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martedì 2 luglio 2013

Archeologia Sarda e Mito




  Archeologia sarda, tra mito e realtà.

di Maurizio Feo


Quando finì il periodo nuragico? Non c’è consenso comune sulla risposta, che potrebbe, però, essere in qualche rapporto con il vocabolo italiano “Sardigna”. Con esso s’indicava un luogo suburbano in cui relegare i residui di macellazione e che oggi definisce, all’interno di un macello, un locale destinato a carni infette non commestibili, tornato tristemente d’uso comune per via dell’epizoozia detta “mucca pazza”[1]. Tutt’oggi, una zona di Firenze, fuori porta S. Frediano, si chiama Sardigna, dall’antico uso di gettarvi in Arno le carcasse di quadrupedi. La più verosimile connessione è attraverso la presenza, in Sardegna, di un’endemia malarica da tempi molto antichi e della sua identificazione con una zona malsana.
Il paludismo, o malaria deriva dal lat. Mala aria “cattiva aria”, “aria malsana”, perché si credeva che, oltre che dai piccoli insetti armati d’aculei (già Columella, nel suo De re rustica, ascrisse la malattia ad animaletti “aculei armata”), la malattia fosse causata da esalazioni mefitiche tipiche delle paludi. Varrone (I,12) riteneva responsabili “corpuscoli” che si introducevano attraverso la cute e le vie respiratorie, seguito in questa teoria da Lucrezio, nel suo De rerum natura, IV, 110. Così come Febris e Mefitis erano divinità italiche, correlate con la febbre malarica e con i miasmi che la causavano (palus vitanda est…propter pestilentia vel animalia inimica quae generat. Columella, De re rustica, I, 7), così gli accessi febbrili (is callenturas) si determinavano in rapporto ai miasmi (is fragus maus), anche nella credenza sarda. Ciascuno era responsabile di una malattia: si riteneva che il respirare l’aria polverosa, camminando dietro ad un gregge, determinasse la malaria. Oggi sappiamo che, in tal modo, è più probabile contrarre un’echinococcosi oppure una malattia di Lyme (rispettivamente da tenia echinococco e da puntura di zecca).
Già i romani applicavano il famigerato trasferimento punitivo in Sardegna[2], che però allora non comportava soltanto l’allontanamento dalle sedi centrali privilegiate di potere, bensì anche un forte rischio statistico di contrarre la più grave forma di malaria perniciosa. Quest’ultima era spesso mortale per i Latini, che non erano protetti dalla malattia, a differenza dei nativi dell’isola[3]. Tra le misure arcaiche per difendersi dalla malattia, rinveniamo quella di accendere grandi fuochi con legna resinosa di conifere, allo scopo di purificare l’aria, che in realtà doveva essere efficacissimo, allontanando gli insetti. Oggi sappiamo che il calore del fuoco ed il fumo, da qualsiasi barbecue o falò valgono bene all’uopo. Altri rimedi empirici della medicina popolare sarda, più recenti, sembrano molto meno raccomandabili: decotto di biondella, eucalipto, petali di rosolaccio, cimonida, gramigna e arrù crabio, talvolta con l’aggiunta di fichi secchi e miele per ottenerne uno sciroppo[4]. Non si possiedono prove certe sul reale impatto che la malaria ebbe sulle popolazioni antiche. L’andamento naturale della malattia è caratterizzato da periodi alterni di recrudescenza e remissione nell’ambiente non protetto, con effetti che possono essere devastanti su una popolazione. 
Alcuni autori hanno formulato l’ipotesi che il declino di varie civiltà - Etrusca, Magno Greca e Sarda - sia stato almeno in parte determinato dalla malaria, seppure in epoche diverse[5]. Per l’Etruria, lo spopolamento avrebbe avuto inizio già nel VII secolo a. C. per durare sino all’anno mille della nostra era[6]. L’ipotesi di un rapido declino malarico della civiltà nuragica è interessante e teoricamente possibile, ma non è stata chiaramente documentata. L’indebolimento della popolazione potrebbe averne minato le capacità di difesa. 
È senz’altro possibile che l’introduzione del ferro nel 1000 a.C. sia stata un fattore determinante del declino nuragico[7]. Non mancano altre e più affascinanti teorie: ad esempio, quella che identificherebbe la Sardegna con Atlantide. La parte meridionale dell’isola sarebbe stata spazzata da onde di maremoto, che avrebbero distrutto tutte le pareti a sud-est dei nuraghi del Campidano, seppellendo nel limo Barumini fino alla sua scoperta[8].  La creazione dei miti non si arresta mai, è vero. Se un giorno si rinvenissero tracce stratigrafiche inconfutabili, o altri documenti, comprovanti che la Sardegna è stata Atlantide, le colonne d’Ercole sono state in Sicilia[9] e la Tartesso tutta d’argento non si trovava in Spagna, bensì nascosta da qualche parte nel Sulcis, a molti di noi, ammettiamolo sinceramente, non dispiacerebbe affatto… Per il momento, però, è bene non volar troppo alti. La zona che ha subito un destino maggiormente compatibile con quello della mitica Atlantide è l’isola vulcanica di Thera Santorini, nell’Egeo a nord di Creta. Studi comparativi d’accrescimento dendrocronologico su alberi estremamente longevi, stratigrafici dei ghiacci polari, di alcuni archivi cinesi, permettono di stabilire la data della distruzione dell’isola di Thera attorno al 1628 a.C.[10]
Forse, infine, Platone semplicemente inventò di sana pianta - nei suoi dialoghi Crizia e Timeo - la perfezione d’Atlantide (potente, civile e sacra a Poseidone, più grande della Libia e dell’Asia), spinto anche dal rimpianto per l’abbandono del suo maestro Socrate e per i suoi insegnamenti. L’eruzione di Thera fu, probabilmente paragonabile o maggiore di quella del vulcano Tambora (1815, 92.000 morti) e quindi molte volte superiore a quella, più famosa perché ebbe testimoni occidentali, del Krakatoa (1883, 36.000 morti). Un disastro di portata globale lascia – piuttosto che chiacchiere neo-catastrofiste – tracce ben evidenti[11].
Tuttora non esiste consenso su questioni, anche fondamentali, riguardanti il prezioso patrimonio archeologico sardo. Gli archeologi considerano un’indebita ingerenza ogni tentativo d’intromissione in quello che loro vedono come un proprio campo esclusivo. Non v’è dubbio alcuno che ciò sia giustissimo in alcuni casi, ma sia un atteggiamento francamente sbagliato e controproducente, se assunto nei confronti d’altri seri specialisti. A questo proposito si può di passaggio ricordare che fu un architetto inglese d’origine greca, Michael Ventris, a decifrare l’antico Lineare B; un commerciante avventuriero tedesco, Schliemann, scoprì e scavò Troia (seppure con metodi molto poco ortodossi ed animato da un ego mitomane); un subacqueo sportivo, Henry Cosquer, ha scoperto l’ingresso della più antica grotta preistorica dipinta (più antica di quella di Lascaux). Nessuno di costoro era un archeologo, ma l’indiscussa rilevanza, anche archeologica, del loro apporto alla cultura è più che evidente. Per restare più vicini a noi, si potrà rilevare come la lingua etrusca abbia cessato di essere un mistero quando finalmente a tradurlo non sono più stati gli archeologi, bensì gli esperti di lingue: oggi n’abbiamo una conoscenza forzatamente incompleta, ma soltanto i commercianti ciarlatani parlano ancora di “sfinge etrusca”. Ad onore del vero, esistono sicuramente numerosissimi casi di segno contrario, in cui l’intervento di un archeologo avrebbe permesso di salvare patrimoni inestimabili: per brevità si può citare il caso della recente distruzione dei giganteschi Budda rupestri afgani da parte di fanatici religiosi. Se da un lato l’atteggiamento di chiusura è criticabile perché controproducente, quello d’apertura indiscriminata lo è anche di più, perché antiscientifico[12]. D’altro canto, è opportuno che l’archeologia diventi meno ingessata, accogliendo nei suoi metodi di ricerca specialisti d’altre discipline, in un clima di collaborazione sicuramente benefico, ai fini dei risultati. Si obietterà che ipotizzare tutto questo sia facile e bello, mentre altra cosa è il trasformarlo in realtà[13] . Nella pratica, però, abbiamo di fronte agli occhi studi di monumenti stranieri che di per sé costituiscono un costante rimprovero per il nostro mondo scientifico: si pensi a Stonehenge. Il sito è stato studiato in modo approfondito, nel corso degli anni. Sono sicuramente stati commessi alcuni errori[14] concettuali, che vanno considerati fisiologici in qualsiasi studio, che prosegua per tentativo ed errore. Di Stonehenge si è calcolato con buon’approssimazione il numero d’ore lavorative necessario per la costruzione; sono state scelte con spirito critico le più verosimili tra le varie funzioni astronomiche ipotizzate; sono state vagliate le possibili tecniche costruttive con metodi sperimentali; è stato definito l’arco d’anni d’utilizzazione; se ne conoscono le varie fasi evolutive nel tempo, dal primo cerchio in legno fino alle modifiche strutturali tardive. E’ vero che, parallelamente, si è sviluppata la falsa mitologia ossianico-druidica[15], ma con scarsa incidenza, oggi, a fronte della mole degli studi. Il risultato, di questo differente atteggiamento, è che Stonehenge (con gli altri coevi monumenti megalitici inglesi ed i woodhenges) è comunque più conosciuto in campo internazionale, di quanto non siano i monumenti sardi, molto più numerosi, almeno altrettanto mirabili, molto più vari, ma colpevolmente molto meno studiati. Se ci riferiamo ad esempio ad un nuraghe, ebbene possiamo affermare che oggi non possediamo, al riguardo, alcun’idea definitiva di consenso comune su di esso. Non sappiamo quanto tempo richiedesse la sua costruzione, giacché non abbiamo stabilito in modo preciso la tecnica edilizia, né si sono condotti seri esperimenti in merito. Non sappiamo chi fosse preposto alla costruzione (maestranze itineranti specializzate ben pagate? artigiani locali e liberi, presenti in ogni comunità? se schiavi, come con leggerezza talvolta si dice, quali? e perché schiavi e di chi? Non è stata descritta una credibile società sarda arcaica). Inutile entrare nel ginepraio della finalità funzionale del nuraghe, su cui è fiorita un’ormai troppo lunga diatriba per anni, che tuttora vede ufficialmente vincente la tesi di gran lunga meno convincente[16]. Non si conosce con certezza la loro data di costruzione, né si sono stabiliti dei precisi limiti di tempo tra i quali essi avrebbero avuto vita e fortuna[17]. È giustificata, ancora oggi, una domanda che non dovrebbe più esserlo: come sono stati datati i nuraghi? Quel famoso trave ligneo incastrato nella cupola centrale del nuraghe di Barumini[18] è stato o non è stato usato per una datazione al C14 e dendrocronologica? Simili mortificanti considerazioni possono farsi per le tombe dei giganti, per i pozzi sacri e - in special modo - per lo “ziqqurat” di Monte d’Accoddi. Da ciò, tra l’altro, deriva che i nuraghi sono poco noti nel mondo e perfino nella penisola italiana, mentre Monte d’Accoddi è sconosciuto persino a molti sardi. In tale situazione, come garbatamente fa notare G. Manca, quasi tutto si può impunemente affermare, senza troppo temere smentite, circa il passato della Sardegna. Purtroppo, è proprio quello che accade, da sempre.
