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venerdì 6 febbraio 2015

DIVULGAZIONE

Copio da:

di 
@domenica_pate
Pochi giorni fa sono capitata per caso su un post del blog americano PublicHistoryCommons, progetto del National Council on Public History nato per offrire una piattaforma per l’incontro di “practitioners, scholars, and others with an interest in the presentation and interpretation of history in public”. 

Il sito offre una vasta gamma di materiali a disposizione di storici, insegnanti, studenti, ma anche archeologi, operatori museali, conservatori, archivisti, bibliotecari, nella prospettiva di un loro utilizzo per generare “public engagement with the past” e di rendere la storia attuale e rilevante nel presente.  

 Il post in questione, scritto da Jason Steinhauer in vista della conferenza annuale dell’associazione, metteva al centro una nuova figura professionale, quella dell’History Communicator, per la quale, suggerisce l’autore, i public historians sarebbero decisamente tagliati. Il “divulgatore storico”, come potremmo tradurlo in italiano, è l’equivalente del divulgatore scientifico. Il suo ruolo dovrebbe essere quello di   advocate for policy decisions informed by historical research; step beyond the walls of universities and institutions and participate in public debates; author opinion pieces; engage in conversation with policymakers and the public; and work diligently to communicate history in a populist tone that has mass appeal across print, video, and audio. Most important, History Communicators will stand up for history against simplification, misinformation, or attack and explain basic historical concepts that we in the profession take for granted (fonte)   

I compiti del divulgatore storico secondo questa definizione, vanno oltre la divulgazione pura e semplice, quella che comunemente viaggia tramite le trasmissioni televisive, i libri, i blog. Essa coinvolge il grande pubblico e la cittadinanza, rompe quel muro che divide l’università dal resto del mondo, si rivolge alle istituzioni e non da ultimo alla politica per educare ed insegnare, prima di tutto, perché quello che per gli “addetti ai lavori” è scontato, non lo è per tutti gli altri.  
 “Scavate dinosauri?” vi dice qualcosa? 
“Qual è la cosa più preziosa che hai mai trovato?”  
 È diventato quasi un inside joke tra alcuni archeoblogger l’espressione “il tempio tetrastilo”. 

Alessandro D’Amore l’ha usata in un suo post non molto tempo addietro analizzando il gap comunicativo tra archeologi e pubblico: chiunque ha studiato archeologia sa cos’è un tempio tetrastilo, ha ben chiaro il tipo di struttura, il contesto storico e culturale a cui ci riferiamo, ma gli altri?   

Serve comunicare l’archeologia se parlo di templi tetrastili e esedre e plinti e vetrina e protograffita?   E aggiungo altra carne al fuoco.   
La scorsa settimana Giuliano De Felice ha ripreso una notizia che personalmente mi era sfuggita: il rapporto del FAI I luoghi del cuore 2003-2013 sugli ultimi dieci anni dell’omonimo censimento annuale, comprende diverse migliaia di “luoghi” segnalati dai cittadini come meritori di conservazione e tutela.   
Tra questi, poco più di 800 sono beni archeologici.
Sul sito è scritto:   … stupisce la scarsa attenzione riservata ai beni archeologici, con poche segnalazioni concentrate ancora una volta negli ambiti urbani, segno di quanto poco radicata sia la percezione del loro valore: un dato che colpisce in un Paese come l’Italia, tra i più ricchi di testimonianze della storia antica.   

Posso dire che stupisce davvero poco?   I palazzi storici, con i loro affreschi, gli arazzi, i giardini e i musei con le loro collezioni e le mostre, sono in piedi, sono visitabili, almeno quando ci si adopera perché lo siano. Richiedono, certo, una mediazione, una spiegazione, un approfondimento, ma sono visibili.   
L’archeologia è in rovina. 
Letteralmente.   
Pompei crolla (di nuovo) e persino i famosi Fori di Roma sono un susseguirsi di edifici e resti, parti di basamenti e colonne, il cui fascino, talvolta, sembra ridursi ad una reminiscenza del Grand Tour.   

L’archeologia necessita una mediazione, ha bisogno che i pochi resti materiali di un passato che non esiste più siano resi attuali, contestualizzati, raccontati. 

E serve raccontare anche il processo, spiegare perché non scaviamo dinosauri, perché tutto quello che troviamo è prezioso anche se non è d’oro, e perché quando la politica promuove e pubblicizza interventi su siti archeologici importanti (abbiamo parlato di Capo Colonna la settimana scorsa, ma ci sono tanti esempi) deve farlo nel rispetto dei resti su cui agisce e con azioni utili e qualificanti.   

Se non siamo noi archeologi a fornire quella mediazione, chi lo farà?   

Se non siamo noi “professionisti del settore” ad educare il pubblico sulla storia che noi stessi contribuiamo ad interpretare e scrivere, chi lo farà?   L’archeologia pubblica in Italia ha fatto passi da gigante negli ultimi anni e sono diversi i progetti promossi da università e gruppi di ricerca che lavorano in questo senso, coinvolgendo le amministrazioni locali e contribuendo a creare un senso di comunità intorno all’archeologia di quei territori, ma non basta, dobbiamo fare di più.   
E chi studia archeologia, chi insegna archeologia, deve saperlo.   
C’è una forte componente etica e sociale nel nostro lavoro. 
I nostri progetti di ricerca sono finanziati quasi sempre da fondi pubblici. 
Ma anche se non lo fossero, che senso ha indagare il passato se questo passato non diventa di tutti?   Insomma, c’è tanto lavoro da fare e da fare subito se non vogliamo che l’archeologia sia buona solo per grandi proclami ed “interventi spot” e se non vogliamo che gli archeologi diventino completamente irrilevanti nella società di oggi, ancorati a cliché stantii – scopritori di tesori, “quelli che bloccano i lavori”, avventurieri col capello di paglia in jeep nel deserto – o chiusi nella loro torre d’avorio a discutere cose di cui non importa nulla a nessuno.   
Dobbiamo ritrovare il senso profondo di quello che facciamo.   E una volta ritrovato, dobbiamo imparare a comunicarlo agli altri. - 

See more at: http://www.professionearcheologo.it/archeologia-e-divulgazione-a-chi-tocca/#sthash.rg202GjG.dpuf

giovedì 5 febbraio 2015

RUBENS D'ORIANO


       Solo con fatica (e solo grazie all'aiuto determinante di amici molto più abili di me al computer) riesco finalmente a postare un fondamentale articolo sulla Fantarcheologia in generale e sui Fantarcheosardisti in particolare.  
(Non sono riuscito a prendere le immagini, ma giuro che non sono strettamente necessarie alla comprensione del testo).

       Non si tratta di un articolo polemico: è anzi pacato e chiaro, completo e ben argomentato, come ogni intervento in questo campo dovrebbe essere.  
      Quello che chiedo è che tutti coloro che anche vagamente conoscono (o hanno a cuore) la presente situazione 'culturale' in Sardegna leggano attentamente questo splendido articolo, che aiuta a comprendere molte cose altrimenti confuse e concitate.


LE STATUE DI MONT’E PRAMA
E IL FANTARCHEOSARDISMO

articolo di

Rubens D'Oriano

RIASSUNTO
Da alcuni anni ha largo corso, sui media tradizionali e sul web, il trend della "fantarcheologia", che propone le più assurde interprerazioni di pseudo misteri del passato, basate in genere sull’esistenza  di avanzatissime civiltà perdute (Atlantide e simili).
In Sardegna la fantarcheologia ha trovato terreno fertile nell’ “archeosardismo”, quella visione distorta della storia che tende a individuare, in chiave di malinteso nazionalismo sardo, nella sola Civiltà Nuragica l’unico glorioso e degno passato dell'Isola e dei suoi attuali abitanti.
È così nato il “fantarcheo sadismo”: una assurda, e spesso ridicola , ipervalutazione della Civiltà Nuragica, a volte identificata persino con l’inesistente Atlantide di Platone, fantasiosamente e alrara come madre e dominatrice di rune le altre antiche civiltà euro-mediterranee.
Il conrributo sottolinea le distorsioni dei dati e del metodo, e spesso anche del semplice buonsenso, sulle quali si basano queste tesi, che stanno già coinvolgendo anche il grandioso fenomeno delle statue di Mont ‘e Prama.

