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giovedì 18 settembre 2014

LIBRI LETTI: Sa Sedda ‘E Sos Carros






Sa Sedda ‘E Sos Carros
E La Valle Del Lanaitho
Di M.A. Fadda e G. Salis

Serie ‘Guide ed Itinerari’ (46)
Carlo Delfino Editore


Non ci si aspetta certamente un trattato approfondito, bensì un piacevole compagno di visita durante una scampagnata archeologica naturalistica, come spesso la Delfino sa fare, con l’aggiunta d’iconografie in genere sempre accattivanti.

In questo caso, però, sono rimasto deluso da troppi dettagli, così tanti e vari, che non posso citarli tutti: mi limiterò a quelli che considero più importanti per la comprensione dell’argomento, saltando a piè pari gli errori di lingua italiana (‘silos’ al posto di ‘sili’, ‘cultuale e non’ invece di ‘cultuale e no’, etc ) che, pur gravi, non compromettono l’archeologia e la storia.

La prima parte del trattatello è firmata da Gianfranca Salis, che tratta prevalentemente la parte naturalistica ambientale e biologica. Qui, il difetto maggiore mi sembra stia nel chiamare ‘Sisaia’ (scarafaggio, blatta) quella che in realtà dovrebbe essere ‘Bisaia’ (bisavola). È fatto senza neppure citare l’origine di questo spiacevole equivoco, nel quale invece di una traduzione del termine scelto da ricercatori non sardi (Ferrarese Ceruti e Germanà non conoscevano il sardo-nuorese), vi fu un irriverente tradimento vero e proprio da parte d’accompagnatori e guide, che probabilmente consumarono la loro marachella in un momento d’allegrezza alcolica.

La seconda parte è prevalentemente la descrizione archeologica del sito e anche – più malauguratamente – la sua interpretazione, a cura di Maria Ausilia Fadda.
Esistono numerosi motivi di disappunto, qui.
- Per primo: il riferimento al nome del sito “Sedda ‘E Sos Carros” è attribuito a un’antica economia legata alla selvicoltura (che è falso; l’economia era pastorale: il taglio degli alberi fu un ordine preciso impartito dal re piemontese, accompagnato da false promesse che non furono mai esaudite e che alla fine danneggiarono gravemente l’economia e l’ambiente locali). Già l’introduzione d’ambientamento è molto fuori bersaglio, quindi…


Il sito risale al 1300 a.C. La Fadda non dice che il sito è bellissimo. Né che si tratta di un’opera di inaspettata e brillante ingegneria idraulica non necessaria, tanto ben studiata ed interamente artistica quanto certamente del tutto superflua per la sopravvivenza quotidiana della comunità locale.
L’archeologa deduce che il luogo fosse un tempio ad una divinità dell’acqua*, che illustra le capacità progettuali degli architetti nuragici* tra il 1200 ed il 700 a.C.

Se gli archeologi sardi imparassero una buona volta a scrivere comunicando l’entusiasmo (che essi stessi dovrebbero provare, prima, durante e dopo gli scavi) per ciò che è bello e vale ed è significativo, forse anche i lettori s’appassionerebbero e sarebbero più numerosi. Invece essi scrivono come se fossero tecnici annoiati di sala settoria che esaminano un cadavere già freddo, procedendo ad elencare lettere e numeri di ambienti e suppellettili, senza gioia, senza un lampo di luce, senza il sorriso da bambino che la sorpesa sa sempre accendere sul viso di chiunque veda certe cose per la prima volta. Invece l’autrice si sofferma niente, troppo poco sull’eccezionalità del sito, per lanciarsi subito sulla descrizione di come e perché presto (troppo presto) questa meravigliosa struttura sia stata distrutta dalla natura… L'impressione che il lettore ne ricava è quella di un effimero di vita breve.

