lunedì 30 settembre 2013

Kadesh


L'ULTIMA GRANDE BATTAGLIA DELL'ETA' DEL BRONZO

 Kadesh (1275 a.C.)

da: Nicola Zotti, modificato.

Ramses II era il giovane e ambizioso erede dei faraoni della XIX dinastia del periodo del Nuovo Regno e quando nella prima metà del XIII secolo a.C. era salito al trono, aveva ricevuto dai suoi predecessori un Egitto profondamente mutato rispetto alle epoche precedenti.

Le esperienze maturate nell’edificazione delle colossali opere dell’architettura egiziana avevano fornito ai faraoni le competenze necessarie a gestire grandi masse di uomini:
Il passaggio dall’organizzazione di un affollato cantiere alla programmazione logistica di una campagna militare con un’altrettanto numerosa armata, non era un salto semplice da compiere, ma gli scribi e gli amministratori dei faraoni vi riuscirono, fornendo loro uno strumento militare capace di proiettarsi molto oltre il bacino del Nilo.

La politica imperialista del grande faraone Thutmose I nel XVI secolo a.C. estese così a Palestina e Siria i confini del regno. La Siria soprattutto, per la sua ricchezza e la sua posizione strategica di fulcro degli scambi economici con il resto dell’Asia, aveva mutato gli orizzonti dei faraoni. Thutmose l’aveva strappata ai Mitanni, ma i suoi successori si trovarono a contenderla con alterne fortune e infine a perderla a vantaggio degli Ittiti, la nuova potenza emergente in Anatolia.
mappa strategica
Estensione e confini dei due Stati contendenti - Egizi ed Ittiti - nella battaglia di Kadesh

Nelle condizioni dell’epoca le pur ingenti risorse umane dell’Egitto non erano sufficienti a sostenere il gravoso impegno militare rappresentato dall’occupazione permanente delle nuove conquiste e i faraoni dovettero affidare il controllo territoriale locale ad alleati e vassalli, la cui lealtà era continuamente messa a dura prova dalle pressioni militari e diplomatiche dei re ittiti.
Seti I, padre di Ramses, era stato costretto a cedere con un trattato agli Ittiti la città di Kadesh, indispensabile per la conquista da sud della Siria.
Ramses si sentiva però destinato a ripetere le gesta dei suoi antenati e approfittò di una delle ricorrenti crisi di confine per dare avvio alla riconquista della Siria proprio dal primo passo necessario, ovvero riappropriandosi di Kadesh, in aperta violazione degli accordi stipulati dal padre.

Il faraone dedicò i primi anni del suo regno ai preparativi di questa impresa. Dovette contrastare anche le scorrerie di gruppi di disperati, sbandati e fuggiaschi (che sono noti con l'erronea definizione cumulativa di Popoli del Mare) e vi riuscì talmente bene che, dopo averli fatti prigionieri in una battaglia marittima, li arruolò in massa nella propria guardia personale (i SHRDN, specialmente).
L’espansione numerica del suo esercito raggiunse così almeno i 20.000 uomini, riuniti in 4 “divisioni” di 4.000 fanti e 500 coppie di carristi, dedicate ciascuna a una divinità del Pantheon egiziano e acquartierate stabilmente in altrettante città centri di arruolamento: la divisione Amun a Tebe, la P’Re a Eliopoli, la Set a Pi-Ramesse e la Ptah a Menphi.

La battaglia di Kadesh è tra le meglio documentate dell’antichità, perché gli egiziani la celebrarono come una propria vittoria in numerosi bassorilievi e con due testi, il “Poema” e il “Bollettino”, ma oggi le ricostruzioni storiche sono molto meno trionfalistiche.

Ramses e le sue armate partirono verso la fine di aprile dalla base di Sile e impiegarono un mese per arrivare nella città di Shabtuna a circa 16 km da Kadesh, il nono giorno del terzo mese della stagione del raccolto (tardo maggio). Ogni divisione si distendeva in una lunga colonna ed era distanziata dalle altre di circa mezza giornata di cammino (una decina di chilometri) mentre una quinta divisione composta dagli alleati Ne’arin, ovvero dai contingenti di truppe provenienti via mare da Palestina e Libano, percorrendo la valle della Beqa’ si sarebbe ricongiunta agli egiziani da ovest direttamente sul campo di battaglia.

Le prime notizie del nemico giunsero da due nomadi intercettati a Shabtuna i quali riferirono a Ramses che Muwatalli e l’esercito ittita erano ancora lontani, addirittura ad Aleppo, prospettando al faraone un insperato colpo di fortuna: poter scegliere la posizione migliore per il proprio esercito e condizionare i rispettivi schieramenti nella futura battaglia.

Ramses, che guidava l’avanguardia alla testa della divisione Amun, decise allora di allungare il passo per conquistare questo vantaggio posizionale. La divisione Amun, alla quale si aggiungeva il voluminoso bagaglio reale, accelerò fino ad accamparsi a ovest di Kadesh, in un luogo dove poteva controllare la città e contemporaneamente vigilare tanto sulle possibili vie di approccio settentrionali ad essa quanto proteggere l’imminente arrivo da ovest dei suoi alleati Ne’arin. Si trattava di un rischio, perché Ramses pagava il vantaggio tattico ottenuto provocando una pericolosa frattura tra sé e il resto del proprio esercito e ben presto si rivelò un errore che poteva costargli carissimo. La cattura di spie ittite rivelò infatti a Ramses che i due nomadi erano stati inviati da Muwatalli per ingannarlo: in realtà i suoi nemici erano già presenti in forze e lo aspettavano nascosti a nord-est di Kadesh. Dal campo egiziano partirono messaggeri verso le divisioni arretrate con urgenti richieste di soccorso.

