di avere superato proprio nel migliore dei modi quella prova, ma sapeva – di fatto, dai risultati – che non gli era andata del tutto male.
Ora, se questa fosse una favola, Bainzu avrebbe scavato sotto alla pietra che il gatto gli aveva indicato ed avrebbe immancabilmente trovato l’inesauribile tesoro del folletto delle sette berrette...
Ma questa non è una favola, è una storia vera e nella vita vera queste cose di solito non succedono.
Non che Bainzu non ci avesse pensato. Anzi, gli successe ancora molte volte – passando vicino alla pietra – di pensare ad iniziare lo scavo. Ogni volta alzava le spalle, e poi s’allontanava scuotendo il capo, con un sorrisetto divertito dipinto sul volto.

Bainzu smise di cacciare, naturalmente, perché forse questo era il messaggio principale di quell’avventura. Ed ebbe ancora il massimo rispetto per tutte le creature, specialmente quelle più indifese, uomini o animali che fossero.
E siccome tutti gli altri – uomini o animali – si accorgono della nostra buona disposizione, Bainzu visse da allora come circondato da una nuvola di amicizia, felicità e buoni sentimenti, da parte d'ogni essere vivente. E questa è una verità che dovremmo tenere presente tutti, ogni giorno.

Bainzu non incontrò mai più in vita sua un gatto selvatico, con un certo rammarico, forse – pensò sempre – proprio perché non aveva proprio compreso appieno il significato di quella sua volontaria e fugace comparsa nella sua vita di pastore.

Ma non gli morì mai più una pecora e visse fino a cent’anni senza un malanno.

Ogni diritto è di Maurizio Feo, autore di questo testo e ottimo amico personale di Bainzu.

lunedì 26 novembre 2012

Lettori coraggiosi

Ho controllato per caso il numero dei lettori del mio WeBlog 'Pasuco' ed ho avuto una vera piccola sorpresa: mi leggono più negli USA che in Italia... E' proprio vero che 'Nemo Profeta in Patria'!

Comunque sia, ringrazio sinceramente di cuore tutti per l'attenzione ed il coraggio dimostrato.
Al momento:


Stati Uniti
1271

Italia
1254

Federazione Russa
319
Germania
109

Polonia
38

Regno Unito
25

Francia
6

Brasile
2

Irlanda
2

Paesi Bassi
2

Gratzie!

domenica 25 novembre 2012

Presentazione del libro


Il Comune di Paulilatino concluderà la manifestazione  
'Atòbios de Paule'

Sabato 22 Dicembre, ore 18.00 
Sala Convegni 'Santa Cristina', 
con la
Presentazione del libro

 L’ira degli Dei e I popoli del mare”. 
I Shardana e i popoli del mare nel XII secolo a.C. con la presenza dell’autore Maurizio Feo.
A cura dell'Associazione Guilcier Real.


Grazie di cuore a chi ha ospitato ed organizzato la presentazione del libro e, naturalmente, un ringraziamento particolare a chi lo ha fortemente voluto: Giacobbe Manca, Direttore dell’Associazione Onlus  Sardegna Antica - Culture Mediterranee, senza il quale il libro non avrebbe probabilmente visto la luce.
Anche per questo motivo, gli introiti della vendita andranno alla Olnus, allo scopo di finanziare altre future pubblicazioni.


Esiste oggi, nell’isola, un diffuso e palese smarrimento delle prospettive e delle dimensioni reali dell’argomento, 'Popoli del Mare', a giudicare dal moltiplicarsi d’articoli e libri un po’ troppo fantasiosi e strumentali, al riguardo, privi di aderenza con ogni realtà.  Io mi sono attenuto alla bibliografia internazionale e nazionale più accreditata, e a quanto di più verosimile sia stato costruito saldamente al riguardo. Va detto che l’argomento, poi, non include solo Archeologia e Storia, bensì anche Paleogeologia, Antropologia, Genetica, Linguistica, Paleoclimatologia e Paleobotanica. Si tratta proprio di quella “multi-disciplinarietà” tanto facile da auspicare negli scavi, ma tanto difficile da ottenere nella pratica. Il libro fornisce una Tesi Definitiva più verosimile e competitiva confronto a tutte le altre ipotesi formulate fino ad oggi, l'unica accettata dal Consenso Scientifico.