 Il Santuario di Monte d’Accoddi: le vicende moderne del tempio hanno inizio con la donazione allo Stato di un’amena collinetta, alta dieci metri circa.  Sita a 11 km da Sassari, sulla strada per Porto Torres. La donazione, da parte dell’allora senatore Antonio Segni, fu accompagnata dalla raccomandazione di cercarvi quel qualcosa che certamente vi si celava, probabilmente un nuraghe. L’archeologo Ercole Contu fu scelto dalla soprintendenza e si avvalse della mano d’opera d’una cinquantina di detenuti, “prestati” dal carcere dell’Asinara. La costruzione rinvenuta fu coraggiosamente definita una piramide a gradoni, di tipo mesopotamico. Fu rinvenuto un “obelisco” (menhir) di quasi quattro metri e mezzo, abbattuto, ed un lastrone ovale di oltre tre metri, su sostegni di pietra, di sicuro significato sacrale (altare, simbolo solare). I risultati degli scavi furono accolti con freddezza ed i lavori abbandonati fino al 1979, quando l’ormai sovrintendente Contu affidò nuovi lavori a Santo Tiné, docente d’archeologia di Genova. Fu descritta la “stanza rossa” (un locale rettangolare, di pietre cementate con malta, con pareti e pavimento dipinti d’ocra rossa), fu rinvenuta una stele di poco più di un metro raffigurante una divinità femminile, sita in cima al monumento, sul lato opposto alla rampa d’accesso. L’interpretazione che ne fu data fu la seguente: prima del 2400 a.C. esisteva un sito megalitico di tipo mediterraneo (menhir e altare); dopo accadde qualche cosa, per cui fu costruito un “posto alto”, con rampa d’accesso laterale, sormontato da un tempietto in muratura cementata e dipinta. Vi fu una distruzione col fuoco, di cui sono state riconosciute le tracce. Seguì una ricostruzione con sopraelevazione fino a dieci metri d’altezza, che inglobò la vecchia rampa laterale, rendendo necessaria una rampa frontale, lunga quarantadue metri, larga tredici. Probabilmente, in cima al nuovo posto alto si trovava un altro tempio, di cui, però, non è rimasta traccia. La presenza di una batteria antiaerea durante l’ultima guerra non ha certo aiutato. Tutt’intorno, si sono rinvenuti numerosi idoletti femminili, definiti del tipo cicladico e centinaia di migliaia di conchiglie, accumulate in piccoli pozzetti votivi, segno di un lungo periodo di fortunata devozione al sito. Gli archeologi sono estremamente prudenti nel formulare qualsiasi tentativo d’ipotesi, per non incappare nel ridicolo bruciante d’una pubblica smentita. Anche il termine Ziqqurat è pronunciato timidamente. Ma, infine, ci si chiederà, di che cosa si tratta?
Certamente di una costruzione edificata da uomini, che devono pertanto avere avuto idee umane, mezzi reali, motivazioni valide e necessità che noi conosciamo bene, perché in massima parte le condividiamo, oggi, con i nostri antenati di allora. Anche se oggi possediamo, in più, acquedotti ed elettrodotti. La cesura culturale con l’ambiente circostante è chiara, tanto da far presupporre la disponibilità di una certa forza che la garantisse. Analogamente, le tracce di distruzione con il fuoco permettono di ipotizzare l’uso della forza, forse nel corso di una reazione violenta da parte dei nativi. La mole del lavoro è notevole, il che presuppone una discreta quantità di mano d’opera. La motivazione, non trattandosi di una tomba, è più probabilmente di culto religioso e, forse, simbolica e richiede la presenza di un rappresentante del culto, oltre che di un architetto (forse nella stessa persona). La popolazione d’origine degli edificatori, perciò, è almeno organizzata in Chefferie, se non già in Stato. La tecnica edilizia, molto avanzata per l’epoca, rende giustizia al successivo nome di “punto di passaggio” che i naviganti Eubei dettero all’isola[19], ma permette anche di ipotizzare che i nuovi venuti possedessero altre perle preziose nel loro bagaglio culturale e che le divisero con gli indigeni. Dovremmo cercarle. Perché non considerare autoctoni questi costruttori? Perché se lo fossero stati, probabilmente non avremmo soltanto un Altare di Monte d’Accoddi, ma più d’uno, magari in differente stato di conservazione e non coevi, similmente a come accade per i nuraghi. Ciò equivale ad affermare – con un certo coraggio – che un numero imprecisato (ma discretamente elevato) di stranieri (includenti militari, operai e individui di rango più alto, dotati d’istruzione e di motivazioni religiose), di più probabile provenienza asiatico-egea, sbarcarono (o naufragarono?) circa quattromilacinquecento anni fa presso Platamona (?), si stabilirono lontano dalla costa, costruirono un tempio a gradoni (e un villaggio) e vi si stabilirono per un tempo ignoto, ma presumibilmente lungo. Lentamente, poi, scomparirono, forse per la malaria (?) e non ebbero più la capacità d’imporre i propri costumi differenti da quelli dei nativi. In Beozia esiste un altro tempio a gradoni: la tomba d’Anfione e Zetos, primi mitici fondatori di Tebe[20]. Si tratta di un posto molto venerato in tempi classici, che risale al III millennio a. C. (pressoché coevo all’altare di Monte d’Accoddi) e che fu purtroppo depredato prima di essere sistematicamente studiato[21]. Altre numerose costruzioni a gradoni esistono ancora in Sicilia, ma è stato dimostrato che sono molto tardive, risalendo ad un’azione di spietramento dei terreni, effettuato dagli agricoltori negli ultimi tre secoli[22]. Monte d’Accoddi, certamente, non è frutto di spietramento: costituisce un’eccezione mondiale ed un mistero, che la Sardegna conserverà fino ad un nuovo studio più fortunato, deciso, completo e comparativo, oppure per sempre.
Si devono fornire anche suggerimenti, non solo critiche, si dirà. Ebbene: in Sardegna non sono stati condotti studi archeologici incrociati con marcatori culturali, quale la matematica, per citarne almeno uno. È necessaria una digressione, che possa illustrare meglio la proposta.
Non sembra esistere una convincente spiegazione per la quale i Babilonesi avessero adottato il 60 come base per la loro numerazione. Tutte le lingue indoeuropee adottano il medesimo metodo, per contare; possiedono una serie di parole molto simili per esprimere i numeri. Sembra che il sistema decimale derivi dall’uso delle dita delle mani. E’ stata formulata l’ipotesi che l’origine del sistema babilonese con base 60 fosse astronomica, con la rappresentazione dell’anno come 6 giorni per 60, ma non è certo[23]. Sicuramente, però, 60 è una quantità conveniente a scopi commerciali. E’ scomponibile in un gran numero di fattori (2, 3, 4, 5, 6, 10, 12, 15, 20, 30) e pertanto semplifica le suddivisioni in misure più piccole, senza l’uso di più complessi numeri frazionari. Il fatto che il sistema di conteggio indoeuropeo (su base decimale) si sia in seguito affermato, ha qui poca importanza e probabilmente, è in diretto rapporto con il successo che le lingue indoeuropee hanno avuto sulle altre. Ciò che di babilonese è rimasto, ad esempio, è il sistema posizionale[24], per cui noi sommiamo le unità con le unità, le decine con le decine, le centinaia con le centinaia, adottando un sistema che letteralmente “pensa” per noi e ci rende più facile il conto. E’ qualcosa di semplice, che sembra quasi automatico, oggi, ma che sarebbe totalmente impossibile con i numeri romani (ad esempio, si provi a sommare XIX e XVI mettendoli in colonna, o come si preferisce). I babilonesi introdussero anche una notazione particolare (prima uno spazio vuoto, poi un punto) col significato di “zero”.
Prescindendo dalla minore versatilità specifica delle popolazioni, si deve ammettere che “il senso del numero” esiste già persino nel mondo animale[25] e ovviamente nell’uomo, prima ancora di acquisire quella capacità d’astrazione con cui lo rappresenta graficamente e lo elabora[26]. In civiltà molto primitive, esistono soltanto vocaboli per esprimere il concetto di uno, due e molti. Anche in molte lingue europee sopravvivono i vocaboli primo e secondo, che non corrispondono ai rispettivi uno, due; da terzo in poi, invece, la corrispondenza tra numerali ed ordinali è completa. Ciò dimostrerebbe che le parole uno e due appartengono ad un’epoca molto anteriore, corrispondente ad una matematica più primitiva e naturale, che però ha lasciato tracce culturali. Una concezione più primitiva e limitata del contare è probabilmente presente nelle parole che indicano specificamente alcuni oggetti, quali ad esempio: un paio di braccia, una coppia di pernici, un duetto musicale. Un concetto analogamente arcaico potrebbe essere espresso dal sardo “unu kemu” (= una manciata, quattro, cinque?).
La lunga digressione serve per sostenere meglio quanto segue. Si potrebbero considerare sotto questo punto di vista anche i reperti “nuragici” e “prenuragici”, misurandoli e pesandoli accuratamente e valutandoli matematicamente o altrimenti e confrontandoli con reperti simili d’altre zone. I sassi levigati artificialmente, del peso di “circa” 500 grammi e di “circa” un chilo e mezzo, (reperiti in diversi nuraghi, ad esempio il “Santu Antine” e tuttora di significato ignoto); i 17 ‘lingotti’ di rame, di circa 30 kg (o talenti a forma di pelle bovina, ox hide ingots), marcati con lettere minoiche, e definiti di provenienza egea , non potrebbero – insieme con altri reperti, forse - rappresentare frazioni o multipli d’unità di un antico sistema di misura? Lo studio in tal senso potrebbe rivelarsi una ricerca con esito ultimo negativo, ma potrebbe anche inaspettatamente offrire interessanti novità culturali sulla civiltà antica della Sardegna e sulla sua provenienza. A questo proposito sono interessanti direzioni di ricerca le possibili misure lineari nuragiche[27], ipotizzate molto credibilmente su base antropometrica, proposte da alcuni, in particolare la yarda megalitica.  Anche l’asserzione della conoscenza pratica, da parte dei costruttori di nuraghi, del teorema di Pitagora[28], meriterebbe maggiori indagini. Si dovrebbe, però, iniziare una sperimentazione programmatica: risolvendo un problema che è, prima di tutto, di disposizione mentale verso la materia di studio.
La mistificazione è di casa nella Storia, perché il potere non può, né sa prescindere dalla manipolazione dei fatti, spesso complicandosi o scontrandosi con vari nazionalismi, conservatorismi ed irredentismi. Il potere crea sempre un’ideologia per proteggersi da spinte centrifughe, ricorrendo anche alla religione, fino dai tempi delle prime Chefferie. Non può stupire che la Sardegna, impigliata nelle trame sognanti del mito fino a tempi ormai storici, n’esca soltanto a fatica e soltanto per giustificare le più strumentali millanterie da condottieri militari stranieri di vario genere. L’avvenuta e completa conquista cartaginese è oggi spesso negata per motivi d’orgoglio nazionalistico; la capillarità anche culturale della conquista romana è rifiutata per lo stesso motivo, anche se l’unicità del neosardo la testimonia in modo definitivo ed incontrovertibile. Il sincretismo religioso che ha fatto indossare panni cristiani a preesistenti divinità pagane è passato sotto doveroso silenzio, nelle sedi dei martirologi di antichi santi con nomi nuragici[29]. Qualcuno ostinatamente sostiene che le navi sarde fossero munite di alettoni, che permettevano una velocità superiore alle navi normali[30]. Invece le navi sarde, essendo costruite in legno, non potevano avere alettoni, perché questi ultimi, sottoposti a stimolazioni meccaniche, avrebbero danneggiato il fasciame e determinato il naufragio del vascello. La presunta somiglianza tra le navi bipropre degli antichi Sardi ed il tardo Drakkar Vichingo, unitamente all’inesistente somiglianza tra gli elmi cornuti e crestati dei Sardi e quelli che erroneamente si attribuiscono ai Vichinghi (che invece non li ebbero mai, nella loro storia), ha fatto parlare e persino scrivere di fantasiosi contatti tra le due popolazioni. Si tratta di mitogenesi recente, molto cara all'Armata Brancaleone dei fantarcheologi.