Anche Muwatalli, però, aveva un problema da risolvere. Guidava una forza di coalizione di 3.500 carri e quasi 40.000 fanti e quindi vantava al momento una superiorità schiacciante su Ramses, ma ignorava l’entità complessiva dell’esercito egiziano. Predispose allora per la mattina successiva un piano di battaglia in due fasi: un primo contingente di 2.500 carri avrebbe aggirato Kadesh da sud e dato inizio all’attacco contro la prima divisione egiziana che prevedibilmente sarebbe giunta seguendo lo stesso tragitto della prima. Il resto dell’armata, guidato da lui personalmente, schierato oltre l’Oronte, sarebbe intervenuto in un secondo momento, presumibilmente appena il faraone fosse uscito dal campo per sostenere i suoi uomini.



qadesh 1
Prima fase della battaglia: gli Ittiti hanno il sopravvento e distruggono completamente una divisione Egizia, la P'Re.

Nelle prime ore del giorno, come Muwatalli aveva previsto, arrivò la seconda divisione egiziana, la P’Re, in una colonna di almeno 3 km, che la marcia accelerata aveva reso disunita e scomposta.

L’ansia di raggiungere il faraone ne dovette anche rilassare le cautele e quando l’enorme massa di nemici emerse sul proprio fianco destro ne fu totalmente sorpresa. Dopo aver guadato i corsi d’acqua che circondavano Kadesh, i pesanti carri ittiti si gettarono contro la P’Re senza interrompere il movimento, probabilmente in molte colonne di decine di mezzi, provocando il panico e l’immediata fuga degli egiziani in ogni direzione.

La disintegrazione totale della P’Re sottraeva agli ittiti un bersaglio ma gliene forniva un altro ancora più prezioso: l’opportunità di chiudere la battaglia in un unico colpo. Compiendo un largo movimento aggirante, i carri ittiti si gettarono sul campo di Ramesse e della Amun. Qui si era assistito sgomenti alla distruzione della P’Re, ma il faraone aveva avuto il tempo di coordinarne una strenua difesa. I guerrieri shardana della sua guardia si distinsero nel combattimento, sicuramente agevolati dal disordine dell’attacco ittita (vale qui la pena di ricordare di passaggio che non si sa ancora bene che cosa fossero i shardana: un corpo scelto, forse? Questo è reso più probabile dal fatto che guerrieri  'shardana' sono presenti anche tra gli Ittiti, come accadrebbe proprio in quest'ultimo caso di un corpo specializzato: granatieri, corazzieri, guastatori etc).

qadesh 2
Fase due della battaglia: è la più confusa. Gli Ittiti tentano l'attacco al Faraone, ma i shardana lo difendono...


Ramesse contrattacca
Perso l’impeto iniziale, l’attacco ittita viene prima contenuto e poi respinto: con ammirevole freddezza e intuito, Ramesse radunò ogni carro disponibile e li lanciò in una sortita sul fianco avversario: la freschezza e l’agilità delle sue truppe ebbe in breve la meglio sugli ittiti, buona parte dei quali dovevano essere solo inermi cocchieri, costringendoli alla fuga e ad abbandonare la gran parte dei loro passeggeri ancora impegnati nel combattimento del campo.

Non fu comunque un'impresa semplice, perché il resoconto egiziano narra che il faraone dovette impegnarsi in ben sei cariche.
Qadesh 3
Fase tre: i Ne'arin intervengono al fianco degli Egizi: gli Ittiti ripiegano.

Muwatalli aveva assistito da lontano agli iniziali successi dei suoi carri e non aveva ritenuto necessario o potuto partecipare al combattimento: forse per eccesso di sicurezza o perché l’attacco al campo dei suoi carri non era stato previsto e lo aveva colto impreparato. Ora che esso era fallito, però, il re ittita non poteva più procrastinare un intervento e attraversò l’Oronte per andare in soccorso alla sua armata in fuga.

Troppo tardi, però: Ramesse abbandonò senza esitazioni l’inseguimento per affrontare il suo diretto avversario. Prima del faraone, però, intervennero i suoi alleati Ne’arin, giunti con provvidenziale tempestività sul campo di battaglia.

Il loro attacco sul fianco sconcertò gli Ittiti che si videro minacciati anche da sud per il sopraggiungere della divisione Ptah.

Nonostante abbiano forze ancora superiori, prudentemente si ritirarono oltre il fiume.

Ramesse con il suo coraggio si era sicuramente guadagnato una vittoria morale, ma entrambe le armate erano esauste e Kadesh rimaneva saldamente in mano ittita.

L'impresa progettata dal Faraone poteva quindi considerarsi fallita e le sue ambizioni di conquista erano state vanificate.
Infatti, l'Egitto non si azzardò più a riesaminare i piani delle proprie mire espansionistiche.
Ma il faraone pubblicizzò la battaglia come una personale grande vittoria dell'esercito da lui condotto.




L'arte della guerra nell'Età del Bronzo




Una delle poche certezze che possiamo annoverare sulle forme della guerra nell'Età del Bronzo è che il ruolo principale nel combattimento era svolto - su pianure adatte e scelte apposta, i 'campi della guerra' - da carri trainati da coppie di cavalli: questo è più o meno tutto, perché per il resto siamo a congetture via via sempre più labili.

La potenza dei re si contava col numero dei carri che possedevano: questo suggeriscono, lasciando pochissime incertezze, i documenti e l'iconografia del periodo, come, ad esempio, quelli relativi la Battaglia di Kadesh (sopra descritta).