Assicurazione circa i metodi.
- L’autore assicura puntiglio ed attenzione nel redigere il testo, con richiami puntuali ed abbondanti alla bibliografia accademica italiana e straniera aggiornati al 2010 su tutti gli argomenti coperti.
- Proprio a causa della scarsità delle fonti affidabili, ha adottato il Metodo di ricerca dell’ipotesi di massima verosimiglianza competitiva, che – se non è certamente la Verità definitiva – è quanto di più prossimo ad essa possiamo oggi ottenere.
- Distinzione tra campo dell’ignoto (in cui si formulano e si comparano le ipotesi, che però dovranno essere dimostrate, per potere diventare tesi) e campo del conosciuto (su cui non possono esistere ipotesi, bensì solo conoscenza oppure ignoranza dei fatti). 
[Già Lucio Anneo Seneca, nelle sue Questioni Naturali, afferma il medesimo principio: "La differenza tra noi (i Latini) e loro (gli Etruschi) sta nel fatto che noi crediamo che il fulmine nasca dallo scontro di due nuvole; essi ritengono che quelle due nuvole debbano scontrarsi, perché nasca quel fulmine" E' ovvio che i commentatori abbiano usato questa frase per illustrare la differenza tra il fatalismo etrusco e la praticità romana. E' altrettanto ovvio che né i Latini né gli Etruschi avevano la minima idea di che cosa fossero i fulmini. Ma quel che mporta qui è che Seneca non discute minimamente l'oggettività reale e mortifera degli effetti del fulmine, ben noti anche allora equindi indiscutibili. Egli trova opinabili (perché perché sconosciute) solo le cause del fulmine stesso].
- L’autore confessa di avere utilizzato, oltre ai lavori d’accademici italiani, anche la ricerca di molti autori stranieri, che non hanno tesi preconcette nazionaliste al riguardo dei PdM.
- Sono stati infine inseriti alcuni aneddoti poco conosciuti della storia dell’archeologia ed alcune curiosità linguistiche poco note, che – seppure non necessari – completano il testo e spiegano alcuni comportamenti attuali della cosiddetta “Accademia”. 