L’episodio leggendario che si racconta intorno al castello di Posada[31], possiede tutte le caratteristiche della beffa arguta di repertorio, di sapore medievale. Il castello era sotto assedio da parte di pirati musulmani, come più volte può essere successo, data la posizione invitante. La situazione era difficile per ambedue le parti, assediati ed assedianti, a causa della scarsità di scorte alimentari. Ecco che dal castello parte un fitto volo di piccioni, alcuni dei quali facile preda degli arcieri arabi. Ma ecco l’amara sorpresa: i piccioni hanno il gozzo pieno di fave e ciò può soltanto significare che il cibo non scarseggia nel castello, se gli occupanti possono permettersi di trattare così bene persino i piccioni. Gli arabi non intuiscono il trucco disperato degli assediati e credono di non avere speranze di conquista: prendono il largo, risparmiando così l’estenuato borgo fortificato, che da allora si chiamò il Castello della fava. Sicuramente una favola affascinante, anche se di maniera, che deve essere stata copiata a più riprese e attribuita ai posti più disparati, nel tempo[32]. Ben diversa e più dura la realtà dei fatti: sappiamo infatti dai resoconti storici[33], dalla distribuzione dei cognomi[34] e dalla genetica[35] che gli abitanti di vari insediamenti più ameni ma più esposti (Siniscola, Torpé) si ritirarono verso zone più produttive e più sicure dell’interno, per sfuggire ora alla malaria, ora ai saraceni, oppure alle carestie ed al sovrappopolamento[36]. Le realtà umane, purtroppo, sono talvolta misere, spesso addirittura noiose e sempre molto meno reboanti di come si vorrebbe, ma possiedono genuine misure umane, le uniche compatibili con il Vinciano Canone dell’Uomo: è ingiusto ed ingeneroso non riconoscere la vera dignità là dove ce n’è di cristallina, soltanto perché appartiene a semplici uomini normali, che ubbidiscono alla legge di gravità, dell’invecchiamento biologico e a tutte le altre leggi fisiche del mondo reale.
 
Lo stemma dei quattro mori fu trasformato, dall’insipienza burocratica ed indifferente di una tipografia statale Sabauda, in una crudele metafora dello stato coloniale dell’isola. I quattro turbanti che incoronavano i re mori, sconfitti da Pietro il Grande d’Aragona, divennero sottili bende sugli occhi di semplici servi. Il simbolo glorioso della vittoria militare sul campo divenne, più tardi, l’amara espressione di resa di una terra povera e tradita da troppi falsi programmi di Rinascita. Ora rappresenta, ai più, un esempio umoristico involontario di questo genio dell’uomo per la mitogenesi, oppure è un segno rabbioso ed incompreso, graffiato sul granito per monito e per protesta. Ma il turista col naso spellato e soprattutto ogni giovane sardo, dovrebbero conoscere anche la verità: quello è proprio il simbolo intorno al quale i fantaccini della Brigata Sassari comprarono con il sangue alla Sardegna un antico vessillo, un tempo straniero e male accetto, ma ormai tutto sardo, di diritto, e sacro. Erano pastori, artigiani, operai e contadini, che impararono a vivere (e, per l’appunto, a morire) insieme, sotto quel simbolo e non vorrebbero certo restituirlo, né cambiarlo con altri, oggi: ecco finalmente un mito positivo, ancora vivo tutt’oggi, che parla di valori nazionali condivisi e che può essere d’esempio buono, affinché la Sardegna prosegua da sé sul sicuro cammino di crescita che da qualche tempo ha intrapreso, da sola. Forza paris, in questo contesto, suona come un rispettoso e dovuto omaggio ed un augurio, per nulla arrogante, né fuori luogo...
Jung ebbe a dire: “Non si può invertire il giro della ruota e tornare a credere per forza ciò di cui si sa che non è. Ma si può provare a render conto del significato dei simboli”. Questo può applicarsi vantaggiosamente anche alla tradizione dell’isola, oltre che al metodo della psicanalisi. I sardi, oggi, devono tentare di render conto di quei simboli controversi – miti, favole, leggende – che potranno ormai sembrare confusi e forse incomprensibili, ma che possiedono un profondo significato per il solo fatto di essere esistiti, di essere stati creati per errore, o per esigenza, o addirittura per caso. Soprattutto, di essere stati creduti veri dai nostri padri.

Un’isola in un mare di simboli. Nella sua travagliata storia millenaria e nella semplice e ricca tradizione popolare, la Sardegna è, infatti, intrisa di simboli d’ogni specie, grazie proprio al conservatorismo isolano che quei simboli ha fino ad ieri gelosamente custoditi dall’ingerenza forestiera, e dal logorio del tempo, per tramandarli con fiducia ai propri figli. Questi ultimi li ricevevano con rispetto timorato e quasi rituale, ossequiando il detto: “Osserva il comando di tuo padre, non disprezzare l’insegnamento di tua madre[37]”. Questo comportamento, unito al perdurante scarso popolamento dell’isola, ha così permesso ancora oggi agli studiosi di rinvenire, ben conservate, numerose reliquie del passato, che altrove il passaggio irrispettoso dell’uomo ha guastato e manomesso e che nuove inutili mode hanno cancellato per sempre, anche nel ricordo degli anziani. Un Mito buono, tradizionale, antico, è realmente esistito. Va correttamente interpretato. Esso ci spiega perché siamo diventati quelli che siamo oggi e da dove siamo partiti, seguendo sentieri spinosi e contorti, che sono solo nostri. Esistono poi miti cattivi e falsi, frutto di recenti contaminazioni, d’interpretazioni sciatte o troppo entusiaste, di mistificazioni volutamente fuorvianti, ideati soltanto per abbindolare un compratore… Oggi, quasi ci si vergogna dei propri antichi costumi sardi, dei miti e persino dell’accento, come di cose polverose e vecchie, da relegare pudicamente in sa credda, se non addirittura da bruciare senza rimpianti, perché ormai sorpassate. Sempre meno giovani sardi sono sardi “veri”, con tutta la dignità e la piena memoria del proprio essere sardi[38]. Alcuni non parlano, né scrivono il sardo. S’imitano comportamenti non sardi, prendendo avidamente dall’esterno, prima se non solo, i difetti e le superficialità più evidenti e deteriori, in un processo lento ma inesorabile d’amalgama con il futile e l’effimero, perdendo così, col tradirlo, un grande patrimonio inestimabile e unico, fragile ed antico.