Sulla piattaforma del carro gli egiziani avevano un solo combattente, armato di arco composito e di giavellotti, oltre al cocchiere, mentre gli ittiti, su carri più pesanti, avevano posto anche per uno scudiero.
Il predominio dei carri sul campo di battaglia era cominciato nel 2000 a.C. circa con l'invenzione della ruota a raggi che aveva reso molto più leggero il carro, permettendo che venisse trainato dai cavalli e quindi rendendolo anche più agile e veloce (rispetto a quello trainato dai buoi!).

Ulteriori progressi tecnologici ne fecero un mezzo sempre più robusto ma al contempo leggero ed inaspettatamente stabile: il carro egiziano, ad esempio, era dotato di una piattaforma di cuoio intrecciato che ammortizzava i sobbalzi dovuti alle irregolarità del terreno, aiutando la stabilizzazione del tiro, mentre l’asse sul quale erano montate le sottili ruote a sei raggi era fissato sul retro del carro ed era più lungo della piattaforma di circa 25 cm per ciascun lato, conferendo ancora maggiore stabilità e agilità al mezzo.

Per trasformarlo in un'arma da guerra si doveva fornirlo di un equipaggio: individui altamente selezionati perché combattere su un carro richiedeva riflessi eccezionali e un senso dell'equilibrio altrettanto speciale. Un lungo addestramento li trasformava poi in una squadra affiatata, un vero e proprio sistema d'arma, come si direbbe oggi.

L'impostazione del combattimento era responsabilità del cocchiere, mentre all'arciere, che tirava da un solo lato del carro, spettava il compito di colpire l'avversario con le frecce del suo arco composito: nonostante la sua gittata in combattimento fosse di circa 180 metri, è probabile che le battaglie si trasformassero ben presto in un'intensa e vorticosa serie di duelli molto più ravvicinati. L'arciere cominciava a tirare già durante  la corsa d'avvicinamento all'avversario ed aveva quindi la possibilità di colpire diverse volte, (un buon arciere scoccava 15, 20 frecce al minuto) prima che il suo carro con una stretta curva riguadagnasse la distanza. I carri, molto probabilmente, correvano in colonne uno dietro all'altro: pertanto lo scoccare delle frecce era multiplo e continuo e forniva una certa copertura reciproca, grazie ad un'imponente densità di fuoco.

I carri erano riuniti in unità decimali ed è probabile che non combattessero in linee, ma in colonne di 5-10 mezzi: il cavallo, infatti, è un animale intelligente che evita spontaneamente gli ostacoli: la formazione in colonna permetteva di sfruttare l'agilità del mezzo e dava profondità all'attacco.
(Quanto sopra è relativo alla battaglia di Kadesh. Ipotizziamo che l'oplita greco combattesse in modo affatto differente e richiedesse un utilizzo completamente differente del carro. Quest'ultimo serviva per portare il guerriero - armato così pesantemente da non potere camminare a lungo - sul posto dell'incontro armato. Serviva anche per riprenderlo dopo alcuni minuti, esausto e  preferibilmente ancora riutilizzabile in seguito).
Sono improbabili attacchi di carri portati direttamente  alla fanteria, così come sono stati spesso rappresentati nei film. Questo è dovuto alla sensibilità dell'animale, il cavallo, che tende spontaneamente ad evitare e non calpestare i corpi dei caduti o dei guerrieri in piedi: un attacco fisico diretto di un carro ad un corpo di fanteria sarebbe un suicidio per l'auriga ed il suo carico.

Tanto l'equipaggio quanto i cavalli erano protetti da corazze in piastre di metallo o di cuoio, e per ferirli occorreva un tiro molto preciso, oppure a distanza ridotta e quindi con maggiore forza di penetrazione.

E qui arriviamo al punto dolente: un esercito basato sui carri era sì il massimo che la tecnologia dell'epoca potesse offrire, ma il costo del suo mantenimento era elevatissimo, sostenibile solo dagli stati più ricch: tanto ingente che dovevano essere le stalle reali a provvedere agli animali ed a accudirli a spese del tesoro reale.

Se allevare e nutrire i cavalli era un'impresa, il carro in sé, spesso di proprietà del guerriero, era ancora più costoso: non solo considerando le spese di costruzione, ma soprattutto quelle della sua manutenzione.

Un problema ancora maggiore, infatti, non risolvibile solo con risorse economiche, era rappresentato dalla lunga schiera di artigiani specializzati necessari per costruire i carri e per mantenerli in efficienza, e del piccolo esercito di amministratori che dovevano tenere la contabilità di tutto questo apparato.

Solo gli stati più organizzati ed efficienti potevano permettersi un'impresa del genere, incentrata su magazzini di pezzi di ricambio, prima ancora che di guerrieri.