ABSTRACT
In thc last few years, a trend we can call "fantastic archaeology" has filled the pagcs of traditional media and the web. This trend proposes the most absurd and incredible inrerpratation of the pseudo mysteries of the past based , by and large, on the existence of extremely advanced lost civilisations (Atlantis. etc.).
ln Sardinia, fantastic archaeology has found fertile ground in "archeosardism", a distorted vision of history which - based on a flawed Sardinian nationalist approach - tends to identify nuragic civilisation as the only glorious and worthy past of the island and its current inhabitants.
This givcs rise to "fantasric archaeosardism": an absurd and often ridiculous overestimation of rhe nuragic civilisation, at times identified even with Plato’s non-existent Atlantis, imaginatively glorificd as rhe mother and female ruler of all ancient Euro-Mediterranean civilisations.
This contribution focuses on rhe distorted method, inexact dates, and even on the absence of common sense behind these hypotheses which are already being applied to the spectacular statues of Mont'e Prama.


Tra tutte le discipline scientifìche, l’archeologia e la storia antica sono fra quelle che più devono far fronte al diffondersi - per colpa soprattutto del cinismo di media interessati più allo spettacolo che all’informazione, perché le favole hanno sempre venduto di più della realtà, dalla Bibbia e Harry Potter - di una miriade di sciocchezze sui più vari aspetti dell'antichità (da questioni minime alla riscrittura della storia tutta del genere umano). Sciocchezze propalate da sedicenti “studiosi”, esponenti di una sotto-cultura ormai dilagante (perché pagante per i media che ad essa fanno eco), la cui scarsità di conoscenza del mondo antico è pari solo all'assenza di metodo con la quale si approcciano al poco che sanno di esso. Non fa eccezione la Sardegna, afflitta ora principalmente dal dilagare di un filone di leggende che, nato dall'innestarsi della fantarcheologia sull’archeosardismo, potremmo definire, con un ulteriore neologismo, fantarcheosardismo . Il complesso scultoreo di Mont’e Prama sta già diventando un nuovo feticcio di questa pseudoscienza. Prima perciò di tentare di mettere le mani avanti per salvarlo da tale tristo destino, è necessario spendere qualche parola sulla pseudo-archeologia in salsa sardista e sul suo percorso di formazione.

ARCHEOSARDISMO

Da lungo tempo uno dei tratti peculiari del dibattito culturale, sociale e politico in Sardegna verte sulla rivendicazione, spinta a volte fino a proposte separatiste, della cosiddetta "identità culturale sarda" che sarebbe minacciata di sparizione dalla "colonizzazione" culturale ed economica proveniente dall'esterno dell'Isola. Non sarebbe, questa, materia da archeologi, se non fosse che ormai da troppo tempo l’archeologia e la storia antica della Sardegna vengono strumentalmente utilizzate nel dibattito (non è un caso che, ogni volta che la storia amica è diventata arma di propaganda politico-culturale, lo è stato a fini di devastanti ideologie: la romanità di cartapesta del Ventennio, la purezza ariana dei Germani di Goebbels, i Celti di plastica del separatismo razzista padano, ecc.). Fondamento di questa strumentalizzazione è un colossale fraintendimento culturale e metodologico sul quale ormai il silenzio è colpevole: presso larghi strati dell’opinione pubblica isolana è stata diffusa la visione della Sardegna nuragica "colonizzata" e sfruttata dai successivi apporti etnico-culturali avvicendatisi nell’Isola, contestualmente individuando nelle popolazioni nuragiche i soli ascendenti dei Sardi odierni e di conseguenza bollando chi in seguito giunse qui da altrove come i "nostri" nemici; insomma un "Noi Sardi di oggi ci riconosciamo nei gloriosi Nuragici e chi è venuto dopo è "nostro" invasore-colonizzatore-sfruttatore". Entrambi gli assunti sono destituiti di fondamento. Il primo errore è connesso al termine "colonizzazione", usato nell'accezione negativa giustamente acquisita nell'ambito del brutale fenomeno colonialista
occidentale dei secoli XVI-XX ai danni delle popolazioni extra europee. Ma nell'antichità mediterranea le dinamiche interculturali dello stanziamento in Occidente di gruppi di Fenici e Greci, o di Romani nella Pianura Padana ecc., videro casistiche molto alterne, sia nette che sfumate, di contrapposizione ma anche di collaborazione, di scontro ma anche di incontro, assolutamente non assimilabili al truce colonialismo moderno. Chiaro esempio tra tanti è l'incontro, appunto per lo più vicendevolmente proficuo, proprio dei Nuragici con i Fenici, come acclarato da numerosi scavi e
studi. Per citare solo pochi casi: i Nuragici che ospitarono nel villaggio di S. lmbenia-Alghero i Fenici per più di un secolo, organizzando insieme una produzione di vino che giunse fino allo stretto di Gibilterra; l'analoga presenza di Fenici nel complesso del nuraghe Sirai­Carbonia; i reperti nuragici delle città fenicie di Sulky, Bithia, Tharros che ci parlano di aristocratici indigeni lì
trasferitisi e persino di matrimoni misti; le ceramiche nuragiche in siti fenici di Spagna che  mostrano una partnership commerciale tra le due etnie fin sulle coste atlantiche. Fenici, e Greci, nel loro movimento coloniale in Occidente necessitavano, nella stragrande maggioranza dei casi, di ottimi rapporti con popolazioni indigene vitali e collaborative, per il prosperare degli scambi e per la crescita demografica degli insediamenti: altro che brutale colonizzazione!
Il secondo errore: identificare i Nuragici come i soli ascendenti dei Sardi odierni, disconoscendo gli apporti genetici e culturali successivi, è illogico prima ancora che antistorico. La critica a questa mitologia è piuttosto ovvia: i Sardi di oggi, come i Siciliani, i Cretesi, i Toscani, i Catalani, ccc. non possono che essere l’esito della stratificazione genetica e culturale di tutti i gruppi umani che si sono avvicendati nel territorio: per la Sardegna, Nuragici certo, e prima ancora Neolitici, Campaniformi, ecc., e poi Fenici, Greci, Cartaginesi, Romani, Bizantini, Arabi, Pisani, Aragonesi, ecc. Per limitarci a due soli esempi : nemmeno i "romani de Roma" chiamano più la casa domo, il giorno die, la porta janna (latino domus, dies, janua), ecc.; l'individuazione nel DNA delle genti di una piccola area dell’Ogliasrra di una percentuale di patrimonio genetico nuragico maggiore che nel resto della Sardegna, ove esso è assolutamente irrisorio e coerente con i parametri attesi in base ai successivi apporti umani, ha appunto dimostrato, da brava eccezione, la veridicità della situazione generale dell'Isola .
Solo per banali esigenze di economia comunicativa siamo soliti definire i popoli con certi nomi: Greci, Romani, ecc., ma questi vocaboli hanno un valore cangiante col contesto geografico e temporale e, in definitiva, spesso convenzionale. Definire un popolo nel focus del suo percorso storico e nel cuore del suo territorio è, forse, possibile, ma ai confini geografici e ai limiti della sua parabola temporale lo è molto meno. È forte l'impressione che il grande pubblico di fronte a espressioni quali, per esempio, "i Romani conquistarono la Sardegna" o "la Sardegna romana" abbia la percezione di un’invasione, di una dislocazione massiva di cittadini dell'Urbe nell'Isola a sostituzione, magari previo sterminio, delle genti locali. È evidente invece che si tratta in realtà della Sardegna, della Spagna, della Grecia ecc. e di tutto il mondo antico durante l'età romana, quando in ogni regione sopravvivevano tutte le componenti antropiche e culturali precedenti, sul cui substrato gli elementi della civiltà romana, anche umani, si innescarono dialetticamente in un graduale, ricco e complesso processo di sostanziale rispetto e integrazione di lunga durata e di esito molto variegato, fatti salvi episodi anche truci ma in genere non rilevanti in un processo diacronico plurisecolare. Anche le più radicate identità (ma esistono realmente o solo nella costruzione ideologica di gruppo, che ne necessita per autodefinirsi rispetto agli "altri"?) non sono eterne, ma fluiscono inevitabilmente e quotidianamente, anche se impercettibilmente, verso sempre nuove configurazioni. Non ci sono più i Micenei, gli Etruschi, ecc. in quanto tali; non estinti, ovviamente, ma diventati "Greci", "Romani " ecc., nell’incessante divenire genetico e culturale della specie. E
quindi in adeguato torno di tempo non ci saranno più i cosiddetti Italiani, Messicani, Tedeschi, ecc. - se pure esistono come tali e qualsiasi cosa indichino questi termini (siamo certi che chiedendo a noi Sardi di elencare le caratteristiche e di "sardità" si otterrebbero risultati condivisi?) - destinati tutti a trasformarsi in altre e per ora impredittibili identità. Che così sia è inevitabile e soprattutto sano per la nostra specie, che prospera solo se rimescola incessantemente le carte della genetica e
della cultura (alla luce del tragico ritorno addirittura di scontri di religione, o della nascita di nuove lingue nei suburbi delle metropoli statunitensi, è tutt’altro che imminente il paventato appiattimento della specie in un unico profilo culturale globale). E del resto, anche la nostra identità personale di singoli forse che non è un ininterrotto fluire, mutare, arricchirsi di esperienze, idee, comportamenti cangianti nel tempo? Il nostro "io" era i 18, 35, 57, 80 anni è sempre lo stesso?
Tornando a noi, l’errata auto-identificazione di un popolo contemporaneo in uno antico sorge dall’abbaglio d’identificare la terra con un popolo: una cosa è òa Sardegna, altra le popolazioni che l’hanno abitata in ricca sovrapposizione culturale. Una cosa è abitare la terra dei nuraghi, altra illogicità di sentirsi discendenti solamente, e quindi diretti, dei loro costruttori. Illogicità in seguito alla quale presso larga parte dell’opinione pubblica sarda la messa in valore di quanto all’isola è pervenuto d’oltremare nel corso della storia è vissuto con malcelata e più o meno cosciente insofferenza, come un vulnus inferto ad una mitizzata autoctonia (tornando sufficientemente indietro nel tempo, nulla è autoctono, forse nemmeno la vita sulla Terra) percepita a priori come preferibile ad ogni allo genia, conseguentemente vissuta come inquinante e quasi offensiva. Questo atteggiamento, diffondendosi anche presso il ceto politico locale, può condurre a scelte errate – viziate da parzialità e squilibrio in favore della sola civiltà nuragica – nel decidere degli investimenti sulla valorizzazione culturale, destinandola così ad uno sterile autoreferenziale provincialismo. Uno dei significati più pregnanti della vicenda della Sardegna antica (neolitica, nuragica, fenicia, punica, ecc.) è invece proprio l’essere una tappa particolarmente ricca e complessa del fluire storico – e perciò palestra ottimale per lo studio dell’incontro interculturale – dei vari popoli dell’Isola, del Mediterraneo, dell’Umanità.