[1] Un’affezione in cui piccole componenti proteiche modificate – dette prioni - si comportano come agenti infettanti, trasmettendo una malattia nervosa bovina, molto simile alla neurospongiosi umana, di Creutzfeld-Jacob.
[2] La traduzione forzata sull’isola di un rilevante numero d’eversivi di religione cristiana, fastidiosi per il potere, ma non così tanto colpevoli da essere condannati ad metalla, o capite, o ad martyria, favorì – tra l’altro - la precocissima cristianizzazione della Sardegna, fatta di una mescolanza di elementi pagani resistenti con quelli cristiani neointrodotti.
[3] Vedi Sard.Ant. # 18, “Orizines”. È una protezione relativa e costosa, ma pur sempre una protezione.
[4] La biondella è l’erythraea centaurum, l’eucalipto è d’introduzione recente, la cimonida non è stata identificata, l’arrù crabio è la smilax aspera o smilace, (più utile in affezioni dermatologiche o come antinfiammatorio).
[5] Celli A. “La malaria nell’antichità” Pisa, 1927 e Toscanelli N. “La malaria nell’antichità e la fine degli Etruschi” Pisa, 1927. Schreiber W., Mathis F. - Infectio, 1987.
[6] La decadenza dell’Etruria è documentata dall’elenco delle città (Tito Livio, Storie) che parteciparono agli approvvigionamenti per la campagna in Africa di Scipione (205 a. C.): i centri di produzione principali non sono più, come nel VI secolo, quelli costieri, bensì tutti dell’interno non malarico.
[7] O direttamente, con l’arrivo di un popolo armato meglio, o con lo spostamento delle rotte commerciali dalla Sardegna ed il conseguente declino economico delle popolazioni dell’isola. Oppure con ambedue i meccanismi, che non escludono la concomitante azione della malaria.
[8] S. Frau, “Le colonne d’Ercole, un inchiesta”. Ed Nur Neon, 2002.
[9] I confini del mondo si sono indubbiamente spostati, nel tempo, come anche il confine del Wild West, erroneamente chiamato, in Italia soltanto, Far West. Quest’ultima espressione non ha alcun significato, in Inglese.
[10] M. Bernal, Black Athena. L’eruzione del vulcano, visibile dalle coste, sarebbe responsabile anche della rappresentazione biblica del Dio di Vendetta: una colonna di fuoco di notte e di fumo di giorno.
[11] Quali, appunto la profonda caldera sommersa di Santorini, oppure il vasto crater lake nell’Oregon meridionale. Inoltre, non a caso “Tsunami” è un termine giapponese: la grande maggioranza dei maremoti avviene nell’Oceano Pacifico. I fondali irregolari e poco profondi del Mediterraneo permetterebbero un maremoto di vaste proporzioni solo nel caso della caduta di un oggetto di 400 metri di diametro: evento che si verifica ogni 100.000 anni circa, nella realtà, ma molto più spesso nella fantascienza…
[12] Un valido esempio d’apertura acritica e non scientifica è dato dalla cosiddetta Fantarcheologia, pericolosissima per via della veste spettacolare con cui è proposta, che la rende di rapida diffusione e difficile da sradicare.
[13] L’organizzazione contemporanea di diversi Istituti Universitari non collegati tra loro, con i loro limiti di competenza ed i loro rapporti interni, spesso complicati; il reperimento e l’acquisizione di molto maggiori fondi necessari ed il loro definitivo orientamento; il superamento di una selva di vincoli regionali, nazionali ed internazionali; la definizione stessa delle gerarchie e della strategia d’azione nello stabilire le priorità e molto altro ancora, costituiscono formidabili problemi, che fino ad oggi hanno evidentemente scoraggiato l’iniziativa proposta.
[14] Fino ad alcuni anni fa si pensava che le pietre blu fossero state portate dall’uomo: intere classi di studenti sono state convinte dai loro professori a rotolare su tronchi pietre di peso simile per chilometri, allo scopo di dimostrarlo possibile. Oggi si pensa che, più economicamente, un ghiacciaio, le abbia portate sul posto del loro utilizzo umano. Le pietre blu erano evidentemente tenute in alta considerazione, tanto da figurare in sepolture di famiglie nobili.
[15] In realtà si tratta di pura fantasia letteraria, iniziata con il cosiddetto “ciclo di Ossian”.
[16] La tesi militarista è tuttora ufficialmente accreditata dagli archeologi. Più verosimile è invece quella multifunzionale, con valenze sacrali (tesi templare), politiche, commerciali e sociali. Ambedue non sono provate. Altre sarebbero possibili. C’è chi propone i nuraghi costieri come punti cospicui per la navigazione. Sicuramente, ci si deve affidare ad un corretto criterio di credibilità competitiva, non al pregiudizio, né all’invenzione.
[17] Tant’è che il periodo nuragico costituisce una specie d’accogliente refugium peccatorum, in cui sistemare alla rinfusa tutto ciò cui non si riesce ad assegnare una più precisa destinazione. Il risultato è un periodo obiettivamente troppo lungo per ospitare un solo tipo di cultura, anche se eccezionalmente longeva.
[18] “Per caso”, secondo una guida del posto. Più credibilmente per reggere una scala lignea secondo altri, tra cui D. Scintu, in “Le torri del cielo”. Il quale si lamenta di non avere potuto misurare Su Nuraxi, per via dei vincoli della Sovrintendenza. Ne ha misurati 350 (circa il 5% del totale), che evidentemente non sono meritevoli di tanta protezione..
[19] Ichnoussa, impropria la traduzione con “orma”. Non esistevano sistemi di rilevamento così sofisticati.
[20] Cadmo ne fu soltanto il secondo mitico fondatore, dopo la sua distruzione.
[21] L’archeologo greco T. Spiropoulos descrive i pochi reperti superstiti alla spoliazione come egiziani e la tecnica costruttiva è assimilata a quella delle più antiche piramidi egizie.
[22] Si tratta della “piramide” di Pietraperzìa, presso Enna e di molte altre, che sono andate in parte o del tutto distrutte per via del rampante abusivismo nella zona perietnea: la più grande – ora distrutta – era la “Torretta del Baruneddu” a Tremestieri. Analogo discorso di potrebbe fare per le Specchie pugliesi.
[23] Altre possibilità prospettate: che si trattasse della fusione di due sistemi; che derivasse da un sistema di pesi e misure usato comunemente e che corrispondesse a sessanta unità, forse nato accidentalmente da una misura standard, rappresentata da un oggetto a noi ignoto, scelto in origine per comodità.
[24] Fu sviluppato intorno al 2000 a. C.: la posizione di ogni numero ne determina parzialmente la quantità, riducendo il numero di notazioni necessario. 123 significa 1 x 100 + 2 x 10 + 3. (In caratteri cuneiformi, sarebbe stato 1x 60 x 60 + 2 x 60 +3, cioè 3723. Il ragionamento su base sessagesimale ci riesce più facile in termini di tempo: 123 è un’ora, due minuti e tre secondi, cioè 3723 secondi, nel sistema decimale).
[25] E’ dimostrato sperimentalmente che gli animali sanno tenere il conto a mente di piccole quantità. È un comportamento innato, come il disfarsi dei gusci d’uovo dopo la schiusa: l’interno del guscio non è mimetizzato e attira il predatore.
[26] Si tratterebbe di “schemi di fissazione”, cioè capacità innate: nessuno ci deve insegnare a ridere, o a piangere, né a comprendere il significato del riso o del pianto di altri. (Il riso sardonico, invece, è un’espressione innaturale e studiata, un tratto culturale, che deve essere appreso dall’ambiente).
[27] Che sarebbero state utilizzate nell’atto d’edificare i nuraghi.
[28] Danilo Scintu, architetto, in “Le torri del cielo”.
[29] Bachis, Sadurru, Lussurgiu, Pilimu, Efis, ed altri ancora: l’argomento merita un articolo a parte.
[30] In genere s’ispirano alla presenza dei piedini presenti in alcune navicelle votive bronzee.
[31] Forse eretto dai giudici di Gallura nel 1200, vi si fa riferimento come castello della fava per la prima volta nella “Carta Pisana” del 1275.
[32] A Tolfa, piccolo centro posto sopra Civitavecchia, si narra che le truppe francesi, inviate dal Papa (in punizione, per il rifiuto dei tolfetani di pagare le imposte) furono demotivate da uno stratagemma ideato da una vecchia tolfetana, di nome Lizzera. Ella precipitò dalla rupe della fortezza assediata dei Frangipane le ultime risorse: un vitello rimpinzato di grano, a dimostrare che le scorte erano abbondanti. In realtà i tolfetani furono sterminati interamente: gli attuali abitanti di Tolfa non sono loro diascendenti. Ultima e più recente imitazione di una favola medievale di maniera: in “Baudolino”, di U. Eco; compare un episodio molto simile, durante l’assedio di Alessandria da parte di Federico Barbarossa.
[33] “Il Castello della fava…” di G. Zirrottu, Sardegna Antica N° 15.
[34] Cavalli Sforza, Zei et al.
[35] A. Piazza et Al.: “Genetic and population structure of four sardinian villages” Ann Hum Genet (1985) 49,47-63.
[36] Nuoro è nata piuttosto recentemente da gruppi umani provenienti da Orosei, Siniscola e Posada. Non è pertanto, per alcun titolo, “l’Atene sarda”, come erroneamente ripetono alcuni.
[37] Proverbi 6,20.
[38] Tra il vestire il costume tradizionale sardo (rifiutando ogni novità esterna) e l’ostentazione del pacchetto punk, piercing & metal (rinnegando l’autentico trascorso sardo) esiste un modo garbato, aggiornato e propositivo d’essere veri sardi, come diversi giovani mostrano d’avere oggi ben compreso.



domenica 14 aprile 2013

RISO SARDONICO







Da un articolo di Maurizio Feo, pubblicato sulla rivista "Sardegna Antica", organo della ONLUS C.S.C.M. - Nuoro.