Breve descrizione sommaria del contenuto.
Il libro descrive il Mito dei PdM (perché questo sarebbe: solamente un mito, creato nei secoli a più mani, non diversamente da altri miti, anche più famosi) dal suo nascere – circa trecento aa. fa – al suo battesimo, avvenuto nel 1881 ad opera di un archeologo francese d’origine lombarda (Gaston Maspero), che coniò il termine “Popoli del Mare”: quanto di più compendioso e sintetico si potesse formulare con le conoscenze d’allora. Un’espressione felice, tanto che sopravvive tuttora, malgrado sia ormai riconosciuta come errata e fuorviante.
Allora, gli archeologi portavano il piccone in una mano ed i poemi omerici nell’altra (non solo Schliemann!) ed erano fortemente influenzati dalla nostalgia delle armature e degli elmi di “bronzo Ciprio” che si respira in essi, oltre che dall’epopea della Guerra di Troia.
(La totale e fine distruzione costiera che gli scavi mostravano erano troppo estesi per essere attribuiti ad un solo esercito. Si andò consolidando l’idea di una Confederazione di Stati e di un attacco dal Mare, in una specie di Guerra Mondiale ante litteram, che già appare inverosimile solo a descriverla così (Non è credibile che tutto il mondo allora conosciuto potesse essere distrutto o gravemente destabilizzato da una forza almeno altrettanto grande, ma completamente sconosciuta alla scienza). Ma ancora più incredibile è – a pensarci bene – che questi “commandos di marines” conquistassero totalmente le ricche terre che attaccavano, le distruggessero in modo ossessivo, le depredassero di ogni cosa e poi subito facessero ritorno nelle loro sedi d’origine (perché vi era evidenza archeologica di abbandono, ovunque, dopo la distruzione).
Ingenuamente, gli studiosi si posero le cinque domande fondamentali del buon cronista: “Chi, come, dove quando e perché?”. E cominciarono ad ipotizzare – sulla base d’assonanze e somiglianze, da dove mai potessero provenire quelle armate invincibili e quale motivi avessero per agire in modo così moderno, anticipando di qualche millennio la “guerra lampo”.
A questo riguardo vi sarebbero molti argomenti da spiegare in dettaglio.  Senza anticipare il contenuto del testo, basti dire che Niemczy, Alemanes, Germans, Tedeschi, Tysch, sembrano tutti nomi di varie popolazioni differenti, ma sono solamente nomi esoetnici di quella sola popolazione che si dà il nome endoetnico di Deutch e chiama il proprio paese Deutchland. E questa non è un’eccezione, bensì è la regola nella Storia del Mondo: con le assonanze e le presunte somiglianze  dei nomi si può fornire il brivido di una suggestione, un’impressione anche affascinante, ma non si fa mai Scienza… I venti/venticinque nomi che possediamo per i PdM, potrebbero – in alcuni casi – essere “sinonimi” tra loro. Molti degli altri “popoli” potrebbero anche non essersi mai conosciuti tra loro.)
A discolpa dei vecchi archeologi che costruirono il Mito, c’è da dire che allora non esistevano tutte le impronunciabili tecniche d’indagine archeologica, fisico-chimica, geologica e biologica che possono utilizzarsi oggi. Inoltre, non erano ancora state neppure pensate teorie, ora dimostrate, quali ad esempio la “tettonica a zolle” e le talvolta complicate e persistenti implicazioni a distanza delle mutazioni climatiche.
Il libro prosegue la descrizione del Mito dei PdM, fino alla Morte stessa di questo mito, decretata per sentenza inappellabile dell’archeologo inglese Robert Morkot, che ebbe a dire, nel lontano 1996: “I PdM non sono mai esistiti”. Una frase volutamente provocatoria, che incontra il Consenso Accademico e che respinge decisamente la Favola, negando l’epopea fumettistica di sapore salgariano con cui sono stati in passato descritti i PdM.
Nota conclusiva.
Probabilmente, se un rappresentante di queste popolazioni antiche tanto maltrattate fosse qui oggi, egli stesso chiederebbe con forza che siano rappresentate realisticamente e con la dovuta dignità, proprio com’erano: gente come noi, con paure, sogni, aspirazioni e necessità. Pur con tutta la distanza tecnologica che ci divide, essi erano uguali a noi: gente normale.
E questo nostro obbligo – quello di restituire doverosamente la dignità umana a chi ha molto sofferto, sempre lavorato duramente, persino combattuto, e talvolta è morto nel tentativo di dare una vita migliore ed un futuro sereno alle proprie famiglie ed una vita migliore ai propri figli – vale anche per i Protosardi. Forse, proprio nel fare questo parallelismo con una popolazione che sentiamo a noi più vicina, possiamo meglio interpretare la realtà di quelle genti lontane.
Nel Paleolitico, i primi “sardi” furono i più antichi abitanti ad occupare stabilmente un’isola del Mediterraneo: molte isole furono raggiunte prima della Sardegna, ma tutte furono abitate dall’uomo in modo sporadico e stagionale, non potendo ospitare una popolazione in modo continuativo. In seguito, furono i Nuragici a creare la Prima Grande Civiltà del Mediterraneo Occidentale, che non si riduce certamente solo agli edifici che li caratterizzano, bensì include anche Tradizione Conoscenze, Religione – un complesso fardello culturale, insomma – che informò di sé tutte le Culture Italiche che seguirono e che ci sono meglio note perché già storiche, come quella Etrusca e quella Romana. Il genoma dei protosardi è ancora rinvenibile e presente in alcuni sardi attuali viventi tra noi. L’ambiente era avverso, perché con i mezzi di allora era scarsissimo il terreno sardo coltivabile. Eppure essi non solo sopravvissero, ma giunsero fino a noi: la Genetica testimonia il successo biologico che essi ottennero. D’altre popolazioni, indubbiamente più premiate dall’ambiente naturale, non ci sono giunti i geni: ad esempio, gli Etruschi. Quindi, se oggi proprio volessimo scegliere di essere soddisfatti, o anche compostamente orgogliosi, d’essere gli ultimi discendenti dei nostri antenati, sarebbe molto meglio almeno farlo per i giusti motivi.
Credo sinceramente sia molto preferibile sapere di essere discendenti di gente dichiaratamente del tutto normale, ma certamente laboriosa, pratica e tenace e, soprattutto, realmente esistita, piuttosto che credersi  eredi di supereroi da fumetto, del tutto inventati solo per solleticare la nostra vanità fanciullesca. 

 I popoli del mare furono emigranti disperati spinti da numerose precise necessità, oggi provate scientificamente ed esposte per intero nel libro. Essi soffrirono realmente per raggiungere una terra promessa in cui potere sopravvivere: il sogno di molti di essi fu annegato nel sangue, o nel mare – è vero – ma alcuni, lo sappiamo, riuscirono nell’impresa.
 




venerdì 23 novembre 2012

ITALIA ALLA DERIVA



L’INGV (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia) ha pubblicato un suo studio, secondo il quale la Penisola Italiana possiede velocità molto differenti di spostamento, nei diversi punti in cui tali spostamenti sono stati studiati con 130 stazioni GPS nel periodo di 4 anni (2004 – 2008).
Per farla breve, i risultati si possono così riassumere:

1)   il Nord Italia (dalla Toscana in su: la cosiddetta micro zolla Adria) ruota in senso ANTIORARIO

2)   il Sud Italia  (Calabria Basilicata Puglia) ruota in senso ORARIO e si avvicina alla costa Balcanica

3)   la Sicilia si sposta verso nord, spinta dalla placca africana, orientandosi col suo asse lungo in quella direzione (Messina è il punto più veloce: 9 mm/anno verso Nord Est!).