FANTARCHEOLOGIA

In questo sciagurato inizio di terzo millennio new age, in questo nuovo medioevo (i medievisti  mi scusino e capiranno il senso) digitale, di ritorno di teocrazie e irrazionali narcisismi ossequiati dai media, è ben noto dal proliferare dei volumi, riviste e trasmissioni televisive ad essa dedicate, che una delle più perverse derive mediatiche degli ultimi decenni è la diffusione di convinzioni pseudoscientifiche nei dominii dell’archeologia e della storia antica, formulate combinando in modo del tutto fantasioso e privo di metodo dati ed informazioni, quando reali quando inattendibili.
Per limitarci alla situazione italiana e alla sola programmazione televisiva degli ultimissimi anni, è possibile dilettarsi con ben tre trasmissioni di prima serata che spaziano in tutto il bestiario del settore (una delle quali, Voyager, già incredibilmente patrocinata dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali) dalle pietre di Ica del Perù, che retrodaterebbero il genere umano al Giurassico dei dinosauri, allo ‘spazioporto’ di Nazca, alle più disperate ubicazioni dell’isola di Atlantide (che, ahiloro, perfidamente si ostina a non farsi trovare), agli altrettanto inesistenti misteri dei Templari, all’inseminazione della civiltà umana da parte – manco a dirlo – di visitatori extraterresti etc...
Non è questa la sede per un trattato sulla materia, anche se in alcuni casi bastano pochissimi dati per fare crollare interi castelli di sabbia, dati ben noti da tempo ma che, per ignoranza o malafede, non sono posti sotto i riflettori (lo spettacolo, e quindi l’audience e quindi gli affari, prima di tutto). Un paio di esempi. Dalle celebri “pile” di Baghdad, che dimostrerebbero la conoscenza dell’elettricità fin da tempi remoti (retaggio, ovviamente, della suprema scienza di Atlantide o extraterrestre), non viene mai precisato che in realtà non provengono da uno scavo archeologico.  Dell’infinita telenovela dei misteri di Rennes-le-chateau e annessi (il Graal che sarebbe la stirpe di Cristo, perpetuatasi nei re Merovingi e successori sui quali vegliava il Priorato di Sion… ecc) accuratamente si evita di porre nella giusta evidenza che buona parte dei documenti sui quali tutto quel circo si regge, i Dossier Secrets della Biblioteque National de France, sono dei falsi degli anni ’60, come pubblicamente ammesso da uno dei falsari.  Della bufala della profezia Maya sulla fine del Mondo al 21.12.2012 sono testimoni i lettori stessi di queste pagine, sopravvissuti ad essa come il resto del Pianeta; la vera fine del Mondo è il fatto che una cos’ tanto colossale stupidaggine abbia così tanto imperversato  sui media ed abbia trovato così tanti creduloni, e che tutti coloro che l’hanno cavalcata, cinicamente o in sprovveduta buona fede, non abbiano trovato un briciolo di onestà intellettuale per recitare un dignitoso mea culpa.
Et de hoc satis.
Più utile è soffermarci, pur sempre brevemente, sui presunti fondamenti metodologici di questo stucchevole stupidario pseudo-cultural-mediatico.
L’archeolgia e la storia sono discipline rigorose, come la matematica o la biologia, che seguono i criteri della ricerca scientifica comuni a tutte le altre, e perciò si dovrebbe dar credito solamente agli specialisti del settore.
E, senza scomodare le scienze ‘alte’, per un problema d’accensione dell’auto si va dal commercialista? Per una perdita d’acqua in cucina si chiama il dentista? Perché mai allora dare credito, in materia di storia ed archeologia, a chi storico o archeologo non è?
            I dilettanti lamentano che questo è il tipico comportamento dell’Accademia, cioè del circuito degli addetti ai lavori, che rifiutano a priori le idee “geniali”  o “rivoluzionarie” di chi non proviene dal loro mondo per invidia, per presunzione, per resistenza a modificare idee consolidate (i quali dilettanti, c’è da girarci, ben si guardeebbero dal convocare un avvocato per aggiustare una serranda). A conforto si cita, spesso a sproposito, la teoria delle rivoluzioni scientifiche di Kuhn, secondo la quale (volgarizzando) il cammino della scienza è punteggiato dal comparire di idee rivoluzionarie che impongono radicali mutamenti del precedente paradigma, cioè della “visione del mondo” fino allora consolidata, le quali idee tnato più sono rivoluzionarie tanto più sono rigettate, fino ad essere poi accettate e divenire esse stesse i nuovi paradigmi, destinati ad essere a loro volta terremotati da future rivoluzioni.
            Tutto bene, se non fosse che i rivoluzionari ed i geni non sono mai stati dei dilettanti, bensì studiosi dell’Accademia, alcuni magari eretici o borderline ma di formazione tradizionale all’interno di essa, nutriti di solide conoscenze e solido metodo: tali erano Euclide, Pitagora, Archimede, Aristarco, Eratostene, Galileo, Leibnitz, Darwin, Gauss, Newton, Spallanzani, Harvey, Einstein, Tesla, Mendeleev, Bohr, Gödel, Turing, Fermi, Marconi, Crick, Jenner, Heisenberg, Fleming, Schrödinger, Monod, Pasteur ecc.
            In campo archeologico spesso e solamente, perché è l’unico caso, Schliemann, il quale, da autodidatta della Grecia antica, si intestardì a cercare sulla scorta del testo omerico la Troia dell’Iliade, contro il parere dei contemporanei accreditati studiosi dell’antichità classica.
            Ebbene, l’esempio non regge. Anzitutto, i suoi fieri oppositori erano i filologi e non gli archeologi, che guardavano invece alle sue idee con atteggiamento possibilista. Inoltre, all’epoca (metà ‘800) l’archeologia balbettava i suoi primi vagiti priva di metodo scientifico e quindi possiamo considerare Schliemann sullo stesso piano degli archeologi suoi contemporanei.
            Due parole infine sull’etica pubblica della divulgazione scientifica.
            Sia ben chiaro che non si invoca qui alcuna forma di censura: qualsiasi cittadino di un libero Stato può dire e scrivere ciò che vuole, finché non viola le leggi ed è finanziato da privati. Indubbiamente anche qualsiasi editore privato dovrebbe avere il dovere deontologico di verificare la competenza nella materia degli autori che pubblica, ma nel meraviglioso mondo del dio Denaro la serietà professionale è sempre una pia illusione. Inaccettabile è però quando le panzane vengono divulgate grazie al denaro pubblico e/o col patrocinio di Enti Pubblici di qualsiasi genere, dal servizio radiotelevisivo agli Enti Locali ecc… E’ chiaro che non si può pretendere che i politici e pubblici funzionari sappiano valutare l’attendibilità di chi parla di materie specialistiche, ma è sufficiente la semplice domanda: “ Ma lei che mestiere fa? Per fare cosa le danno lo stipendio? Qual’ìè il suo curriculum di studioso? E tutto si chiarirebbe, scoprendone delle belle. In alternativa, ci si potrebbe avvalere del consiglio di specialisti operanti nelle Istituzioni preposte alla ricerca scientifica. Un controllo preventivo sulla competenza di chi propone contributi scientifici in occasioni culturali di tipo pubblico non può essere considerato censorio: che dire se con denaro pubblico o con il patrocinio di Enti Pubblici si parlasse di astronomia da parte di avvocati o di urbanistica da parte di cardiologi, o si promuovessero miracolose pozioni alla Vanna Marchi? Perché allora ciò è accettabile quando accade per l’archeologia e la storia? Essere complici del dilagare di leggende sulla storia umana non è meno grave dell’esserlo della diffusione di terapie mediche inefficaci o dannose: un’opinione pubblica avvezza al leggendario sarà più facile preda di pifferai magici della politica, i quali spesso – non per caso – hanno fatto leva su un passato ad arte scempiato ai loro fini ideologici (fascismo, nazismo, leghismo).