Verità di un Tabù e mistero di un Mito.


Antropofagia: s. f. [dal gr. νϑρωποϕαγία, comp. di νϑρωπος «uomo» e -ϕαγία «-fagia»]. –  il cibarsi di carne umana, come uso (detto anche cannibalismo) diffuso in passato presso alcune società primitive (Africa centrale e centro-merid., talune zone dell’Asia sud-orientale e insulare, Oceania, Amazzonia, ecc.): a. endocannibalica o esocannibalica, a seconda che le vittime fossero scelte nel proprio gruppo sociale (individui morti per cause naturali, bambini indesiderati, ecc.), oppure al di fuori di esso (nemici uccisi in battaglia, stranieri catturati, ecc.); a. profana, legata a necessità alimentari; a. giudiziaria, a spese degli individui condannati a morte per delitti o altri motivi; a. rituale, in cui si consumavano le carni delle vittime sacrificate in relazione a riti religiosi; a. magica, in cui si consumavano la carne, il grasso e determinati organi (cuore, fegato, ecc.) di un defunto per appropriarsi magicamente del coraggio, della forza o di altre sue facoltà.
Prove indiscutibili dimostrano che l’antropofagia fu praticata dall’uomo.

Disagio diffuso.

Il vocabolo stesso è tabù. Dell’antropofagia “non è bello neppure parlarne”, figurarsi il credere che sia esistita: alcuni sono decisamente contrari[1]. Comunemente, si sostiene che esista nell’uomo un impulso etico teso a salvaguardare la vita umana, una specie di naturale repulsione, che impedisca all’uomo di consumare carne cospecifica. Sono numerose le eccezioni dettate da circostanze “estreme” di necessità e di fame, quali: disastri aerei, naufragi e altre situazioni nelle quali “più che l’amor poté il digiuno”[2]. Il cannibalismo istituzionalizzato si relega alle popolazioni dei “primitivi” ed è lì che viene usualmente cercato e trovato[3]. Altri credono con forza nella realtà del cannibalismo umano e ne producono le prove[4].
Ma l’Antropologia e persino l’Archeologia e la Storia ci raccontano una versione molto cruda.
La natura bellicosa dei Chiefdom più avanzati e dei primi Stati conferma che il sacrificio di animali sugli altari preludeva ad uccisioni umane nei campi di battaglia. Prove chiarissime dimostrano che guerrieri, cui era presumibilmente proibito mangiarsi tra loro, non per questo erano meno inclini ad uccidersi reciprocamente. E poi? Potremmo subito domandarci perché mai gli Dei delle antiche religioni dei primi Chiefdom e dei primi Stati non accettassero carne umana nei sacrifici loro dedicati.
Eppure esisteva il sacrificio umano, in quei tempi antichi: in essi si uccideva un essere umano. Ma tale sacrificio era molto differente dal sacrificio d’animali. Nel sacrificio di animali, il sacrificio stesso era seguito da un banchetto re-distributivo alla popolazione del cibo… Ma le religioni istituzionali non prevedevano che agli Dei piacesse cibarsi dell’uomo, pur accettandone il sacrificio, mentre evidentemente non disdegnavano affatto cibarsi degli animali sacrificati. Perché? Si potrebbe rispondere che agli Dei piacevano le stesse cose che piacevano agli uomini e che per questo rifiutavano di cibarsi dell’uomo. Perché l’uomo rifiuta di cibarsi dell’uomo…
Ma non è affatto così semplice.
Innanzitutto: ecco una ben documentata e recente tradizione d’antropofagia europea, riportata per sfatare credenze errate, ma ormai consolidate, sul cannibalismo…
Dal XVI al XVIII secolo dopo Cristo, sia in Inghilterra sia nel continente europeo i libri di medicina raccomandavano l’uso di un farmaco chiamato “mummy” (lett.: “mummia”). Questo farmaco “era ottenuto da resti di un corpo umano imbalsamato, seccato, talvolta polverizzato o preparato in altro modo, preferibilmente da soggetto morto per morte improvvisa, o violenta”. Le farmacie di Londra erano ben fornite di grandi scorte di questo discutibile “farmaco”, ma la richiesta era così grande che esistevano anche negozi appositi, detti “mummy shops”, spesso indicati dai medici stessi[5].
È una forma di cannibalismo indiscutibile e recente, sconcertante, anche se in qualche modo “mascherata”. Ne esistono numerosissimi in tutto il mondo, anche di molto recenti[6].

 Cannibalismo tra gli animali.

Un caso di particolare interesse è la cosiddetta “placentofagia”[7], presente anche tra gli erbivori, che gli scienziati non sanno spiegare completamente. S’ipotizza che possa servire a eliminare odori atti ad attirare i predatori, oppure a fornire principi nutrienti di cui la madre avrebbe bisogno dopo il parto. Altri – in relazione alla placentofagia umana – sostengono che sia un modo per recuperare sostanze analgesiche ed utili sia all’emostasi dell’utero della puerpera, sia all’inizio della lattazione (prostaglandine e ossitocina). Ma certamente si tratta di tentativi di spiegazione erudita, “a posteriori”, di un comportamento che nell’animale è istintivo e non ben comprensibile[8].


Placentofagia in un animale erbivoro


Di fatto la placentofagia è stata in uso un po’ dovunque (anche in Sardegna) fino a tempi recenti: in Toscana far bere alla puerpuera il brodo di placenta, ma a sua insaputa, garantirebbe la montata lattea. In Campania per assicurarsi il mantenimento della secrezione lattea si consiglia di tritare la placenta e farla soffriggere: la puerpera ne dovrà mangiare un pezzetto al giorno.
Se si è schizzinosi si può anche nasconderla con abbondanti fagioli e pane:  la puerpera sarà meglio in grado di produrre latte. Altre  credenze sostebgono sia utile sotterrare la placenta sotto un fico (comunque, nei pressi della casa): questa pianta piena di latte assicurerà un’abbondante secrezione lattea.
[9] Nella medicina cinese la placenta umana essiccata è usata per curare vari tipi d’astenia, impotenza, infertilità (con il nome di Ziheche).
In altri casi si tratta solo d’una moda recente[10], che invita a riprendere “abitudini naturali e non dannose, quindi lecite”: senza però tenere conto del fatto che sono moltissimi gli atteggiamenti naturali del tutto leciti per gli animali che la nostra Etica d’esseri evoluti e pensanti non consente di seguire. 
Placenta umana cruda
Placenta umana con broccoli

La
placentofagia è presente in quasi tutti i mammiferi[11] ed è ormai in via d’abbandono definitivo nella nostra specie, rimanendo d’uso comune solo nelle popolazioni meno evolute, nelle quali le tradizioni magico religiose resistono ancora.

Evidenze nell’uomo.

Reperti umani che suggeriscono l’antropofagia furono trovati nella zona del Pueblo degli Indiani Nordamericani Anasazi tra il 1150 e il 1200 d.C.. Siti simili sono numerosi in quella zona e uno dei primi ad avanzare ipotesi di cannibalismo fu il bioarcheologo C. G. Turner, nel 1967, ma l’opinione fu accolta con incredulità. 
Altre prove arrivarono nei ‘90, quando furono esaminati al microscopio elettronico resti umani rinvenuti in un altro sito abitato dagli Anasazi, nei pressi di Mancos[12]. Oltre a chiari segni di cottura, fu trovata anche una pentola con residui di mioglobina umana, una proteina muscolare presente nel cuore e nei muscoli scheletrici.
Più recentemente, l’analisi dei resti rinvenuti nella grotta di Moula-Guercy, nella regione dell'Ardeche, in Francia, abitata da neandertaliani (tra i 35 e i 125 mila anni fa) ha indotto archeologi francesi e americani a formulare l’ipotesi di cannibalismo, per via del reperimento di ossa umane che recano tagli e fratture simili a quelle su animali macellati. Questa scoperta conferma quella fatta verso la fine del 1800 nel sito di Krapina, in Croazia, anch'essa abitata da neandertaliani.
Le nuove testimonianze emerse nella piccola grotta di Hilazon Tachtit, in Galilea, suggeriscono che i banchetti funebri – cerimonie senza cannibalismo, nelle quali la sepoltura è però collegata con un pasto – iniziarono almeno 12.000 anni fa, verso la fine del Paleolitico[13]. Questi primi rituali gettano le basi per le più elaborate cerimonie di commemorazione dei morti caratteristiche delle comunità agricole del Neolitico. 
Una prova a favore dell’esistenza del cannibalismo è data dalla malattia detta Kuru [14], tra i Fore della Nuova Guinea[15]. Si tratta di una patologia del sistema nervoso, trasmessa da un prione simile a quello responsabile del morbo di Creutzfeldt-Jakob[16]. Studiando tale malattia negli scimpanzè, il Nobel C. Gajdusek giunse alla conclusione che era causata da una forma particolare di cannibalismo rituale, che comportava l’assunzione del cervello dei parenti defunti.
Il cannibalismo del Neandertal fu accolto con minore disagio, essendo quest’ultimo più spesso considerato, per sentire comune, un bruto meno che umano, lontanissimo nel tempo. Anche quello dei selvaggi della Papauasia fu accettato. Quello degli Indiani Nordamericani, troppo vicini a noi, già dette molto più fastidio e fu subito messo in dubbio…