*Faccio notare di passaggio che non ci vuole troppa fantasia a pensare ad un’ignota divinità dell’acqua, ma che altre ipotesi sono possibili. Più grave è invece il riferimento (ripetuto) agli ‘architetti nuragici’ nell’epoca cui le date si riferiscono.
Il ‘Nuragico’ era ormai finito. I Sardi che edificarono i Bagni di Sedda ‘E Sos Carros erano certamente i legittimi eredi lontani dei Costruttori, ma appartenevano ad un’altra Cultura e non costruivano più da secoli i Nuraghi (e la Fadda stessa lo dice: "i cui valori alla fine del bronzo furono messi in crisi dall'apporto fondamentale di culture esterne che si andavano affermando in tutto il Mediterraneo"). 
Ne riproducevano le icone – certamente – come sarebbe possibile comportarsi in altro modo, in un’isola che ti presenta un nuraghe quasi ovunque tu ti possa voltare? Ma definirli ‘nuragici’ equivale a legittimare la medesima definizione per chiunque, ancora oggi, porti una maglietta con un nuraghe sopra: non è scientifico e confonde il lettore.

Peggio ancora con le ipotesi formulate. Ne cito tre solamente.
- A me importa poco immaginare il vero motivo per cui si saldassero alla pietra sottili bronzi a forma di spade, preparati in precedenza dai fanatici (addetti al fanum/tempio) per i fedeli che pagavano certamente un obolo. Mi pare evidente che l’obiettivo fosse l’obolo, per il mantenimento del tempio e che i fedeli l’avrebbero versato per qualunque altra forma in bronzo fuso gli potesse essere proposta. I tripli salti mortali per dimostrare comee perché si legasse simbolicamente la riproduzione votiva di una spada alla possibile divinità ctonia dell’acqua sono – conseguentemente, per me – buffissimi.
- L’archeologa cita altri siti simili a questo (innecessariamente, secondo me: non è una pubblicazione scientifica, si tratta di divulgazione!) e fa riferimento al ‘battesimo del sangue’ immaginato da altri colleghi per gli altri siti. Alla fine dell’inutile divagazione, ella esclude che il sangue animale fosse mai stato usato nel fine meccanismo di scorrimento vascolare di Sedda ‘E sos Carros, perché si sarebbe ostruito… A parte il fatto che non vedo affatto la necessità d’immaginare (senza un valido motivo d’appoggio) riti così cruenti per i Sardi di qualunque epoca, vorrei tranquillizzare la signora Fadda circa il fatto che il sangue non avrebbe ostruito un bel niente e sono disposto a tenerle una lezione privata gratuita circa il fenomeno fisiologico della coagulazione dello stesso, purché mi prometta di non scrivere più simili corbellerie ...
- Infine, l’archeologa trova il modo di stupirsi (non di fronte alla meraviglia struttura) per via della presenza di ‘abbondanti frutti di mare, come telline, patelle ed altre conchiglie, che dimostrano che i nuragici del Lanaitho avevano trovato un rapido sistema di collegamento per raggiungere la costa in tempi brevi e fare ritorno alla valle in tempi brevi per consumare cibi facilmente deperibili’.
Qui siamo, più propriamente, nel mondo di Voyager: il reperimento di gusci di conchiglie in un sito abbastanza lontano dal mare non ci fa pensare alla possibile raccolta per braccialetti, collane ed altri ornamenti, bensì – subito – al consumo alimentare, sottointeso come abituale e giornaliero.
Ammetto sia possibile un uso alimentare.
Ma non posso fare a meno di sottolineare che diversi articoli scientifici hanno dimostrato senza ombra di dubbio che in Sardegna (ma in tutto il Mediterraneo antico) non si consumavano di regola mai (se non proprio eccezionalmente) prodotti di mare. Un articolo riassuntivo/esplicativo di ciò è comparso recentemente sull’ultimo numero della rivista semestrale “Sardegna Antica”, numero 45: “Paleo dieta dei Sardi Preistorici”.