FANTARCHEOSARDISMO

            Come abbiamo visto, l’archeosardismo si “limita” ad un grave fraintendimento interpretativo di dati reali. Da tempi relativamente recenti assistito ora alle glorie del fantarcheosardismo che, innestando il motore turbo delle tecniche a-scientifiche della fantarcheologia sull’archeosardismo, propone una parossistica esaltazione della civiltà nuragica mater et magistra delle altre culture mediterranee, con l’intento di innalzarla nell’Empireo del supremo primato (“Noi” Nuragici über alles!) ma finendo in realtà per scaraventarla nel ridicolo.
            L’assunto ideologico che accomuna, al di là di differenziazioni egraduazioni, quassi tutti gli esponenti del fantarcheolsardismo è tanto semplice quanto risibile: la civiltà nuragica deve assurgere, in una mitizzata autosufficienza e autoreferenzialità da turris eburnea, a tali vette di progresso e potere da essere non solo del tutto indipendente da apporti esterni ma egemone, conquistatrice e faro dell’intera antichità contemporanea in ambito mediterraneo, quando non addirittura europeo. L’impressione è che soggiacciano a questa posizione, più o meno consciamente, emotività ipersardiste e di rivalsa indipendentista, venate ora di accenti leghistoidi. Così emancipati dalle pastoie della storia e archeologia proposta dalle bieche Università e Sopraintendenze per i Beni Archeologici, tacciate di “scienza di regime” i Nuragici possono finalmente assurgere ad essere, grazie ai paladini di questa pseudo-storia, i dominatori del Mediterraneo, i conquistatori della civiltà micenea, i veri Fenici, i colonizzatori d’Europa, i maestri degli Egizi … e più glorificato come “bravo sardo” chi la spara più grossa. Per dimostrare l’assunto vengono proposte le più assurde letture di dati noti, o si vedono dati dove non ce ne sono, e quando neanche questo è sufficiente non resta che scagliarsi contro il “complotto” delle malvagie Università e Sopraintendenze dell’Isola, che occulterebbero immaginari rivoluzionari reperti al fine di tenere i Sardi all’oscuro del, al solito, “loro” glorioso passato (come se in quelle istituzioni non lavorassero nella quasi totalità studiosi sardi) e/o per non ammettere che dilettanti ed autodidatti in pochi anni di “ricerche” hanno visto molto più lontano di quanti all’archeologia e alla storia hanno dedicato un’intera vita. La prova? Semplice: i reperti immaginati non saltano fuori, dimostrazione inconfutabile che vengono occultati  (tipico argomento ben ridicolizzato, nella sua inattaccabilità da illogico circolo vizioso, da Umberto Eco in “Il pendolo di Foucault”, insegnamento paradigmatico per chiunque s’imbatta nella fantarcheologia e nella fantastoria).  Al lettore che potrebbe sorridere di ciò, va segnalato che questo clima ha già dato luogo ad episodi tutt’altro che divertenti, quali interrogazioni parlamentari o la minaccia di lesioni fisiche subita da chi scrive durante un pubblico dibattito tra fantarcheosardisti.
            Due sono le tipologie dei fantarcheosardisti.
            Sul primo gruppo non è il casi di soffermarsi, perché tale è l’enormità di ciò che propongono (e non raramente degli errori di sintassi, grammatica ed ortografia dei loro scritti) che sono sufficienti pochi esempi. Che dire infatti  dello schema planimetrico delle tombe dei giganti che replicherebbero l’apparato riproduttivo femminile interno? (inutile chiedersi come i Nuragici lo conoscessero: saranno le diaboliche Soprintendenze che occultano bisturi e radiografie dell’ Età del Bronzo rinvenuti negli scavi). Che dire degli Shardana (ovviamente identificati senza troppe discussioni e senza dubbio alcuno nei Nuragici, con tanti saluti ad un dibattito quasi bisecolare tutt’altro che concluso) che colonizzarono l’intera Europa? La prova? Semplice: siccome Shar-Dan starebbe per “tribù di Dan” (chissà in quale film), basta cercare in Europa tutti i luoghi nel cui nome c’è la sequenza  dan’ – ma va bene anche din, don, den, con tanti saluti alla glottologia (è roba da mangiare?) e un benvenuto allo scampanìo della vicina chiesa – e facilmente si scopre che furono i uargici a dare il nome a Londonderry, alla Scandinavia, alla Danimarca, al fiume Don, ecc. Che dire della spudoratezza di chi confeziona iscrizioni “etrusche” copiando porzioni di celeberrime epigrafi come quella del fegato di Piacenza di II-I sec. a.C. e di un alfabetario più antico di cinque secoli assemblandole tra loro (e del Sindaco del paese che, pur in buona fede, minaccia querele a chi avanza dubbi di falsità)? Che dire del pensiero che i Fenici non sono mai esistiti, con tanti saluti a fonti letterarie come Erodoto, Tucidide, (chi sono mai costoro?) ecc. a intere città, a centinaia d’iscrizioni, ecc., se interrogarsi, in tali casi, sull’uso del termine pensiero?
            Poiché questo è il livello del primo gruppo dei fantarcheosardisti, meglio seguire il consiglio di Virgilio a Dante: “Non ti curar di lor ma guarda e passa
            Il secondo gruppo necessita di qualche parola in più, perché i suoi componenti riescono ad ammantare le loro posizioni con argomentazioni che a un non specialista possono apparire fondate. Per motivi di spazio ci possiamo occupare, e brevemente, solo di un paio di esempi, e perciò li selezioniamo tra i più in voga.
            Vanno per la maggiore di recente le presunte “iscrizioni nuragiche”. Origine e cavallo di battaglia è la “tavola” di Tzricotu (altre del tutto simili sono calchi in gesso di ignoti originali, se pure esistenti, e pertanto non considerabili sul piano scientifico). Per appurare che i segni su di essa sono solo  i componenti di banali decorazioni geometriche e/o fototomorfe in schema simmetrico è sufficiente vederne un’immagine. La “tavola” infatti è in realtà un oggetto altomedievale dell’ambito produttivo dei notissimi ornamenti di cintura, come chiunque può appurare  confrontandola con con uno di quelli arcinoti della coeva necropoli longobarda di Castel Trosino, del tutto affine per forma e decorazione (http://gianfrancopintore.blogspot.com/2010_01_01_archive.html). O i  Nuragici furono antenati anche dei Longobardi e dei Bizantini? Altri esempi di “iscrizioni nuragiche” non sono più felici.
            La civiltà nuragica non scriveva; poco contano pochi, isolati, e a volte dubbi, segni derivati dall’alfabeto fenicio, o greco, o alfabeti orientali di vario genere, rilevati su una manciata di manufatti nuragici dell’Età del Ferro, perché in quanto da essi mutuati ci parlerebbero solo di casi di imprestiti allogeni molto episodici e circoscritti. I gruppi umani nuragici non scrivevano perché il declino della loro civiltà iniziò proprio quando erano giunti sulla soglia di quella dimensione territoriale e complessità socio-economica che presiedettero – nelle società letterate – all’invenzione/adozione della scrittura per far fronte a sempre più complesse esigenze amministrative altrimenti ingestibili. Questo in nulla sminuisce la grandezza della civiltà nuragica (quella vera, non quella mitizzata), ma la caparbietà e l’atteggiamento aprioristico con il quale si deve a tutti i costi dimostrare l’alfabetizzazione diffusa pare scaturire da un inconscio senso d’inferiorità rispetto alla culture che scrivevano, basato ancora sull’emotività archeosardista, secondo la quale è inaccettabile che i “nostri” antenati non scrivessero ed altre civiltà sì.