Tra le varie forme che l’antropofagia può assumere, quella che forse riveste maggiore interesse antropologico è il cosiddetto cannibalismo di guerra. I racconti dei missionari gesuiti contengono descrizioni dettagliate e per noi orribili, circa il consumo dei prigionieri di guerra al termine di un cruento spettacolo pubblico. Esse sono basate su conoscenza diretta di questo costume, tra le popolazioni del Sud e del Nord America. Missionari protestanti e Governatori occidentali del XIX secolo testimoniano questa presenza anche nelle isole della Melanesia. Studi antropologici descrivono la pratica come presente nella Nuova Guinea interna[17]. E in Europa?
Non esistono testimonianze dirette di cannibalismo di guerra pre-statale in Asia oppure in Europa, per il semplice fatto che i primi modelli pre-statali d’aggregazione umana – precisamente: Banda, Tribù e Chiefdom, che la praticavano – furono superati migliaia di anni fa da società di tipo Statale, che nel tempo ne hanno cancellato tutte le tracce. In queste aree è quindi necessario fare ricorso all’Archeologia, come unica testimone. E tracce di una possibile antica pratica d’antropofagia devono essere prima di tutto cercate per potere essere eventualmente prima trovate e poi accuratamente interpretate. Un esempio è dato dal problematico “Inno Cannibale”, episodio a sé stante dei Testi delle Piramidi, che si scoprì per la prima volta nella tomba di Unis (Unas, fine della V Dinastia)[18], in cui il Faraone si ciba degli Dei ed in tal modo ne acquisisce i poteri.  Inoltre,  nel 1979 Peter Warren, docente di Archeologia di Bristol, scavando il materiale di crollo di una struttura nei pressi dell’antico palazzo di Minosse, rinvenne un ambiente interrato che sarebbe stato ribattezzato “la Stanza dei Bambini”. In questo ambiente, infatti, Warren si imbatté in un gran numero di ossa umane, appartenenti ad individui molto giovani[19],  mescolate ad ossa di bovini, ovini, suini e canidi. Alcune ossa furono rinvenute anche all'interno di un pithos, insieme con gusci di lumaca e di altri molluschi commestibili. L’esame osteologico dimostrò tracce di taglio volto al recupero delle carni, cioè lontano dalle articolazioni, come sarebbe stato per un semplice smembramento. L’ipotesi che formulò fu quella di antropofagia (forse solo rituale), ma quest’ultima non è condivisa da altri autori, che ammettono al massimo un sacrificio umano[20]: gli archeologi greci, da parte loro, non ammettono neppure questo. Eppure, il sacrificio umano è provato, nella Creta Minoica: l’esempio più chiaro è quello del Santuario di Anemospilia, presso Archanes. Vi si trovò lo scheletro di un giovane, sacrificato poco prima del crollo per terremoto dell’edificio: tra le sue ossa fu rinvenuto il coltello sacrificale e la decolorazione delle ossa dimostrò che era morto dissanguato, sdraiato su un fianco e legato, posto su un altare, nel 1750-1700 a.C.  All’inizio, quest’evidenza fu contrastata, in quanto si considerava aprioristicamente la Civiltà Minoica come non violenta e pacifica.  Oggi si crede ad un sacrificio, effettuato per ingraziarsi gli Dei, allo scopo d’evitare la distruzione del terremoto.
Andrea Carandini interpreta il rinvenimento di due adulti ed un bambino, seppelliti nelle fondazioni delle mura cittadine di Roma ricostruite nel 700 a.C. come possibili sacrifici umani, che si sarebbero resi necessari in seguito all’obliterazione delle prime mura e che richiamerebbero il mito di Remo[21]. Quindi, i sacrifici umani sarebbero ancora ammessi in epoca così vicina, per scopi religiosi gravi: ma l’antropofagia?

I motivi sociali.

Per comprendere meglio il problema dell’antropofagia, sarà utile esaminare alcune dinamiche sociali nel Pre-Stato (Chiefdom) e nello Stato, sia in Sardegna,[22] sia nel Mondo.
La gente di Sumer, situato tra il Tigri e l’Eufrate, area priva di piogge, ma acquitrinosa e ricca di paludi, sperimentò prestissimo l’irrigazione di zone asciutte contigue. Presto (intorno al 4350, stando agli archeologi), l’economia divenne dipendente da un’estesa rete di canali, in quella che fu la prima Civiltà Idraulica.  Ma i sudditi dei Chiefdom locali, vessati da tasse e turni pressanti di lavoro, s’accorsero allora di non potere più fuggire: non potevano portarsi via con sé i canali e non erano più adatti alla vita nomade del pastore, non potevano affrontare il deserto[23]. Restarono: pur non essendo schiavi, non erano veramente liberi. Col tempo, si giunse allo Stato: i regni indipendenti datano al 3200 a.C.. Infine, un regno più aggressivo degli altri (Sargon, circa 2350 a.C.) unificò tutta la Mesopotamia.
A questo punto, l’organizzazione statale era ormai forte, complessa, grande e multi-sfaccettata, tanto da potere assorbire ed utilizzare nel lavoro servile le numerose  nuove presenze di nemici catturati in guerra. Avere più sudditi – servi, oppure liberi – avrebbe aumentato il surplus da essi prodotto con il lavoro e quindi avrebbe in ultima analisi resa più ricca e potente la classe dominante dello Stato. In una società complessa organizzata, quindi, è più appetibile il lavoro servile, che può permettere di aumentare tasse e tributi: è decisamente meglio consumare i prodotti del lavoro degli schiavi a lungo nel tempo, piuttosto che consumare la carne del loro corpo una volta sola.
A causa dell’esigua capacità produttiva delle loro economie, invece, la Banda ed il Villaggio non possono usufruire dei vantaggi a lungo termine offerti dalla cattura dei nemici: infatti, producono appena abbastanza per se stessi. Non possiedono un apparato militare in grado di costringere i prigionieri a servire un governo centralizzato e – infine – non possiedono una classe dominante che si mantenga attraverso il prelievo fiscale. I nemici sconfitti dalla Banda o dal Villaggio, pertanto, non possono essere inseriti in attività per produrre un surplus di beni o servizi: tenerli come schiavi prigionieri significa solamente doverli nutrire, cioè l’onere di lavorare per mantenerli. Ecco perché – in genere – il destino degli avversari vinti, in questo caso, è la morte, oppure la dispersione quanto più lontano possibile dai confini. Ma – spesso – se i nemici vinti in guerra non possono servire da vivi come produttori di cibo, possono servire altrimenti da morti, proprio come cibo: questo è il cannibalismo di guerra. Orribile, per la nostra sensibilità attuale, ma vero.
Un chiaro esempio accertato è dato dagli Aztechi. Già la spedizione di Cortez rinvenne nella piazza di Tenochtitlan un vano con migliaia di teschi umani[24]. Diversi cronisti occidentali riportano in dettaglio le violente cerimonie d’uccisione ed il consumo re-distributivo che si faceva dei prigionieri di guerra. Evidentemente, gli Dei Aztechi gradivano la carne umana! Perché?
Il motivo principale è stato riconosciuto nell’ambiente geografico nel quale essi vivevano: l’assenza assoluta d’animali erbivori che – a partire da erbe e cellulosa indigeribili per gli uomini – producessero carne, era seguita dalla conseguente assoluta mancanza di latte e derivati. In considerazione del fatto che una dieta autenticamente vegetariana determina nell’uomo adulto alcune gravi carenze (ed è assolutamente pericolosa per il bambino, la donna gravida o pazienti traumatizzati, feriti o affetti da virosi)[25] si deve tenere presente che gli Aztechi assumevano giornalmente meno della metà dei proteine e grassi di quello che è lo standard della FAO. Essi erano, in un raggio di 30 km dalla capitale circa 1.500.000: è stato calcolato che assumevano al massimo pochi grammi di proteine al giorno. È logico presumere che le credenze religiose degli Aztechi siano state almeno influenzate da un ambiente così poco generoso? È credibile ipotizzare che i loro Dei avrebbero anch’essi rifiutato la carne umana, se nell’ambiente Azteco  fossero esistiti buoi, bisonti, capre, pecore, lama, alpaca, cavalli?[26] Probabilmente, sì.
Si deve ammettere – malgrado la comune repulsione verso l’argomento spiacevole – che l’antropofagia, in una qualunque sua forma, sia stata pratica comune quasi ovunque, seppure  più spesso in periodi antichissimi, in qualsiasi popolazione. Una volta dimostrato che vi sono abbastanza elementi per affermare che il tabù è verità, è il momento di trattare del mito.

I Sardi.