4)   La catena dell’Appennino si allarga con velocità varie (1 – 2 – 3 mm/anno)

5)   Lo Stretto di Messina si solleva di circa 1,5 millimetri all’anno. Fra 100.000 anni è previsto che si possa percorrere a piedi.

6)   Tra circa 10.000.000 di anni anche l’Adriatico sarà per la maggior parte inesistente

7)   Il Mare Tirreno tende ad allargarsi

8)   Le zone in cui si hanno  le più marcate differenze di velocità di spostamento, sono le Alpi Orientali, l’Appennino e lo Stretto, che tendono ad essere anche le aree più sismogeniche, cioè dove i terremoti possono colpire più facilmente.

9)   L’unico punto di assoluta stabilità è la Sardegna, tanto che può essere presa come punto di riferimento per valutare gli spostamenti di tutto il resto d’Europa!


Da tutto ciò si possono trarre alcune semiserie considerazioni conclusive:

1)   Per sapere che a quasi tutta l’Italia  gli gira storto in tutti i sensi, non c’era bisogno di spendere 10.000 euro per ciascuna stazione integrata d’osservazione GPS : bastava chiederlo al primo passante per strada, nella terza settimana del mese …

2)   Che l’Appennino si allarghi non fa specie a nessuno, perché la tendenza nazionale, viste le nuove diete dei “fast food”, è all’ingrasso …

3)   Possiamo risparmiare, ed evitare di costruire il Ponte sullo stretto, tanto, prima che sia finito, sarà diventato inutile, perché sarà un ponte sull’asciutto!

4)   Gli scafisti albanesi sarà meglio che si sbrighino a convertirsi in tassisti, altrimenti presto da quelle parti restano senza lavoro …

5)   Se il Tirreno s’allarga, non è che ci faranno pagare più caro il biglietto per andare in Sardegna, eh? Non facciamo scherzi! (ecco un'altra ricca alternativa per gli scafisti albanesi).

6)   Infine, tutta l’Italia è sismica!  (ma tutta l'Italia paga l' IMU: torna al punto 1 senza passare dal Via).

7)    Poi, finalmente, sai che novità: che l'Italia  andasse alla deriva lo aveva già detto (meglio) Dante Alighieri, nel 1200 nel suo famoso: "Ahi, serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiere in gran tempesta, non donna di provincie, ma bordello!" (Purgatorio, Canto 6).

  La Sardegna, invece, è una sicurezza: è sempre rimasta ferma lì, al suo posto, senza muovere un solo passo. Ma anche questo, noi, in fondo, 
  lo sapevamo già!

L'Isola del Paradiso, due aneddoti.

Paradisola, qualcuno ha creato questo neologismo, furbo ed intrigante ...
Da parte mia, io adoro la Sardegna e credo che il neologismo sia anche azzeccato...