            Il secondo esempio è quello dell’identificazione della Sardegna nuragica con Atlantide, derivante dall’idea secondo la quale per i Greci il confine del mondo conosciuto, quelle “Colonne d’Ercole” oltre le quali il racconto di Platone pone la mitica isola, fosse fino ad una certa epoca tra Sicilia e Tunisia. Ci interessa qui la proposta dell’equazione Atlantide=Sardegna nuragica seppellita in parte dal fango di un enorme tsunami, proposta seppellita, questa sì, dallo sfavore della quasi totalità dei 238 archeologi, storici e geologi che si sono espressi su di essa. (http://www.celticworld.it/phorum/read.php?13,87429,88814). Persino nel sito web allestito dal propugnatore di questa tesi è facile vedere come anche la quasi totalità dei - pochissimi - antichisti che egli inserisce nella “Giuria degli Esperti”, quali suoi blasonati supporters circa la questione Colonne d’Ercole, alla questione Sardegna-Atlantide-tsunami o oppone un assordante silenzio o si limita a riferire le idee dell’Autore senza prendere posizione, che è lo stesso (http://colonne.idra.info/lnx/cde_rubrique.php3?id_ rubrique=14).  Ma poiché nella scienza non è valido il principio di auctoritas, elenchiamo solamente alcune delle critiche possibili, sia di nuova formulazione sia già avanzate da tempo e che ancora attendono risposta nel merito (invece dei soliti insulti funzionali solo a non rispondere; il critico può rivelarsi essere il Mostro di Firenze, ma se avanza un’obiezione nel merito, nel merito la risposta deve essere).
             Abbiamo un idea di quale sconquasso nell’intero Mediterraneo (se non nell’intero emisfero boreale), ove invece non ce n’è traccia, avrebbe dovuto causare un evento capace di ricoprire di ‘fango’ il complesso nuragico di Barumini, posto a 60 km dal mare e a 241 metri di altezza sul suo livello? Dove sono le migliaia di scheletri che dovremmo trovare nei siti seppelliti da fango tsunamico? Questo fango (in realtà terriccio, che ricopre i monumenti nuragici come tutti gli altri del mondo per un fenomeno antropico/ambientale ben noto; è fango solo per un geologo, contro il parere compatto di tutti gli archeologi e geologi che si sono espressi), questo fango com’è che ricopre anche per esempio a Barumini, i livelli di frequentazione romanica e punica dei siti? Parte dell’Hinterland di Cagliari viene identificato con la pianura retrostante alla capitale di Atlantide: come mai allora per circa metà comprende le colline della Marmilla a quote s.l.m. tra i 100 e 200 m, non di fango, ma di solida roccia? La posizione di vera pianura, del Campidano, di quella piana atlantidea pre-tsunami, viene interpretata dallo stesso autore, in altro passo della stessa opera, come il riempimento di una precedente fossa causato dall’apporto del fango tsunamico: la contraddizione è palese. Sulla base di quale metodo scientifico le misure date dal testo di Platone per la città sono accettabili ed invece quelle  della piana vengono divise per 10 (sarà mica perché sennò i conti non tornano con l’hinterland di Cagliari)? E perché per 10 e non per, poniamo, per 5 o per 20 (sarò mica perché sennò i conti non tornano con l’hinterland di Cagliari)? Sulla base di quali evidenze l’indicazione dei 9.000 anni prima, ai quali risalirebbe la vicenda di Atlantide secondo i sacerdoti egizi del racconto, viene convertita in mesi, contro l’universale uso egizio di datare in anni, risalendo così al 1175 a.C. (sarà mica perché sennò i conti non tornano con la civiltà nuragica)? I sacerdoti egizi affermano di riferire fatti già nella notte dei tempi per loro, prima del diluvio, perciò distintissimi dal 1175, epoca della quale conoscevano beissimo le vicende immortalate nei testi e nelle iscrizioni geroglifiche a tutti loro visibili. Come non notare l’improbabilità della circostanza che la cifra di questi mesi sia tonda al momento in cui i sacerdoti parlano (sarebbe bastato un mese prima o dopo per non essere tonda); come non sospettare quindi che si tratta di una cifra basata sul ben noto potere simbolico del numero 3 e del suo cubo? Come mai un’imponente massa di dati mostra la civiltà nuargica nel pieno fulgore ben dopo il 1175 anche nelle regioni che sarebbero state investite dalla catastrofe? Platone scrive che nell’isola scorrazzavano gli elefanti: ci viene suggerito che il testo del passo sia corrotto e il filosofo parlasse in realtà di cervi (i due nomi sono simili in greco antico): peccato che tutti i codici di del testo di Platone a noi giunti riportino elefanti e mai cervi, e non potrebbe essere altrimenti, dal momento che Platone stesso precisa di parlare degli animali più grandi che camminano sulla terra, che fino a prova contraria non sono cervi Siccome elefanti nella Sardegna nuragica non ce n’erano, devono diventare cervi per fare tornare ancora una volta i conti? Come mai Aristotele, che forse del pensiero di Platone qualcosina doveva pur sapere essendone il successore, disse che Atlantide era scomparsa con colui che l’aveva sognata, cioè con il suo maestro? Moltissime altre obiezioni sono possibili, ma sono sufficienti queste per popperianamente falsificare l’assunto.
            Il favore che in sardegna questa bella favola ha riscosso si deve, oltre al fascino invincibile appunto delle favole, al fatto di avere vellicato la vanità di un pubblico già (dis)educato dall’archeosardismo ad immedesimarsi nei Nuragici. Nel fil “L’avvocato del diavolo” la battuta finale è di Satana-Al Pacino: “La vanità, il peccato che preferisco” (perché è la più potente tentazione). Ma anche ragionando in termini di vanità: ben 55 posti nel mondo si contendono il ruolo di pretendenti al trono di Atlantide. Banalizzare la Sardegn al 56° tra essi appaga la vanità degli abitanti dell’unica isola degli unici nuraghi? Tutto ciò è già molto negativo dal punto di vista culturale, ma diventa preoccupante quando si traduce nella proposta legislativa di livello regionale (http://www.manifestosardo.org/wp-content/uploads/2010/09/URN-Sardinnya-Sa-Natzione-NURAT-1.pdf) di costituire addirittura un Istituto di “studio, ricerca e valorizzazione dei rapporti tra Sardgna nuragica e l’Isola di Atlante (art, 4 comma 10)”. Fortunatamente, la proposta è ormai tramontata, ma non saranno inutili alcune considerazioni in vista di futuri casi dell’uso del fantarchosardismo per fini analoghi. Orientare ope legis la ricerca verso una precisa linea preconfezionata, per di più molto contestata, è principio del tutto contrario alle norme del metodo scientifico; è sempre molto pericoloso lo sconfinare della politica e delle leggi nel campo della ricerca scientifica, per definizione libera. Ciò che più preoccupa è che la divulgazione urbi et orbi di tale ipotesi viene ritenuta fondamentale strumento di propaganda e marketing per l’offerta turistica dell’isola, dal paesaggio all’agroalimentare ecc., a prescindere dalla sua fondatezza. Per citare solo pochi passi: “non c’è dubbio che il solo ingresso dellaSardegna tra le ‘pretendenti al trono di Atlantide’ sarebbe probabilmente in grado di attivare un processo mediatico straordinario” (preambolo); “Sfruttando sino in fondo tutte le affabulazioni legate al fascino misterioso e straordinario dei miti e delle leggende della civiltà nuragica” (preambolo); “L’affascinante civiltà nuragica, sopra la quale può essere costruita una narrazione mitologica che – tra lo storico e il fantastico – può arrivare sino all’Isola di Atlante” (preambolo); “attività di promozione, di pubblicizzazione e di marketing, finalizzte alla diffusione delle suggestioni legate alla protostoria sarda e ai suoi legami con l’Isola di Atlante” (art. 4 comma 11). Sacrificare la scienza e la storia sull’altare della suggestione, del fantastico, del leggendario, al moloch del marketing è un buon servizio alla Sardegna?
            Ma anche ponendoci in ottica di marketing, banalizzare l’unica isola degli unici nuraghi nel novero degli altri 55 siti “pretendenti al trono di Atlantide” è un buon servizio alla singolarità incontrastata della Sardegna protostorica?
            L’ammontare previsto per l’operazione è di 10 milioni €, grosso modo il costo dell’indispensabile Museo delle statue nuragiche di Mont’e Prama, ad oggi ancora in mente dei. Cioè del Museo di reperti che, in termini anche di marketing dell’Isola all’esterno, potrebbero svolgere un ruolo altrettanto egregio, data l’enorme rilevanza mediterranea, l’unicità e le conseguenti potenzialità mediatiche – sul piano di una corretta e alta divulgazione culturale – del complesso statuario.
            E già serpeggiano proposte di corsi ed istituti sulle iscrizioni nuragiche…