Quando le fanterie degli immigrati fuggiaschi (ed invasori aggressori, dal punto di vista degli Egizi) che talvolta qualcuno ancora definisce Popoli del Mare si mostrarono in grado di resistere efficacemente alle loro cariche, il dominio dei carri sul campo di battaglia finì drammaticamente, trascinando con sé nel declino le civiltà per le quali avevano combattuto.

domenica 29 settembre 2013

Tutankhamon





Tutankhamun, ancient Egypt's famous boy pharaoh, grew up 3,300 years ago in the royal court at Amarna, the ancient city of Akhet-aten, whose name meant the "Horizon of the Aten.” This extraordinary royal city grew, flourished—and vanished—in hardly more than a generation’s time. Amarna, Ancient Egypt’s Place in the Sun, a new exhibition at the University of Pennsylvania Museum of Archaeology and Anthropology in Philadelphia, offers a rare look at the meteoric rise and fall of this unique royal city during one of Egypt’s most intriguing times. The exhibition, which opened in 2006, originally scheduled to run through October 2007, has been given a long-term extension, as a complement to the Museum's refurbished Upper and Lower Egyptian galleries.
Amarna, Ancient Egypt’s Place in the Sun features more than 100 ancient artifacts, some never before on display—including statuary of gods, goddesses and royalty, monumental reliefs, golden jewelry as well as personal items from the royal family, and artists’ materials from the royal workshops of Amarna.  Most of the show’s artifacts date to the time of Tutankhamun and the Amarna Period, including many objects excavated almost a century ago from this short lived-royal city. 
With background information about the childhood home and unique times in which Tutankhamun lived, Amarna is a complementary exhibition to the nationally traveled, blockbuster exhibition from Egypt, Tutankhamun and the Golden Age of the Pharaohs. Penn Museum is partnering locally with The Franklin Institute, which hosts the blockbuster Tut show beginning February 3, 2007.
Statue of Amun (E14350) with features of Tutankhamun, provenance unknown, possibly Thebes, late Dynasty 18-early Dynasty 19 (1332-1292 BCE), greywacke
The Amarna Period in ancient Egyptian history—circa 1353 to 1336 BCE— has long fascinated archaeologists, historians and the public—and not just because of Howard Carter’s spectacular discovery, in 1922, of the intact tomb of the Pharaoh Tutankhamun,” noted Egyptologist Dr. David Silverman, one of three curators of theAmarna exhibition and national curator of the blockbuster Tutankhamun exhibition. “It is during this period that a still somewhat mystifying, short-lived experiment in religious, artistic and cultural change was happening at Amarna, and, from that seat of the royal court, quickly extended throughout Egypt.”
Located in a previously uninhabited stretch of desert in Middle Egypt, Amarna was founded by the Pharaoh Akhenaten. His wife, Queen Nefertiti, is still known worldwide for her exquisite beauty. She was not the mother of Tutankhamun, but it is likely that Akhenaten was his father. Sometimes referred to as Egypt’s “heretic” pharaoh, Akhenaten radically altered Egypt’s long-standing, polytheistic religious practices, introducing the belief in a single deity, the disk of the sun, called the Aten.  With the new religion came a dramatically new artistic style, one characterized by more naturalistic figures, curving lines, and emphasized gestures.  The new era, however, proved short lived—by the time that Tutankhamun died, at about the age of 19, hardly a decade into his kingship, the “Amarna Period” was not only coming to an end, but the Egyptian people’s traditional beliefs and religious practices were being restored.  Plans were also underway to abandon and dismantle the city.
Monumental wall relief of the royal family worshipping the Aten, possibly from Amarna, Dynasty 18, reign of Akhenaten (1353-1336 BCE), quartzite
Penn Museum’s considerable collection of artifacts from this significant period provides the evidence for the exhibition’s storyline, which takes the visitor on a visual and intellectual journey from before the Amarna Period through to the end of the Eighteenth Dynasty (circa 1500 to 1292 BCE).  Since the ancient Egyptians were thorough in their efforts to dismantle the royal city, excavators at Amarna in the 1920s found fragmentary evidence—hieroglyphic texts, small royal stamps, tiny molds, half-finished sculptures, and artifacts bearing glimpses of the royal family.  Through drawings, maps, photography and computer recreations, the exhibition helps the visitor use these archaeological “clues” to rediscover this once-thriving royal court and city.

Central to the exhibition is a monumental wall relief depicting the solar deity Aten as a disk hovering above the pharaoh Akhenaten and a female member of the royal family.  The Aten’s rays descend toward the figures, each terminating in a hand. Some time after the restoration of the traditional religion, this relief was cut down, placed face down on the ground, re-inscribed, and reused, probably as a base for a statue in the shape of a sphinx for the later pharaoh Merenptah (1213-1204 BCE).  Ironically, this recycling accidentally preserved the decorated front of the relief from total destruction.
Kneeling Tut as Amun
Statuette of Tutankhamun (E14295), provenance unknown, late Dynasty 18, reign of a successor of Akhenaten (1332-1322 BCE), bronze with traces of gold
Other highlights from the exhibition, housed in two gallery rooms off the Museum’s Lower Egyptian gallery, include two statues that probably represent Tutankhamun: a bronze kneeling statuette and an elegant standing figure of Amun with Tutankhamun’s features.  The latter statue is an indication of Egyptian religion reverting to traditional presentations connecting the king and the god Amun at the head of the pantheon.  Other statues of traditional gods in the exhibition include the lioness-headed goddess Sekhmet and the mother-son Isis and Horus.  Personal items of ancient royalty—a seal and a scarab of Amenhotep III, vessel fragments bearing cartouches of queens Nefertiti and Tiye, a comb, an elegant statue of an Amarna princess—remind the visitor of the individuals who lived at that time.  An ancient wooden mallet, fiber brush, unfinished statue and decorative molds for the making of glass items speak to the presence of a vibrant artisan community.
More than a decade before British archaeologist Howard Carter discovered Tutankhamun’s extraordinary tomb in the Valley of the Kings, American explorer Theodore Davis found a nearby pit that contained vessels from the boy king’s funerary feast, among other things.  Some of those ceramic pieces also will be on display.
Amarna is designed by the McMillan Group, designers of the Los Angeles installation of Tutankhamun and the Golden Age of the Pharaohs.
Amarna, Ancient Egypt’s Place in the Sun is co-curated by Dr. David Silverman, the Eckley Brinton Coxe, Jr. Professor and Curator of Egyptology; Dr. Jennifer Wegner, Research Specialist, Egyptian section; and Dr. Josef Wegner, Associate Curator and Professor in the Museum’s Egyptian section.  All three curators also teach in the University of Pennsylvania’s School of Arts and Sciences.
Amarna, Ancient Egypt’s Place in the Sun has been made possible with the lead support of The Annenberg Foundation; Andrea M. Baldeck, M.D., and William M. Hollis, Jr.; Susan H. Horsey; and the Frederick J. Manning family.  Additional support was provided by the Connelly Foundation, the Greater Philadelphia Tourism Marketing Corporation, IBM Corporation, Mr. and Mrs. Robert M. Levy,  Margaret R. Mainwaring,  and The National Geographic Society.
In time for the opening of the Amarna exhibition, Penn Museum’s renowned Upper and Lower Egyptian galleries, will be refurbished.  The galleries offer visitors an opportunity to view a wide variety of ancient Egyptian artifacts from several millennia.  Materials range from monumental architecture to sculptures, pottery, jewelry, tomb goods, and mummies.
SphinxA twelve-ton, monumental granite sphinx (E12326)dominates the Lower Egyptian Gallery, which houses one of the finest collections of Egyptian architecture on display in the United States.  Surrounding the sphinx are the gateway, columns, doorways and windows from the best-preserved royal palace ever excavated in Egypt.  The palace was built in the city of Memphis for the pharaoh Merenptah (circa 1224—1214 BCE), thirteenth son and eventual successor of Ramesses II.