Mi ricordo la prima volta che la visitai. Un mio futuro "zio", acquisito per meriti matrimoniali, mi propose di andare a visitare il Nuraghe Losa (mentre attendevamo una cerimonia di matrimonio) perché le donne erano indaffarate a preparare una vasta quantità di cose e non ci volevano intorno. Io - del Nuraghe Losa - non ne avevo mai sentito parlare, e finsi interesse per delicatezza verso chi cercava di essere gentile con me (spero di avere nascosto bene il mio vero pensiero: io credevo, allora, che i nuraghi fossero rozze e modeste costruzioni a forma di secchiello rovesciato, con un tetto di canne). Montammo in auto e via, per la campagna d'uliveti a non finire. Non mi colpivano più di tanto: ero abituato al paesaggio della Sicilia, per cui i muretti a secco, gli agrumeti e gli oliveti non facevano alcuna presa sulla mia fantasia, a parte confermarmi nella mia idea errata che le due isole fossero perfettamente uguali... Lo zio cercò di spiegarmi brevemente che cosa fossero i Nuraghi: cercai di nascondere il mio bieco disinteresse, facendo qualche domanda educata. Le risposte che ne ebbi - fatte più di "non è sicuro" e di "non si sa" - mi confermarono lo scarso interesse generale che l'argomento Nuraghi probabilmente riscuoteva ovunque. Ad un certo punto la mia guida si sentì in dovere d'annunciare: "Eccolo là, già lo si vede", indicando un cumulo rosso brunastro che spuntava tra le chiome degli ulivi. Io ebbi l'idea di concludere ad alta voce: "Allora, siamo arrivati". La guida mi guardò un po' sorpresa e poi disse: "Eh, no, siamo ancora piuttosto lontani". Allora fissai meglio il cumulo rosso brunastro ed iniziai a modificare il mio atteggiamento e soprattutto il mio pensiero verso di esso.
Risparmio i dettagli sulla mia prima visita al Losa.
Dirò solamente che allora lo si poteva visitare davvero e per intero, salendo da una rampa e scendendo dall'altra, per uscire dalla "cambra" posteriore e si poteva liberamente scorrazzare sulla cima, tutte cose oggi proibitissime, ormai da molti anni.
Da allora - nessuno lo sa, ma è così - il Losa è diventato il "mio" Nuraghe. Ed io mi sono appassionato oltremodo all'argomento della Sardegna Antica, della Tirrenia Antica e di tutto ciò che - talvolta anche solo alla lontana - le riguarda.
(Il mio futuro zio mi offrì cortesemente una pubblicazione del Canonico Spano sui Nuraghi. Ma io - che  ero appena entrato in possesso addirittura di un'Enciclopedia Treccani - rifiutai cortesemente. Inutile dire che appena tornato a casa mi ci fiondai subito, per leggere, tra le altre cose: "Una delle teorie più apprezzate sui Nuraghi è quella del Canonico Spano...". A parte questo, oggi quell'opera dello Spano varrebbe un bel po' di euro).

E' un aneddoto modesto, ma di sincera e completa redenzione: ne ho altri meno seri. 

In seguito, andai a visitare posti più 'turistici' (che in genere detesto ed evito per quanto possibile). Un anno ebbi modo di passare una decina di giorni a PortoRotondo. Mi ero oramai trasformato in un sardo in pectore, dai gusti e modi piuttosto aresti e la mia esperienza non fu esattamente felice...

Mi resi subito conto che i frequentatori di posti simili appartengono a tre categorie principali di persone, tutte incompatibili con la categoria particolare alla quale credo d'appartenere.

AVVERTENZA:  Il testo che segue è per adulti consenzienti solamente. Può contenere piccole tracce di arachidi, mandorle e soia. Consumare solo prima della data di scadenza e solo se si ha il permesso scritto di un tutore o di un parente adulto, nel caso di minore età.

1) La prima categoria di 'Portorotondini' è quella delle "facce da barca". Sono persone che esprimono subito chiaro a tutti gli astanti il concetto di essere proprietari di barca, per mezzo dell'abbigliamento esclusivo specializzato e per il modo sempre all'ultimo strillo di indossarlo (scarpe da barca firmate, ridondanti se usate fuori della barca, maglioni idrorepellenti inutilissimi d'estate, costosi orologi a tenuta idraulica, etc. etc.). Si tratta, in fondo, della versione insulare ed abbronzata della tradizionale e meglio nota 'faccia da c***o.' che riesce ad ammorbarci regolarmente tutto l'anno anche a casa nostra, ovunque si abiti. Solo che qui, in vacanza,  la categoria si scatena e fa della propria fetida ostentazione di denaro un vero virtuosismo, posteggiando l'enorme SUV esclusivo sempre in immancabile divieto di sosta ed ostentando il proprio insopportabile dialetto lombardo (più spesso, ma sono presenti in percentuali precise anche gli altri). Riescono persino a farti rivolgere un pensiero grato all'Anonima Sarda Sequestri ormai a riposo (purtroppo, verrebbe quasi da dire). 
2) La seconda categoria è quella, insospettabilmente foltissima, dei "culi da barca": essi sono immancabili ovunque sia presente una "faccia da barca", secondo la legge per cui i volontari aspiranti corrotti sono sempre presenti ove fiorisca un almeno potenziale corruttore. Ti colgono improvvisi dubbi logici esistenziali (del tipo: è nato prima l'uovo, o la gallina? Il corrotto o il corruttore?). Il culo da barca può essere di qualunque sesso, in quanto liberamente imperversa trasversalmente tra maschi, femmine e stati intersessuali. In genere si tratta di soggetti che vestono in modo ben riconoscibile, anche se non esattamente tradizionale: se incontrate un soggetto che è tutto uno sventolio di maniche a sbuffo, abbondanti camicie di stoffe fini e ricercate, pantaloni all'odalisca leggeri e semi trasparenti (perché fa caldo e la cute deve respirare), potreste essere di fronte ad uno di loro. Il minimo comune denominatore è che - per quanto comodo, largo ed abbondante - il loro vestiario è sempre attillatissimo 'in particolari punti' della loro anatomia, rivelandone ogni più intimo dettaglio scabroso. Per intenderci, se son femmine, i vestiti sono abbastanza attillati da permettere di leggere il numero e la marca della spirale che portano.
3) La terza categoria è, infine, quella dei "griffati di professione".
In un certo senso costoro hanno occupato la stessa nicchia ecologica lasciata libera dai primi nudisti di una volta. Vi ricordate? Quelli che se ne  stavano per conto loro, tutti nudi, nei posti più obbligati di passaggio e che assumevano un atteggiamento piuttosto seccato se per caso, passando obbligatoriamente a 40 centimetri da loro, vi permettevate persino (per non calpestarli) di guardarli!
Ecco, proprio loro. L'unica vera differenza è che i griffati - oltre ad essere vestiti e superaccessoriati - assumono sempre una posizione particolare: quella di massima esposizione visiva del marchio, che spesso li fa assomigliare ad antichi bassorilievi egizi, oppure a pazienti affetti da gravissima artrosi all'ultimo stadio (infatti, molti li chiamano 'gli ingrippati egizi').