Splendida l’iconografia.
Insoddisfacente il testo.
Splendido il posto.
Merita il viaggio, un po’ scomodo e lungo, a fronte dei numerosi  motivi per affrontare l’escursione: naturalistici e paesaggistici, archeologici, fotografici e altro ancora (se incontrate un muflone, capirete esattamente cosa altro!). Un'altra Sardegna, che resiste per quanto possibile alle antiche mortificazioni e cerca di non subirne più.

martedì 18 febbraio 2014

LIBRI LETTI: LA VENDETTA BARBARICINA.


Antonio Pìgliaru, nato ad Orune in Barbagia, nel 1922 e deceduto a Sassari nel 1969 è stato anche definito ‘il più grande pensatore che la Sardegna abbia mai avuto dopo Gramsci.

Un pensiero complesso, mosso da una vocazione pedagogica, orientata da un forte senso civico, volto alla trasformazione della società sarda, in modo che l’espressione: “Sardo e orgoglioso di esserlo” potesse avere un senso compiuto e reale, invece che velleitario ed insulso.

Creatore della rivista ‘Ichnusa’, fattrice di tendenze tra il '49 ed il '65. Animatore di dibattiti, dal suo studio in via Manno, fucina d’idee e osservatorio di gente.
Antonio Pìgliaru scrisse molte opere.

Ma il ‘suo’ libro è: “La Vendetta Barbaricina come ordinamento giuridico”, un capolavoro di antropologia giuridica.

La prima edizione è del 1959, ma vi lavorò e lo revisionò ancora fino alla fine: l’edizione postuma del 1970 ne è il risultato. In essa, la sofferta visione del reale, appassionata ma lucida, tenta di dare risposte al più angosciante problema della sua Barbagia. Dando – per universale ammissione – risposte ai problemi di tutte le comunità agropastorali del bacino del Mediterraneo. E – per estensione – presenta temi e problemi d’interesse per le scienze sociali, che non riguardano solamente la Sardegna, bensì tutte le comunità periferiche nella travagliata trasformazione del secondo dopoguerra.
Non è facile descrivere il contenuto del libro. Anche perché si tratta di un argomento tanto complesso (e per alcuni, anche noioso: riguarda il codice giuridico) quanto anche affascinante.

L’antropologia, d'altronde, non è un argomento semplice: quando tutta una comunità umana (quella barbaricina) si dà un insieme di leggi che implica l’uso della vendetta (cioè un metodo definito criminale dalla società in generale), non è agevole dimostrarne le profonde differenze con i metodi mafiosi, camorristici o criminali comuni.

Una delle differenze risiede nel fatto che la vendetta barbaricina non difende interessi individuali, bensì interessi comuni. Il libro lo spiega con dovizia di esempi e di logica.

Ma il discorso è lungo e lo lascio volentieri a chi vorrà leggere questo interessante saggio, scritto con razionalità e passione da uno studioso di filosofia, insegnante di Dottrina dello Stato all’Università di Sassari, che – tra le tante acquisizioni – ha anche trovato un senso più profondo e più vero all’orgoglio identitario. 
Sardo, in questo caso.

Per inciso, il prof. Antonio Pìgliaru è il padre del prof. Francesco Pìgliaru, presidente neo eletto della Regione Sardegna.

giovedì 19 dicembre 2013

"Il Popolo dei Nuraghi"


“Sì, forse il seme più remoto e più vero di questa tristezza, della nostra tristezza - perché anch’io, sardo, l’avverto dentro di me e l’ascolto come un’ospite assidua del cuore - è proprio in quella Patria perduta, in quegli altopiani erbosi, in quelle foreste popolate di animali selvatici, in quelle vergini pianure, in quelle riviere incontaminate dall’invasore, in quel paradiso donde fummo scacciati, ma dove è rimasto il cuore della nostra stirpe. E’ nell’indipendenza stroncata brutalmente un giorno dalla barbarie straniera e non più veramente riacquistata”.