Gli unici resti umani protosardi su cui siano stati effettuati alcuni studi (che già per onesta ammissione degli autori stessi sono limitati ed incompleti, essendo quasi esclusivamente morfologici), si sono focalizzati su ossa e sulle dentature, rinvenute nelle varie sepolture, di tutte le epoche: grotte, tafoni galluresi, ciste, Domos de Janas e Tombe dei Giganti.
Si assiste alla comparsa di lesioni ipotizzabili come “prodotte da scontri di guerra” nel gruppo dei diffusori della Cultura di Ozieri nel Neolitico Medio. Nell'Eneolitico (Monte Claro), tali reperti di problemi traumatologici aumentano in modo evidente.  Il ricercatore antropologo o medico biologo in questi casi consulta l’archeologo e mette - quasi naturalmente - questi fenomeni in rapporto con la comparsa della cosiddetta architettura “militare” di Padria, di Monte Baranta, di Monte Ossoni etc. Non risulta che siano state neppure cercate tracce, o prove, d’antropofagia tra i reperti umani rinvenuti in Sardegna. In realtà, non sono stati neppure condotti estensivamente esami di composizione per risalire alla dieta. Anzi, sembra che da alcune domos de janas remote, le ossa non siano neppure state prelevate. Si ritiene che i defunti fossero inumati in posizione fetale e (forse) dipinti con ocra rossa. Non esistono studi più approfonditi sul trattamento che i corpi eventualmente ricevevano prima e dopo la morte. È vero che – per le domos de janas e le altre sepolture sarde – esistono seri problemi derivanti dal molto lungo periodo d’uso[27], di riuso anche recente, di profanazioni e rimaneggiamenti già in antico, che complicano assai l’approccio dello studioso. Gli studi più completi, dal punto di vista medico ed antropologico, restano quelli del Germanà[28]. Ma – anche nel suo caso – si comprende bene che egli era attratto solo dalle patologie naturali[29], dalle misure antropometriche, dallo stato di nutrizione dedotto e dalle terapie sorprendenti per l’epoca (ad es.: trapanazioni riuscite in vita). Egli stesso ammette che il primo limite è dato dall’effettuare tali valutazioni solamente a partire dal tessuto osseo. Le  patologie traumatiche inducevano a pensare a “ferite di guerra”[30]. Il rinvenimento di “decine d’individui, ammucchiati disordinatamente, alcuni cremati ed altri no[31] l’induce a pensare ad una pestilenza, non ad altro. Nello stesso gruppo, “un’elevata percentuale (55%) di mutilazioni – ovviamente post mortali – del forame occipitale è riferita a rituali magico-religiosi[32] non conduce i ricercatori alla formulazione di alcuna ipotesi ulteriore sul rito, che evidentemente, invece, mirava a realizzare un ampio e facile accesso proprio all’encefalo, dopo avere staccato la testa dal corpo del defunto… Si tratta di dettagli piuttosto importanti, invece, che non andrebbero trascurati, proprio perché il “bersaglio” di tali manovre è con ogni evidenza il cervello (ed il suo successivo consumo in un pasto rituale).
Esiste un tipo d’esame biochimico rivelatore, purtroppo ancora poco pubblicato in Sardegna, che si potrebbe eseguire sui resti ossei (visto che purtroppo il clima sardo non permette a molto altro di arrivare fino a noi) e che invece non è stato utilizzato così spesso come si sarebbe potuto fare: è l’analisi degli isotopi stabili.[33] Gli isotopi di un elemento sono sostanze che possiedono il medesimo numero atomico, ma un differente numero di neutroni. Dato che ogni alimento che l’organismo digerisce possiede una propria caratterizzazione isotopica, che si trasmette ai tessuti corporei dopo la loro assimilazione e vi rimane per numerosi anni, l’analisi degli isotopi stabili permette di stabilire la dieta del soggetto nell’ultima parte della vita: permette cioè di stabilire di che cosa (vegetale, o animale, carne o pesce) il proprietario dell’osso si fosse cibato[34]. E’ con studi simili che si è stabilito, ad esempio, che il mare non costituiva affatto un’importante fonte di cibo nei periodi Mesolitico, Neolitico o Età del Bronzo, nei paesi costieri Mediterranei, a differenza di ciò che invece accadeva nei paesi Atlantici[35].  Si è analogamente potuto stabilire la data (1000 a.C.) dell’introduzione del miglio africano in zone quali Micene. Il metodo è affidabile ed utile.
In questa situazione sarda di documentazione un po’carente, è forse possibile stabilire se i Sardi preistorici indulgessero in quella che al giorno d’oggi sembra un’inaccettabile aberrazione, ma che nell’antichità era una pratica comunemente adottata? Esistono alcuni pro ed altrettanti contro...
Le risorse del suolo sardo – intese come superficie di terreno produttivo coltivabile con le tecniche antiche – erano scarse. Ma ciò era controbilanciato da fattori importanti: innanzitutto il numero totale della popolazione sarda, sempre caratterizzato da cifre assolutamente basse. D’altro canto, seppure l’ambiente non offrisse grandi estensioni di terreno di prima qualità, sicuramente era molto più generoso dal punto di vista faunistico, con abbondante offerta per la caccia e la pesca. In seguito, l’allevamento fu certamente praticato: l’archeologia mostra anzi i primi segni dell’impoverimento di boschi dovuto proprio a questa pratica crescente. Le tracce archeologiche, biologiche e paleobotaniche depongono anche per una dieta completa e varia della popolazione sarda, in quasi tutte le epoche.  Questo eliminerebbe ogni ipotesi di un’antropofagia di necessità, del tipo Azteco.
È ancora discusso se i protosardi abbiano mai raggiunto lo stadio organizzativo di Chiefdom, cosa che forse sarebbe avvenuta all’inizio del Ferro[36]. Ma è certo che abbiano attraversato la Storia, dalle poche migliaia di presenze del Paleolitico, nello stadio aggregativo di Tribù. Come già detto, tale tipo di aggregazione è proprio quello che giustifica eventualmente l’antropofagia di guerra. Nel corso di Neolitico, Eneolitico e tutto il Bronzo, complessità sociale, numero di abitanti, stratificazione della società, ricchezza e varietà di scambi e di attività appaiono in continua e progressiva crescita, con la fioritura di una Cultura Monumentale.
Quindi, riassumendo: per quanto concerne una possibile spinta ambientale verso l’antropofagia di necessità si può  risolutamente rispondere negativamente. Ma cosa si può affermare per quanto concerne il fenomeno di  “antropofagia di guerra”, oppure anche per quella magico-rituale, che – per quanto imbarazzanti – sono state pratiche più comuni ed universali di quanto si pensasse, seppure in tempi antichissimi?
Certamente, agli inizi, le antiche società sarde non avevano l’elasticità, né le risorse per potersi avvalere di un’attività servile estranea, dopo un’eventuale guerra vinta.  Dei riti si conosce poco e nulla, anche per la già accennata carenza di ricerca. La certezza non è data, quindi, ma la possibilità non è affatto esclusa.
Il Mito, ad esempio, parrebbe adombrare proprio tale ipotesi, rafforzandola.
Esistono alcune particolari suggestioni, quali quella del mitico “riso sardanio”: l’espressione assomiglia molto e forse si accosta troppo vicino alla “laughing desease”, che caratterizza un sintomo descrittivo della malattia neurologica detta “Kuru”  (“tremore”, per i Papua).
Aspetto microscopico della Neurospongiosi
Le neurospongiosi sono encefalopatie trasmesse dai prioni[37] che vengono assunti  toccando e mangiando carne infetta. Nei bovini (che non contemplano nella loro dieta naturale la carne), i prioni erano assunti a mezzo di “mangimi” illegali che contenevano carne ed ossa di bovini macellati ed erano ovviamente infetti... Nell'uomo, la malattia è legata in genere alla pratica del cannibalismo: non si sa bene se il contagio sia anche causato dalla manipolazione della carne cruda, come si pensava dell'infezione Kuru dei Papua (che maneggiavano il cervello del defunto, prima di cibarsene ritualmente). Sta di fatto che gli australiani vinsero alla fine la malattia solo proibendo il cannibalismo. I casi più recenti, invece – avvenuti nel mondo occidentale – riguardano l’assunzione di carni bovine infette, probabilmente per contatto con tessuto nervoso infetto.
Disposizione nello spazio della molecola proteica detta Prione.

Il dubbio che resta, per la Sardegna, è: ammesso (e non concesso, naturalmente) che il riso sardanio fosse uno dei sintomi - il più impressionante - della neurospongiosi di Creuzfeldt-Jacobs, perché la malattia finì da sola in Sardegna? Perché non ci furono più altri casi? Certamente, si tratta di troppo tempo fa, perché i cronisti riportassero al riguardo notizie complete. Il dubbio si potrebbe almeno in parte chiarire se esistessero prove di ossa umane ritualmente “trattate”, oppure macellate in modo indiscutibile, in Sardegna, in alcune delle sepolture più antiche. Perché ciò costituirebbe la prova dell'esistenza di una possibile via di contagio da prione, anche in assenza di antropofagia (che comunque perdoneremmo, in una popolazione così antica). Purtroppo, pur nelle molte difficoltà oggettive che lo studio delle sepolture più antiche della Sardegna presenta, sembra che proprio nessuno abbia mai avuto anche solamente l’idea di ricercare con criteri medico-biologici e chimici fra questi antichi (e preziosi) resti.