Infine c'è la categoria alla quale anch'io mi pregio di appartenere: quando vedi qualcuno che se ne va in giro un po' stralunato, non abbronzato, tenendosi prudentemente ben distanti da tutti gli altri, dalle boutiques esclusive (per intenderci, quelle con un solo vestito in una vetrina di 20 mq, rigorosamente senza prezzo: il 'Portorotondino' vero non ha bisogno di chiedere. Compra e basta), con un'espressione che sembra dire proprio: "Macchecc***ocisonovenutaffare qui?".
Ecco, quello sono io e tutti quelli come me, che starebbero molto meglio su una splendida scogliera basaltica a Fuile 'e Mare, sul mare di tutte le sfumature dall'azzurro al turchese, magari anche da soli, ma molto, molto più sorridenti ed appagati.

Ecco, questo, per me è Paradisola.

giovedì 22 novembre 2012

Stonehenge II









Ricostruzione di Stonehenge a Maryhill, Washington, USA.


Well, you can only take the word of folks. Will it be the British Archeology Society or Science Fiction?


English Heritage news release



The Stonehenge that people see today is not a 'fake' created in the 20th century, as a number of recent media reports have implied. Nor has English Heritage been seeking to conceal the fact that restoration work was carried out to the monument over the last century.



The restoration work is fully documented in Stonehenge and its Landscape: Twentieth Century Excavations, published by English Heritage in 1995. It is also covered in books published by others, including Stonehenge Complete by Christopher Chippindale. Contemporary drawings, photographs and film footage survive and provide a fascinating visual record of the work in progress.

Restoration of Stonehenge was prompted by the need to secure the stability of the monument, both for its own safety and for that of the people who were visiting it in increasing numbers. Nineteenth-century paintings, including those by JMW Turner and John Constable, show a number of the stones leaning at precarious angles and this is confirmed by photographs taken from the mid 1850s onwards.

On the night of 31st December 1900, a storm felled one of the great sarsen uprights. Work to straighten and reset the stones began the following year and continued in phases until 1964. The work was carried out by prominent archaeologists of the day, under the supervision of the Society of Antiquaries (jointly, from the 1920s, with the Ministry of Works), and was fully recorded.



In the late 1950s, a number of stones which had fallen were re-erected, but the great majority of the restoration work involved the straightening and resetting of stones which had become unstable. Meticulous care was taken to return the stones to their exact original positions, and no new stones were brought in.

Today's Stonehenge, although considerably ruined, is the monument that was erected by prehistoric man some 3,500 years ago, not an imaginative reconstruction. Had the restoration work not been carried out, it is likely that by now Stonehenge would consist of a pile of fallen and broken stones - an ignominious end for one of the world's greatest prehistoric monuments.



The fact that the 20th century history of Stonehenge is not covered in detail in the visitor guidebook is due, quite simply, to shortage of space - packing the story of such a complex monument into 36 pages requires judgements to be made about what information is most important to people's understanding of it.