The Upper Egyptian Gallery is home to the Museum’s finest examples of Egyptian sculpture.  Highlights include massive stone sarcophaguses, and inlaid bronzes of the deities Osiris, primary god of the afterlife, and the warrior goddess Neith.  An imposing seated statue of Ramesses II from the temple of Harsaphes sits in the center of the gallery.  From this gallery, visitors may enter “The Egyptian Mummy: Secrets and Science,” a popular exhibition that takes an in-depth look at the ancient Egyptian beliefs in the afterlife, featuring human and animal mummies, tomb artifacts, and objects and materials used in the mummification process.


Download a pdf of the Educational Supplement for Amarna, sponsored by the News in Education Program of The Philadelphia Inquirer -->



*A new publication from Penn Museum Publications:Akhenaten & Tutankhamun:
Revolution & Restoration

by David P. Silverman, Josef W. Wegner, and Jennifer Houser Wegner
200 pp., 140 full-color images, hardcover
ISBN 1-931707-90-1
$24.95

CANTIERE NAVALE DEL BRONZO: dove c'è, lo si trova.


La notizia è carina, nuova e curiosa. Essa dimostra che - quando le cose sono esistite - alla fine le si trova. In particolare gli Inglesi sono isolani, orgogliosi, indipendentisti e sostenitori convinti di (vari) forti sentimenti identitari. Malgrado ciò, non hanno alcun problema ad ammettere che i Romani li hanno dominato in passato. Anche perché sanno bene quanto essi Inglesi valgano oggi. (Le cose sono diverse in Sardegna.)

Forse anche per tale motivo gli Inglesi non sentono il bisogno di dimostrare 'chissà che cosa' circa il loro lontano passato, per gratificarsi di un troppo povero presente. Pur non sentendone grande bisogno, hanno scoperto che - nel Bronzo - già sapevano costruire barche: ed hanno trovato i loro cantieri. Veri, non fatti di aria fritta come quelli Sciardana, che portavano il Bisso fino in Colchide. (E gli Aquiloni nel cielo dello Zimbabwe).


Bronze Age 'boat building' discovery in Monmouth


Gli archeologi credono di avere identificato a Monmouth una comunità dell'Età del Bronzo dedita alla cantieristica navale.
Archaeologists believe they have found the remains of a Bronze Age boat building community in Monmouth.

Bronze Age 'boat building' discovery in Monmouth
Ipotesi del disegnatore di come potrebbero essere rimasti impressi i canali di Monmouth.

An artist's impression of how the channels could have been left

in the ground at Monmouth [Credit: Peter Bere/BBC]

Gli scavi, infatti, mostrano la presenza di antichi canali lunghi 30 metri nello strato d'argilla lungo i quali - secondo gli esperti- le imbarcazioni erano trainate verso un lago preistorico oggi scomparso.
 Excavations show 100ft-long (30m) channels in the clay along which experts think vessels were dragged into a long-gone prehistoric lake.

La società archeologica di Monmouth ha iniziato a portare alla luce nuovi reperti circa due anni fa, quando iniziarono i lavori per il centro residenziale di Park Glynder.
Monmouth Archaeological Society started to unearth new findings when work started on Parc Glyndwr housing estate two years ago.

La ricerca è pubblicata in un libro: "the lost lake" il lago perduto.
The research is being published in a book called The Lost Lake.

L'autore è l'archeologo Stephen Clarke, di 71 anni, che ha lavorato al sito per la società Archeologica per 50 anni e - dichiara - vorrebbe poterlo fare per altri 50.
 Author and archaeologist Stephen Clarke, 71, said: "I started digging here with the society 50 years ago - I wish I had another 50 years."

I ritrovamenti hanno indubbiamente aiutato a comprendere la storia antica di Mommouth relativa al periodo molto precedente ai Romani.
He said finds had helped the group to better understand the ancient history of Monmouth long before Roman times.