GIÙ LE MANI DA MONT’E PRAMA!
            Prima ancora della presentazione al pubblico della totalità del complesso scultoreo di Mont’e Prama, quale esplode ai nostri occhi nel mirifico effetto derivante dal superbo lavoro di ricomposizione, per la cui occasione è edito questo volume, si è diffusa la leggenda del solito occultamento di questi reperti da parte delle perfide Soprintendenze. Ampie notizie sono invece state edite, sia in sede scientifica che divulgativa, già poco dopo il rinvenimento negli anni ’70, come mostra la bibliografia citata in questo volume; alcuni dei frammenti più significativi facevano bella mostra di sé nel Museo Archeologico Nazionale di Cagliari da quasi altrettanto tempo e fino all’inizio del lavoro di restauro pochi anni orsono, e da allora sono stati costantemente valorizzati in ogni opera divulgativa sulla civiltà nuragica. Il lavoro di ricomposizione, come questa sua conseguente esposizione al pubblico, è stato promosso dalle perfide Soprintendenze non appena c’è stata l’occasione di disporre di due imprescindibili elementi per realizzarlo: i fondi ed i laboratori adeguati. Perciò, di quale occultamento si parla? Sarebbe più onesto che i dottissimi dilettanti che lanciano questa accusa. E i media che la cavalcano, confessino che mai ne hanno saputo l’esistenza o compreso l’importanza.
            E arriviamo finalmente all’intento primario di questo contributo.
            Sul complesso scultoreo molto gli studiosi, quelli veri, dibattono, perché molto ancora c’è da chiarire, come ben si apprende dai volumi nelle quali queste pagine sono edite e da altre recenti opere sull’argomento.            
            Sappiamo con certezza, in estrema sintesi, che si tratta del prodotto di un’èlite nuragica che si autorappresentava in modo così monumentale  in segno di sfoggio di potere nei confronti della gente sulla quale lo esercitava e su chiunque osservasse le sculture.
            Discutiamo però ancora la cronologia esatta tra Bronzo Finale e Orientalizzante, la presenza o meno di influenze orientali, la realzione con le tombe presenti nel sito o con un eventuale lontano santuario ad oggi ignoto e quindi la funzione funeraria o votiva, la relazione stilistico-iconografica con i bronzetti, la concezione unitaria in funzione della “narrazione” di un messaggio globale o la realizzazione paratattica per singole sculture distribuite nel tempo, e altro ancora. Sappiamo però con certezza che la Sardegna nuragica non ha insegnato la grande statuaria al resto del mondo antico (in Egitto e nel Vicino Oriente essa è ben più antica), che le statue non rappresentano gli inesistenti atlantidei, né gli altrettanto inesistenti giganti di Paùli Arbaréi, né gli extraterrestri del pianeta Nibiru che malignamente si è ostinato a non comparire nei nostri cieli nonostante sia trascorso il paventato 21.12.2012, non hanno magiche virtù terapeutiche né esse né il sito di rinvenimento, non recano occulte iscrizioni, nessuno mai le ha tenute nascoste, non sono state realizzate con ultrasuoni o altri strumenti di chissà quale perduta tecnologia aliena o atlantoidea, non sono vecchie di milioni di anni, non sono opera del conte di Saint Germani l’Immortale, le armi che impugnano non sono spade laser jedi, nessuna maledizione ha colpito chi le ha rinvenute (anzi, una sì: quella di avere a che fare con i fantarcheosardisti) … e via sparandole grosse. Esse si pongono in posizione di primato, sul piano della grande scultura, nel Mediterraneo Occidentale e sono, per questo e anche per altri motivi, un’ulteriore testimonianza della vera grandezza (non di quella ridicolizzata dal fantarcheosardismo) dell’antico popolo (non dei Sardi di ora) che ha fatto della Sardegna l’unica isola degli unici nuraghi (non una qualsiasi delle mille banali fantomatiche Atlantidi).
            Ogni opinione sui ponti ancora discussi va argomentata sui dati reali e metodologicamente fondata, e ciò è “purtroppo” appannaggio dei soli archeologi, quelli veri. Media ed opinione pubblica sono pregati di accertarsi della competenza di chi parla, o straparla, di questi reperti (come di tutti gli altri). Archeosardisti, fantarcheologi e fantarcheosardisti, almeno su queste statue – finché siamo in tempo – siete pregati di non affliggere l’ignaro pubblico con le vostre fanfaluche. Per una volta abbiate pietà della sardegna, dei Nuragici, dei Sardi, della scienza, della decenza, della logica, del banale buon senso e, se non altro, della vostra stessa dignità.
            Per tutto questo, e per favore, giù le mani da Mont’e Prama!