In recent years there has been increasing interest in the management of historic sites and the questions of whether, and how, they should be restored. The Stonehenge guidebook is due for updating this year and we will be trying to include more information about how recent generations have interacted with the monument.


The 20th Century restoration work

1901 Professor William Gowland - supervised by Society of Antiquaries

Stone 56, the upright of the central trilithon, which was leaning at an angle of about 60 degrees, was straightened and reset in concrete following full excavation and recording of the stone pit.

1919 - 26 Colonel William Hawley - supervised by Society of Antiquaries / Ministry of Works

Hawley was assistant to Gowland, who was by this time too infirm to take on the task himself. Hawley undertook several seasons of varying length throughout this period. The work started as the result of a condition survey undertaken by the Ministry of Works following the donation of the monument to the nation by Sir Cecil Chubb in 1918.

The first phase tackled stones 6 and 7 and their lintel in the outer circle, which were leaning at precarious angles. The lintel was removed and the two uprights were supported in metal and wood frames whilst the stone pits were excavated, then winched upright and cemented into place. The lintel was replaced on 17 March 1920 and the event was filmed by Gaumont.

The next phase tackled stones 29, 30, 1 and 2 and their three linking lintels. The same methodology as above was used to straighten the stones and reset them in place, ending with the replacement of the lintels in December 1920.

From 1919 to 1926, Hawley excavated a large proportion of the eastern part of the monument, in a programme of work that is considered over-vigorous by today's standards.

1950 - 1964 Professor Richard Atkinson, Professor Stuart Piggott and Dr JFS Stone Supervised by the Ministry of Public Buildings and Works / Society of Antiquaries

This period saw the stabilisation of some of the stones and the re-erection of others which had fallen. In 1958, trilithon 57/58 was re-erected with its lintel and stone 22 (the one that fell on 31st December 1900) was re-erected. In 1959, stone 60 was re-erected. The necessary documentary evidence existed to enable these fallen stones to be returned to their exact original positions. In 1964, trilithon 53/54 was straightened and reset. Over this period, excavations were carried out around a number of the sarsen stones and bluestones.
Sources: http://www.britarch.ac.uk/stonehenge/stone23.html

martedì 20 novembre 2012

STONEHENGE





BUGIE... 



Foto (1) Lavori del 1901 a Stonehenge: tutto il sito è in trattamento


Per decenni le guide ufficiali di Stonehenge hanno riportato copiosi fatti affascinanti, molti numeri e varie teorie circa uno dei più grandi monumenti preistorici. Ciò che non compare mai – nella carta patinata dei ‘pamphlets’ – è la sistematica opera di ricostruzione che del vetusto circolo di pietre è stata fatta nel XX secolo. 
Stonehenge: lavori del 1920: interi grossi massi sono rimossi, per metterli nella posizione considerata 'giusta'.

Il restauro è stato discretamente sottaciuto, per cui la stragrande maggioranza dei milioni di visitatori e turisti ignorano di non ricevere un’informazione completa.
Lavori del 1958 a Stonhenge: raddrizzamento di una pietra Sarsen
Come si vede bene nella foto (1) 
nel 1901 si condusse un restauro, che causò indignazione diffusa a quel tempo, ma che raramente viene citato nelle guide, perché significa che Stonehenge non è tanto oro quanto riluce: molto di quello che il visitatore vede risale infatti a solo poche decine di anni fa.

Dal 1901 al 1964 la maggior parte delle pietre del circolo fu restaurata in una serie di ‘ritocchi’ che  hanno tramutato il monumento in ‘un prodotto dell’eredità industriale del XX secolo’, per usare l’espressione di un archeologo. 
Lavori del 1958 a Stonehenge; completamento di un trilite