La città è oggi lambita da tre fiumi, ma il gruppo archeologico  sostiene di avere le prove che - originalmente - il sito era  costruito su un lago preistorico che ospitava cacciatori raccoglitori.
The town is served by three rivers but the group said it had evidence to suggest it was actually built on what was a huge prehistoric lake which became a home to hunter gatherers.

Nel corso dei millenni il lago si è asciugato ed i ritrovamenti conseguentemente effettuati, sia dagli appassionati, sia dai professionisti, spaziano dai resti carbonizzati dei fuochi, alle schegge di pietra e ceramica dell'Età della Pietra, dell'Età del Ferro, del periodo romano.
Over millennia it drained away and finds including charcoal from fires, flint shards and pottery from the Stone Age, Iron Age and Roman times have been found by the town's professional and amateur archaeologists.

I reperti sono stati ottenuti da strati differenti di argilla, sabbia, ghiaia, torba, dato che la composizione dei sedimenti del fondale è andata modificandosi nel tempo da lago a laguna, a palude a terra asciutta.
They have been excavated in sites around the town and in different layers of clay, sand, gravel and peat as the earth-bed composition changed from lake, lagoon, marsh and dry land, according to Mr Clarke.

Tra le scoperte effettuate, sono due solchi perfettamente rettilinei, larghi un metro, incisi nell'argilla e a forma di fondo di canoa, cui scorre parallelo un terzo solco più piccolo.
Among the discoveries are a pair of "dead-straight" metre-wide channels in the clay shaped like the bottom of wooden canoes - along with a third smaller groove.

Clarke sostiene potersi trattare di una barca a scafo doppio munita di  un braccio di supporto, ipotesi che confronterà con gli archeologi marini.
Mr Clarke said it supported the theory of a vessel having a support arm, adding he was seeking the opinion of marine archaeologists.

I suddetti canali sono stati rinvenuti in una sede rilevata del sito, composta da terra bruciata, in cui le ceneri sono state datate al Bronzo, anche se altre zone contigue risalgono alla Pietra.
These channels were found over a mound of burned earth which has been carbon dated to the Bronze Age although other finds around the area date back to the Stone Age.

L'autore asserisce di avere assistito allo scivolamento di macchinari di 14 tonnellate sull'argilla, perciò sostiene che non sarebbe troppo difficoltoso farvi scivolare una barca.
"I have seen 14-tonne machinery sliding in the clay so it would have been easy to push a boat," said Mr Clarke.

Sostiene che la scoperta induca a pensare ad un sito deidcato alla costruzione di natanti, anche se non sono stati reperiti reperti lignei relativi a tale attività.
He believes the finds suggest a settlement and boat building industry although no boat timbers have been found.

Esistono ancora molti dettagli da scoprire e da chiarire: l'area dev'essere stata attiva per migliaia di anni. Le notizie sono ancora tutta una novità assoluta. E' anche per questo che la stessa gente del luogo non ha ancora alcuna idea in proposito.
"There is a lot to explain," said Mr Clarke, adding that the area "must have been alive with activity for thousands of years".

"It is so new [the findings] that most people in the country do not know about it," he said.

Source: BBC News Website [September 25, 2013]

venerdì 27 settembre 2013

Dicesi Agglutinazione...


Una serata con un Comico di nome Gigi
Il Comico Gigi Proietti, 1940

Un uccellino mi si è posato sul verone, facendomi accapponare la pelle. In realtà causandomi un’immediata coagulazione intravasale massiva. Infatti, portava nel becco uno strano vocabolo: ‘Agglutinamento’.

(Agglutinamento: Azione e risultato dell'agglutinare o dell'agglutinarsi; incollamento reciproco; congiungimento.
Di passaggio vale la pena di chiarire che  più corretto sarebbe ‘agglutinazione’, termine preferito in tutti i significati: medico biologico, psicologico e linguistico).


Qualcuno scrive e parla di ‘agglutinamento’: pazienza. (Viene in mente il famoso “Noio voulevon savoir…” con Peppino e Totò, napoletani in colbacco in piazza Duomo a Milano, che cercano di comunicare in francioso con un “ghisa”indigeno: un’indimenticabile esempio di inefficienza italiota).
Purtroppo, questo qualcuno descrive un’ipotetica antica lingua scritta, (della quale avrebbe scovato alcune lettere solamente). Guarda caso, egli essendo uno spirito analitico ed osservatore, ravvede nei suoi 4 graffi, su una pietra qualunque, un “agglutinamento”  tra queste lettere (intendendo, sempre: agglutinazione).
Questo costringe, se si desidera capire qualche cosa – noi che non sappiamo di linguistica – ad andare a vedere che cosa sia mai questa ‘agglutinazione’ in campo linguistico.
Iniziamo dall’Enciclopedia Italiana (1929), da un articolo di Bruno Migliorini.