                                                          Da    

                                   “Il  Popolo  dei  Nuraghi”                                                    
                                                          di     Marcello  Serra  

Lessi questa frase molti - troppi, ormai - anni fa. Mi colpì profondamente, perché dice moltissimo con pochissime, accorate parole. Ne scrissi un libro. Un libro ragazzino e sognante, in adorazione, appunto, di un sogno bambino: "la Terra dei Mucchi di Pietre".

lunedì 4 novembre 2013

Libri letti: "Atlantide, breve storia di un mito", di Pierre Vidal Naquet

Pierre Vidal-Naquet

“ ATLANTIDE, BREVE STORIA DI UN MITO ”




“Ti sei messo in testa / di andare ad Atlantide / e hai scoperto ovviamente / che solo la Nave dei Folli / fa la traversata quest’anno / perché sono previste onde anomale di enorme forza”, ha scritto uno dei massimi poeti del Novecento, Auden, nella sua Atlantide. Quando all’inizio del secolo successivo New Orleans e altre città del golfo del Messico sono state inghiottite dall’oceano, sul New York Times è apparso un articolo in cui si paragonava quella catastrofe al maremoto che nel IV secolo a.C. inghiottì l’isola di Helike, a nord ovest del Peloponneso: l’evento al quale, secondo la più recente delle ipotesi storiche su Atlantide, Platone si sarebbe ispirato per il suo mito.


E’ nel prologo del Timeo e nel Crizia che Platone racconta della gigantesca e ricchissima rivale di Atene, un’isola al di là delle Colonne d’Ercole, “più estesa della Libia e dell’Asia”, inabissata per volere degli dei. Un racconto tratto da un’antica tradizione orale di provenienza egizia e di cui si sarebbe potuto fare il più grande poema greco, osserva Platone, velando d’ironia il suo gioco narrativo. No, neppure l’inventore del mito lo prendeva sul serio. Eppure sono state tanti, da allora in poi, a crederci.


Inevitabile che a partire dalla scoperta accidentale di Cristoforo Colombo in Atlantide sia stato visto il Nuovo Mondo, l’America. Così, all’alba dell’età moderna “il treno di Atlantide è ormai sulle rotaie e non si fermerà più”, scrive Pierre Vidal-Naquet nello splendido libro appena uscito in Italia (Atlantide. Breve storia di un mito, Einaudi, 141 pp., 18 euro). E questo non ostante il freno opposto prima dall’interpretazione metaforica dei neoplatonici, poi dallo sfrenato allegorismo dei bizantini e infine dagli umanisti capitanati da Ficino. Ma inutilmente.


C’è chi ha collegato al mito di Atlantide quello, straordinario, delle dieci tribù perdute di Israele. Già Colombo peraltro si era munito di un interprete di lingua ebraica, aspettandosi di incontrare nelle Indie che andava cercando i discendenti di quegli Israeliti dispersi. Poi però il nazionalismo tedesco del periodo hitleriano, irto di Atlantidi letterarie, capovolgerà in termini razziali l’identificazione Israele/Atlantide, tanto che discendere dagli Atlantidi significherà anzi non discendere dagli Ebrei, né spiritualmente né per via di sangue.


C’è stato chi ha incongruamente scorto in Atlantide la Svezia, prendendo per guida l’epica dell’Edda, o un Caucaso smisuratamente allargato dal Turkestan al Mar Glaciale, fornendo inopinati fondamenti al successivo Mito ariano di Poliakov. E c’è stato chi, in fondo assai meno incongruamente, ha visto in quello sconfitto mondo ancestrale nient’altro che il continente africano, in effetti, se pur metaforicamente, da sempre sommerso.