Oggi il comune modo di sentire è differente da allora: se allora si nascose sotto un angolo del tappeto un lavoro di restauro volto a ricostruire Stonehenge proprio come allora si pensava essa dovesse essere in origine, adesso si pensa che quella ricostruzione degli anni ‘60 faccia parte della storia del monumento e debba essere detta, anche se con qualche imbarazzo. L’archeologa inglese J. Hawkes ebbe a dire: “Ogni epoca ha la Stonehenge che desidera, o merita”.
C. Chippindale, archeologo dell’Università di Cambridge,ammette che “Non molto di quel che vediamo oggi a Stonehenge non è stato toccato in qualche modo”.
Un giovane studente ricercatore dell’Università of the West of England – Brian Edwards – ha scoperto alcune rare fotografie che mostrano il corso dei lavori di quasi totale ricostruzione del monumento, ha dichiarato: “E’ come se Stonehenge fosse stata ‘storicamente resettata’. Per troppo tempo la gente è stata tenuta all’oscuro circa la reale portata di ciò che è successo nel lavoro di restauro. Sono stupefatto di quanto fossero poche le persone a conoscenza dei fatti. Credo sia un’ottima cosa che i testi delle guide li riportino per intero da ora in poi”.
Più di un milione di visitatori restano profondamente colpiti ogni anno, perché a Stonehenge credono di affacciarsi in un’altra epoca per osservare una tecnologica primitiva superstite, ed immaginano la forza muscolare richiesta per il trasporto dei monoliti. Restano confusi in muta ammirazione, considerando la sacralità del posto, il primo calcolatore dell’uomo, il preciso sistema di tenone e mortasa che regge i triliti sagomati per chiudere un cerchio, le implicazioni religiose e pratiche dell’allineamento con i solstizi, la sonorità suggestiva, forse voluta già nel progetto.
Ma ci sono quegli anni dimenticati, purtroppo. Anni nel corso dei quali intere squadre di operai si sono arrovellati con le gru più grandi di cui disponesse l’impero britannico per raddrizzare le pietre,  per rimettere in asse triliti pendenti, sostituire pezzi caduti dalle enormi pietre Sarsen. I lavori furono eseguiti tra gli anni ‘20 ed i ‘30 dal grosso industriale della marmellata Alexander Keiller.
Edwards puntualizza che “Stiamo guardando in realtà un paesaggio degli anni 20, che rappresenta ciò che Stonehenge potrebbe essere stata millenni fa: è la creazione di un industria dell’Eredità Comune e non la creazione genuina di gente preistorica. Ciò che consideravamo millenario ha meno di un secolo”.
The Restoration and Rebuild
Il primo restauro di Stonehenge fu iniziato nel 1901, circa 111 anni fa. E non era affatto un segreto: le colonne del Times erano piene di lettere di protesta di vario genere, tutte volte a fermare i lavori. Ma il primo stadio dei lavori procedette senza intoppi, malgrado la critica rabbiosa del guru del momento John Ruskin, che proclamò: “Il restauro è una menzogna”. Col tempo, i lavori acquistarono un certo momento e nuove campagne di ricostruzioni firono effettuate nel 1919, 1920, 1958, 1959, 1964. Tanto che Chippindale ammette: “Quasi tutte le pietre sono state spostate ed oggi poggiano sul cemento”.
Una pietra fu raddrizzata nel 1901, altre sei nel 1920, altre tre nel 1959 ed altre quattro nel 1964. Inoltre ci fu lo scavo della ‘Pietra dell’Altare’ ed il raddrizzamento del Trilite nel 1958.
Le guide scritte e sonore di Stonehenge non citano alcunché: salvo riportare (a pag 18) che “un certo numero di pietre inclinate e cadute sono state rimesse a posto”. Il che – però – non lascia neppure sospettare l’entità dei lavori, che riguardarono la totalità del monumento.
In realtà, però, un osservatore attento non può non domandarsi come mai il quadro del 1835 di John Constable (pag 18 e 19) 
La drammatica differenza fra il quadro del 1835  e l'aspetto presente di Stonehenge

riproduca un monumento così terribilmente differente da quello di oggi, riprodotto nelle fotografie (a pag 28 e 29). Nelle stagioni asciutte, sarebbe ancora possibile vedere che il ‘turf’ si stacca dalle basi delle pietre e ne rivela la base in cemento, se l’accesso vicino al monumento non fosse ristretto solo a pochi.
Ci si potrebbe chiedere come sia potuto accadere che un’opera così massiccia di ricostruzione ad un monumento importante e conosciuto come Stonehenge sia passata quasi completamente inosservata. Di fatto, però, ancora oggi è difficile trovarne chiara menzione.  Le fotografie mostrano chiaramente la ricostruzione in corso. Alcune furono scoperte da Chippindale stesso. Molt, naturalmente, andarono perdute. Altre furono scoperte da Edwards, che trovò libretti guida precedenti, in un’epoca in cui ancora la cosa non era pudicamente tenuta nascosta.
Ora, in fondo, se qualcuno intraprende il viaggio per andare fino a Stonehenge – magari da molto lontano – è giusto che conosca questa storia.
Anche perché così saprà mostrare il giusto scetticismo di fronte agli astroarcheologi e ai fanatici di archeoacustica.
Ti viene in mente qualche cosa, Pasuco?