AGGLUTINAZIONE (lat. agglutinare; fr., ingl. agglutination; sp. aglutinación; ted. Agglutination: ricordarsi di non tradurre mai con: ‘agglutinament’!). - In linguistica si chiama agglutinazione la saldatura di più elementi linguistici, avvenuta in modo da lasciar chiaramente riconoscibile la forma dei diversi componenti. Agglutinanti furono perciò chiamate le lingue in cui questo processo è normale, p. es. le uraloaltaiche. Nel secolo passato si dava grande importanza alla distinzione (che risale a Wilhelm Von Humboldt, 1838) di tutte le lingue in tre tipi: monosillabiche, agglutinanti, flessive, che avrebbero rappresentato tre stadî successivi dell'evoluzione linguistica. E, per mezzo dell'agglutinazione, il Bopp e i suoi continuatori si sforzavano di spiegare l'origine della flessione: così il μι di δίδωμι "rappresenterebbe un antico pronome, ecc.
Oggi, questa tripartizione delle lingue è del tutto abbandonata, e le ricerche sull'origine della flessione hanno perduto molto d'importanza, cosicché il termine è raramente usato in senso glottogonico.
Bibl.: B. Delbrück, Einleitung in das Studium der indogermanischen Sprachen, 6ª ed., Lipsia 1919, p. 55 segg.; O. Jespersen, Language, Londra 1922, p. 375 segg.; F. de Saussure, Cours de linguistique générale, Losanna - Parigi 1916, p. 248 segg.
Ma che cos’è una lingua ‘agglutinante’? Vediamo:
Lingua  agglutinante
Il termine è usato per indicare un gruppo di lingue che, in base a certi principi di valutazione, hanno caratteri strutturali comuni che le differenziano da altri gruppi linguistici. La triplice partizione delle lingue in :

-       monosillabiche o isolanti (come il cinese),
-       agglutinanti (come le lingue ugro-finniche, uralo-altaiche, polinesiane) e
-       flessive (come le lingue indeuropee)

poggia fondamentalmente su un criterio di classificazione morfologica.
È un tipo di classificazione antiquato e di scarso valore scientifico, (lo era già nel ‘29) anche se ancor oggi molto diffuso e popolare. Nelle lingue monosillabiche o isolanti in generale la funzione della parola è indicata solo dalla sua posizione nella frase; per esempio, il nome del possessore precede quello dell'oggetto posseduto: “uomo” “cavallo”=cavallo dell'uomo; il plurale è espresso non con una desinenza o con un suffisso ma attraverso la composizione di temi-radici: “moltitudine”+“cavallo”=cavalli.
Le lingue flessive sono dotate di una loro tipica struttura grammaticale;
le lingue agglutinanti, infine, sono sostanzialmente caratterizzate da affissi distinti tra loro e con funzioni particolari. La differenza tra lingue agglutinanti e lingue flessive consiste cioè principalmente nel fatto che nelle prime gli affissi possono avere una loro autonomia (per esempio, l'affisso ungherese -ben che indica lo stato in luogo è propriamente l'avverbio benn, dentro), mentre le desinenze delle lingue flessive, prese separatamente, non hanno senso compiuto (così, per esempio, la desinenza -bus del dativo e ablativo plurali in latino); e più ancora nel fatto che nelle lingue flessive le desinenze sono morfemi sintetici (la desinenza del latino rosarum indica contemporaneamente il caso genitivo e il numero plurale), mentre gli affissi delle lingue agglutinanti sono morfemi analitici avendo ciascuno di essi un solo e unico valore
(per esempio, in turco il plurale è espresso con -ler, lo stato in luogo con -de: quindi
ev, casa;
ev-de, nella casa;
ev-ler, case;
ev-ler-de, nelle case).

[Quindi, l’agglutinazione riguarda – per noi ignoranti, che non sappiamo di lingue, naturalmente – vocaboli interi, formati da un vocabolo fondamentale d’origine, fuso insieme con particelle più piccole che aggiungono ciascuna il proprio specifico significato al vocabolo di partenza?
Sì, proprio così (anche se un glottologo l’avrebbe detto meglio, in modo per noi incomprensibile)].


Proietti con un Kaf  Kaldo appena fatto

Per sicurezza, diamo un’occhiata anche alla definizione in inglese: se non sai l’inglese, salta questa parte.

Agglutination is a process in linguistic morphology derivation in which complex words are formed by stringing together morphemes, each with a single grammatical or semantic meaning. Languages that use agglutination widely are called agglutinative languages. An example of such a language is Turkish, where for example, the word evlerinizden, or "from your houses," consists of the morphemes, ev-ler-iniz-den with the meanings house-plural-your-from, just like in Hungarian where házatokból means the same and consists of the morphemes ház-a-tok-ból.
Agglutinative languages are often contrasted both with languages in which syntactic structure is expressed solely by means of word order and auxiliary words (isolating languages) and with languages in which a single affix typically expresses several syntactic categories and a single category may be expressed by several different affixes (as is the case in inflectional (fusional) languages). However, both fusional and isolating languages may use agglutination in the most-often-used constructs, and use agglutination heavily in certain contexts, such as word derivation. This is the case in English, which has an agglutinated plural marker -(e)s and derived words such as shame·less·ness.
Agglutinative suffixes are often inserted irrespective of syllabic boundaries, for example, by adding a consonant to the syllable coda as in English tie – ties. Agglutinative languages also have large inventories of enclitics, too, which can be and are separated from the word root by native speakers in daily usage.
Note that the term agglutination is sometimes used more generally to refer to the morphological process of adding suffixes or other morphemes to the base of a word.
Examples of agglutinative languages
Whilst agglutination is characteristic of certain language families, it would be facile to jump to the conclusion that when several languages in similar geographic area are all agglutinative, they necessarily have to be related in the phylogenetic sense. In particular, such a conclusion formerly led linguists to propose the so-called Ural–Altaic language family which would (in the largest scope ever proposed) include Uralic and Turkic languages as well as Mongolian, Korean and Japanese. However, contemporary linguistics views this proposal as controversial.
On the other hand, it is also the case that some languages that have developed from agglutinative proto-languages have lost this feature. For example, contemporary Estonian, which is so closely related to Finnish that the two languages are mutually intelligible, has shifted towards the fusional type. (It has also lost other features typical of the Uralic families, such as vowel harmony.)
Eurasia
Examples of agglutinative languages include the Uralic languages, such as Finnish, Estonian, and Hungarian. These have highly agglutinated expressions in daily usage, and most words are bisyllabic or longer. Grammatical information expressed by adpositions in Western Indo-European languages is typically found in suffixes.
Hungarian uses extensive agglutination in almost all and any part of it. The suffixes follow each other in special order, and can be heaped in extreme amount, resulting words conveying complex meanings in very compact form. An example is fiaiéi where the root "fi-" means "son", the subsequent 4 vowels are all separate suffixes, and the whole word means "[properties] of his/her sons". The nested possessive structure and expression of plurals is quite remarkable (note that Hungarian uses no genders).
Almost all of the Philippine languages also belong to this category. This enables them, especially Filipino, to form new words from simple base forms. An example is nakakapagpabagabag, which means causing someone or something to be upset and is formed from the root bagabag, which means upset/upsetting.
Japanese is also an agglutinating language, adding information such as negation, passive voice, past tense, honorific degree and causality in the verb form. Common examples would be hatarakaseraretara (働かせられたら), which combines causative, passive or potential, and conditional conjugations to arrive at two meanings depending on context "if (subject) had been made to work..." and "if (subject) could make (object) work", and tabetakunakatta (食べたくなかった), which combines desire, negation, and past tense conjugations to mean "(subject) did not want to eat".
Turkish is another agglutinating language: the expression Çekoslovakyalılaştıramadıklarımızdanmışçasına is pronounced as one word in Turkish, but it can be translated into English as "as if you were one of those whom we could not make resemble the Czechoslovakian people."