BIBLIOGRAFIA

Sulla fantarcheologia in generale, tra le molte opere disponibili, si possono consultare a titolo di esempio: K.L.FEDER, Frodi, miti e misteri. Scienza e pseudoscienza in Archeologia, Roma, 2004: M. POLIDORO,  Gli enigmi della storia, Milano,2005; M. POLIDORO, Grandi misteri della storia, Milano, 2005; M. POLIDORO, Enigmi e misteri della storia. La verità svelata, Milano, 2013.
Utilissime anche le sezioni “fanta- archeologia” e “storia” dell’Enciclopedia del sito Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sul Paranormale (CICAP): www.cicap.org
            Sull’archeosardismo e sul fantarcheosardismo una summa aggiornata e approfondita è F. FRONGIA, le torri di Atlantide.Identità e suggestioni preistoriche in Sardegna, Nuoro 2012, un volume non ancora edito alla data di stesura di questo contributo (2010) e nelle cui posizioni l’autore di queste pagine si è incondizionatamente riconosciuto.
            Su un’assurdità tra le più in voga del fantarcheosardismo, quella delle “iscrizioni nuragiche”, v. ora anche R. ZUCCA, Storiografia del problema della ‘scrittura nuaragica’, Bollettino di Studi Sardi, anno V,n.5, dic 2012, pp,5-78.
Argomenti vari di fantarcheologia e fantarcheosardismo sono trattati nel sito http://pasuco.blogspot.it
            Sui processi mentali più reconditi e tortuosi delle follie pseudo-logiche che sono alla base delle fantasiose ricostruzioni del passato resta insuperabile la lezione di U. ECO, Il pendolo di Foucault, Milano 1988.
            Sul metodo scientifico, tra le infinite possibilità segnaliamo solo un nome, per la sua ampia ed accessibile produzione divulgativa in piena lingua italiana piana e di agevole approccio: Piergiorgio Odifreddi (http://www.piergiorrioodifreddi.it/).

martedì 3 febbraio 2015

MALEDETTI PDF

Caro Pasuco: chi ha inventato i PDF è un sadico maniaco e certamente è uno che ce l'ha su con me...
Perché dico questo?
Ebbene:
Sono finalmente entrato in possesso - grazie agli amici - di un PDF che prima o poi riuscirò a postare qui. Dovessi riscriverne il testo parola per parola, per intero!

Farò ancora qualche tentativo, ma non sono ottimista, circa le mie capacità telematiche: appartengo, purtroppo, a quel gruppo di persone tecnoplegiche, che se la caverebbe meglio con una penna d'oca ed un calamaio...

Ottimista sono - invece - per il fatto che più di qualche cosa incomincia certamente a muoversi, nell'orizzonte culturale della Sardegna...

Rubens D'Oriano ha scritto un bel testo, nel quale parla del grande ed immondo pateracchio che alcuni (incontrastati) stanno facendo - in Sardegna - mescolando indebitamente Scienza e politica, Cultura e pregiudizi, Storia e favola, per scopi che con l'interesse pubblico non hanno alcunché in comune.

Ed io sono certo che questo sia solo un inizio

Altri intellettuali seguiranno ed ognuno interverrà con le proprie parole ed il proprio stile e con il coraggio e l'ingegno di cui dispone.

Dammi tempo, Pasuco, abbi ancora un po' di pazienza: alla peggio, riscriverò parola per parola...

lunedì 26 gennaio 2015

Le Sarde Opere Pie


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Malebolge. Nella Divina Commedia, Malebolge è il nome dato all' ottavo cerchio dell’ Inferno nel quale sono puniti i fraudolenti.

Si tratta dell'unico cerchio ad avere un nome proprio (escludendo il nono, che coincide con il lago ghiacciato Cocito).
Il nome Malebolge deriva dalla forma di tale cerchio, suddiviso in dieci bolge ovvero fossati concentrici, cerchiati da mura e scavalcati da ponti di roccia, simili alle fortificazioni esterne di un Castello. Dentro i fossati sono puniti i dannati, suddivisi in base alla loro colpa. 
Ecco la descrizione che il poeta ne dà, allorché vi giunge:

«Luogo è in inferno detto Malebolge,
tutto di pietra di color ferrigno,
come la cerchia che dintorno il volge.
Nel dritto mezzo del campo maligno
 vaneggia un pozzo assai largo e profondo,
 di cui suo loco dicerò l'ordigno.
Quel cinghio che rimane adunque è tondo 
tra 'l pozzo e 'l piè de l'alta ripa dura,
e ha distinto in dieci valli il fondo.
Quale, dove per guardia de le mura 
più e più fossi cingon li castelli, 
la parte dove son rende figura,
tale imagine quivi facean quelli; 
e come a tai fortezze da' lor sogli
a la ripa di fuor son ponticelli,
così da imo de la roccia scogli
 movien che ricidien li argini e ' fossi 
infino al pozzo che i tronca e raccogli.»

Ma non si può fare di tutte l’erbe un fascio” – qualche benpensante dirà.
Ebbene, sì, d'accordo: idee, fatti e persone vanno valutate bene e da vicino...

E poi: perché citare Dante?

Ma perché l’intuizione di Dante resta ammirevole ed attuale: non v’è alcun dubbio che la sua definizione dell’Italia (nel canto sesto del Purgatorio) sia tuttora – a distanza di otto secoli, purtroppo – la migliore mai data. 
 - La popolazione italiana è infatti ancor oggi in molti modi schiava e vive in un Paese che alberga moltissimo dolore e per il quale la similitudine con un vascello privo di guida e preda di una grande tempesta è estremamente calzante. Che poi l’Italia abbia la nobile pretesa di prendere il tè nei salotti buoni d’Europa, ma sia in realtà più adatta ad un bordello, questa è la sferzante critica del sommo poeta e politico, che dovrebbe offenderci e scatenare una reazione positiva…

Molti intellettuali sardi, poi, hanno reagito agli accenni (in genere negativi) che Dante fa, nella Commedia, alla Sardegna ed ai Sardi. A tal riguardo, sono stati scritti vari articoli, saggi e libri (che qui tralascio, per non troppo divagar, più del dovuto).
Nessuno, però, si è mai accorto di come “Malebolge” sia sempre più precisamente e sempre più spesso riferibile all’isola sarda...
La cronaca sarda recente avvalora sempre di più questa tesi...



Reazioni.
A proposito di reazioni: il caso Csoa  (Centro Sociale Occupato Autogestito) Pangea Porto Torres (csoa pangea.blog) rende purtroppo ragione all’antico detto che recita: “La strada per l’Inferno è spesso lastricata di buone intenzioni”. 
Personalmente, non ne conoscevo neppure l'esistenza. Mi sono informato. Da solo, perché nessuno ha avuto la buona volontà di farlo. Si tratta di un gruppo spontaneo, nato per caso e per protesta (uno dei suoi motti è: "Occupare spazi per liberare menti"), animato - appunto - da buone intenzioni. Fanno raccolta di medicinali, ad esempio, e cercano di ideare molte altre buone iniziative, che siano anche altrettante critiche a rispettive manchevolezze da parte delle istituzioni. In genere, quindi: bene! Talvolta, però anche: male!
Recentemente, Pangea ha proposto (in anticipo, su Facebook) ai propri sostenitori di entrare 'fuori orario' e scavalcando i cancelli nell'area archeologica di Monte d'Accoddi, per protestare contro la scarsa fruibilità del sito per un troppo breve orario d'apertura. L'iniziativa era criticabile per due motivi:1) i metodi proposti sono senza dubbio illegali e 2) i motivi stessi (gli orari troppo brevi d'apertura) non sussistevano. Cose che gli sono state fatte notare (http://www.sardiniapost.it/cronaca/archeologia-visita-clandestina-monte-daccoddi-larcheologo-sbagliato-e-pericoloso/).
I responsabili si sono scusati, hanno annullato il salto dei cancelli ed annunciato che avrebbero manifestato egualmente, ma comprato il biglietto (benissimo) e poi si sono scagliati 'testosteronicamente' a testa bassa contro alcuni di critici (tra cui - secondo loro - anche il sottoscritto che non li aveva mai sentiti nominare prima). In particolare, però, si sono scagliati contro l'Untore, (per chi non lo sapesse, si tratta di quel "Pasquino Sardo" che ama particolarmente fustigare tutti i meritevoli di biasimo, facendolo con modi degni di un tenutario di bordello d'angiporto).