Dello stesso senso sono i miti cruenti a cui si rifarebbero espressioni recenti quali il sardo “Carrasegare”, molto meno neutra dell’italiano “Carnevale”, che pure possiede un più velato, ma identico significato…
L’abitudine di consumare carne cruda, oltre ad essere presente anche in altre zone non solo italiane, non è probabilmente da mettere in relazione con questa possibilità inquietante.
Le nuove testimonianze emerse a Hilazon Tachtit, in Galilea, suggeriscono che i banchetti funebri iniziarono almeno 12.000 anni fa, verso la fine del Paleolitico, tra i Natufiani[38]. Questi primi rituali gettano le basi per le più elaborate cerimonie di commemorazione dei morti caratteristiche delle comunità agricole del Neolitico. Probabilmente ogni tipo di banchetto funebre in tutto il mondo deriva da qualche antica pratica d’antropofagia magico-religiosa. Gli archeologi hanno rinvenuto tracce sicure di antropofagia rituale funebre in Europa Orientale Meridionale (Ucraina) risalenti a 32.000 anni fa[39].
In ogni caso e in assenza di studi mirati e documentazioni univoche, l’unica considerazione finale possibile al momento – per la Sardegna – è incerta e non conclusiva. 
L’unica conclusione circa l’esistenza dell’antropofagia (bellica, o rituale, o magica) in Sardegna, può essere così enunciata: le possibilità della sua esistenza, seppure in tempi preistorici remotissimi, sono le stesse che in qualsiasi altra terra coeva circostante.
La possibilità che il riso sardanio fosse un sintomo estremamente impressionante di una malattia neurologica mortale, trasmessa attraverso il cannibalismo rituale, da un contagio ancora oggi poco noto, rimane tutta da verificare, se qualche ricercatore sardo mai vorrà e potrà farlo. Fino ad allora, possiamo continuare ad attenerci alla tesi corrente, secondo la quale la medicina ufficiale s’è ormai appropriata arbitrariamente del riso sardonico[40].
Il consenso comune lo considera provocato originariamente dall’avvelenamento rituale con l’herba sardonia[41]



L’espressione ha riempito pagine di storie mitiche e di versi famosi. E' diventata un topos letterario, simbolico della Sardegna.



Concludendo, si può affermare che l’antroplogia suggerisce la concreta possibilità della pratica antichissima dell’antropofagia in Sardegna, più probabilmente a carattere magico rituale, mentre il terribile “Riso Sardonico” conserva ancora il suo carattere elusivo e misterioso, di un Popolo che Ride sprezzante di fronte alla Morte. Il Tabù antico cade, forse, ma il Mito sardo certamente resiste.




[1] Arens, W.: “Man Eating Myth: Antrhopology and Athropophagy”- 1980.
[2] Tre episodi in particolare sono famosi: il “Donner Party”, un gruppo di coloni rimasti isolati verso la metà dell’800, mentre erano in viaggio verso la California;  quello dei giocatori di rugby precipitati con l’aereo sulle Ande nel 1972; la spedizione di sir Franklin, partita nel 1845 per cercare il passaggio a NordOvest, di cui non si seppe più nulla. A parte quello Dantesco del Conte Ugolino…
[3] Gordon-Grube, K.: “Antropophagy in Post-Renaissance Europe: the Tradition of Medieval Cannibalism”, American Anthropologist, N° 9, 1998, pagg. 405-409.
[4] White, T.: “Prehistoric Cannibalism at Mancos”, 1992;  Zigas, V.: “Laughing Death: The Untold Story of Kuru”, 1990; Harris, M.: “Cannibals and Kings”, 1991; “Good To Eat”, 1998; “The Rise of Anthropology Theory”, 2001.
[5] Harris, M.: “La Nostra Specie” (“Our Kind”) - RCS, 2002, Milano.
[6] Fino al 1980, il GH (“Growth Hormone”, ormone della crescita o Somatotropina) era estratto da ipofisi di cadavere e somministrato ai vivi: ora si produce in laboratorio, con tecniche genetiche (GH ricombinante).
[7] L’atto (della femmina di molti mammiferi) di cibarsi della propria placenta subito dopo il parto.
[8] Janet Balaskas nel suo Manuale del parto attivo (pag. 149) fa notare come studi recenti dimostrerebbero che anche solo mettendo un pezzo di placenta cruda fra le labbra della puerpera si possano indurre contrazioni uterine antiemorragiche.
[9] P. Sarti. Gravidanza e puericultura. La guida completa. Dal concepimento ai sei anni, Pag 99.
[10] Nicole Kidman e Tom Cruise dichiararono pubblicamente che si sarebbero cibati della placenta del loro figlio, qualche anno fa.
[11] E’ assente nei cetacei e nei marsupiali.
[12] White, T.: “Prehistoric Cannibalism at Mancos”, 1992.
[13] G. e N. Munro: Proceedings of the Nat. Acad. of Sciences, Univ. Connecticut: vi si descrive la sepoltura di una sciamana Natufiana. I Natufuani furono tra i primi ad abbandonare la vita nomade.
[14] Detto anche “Laughing desease”, (malattia del riso): l’infarcimento emorragico del midollo allungato e del ponte producono scoppi di riso irrefrenabile (e pianto) immotivati. Zigas, V.: “Laughing Death: The Untold Story of Kuru”, 1990.
[15] http://www.youtube.com/watch?v=drq0j0T-yrc&feature=related
[16] Una neurospongiosi umana, analogo umano di quella bovina, meglio nota come “mucca pazza”.
[17] Dovuta anche alla mancanza di proteine animali, che sulle coste è supplita dal pesce.
[18] Lichtheim, M. : “Ancient Egyptian Literature, vol 1”. University of California Press – (1975).
[19] Almeno quattro bambini, d’età intorno ai 10 anni.
[20] D.H. Hughes, “Human Sacrifice in Ancient Greece” – Routledge, N.Y. (1991).
[21] La violazione delle mura, o dello scavo di esse, o delle relative pietre terminali, determinava una condanna divina, che poteva essere espiata solo con l’uccisione del colpevole, escluso dalla comunità e consacrato alle divinità infere.
[22] Perra, M.: “Osservazioni sull’evoluzione sociale e politica in età nuragica” Riviste di Scienze e Protostoria, LIX, 2009 355-368.
[23] L’isolamento è una delle condizioni che conducono alla formazione della Chefferie o Chiefdom.
[24] A seconda degli autori: da 136.000 a 60.000, comunque un numero impressionante.
[25] La carne è fonte di: Ferro, Vit. A, ed E, tutto il complesso B, inclusa la B12, che non è presente in alcun vegetale; il suo grasso  è essenziale per assorbimento e trasporto delle Vit A, D, E, K.
[26] Esistevano il tacchino ed il cane. Il primo, troppo scarso, necessitava comunque di essere alimentato con cibo adatto agli uomini. Il secondo, essendo carnivoro egli stesso, era un controsenso, come animale da carne.
[27] Si va dal Pre-neolitico/neolitico antico della Grotta Corbeddu (15.000 aa fa) fino al Bronzo recente(1380-850 a.C.).
[28]L’uomo in Sardegna”, Ed Zonza, 1998, Sestu Ca.
[29] Ne riporta una vasta varietà: odontopatie, osteopatie acute e croniche, anemie, tumori, difetti di sviluppo, deformità etc.
[30]  L’esposizione del cervello, le mutilazioni facciali, ossa bruciate, smembramento, segni di lama, rottura di ossa e tracce d’ascia di pietra, assenze di vertebre: sono tutti criteri d’identificazione del cannibalismo per tutti gli archeologi del mondo. Non per quelli sardi, sembra.
[31] Nella grotta di Tanì (Su Cungiareddu de Serafini) – Ca, in un contesto culturale Monte Claro (periodo eneolitico).
[32] Maxia C., Fenu A., “Sull’Antropologia dei Protosardi e dei Sardi Moderni”- Nota IV Rendiconti Seminario della Facoltà di Scienze, Univ. Cagliari, 2,44, pp1-84 1963.
[33] L. Lai, R. Tykot, M.R. Manunza, E. Usai, E. Goddard, D. Hollander: “Dieta e società a Is Calitas: contributo degli isotopi stabili”. Altri studi riguardano le due fasi Campaniformi della tomba di Padru Jossu di Sanluri (Ugas, 1982), il Neolitico recente di San Benedetto, Iglesias (Floris, 2001). Alcuni studi – seppure eseguiti – non sono stati ancora pubblicati.
[34] Gli isotopi più indicati per questa indagine sono quelli costitutivi del collagene osseo (13C e 15N), oltre al carbonato minerale (13C).
[35] R.H. Tykot: “Stable isotopes and diet: You are what you eat”. IOS Press. Amsterdam 2004.
[36] La condizione di numero sufficiente di popolazione e di “circoscrizione” (mare) erano sicuramente presenti. La re-distribuzione non è stata provata in modo definitivo.
[37] “Prion” è un neologismo coniato dal Nobel S.B. Prusiner nel 1982, derivato da “protein” e “infection”, in quanto si tratta di una proteina (modificata nella disposizione spaziale), che si comporta come agente infettante (di una malattia per ora sempre mortale).
[38]Proceedings of the National Academy of Sciences”, Munro, N. zooarcheologa dell’Università del Connecticut e Grosman, L. archeologa dell’Università Ebraica di Gerusalemme.
[39] Località: Buran-Kaya III in Ukraina, comunicazione di Stephane Pean, paleozoologo ed archeologo del Museo Nazionale di Storia Naturale, Parigi – Luglio 2011.
[40] Per descrivere la contrattura del muscolo massetere (“trisma”, o lock-jaw) causata dal Clostridio del tetano. Il t. si accompagna anche a crisi spastiche dei muscoli di faccia e collo, così che il paziente assume un aspetto caratteristico (riso sardonico). In tal caso è parte di una contrattura generalizzata di tutti i muscoli antigravitari. Vi sono anche altre cause generali di t.: altre affezioni del sistema nervoso centrale (meningite cerebro-spinale epilessia, encefalite epidemica, rabbia, siringomielia), avvelenamento da stricnina, intolleranza a fenotiazine, isterismo. Inoltre il t. può essere l’espressione di un processi infiammatori locali particolarmente forti.
[41] In realtà, non sarebbe l’Apio Rustico (Apium Risum), bensì una pianta delle ombrellifere, d’origine sardo-corsa, simile al sedano selvatico (Oenanthe Crocata, chiamato variamente in sardo: Apiu areste, Fenugu de acqua, Turgusone, Lua).