All Dravidian languages, including Kannada, Telugu, Malayalam and Tamil, are agglutinative. Agglutination is used to very high degrees both in formal written forms in Telugu.

Agglutination is also a common feature of Basque. The conjugations of verbs, for example, are done by adding different prefixes or suffixes to the root of the verb: dakartzat, which means 'I bring them', is formed by da (indicates present tense), kar (root of the verb ekarri-> bring), tza (indicates plural) and t (indicates subject, in this case, "I"). Another example would be the declination: Etxean = "In the house" where etxe = house.
Americas
Agglutination is used very heavily in some Native American languages, such as the Inuit languages, Nahuatl, Quechua, Tz'utujil, Kaqchikel, Cha'palaachi and K'iche, where one word can contain enough morphemes to convey the meaning of what would be a complex sentence in other languages.

Vorrei solamente sottolineare le ultime due possibilità, che mi paiono interessanti:

Constructed (costruito)
Esperanto is a constructed auxiliary language with highly regular grammar and agglutinative word morphology. See Esperanto vocabulary.
Fictional (inventato)
Newspeak is a fictional language in 1984 based on the sole goal of agglutination, as expressed by the character Syme, "Every concept that can ever be needed, will be expressed by exactly one word" For instance, using the root word "good" we can form words such as goodly (does well), plusgood (very good), doubleplusgood (very good), and ungood (bad). Words with comparative and superlative meanings are also simplified, so "better" becomes "gooder", and "best" becomes "goodest."

Quest’ultimo caso – un linguaggio inventato –  è spesso usato negli spettacoli di vari comici, allo scopo di suscitare il riso del pubblico con arguzia e creatività. Ricorderò tra i tanti solamente il “Parlapò” di Gigi Proietti (un linguaggio abbreviato, per ‘far prima’ nei nostri tempi di fretta perenne) e quello di Lando Fiorini, nell’indimenticabile Puff romano, un 'night club' d'altri tempi:
 Due mamme, stirando i panni, parlano della valutazione in pagella dei figli, che le maestre esprimono con moderne abbreviazioni. La prima dice che il proprio figlio è definito ‘Intellattivo’ e ne spiega il significato alla seconda: “Mio figlio si dà molto daffare, con molte attività, quindi è anche molto attivo. Poi, impara in fretta ed usa bene il proprio cervello nell’apprendimento: quindi è ‘intellattivo’, capito?”. L’altra, poco convinta, chiede: “Allora mi’ fijo secondo ‘sta definizione come sarebbe, ‘pigronzo’?”.
Chiedo scusa per la digressione leggera e soprattutto per avere portato ad esempio un comico di nome Gigi.
Qui si parla di cose serie: di ‘Agglutinamento’ di singole lettere
Si sa che le lingue di molti popoli antichi orientali (Sumeri, Elamiti, Urartei, Kassiti, Hurriti, Ittiti, Gutei e Lullubi degli Zagros) erano agglutinanti.
Qualcuno crede forse che scoprire un Sardo antico agglutinante, ne dimostri più facilmente la derivazione da esse.
Purtroppo, si sa anche (ma evidentemente non lo sanno tutti!) che il tratto agglutinante non può essere usato come carattere distintivo di derivazione di una lingua dall’altra, dato che esso può essere perso o acquistato, o anche ereditato da una lingua figlia, o sviluppato indipendentemente da due lingue differenti, come si è visto in molti casi.
Comunque sia, l’agglutinazione di singole lettere (a che cosa servirebbe?) configura una scoperta sensazionale ed unica, mai verificatasi prima eppure stranamente ancora oggi misconosciuta, anche se è stata scoperta e dimostrata ormai da molti anni (almeno da domenica 28 Giugno 2009, ma certamente anche prima e sempre nel post prandium).
Mi domando come mai nessuno, proprio nessuno, se ne sia ancora accorto, nel vasto Mondo degli epigrafisti veri (e non dei comici di nome Gigi).