Ideologia e geografia dunque si fondono come non mai in quella che un illustre atlantologo, Paul Jordan, chiama “la sindrome di Atlantide”, non a caso una parola presa dal vocabolario della medicina. Atlantide è per Vidal-Naquet “un malanno a ripetizione”, che “bisogna da un lato eliminare dal mondo reale e dall’altro interpretare come Platone l’aveva concepita, come una critica radicale all’imperialismo marittimo di Atene”. Se la prima cosa era già stata fatta da un encomiabile studioso di metà Ottocento, Thomas-Henri Martin, e se la seconda era stata proposta già a fine Settecento da Giuseppe Bartoli, sapiente grecista dell’Università di Torino, i due filoni interpretativi, quello storico-geografico e quello metaforico, hanno continuato a coesistere. Perché la storia, come scrive ancora Vidal-Naquet, “non è fatta soltanto dalle conquiste dello spirito umano, è fatta anche dalle sue erranze, dei vicoli ciechi in cui si è infilato e continua a infilarsi”.


Da Montaigne, che negli Essais scriverà, parlando di Atlantide: “Noi abbracciamo tutto, ma stringiamo solo vento”, alla Nuova Atlantide utopistica di Bacone e alla cartografia esoterica di Athanasius Kircher, passando per le variazioni sul tema del secolo dei Lumi, ora giocose ora candide, si approderà al visionario Novalis. Sarà lui a finire di trasformare quello che per Platone era un impero del male in paradiso segreto, di cui l’America di Blake darà una versione biblico-celtica. Finché Darwin non tornerà a credere davvero all’idea di un continente scomparso.


Atlantide resiste alla modernità, mentre nell’antichità, secondo Vidal-Naquet, “molti dovevano semplicemente riderne”. Perché la distinzione tra scienza e poesia è terribilmente recente, mentre i greci sapevano riconoscerne la labilità. Se, come scrisse già a suo tempo Martin, “Atlantide appartiene a un altro mondo, che non è nell’ambito dello spazio, ma in quello del pensiero”, proprio per questo è indistruttibile.


Come scrive Vidal-Naquet, oggi “nessuno pensa di camminare sulle tracce di Er, e se abbiamo a Parigi un viale degli Champs-Elysés, sappiamo bene che non è abitato dai morti”. Di tutti i miti che Platone ha inventato — a eccezione forse di quello dell’immortalità dell’anima, raccontato nel Fedone — il mito di Atlantide è il solo che abbia attecchito. Platone ha inventato un genere letterario ancora in vita: la fantascienza. Non a caso Jules Verne in Ventimila leghe sotto i mari mostra il capitano Nemo e il suo invitato involontario, il professor Arronax, mentre percorrono le rovine sommerse di Atlantide a 450 miglia marine a largo della costa del Marocco. Una visione simbolica della nostalgia moderna per l’inabissato, di cui Nemo, il nuovo “Nessuno”, è l’ultimo Ulisse. 
Silvia Ronchey


Quello che Silvia Ronchey non dice nel suo bel commento è che La definizione di 'Nazionalisti Atlantoidei' coniata da Vidal-Naquet implica un 'evidente giudizio di merito ed una condanna, per coloro che la meritano. Egli porta precisi e chiari esempi, nel suo libro: e sono esempi che il tempo e la storia hanno sviluppato fino al loro obbligato epilogo finale.
Ne risulta più che provato che i Nazionalisti Atlantoidei fanno SEMPRE un uso strumentale delle loro tesi false. E le loro tesi false producono costantemente danni, in molti casi gravissimi ed esiziali.
E' sufficiente motivo per sentire il dovere di combatterli.

giovedì 3 ottobre 2013

Anonimamente, tua WIKI.




ASINO CHI LEGGE, SI'...

MA...  CHI SCRIVE? 


Ad ulteriore riprova (se ce ne fosse ancora bisogno, di un'ulteriore prova!) del fatto che la Rete dell' Internet (ed in special modo questo vale per la versione Italiana della Rete) è un campo incolto (°), incustodito ed infestato d'erbacce, s'è già detto che basta confrontare Wikipedia nelle sue diverse versioni (in differenti lingue). 
Questo richiede - va da sé - la conoscenza di alcune lingue straniere: ma già si potrà notare come il medesimo tema risulti trattato in modi completamente differenti: lunghezza, iconografia, impostazione e contenuti potranno differire così tanto da dare l'impressione che si sia cambiato del tutto l'argomento...