 E qui finisce il caso. 
- Probabilmente Pangea - che ovviamente non intendeva ledere alcuno e certamente non ha rubato nulla - sarà molto più accorta in futuro e proseguirà con immutati ardore e senso di giustizia le proprie volonterose iniziative. Non ha la mia simpatia, ma ne farà benissimo a meno e tanti auguri lo stesso...

- L'Untore, anche lui, continuerà la sua opera libellistica, ne sono certo... 

- Malebolge Sardegna, però, prosegue anch'esso: attenzione! E molto più attivamente di quanto non si creda, anche...

Sarde Opere Pie.
Numerose altre iniziative 'benefiche' sono in corso: numerosi altri individui più o meno organizzati, soggetti singoli, organizzazioni, 'raccolgono fondi in vari modi per salvare i monumenti della Sardegna'... 
Non si tratta di una nuova moda culturale: spesso, anzi, l'iniziativa parte proprio da persone che (si sarebbe propensi a credere) 'cultura' non sanno neppure come si scrive. 
E - naturalmente - io non li conosco tutti: come potrei? Conosco solamente quelli che ogni tanto sono segnalati in Facebook o altrove sull'Internet. Non so neppure bene se si tratta di iniziative oneste, oppure no.

Al loro confronto, però, quei numerosi 'autori autodidatti' che instancabilmente scrivono infinite fandonie fantasiosissime sulla Storia, l'Arte, l'Archeologia della Sardegna, sono solamente sublimi poeti astratti e disinteressati delle cose mondane, lontani dal mondo materiale, viventi nel loro empireo sognante. Che cosa vogliono, in fondo?
- Vogliono vendere i loro libri? Pinzellacchere: comperare è un gesto autonomo e libero. Se desidero acquistare un libro scritto su carta crespatina, è affar mio e mio diritto.
- Vogliono acquisire fama per scopi personali? Benissimo: bravi se ci riescono. In questo paese - è ben dimostrato dai fatti - qualsiasi 'Diroffarò' riesce a diventar famoso... Perché non proprio loro?
- Vogliono partecipare alle elezioni locali (non mi azzardo a credere nazionali!)? Facciano pure: il voto è libera espressione di libertà. E per quanto esso sia anche segreto, dico fin d'ora che io - almeno - non voterò per loro... Ma concorrano, perbacco!
Però...
Ma quando iniziano a chiedere soldi, amico mio, credo si debba pretendere di vederci chiaro... Se uno, per esempio, ti chiede soldi per sé, a titolo personale, è un conto. 
Esempio: 
"Dammi qualche cosa, sù!"
"Hai fame?"
"No"
"Hai una casa?"
"Sì"
"E allora a che cosa ti servono questi soldi?"
"Ho tanta voglia di comperarmi una auto nuova!"

Ecco: qui, l'interpellato almeno può scegliere - in omaggio alle libertà individuali - se mandare a quel paese il questuante (ipotesi statisticamente più probabile) oppure se agevolarne la raccolta di fondi per uso squisitamente personale (esercizio ad mentulam del libero arbitrio). 

Ma - tra la folla fitta di onestissimi appassionati altruisti organizzati - esistono furbetti, furbacci e furbacchioni che raccolgono fondi 'per salvare beni pubblici' e poi magari li destinano ad altri. E un appassionato del monumento 'tal dei tali', magari, ci casca in perfetta buona fede (ingiusto dargli del coglione, come fa l'Untore: è un individuo cui viene sottratto il libero arbitrio a sua insaputa. Più brevemente: un truffato), convinto di donare per una buona causa pubblica e culturale e non invece per un'auto privata che presto prenderà a scorrazzare per tutta Malebolge, Sardegna.

Un'organizzazione che raccoglie fondi è Nurnet, una Fondazione che dispone sull'Internet di un sito estremamente accattivante e decorato di immagine fotografiche bellissime. Un'altra organizzazione è quella gestita e promossa da certa Albertina Piras ed altri (per es.: Maurizio Cossu), che credo vendano calendari con  viste sarde. Certamente ne esistono altre... 
Sarebbe certamente il caso che qualcuno si interessasse più da vicino e controllasse che le quote raccolte per un fine dichiarato, alla fine siano realmente indirizzate a quel fine e non altri. Interrogati direttamente al riguardo, i sunnominati dichiarano di 'non dovere rispondere a nessun altri che non abbia versato le quote'. (eppure la stampa e la vendita di calendari dovrebbe essere un'attività autorizzata e conseguentemente tassata). A tutt'oggi - purtroppo - non risulta che sia stata presa un'iniziativa di restauro verso alcun monumento pubblico (non ci sono neppure richieste di autorizzazioni a farlo, né sono stati fatti versamenti o donazioni ad alcun Ente).
Ultimamente, sembra che una Senatrice della Repubblica del M5S, Michela Serra, stia facendo proprio questa attività di raccolta d'informazioni (non diciamo indagine). Non credo che troverà molti libri contabili aggiornati, ma è già un inizio...






Altri - a Malebolge, Sardegna - sono estremamente scoperti, nella piena coscienza di non fare alcunché di male. Come un certo candido tenutario di Blog con poche pretese archeologiche, che - avendo anche una ben avviata rivendita di automobili - nello stesso spazio telematico alterna le notizie archeologiche di cui entra in possesso agli ultime prezzi delle sue auto revisionate (http://pierluigimontalbano.blogspot.it/2015/01/offerte-commerciali-auto-della.html). Come dargli torto? 
Egli è anche un noto ed attivo organizzatore di viaggi turistici conoscitivi in vari siti archeologici sardi, con incluso pranzo presso questo o quel ristorante situato convenientemente nei pressi (E qui ha risolto in modo molto brillante e personale l'adagio secondo cui con l'Archeolgia non si mangia: in realtà si mangia e talvolta anche di gusto). Unicuique suum...

Strabismo.
Ma purtroppo persiste un diffuso strabismo - sull'isola - che non permette sempre di guardare dritto alle cose e di metterne bene a fuoco il nocciolo del problema.
Un esempio:
- Un certo signor Armando Saba, sardo di Allai, è stato finalmente assolto - dopo un processo durato circa 8 anni - dall'accusa di essere un falsario. Siamo tutti contenti per lui. 
(Per chi non conoscesse l'antefatto: esistono alcuni ciottoli di fiume, raccolti dal Lago Omodeo in secca, nella località 'Is Nabrones', con alcune incisioni che sembrano essere lettere della lingua etrusca. Il sig Saba riferisce che le trovò passeggiando e le affidò al locale museo di Allai. I reperti sono stati dichiarati 'falsi recenti' da due esperti: Mario Torelli ed Attilio Mastino).
Il giudice Antonio Enna non ha - alla fine - ritenuto in alcun modo dimostrato che il Saba fosse colpevole del falso: egli avrebbe solamente avuto la disavventura di rinvenire detti falsi e (non sapendoli valutare, ma ritenendoli autentici) di averli voluti affidare al luogo ove riteneva fosse gente più esperta di lui.
Saba è stato assolto e restituito alla serenità del suo piccolo e ridente paese. 


Palle di mare e palle di lago


Il problema - ora - è che tutti quei fantarcheologi che nel corso degli anni hanno 'tifato' per l'autenticità dei reperti di Allai interpretano l'assoluzione del Saba (nel corso di un processo  che s'incentra proprio tutto sulla falsità dei reperti e sul riconoscimento oppure no della colpevolezza dell'imputato come autore del falso) come un'ammissione automatica di autenticità! Ciò può sembrare assolutamente incredibile, ma si legga pure al riguardo il Blog Monteprama (15 minuti dopo l'assunzione di una cpr. di antiemetico).

Quindi: Malebolge, Sardegna?

Sì: Malebolge, Sardegna...