Ora, c'è da dire che WIKIPEDIA solitamente non è affatto una fonte affidabile: essa è, anzi, discretamente inaffidabile e spesso molto discutibile. 
Perché?
Perché in genere chi ne cura in qualche modo la redazione e l'aggiornamento non può essere - per propria ammissione - un tuttologo esperto in ogni campo dello scibile. Per tale motivo, ci si fida usualmente di coloro che offrono i loro contributi senza compenso. 

C'è da chiedersi - a questo punto - se davvero valga la pena di raccogliere le disperate richieste per salvarla, Wiki: naturalmente è possibile considerare la cosa solo una questione di opinioni. Io, personalmente, non credo sia opinabile. 
Mi spiego meglio.
Se esistono alcuni figuri che non fanno altro da mane a sera che cercare una propria affermazione personale, attraverso lo spamming delle proprie tesi lunatiche ed infondate, perché mai permetterglielo in una sede che ambirebbe essere una fonte di prima e facile consultazione? (in realtà, non lo si dovrebbe permettere in qualsiasi altra sede, ma questo è un altro e più vasto problema)
Si dirà, beata ingenuità: ma spesso Wiki richiede almeno richiami ad una bibliografia, ad un dato provato. 
Vero! Ma avete visto e valutato appieno il contenuto di alcuni dei libri che certe case editrici pubblicano? Avete considerato che - dietro a certi nomi - non ci sono affatto case editrici, bensì scrittori autodidatti che pubblicano a proprie spese?

E infatti - guarda caso - alcuni argomenti servono esclusivamente per pubblicare spam (*) la propria personale bibliografia. Il che, a pensarci bene, fa cadere di schianto quel 'contributo senza compenso' riportato qualche riga sopra. Il losco figuro si è fatta una pubblicità gratuita in Rete e si è quindi assicurato che varie migliaia di persone leggano il suo nome ed il titolo del suo libro.
Il fatto che molti ancora siano del tutto ignari di questa autoreferenzialità di Wikipedia gli garantisce infine di aumentare le vendite.
Come rimediare?
Non conosco tutti i rimedi, né mi interessa farne una disamina completa.

Uno dei metodi migliori e più diretti, credo, sarebbe quello di eliminare l'uso dell'anonimato in tutta la Rete...

A parte gli altri vantaggi (non ultimo, per esempio, la drastica riduzione dell'aggressività verbale che l'anonimato invece permette), il volenteroso fornitore, ora anonimo, di un contributo per Wiki sarebbe in quel caso facilmente scoperto nella sua autoreferenzialità. E anche il  più ingenuo dei lettori sarebbe autorizzato ad avere finalmente qualche dubbio.
In più, avverrebbe che migliaia di persone - ogni giorno - potrebbero confrontare il suo nome vero con le idiozie che egli scrive abitualmente ed imparerebbero, pertanto, ad evitarlo.

Il che rispetterebbe contemporaneamente il diritto di qualsiasi essere umano (perfino un perfetto imbecille) ad accedere alla Rete e scriverci, ma rispetterebbe anche il diritto di qualsiasi lettore (anche un altro perfetto imbecille) a conoscere l'autore di chi ha scritto quello che sta leggendo.

Siamo in una democrazia, perbacco. Dobbiamo poterci difendere dagli imbecilli anonimi. Perché abbiamo tutti diritto ad essere imbecilli con il nostro nome vero. Perché gli imbecilli anonimi tendono ad essere invadenti, autoreferenziali, diffondere notizie incontrollate ed infondate e spesso puzzare di indottrinamento strumentale ideologico.
ringrazio gli amici di G+ che mi hanno fornito questa splendida vignetta e mi hanno dato lo spunto al post.

Ecco perché sono favorevole all'eliminazione di una Wikipedia anonima. 
Ecco perché propongo l'eliminazione dei Nicknames e desidero che si usino i nomi veri.

Di tutti, intendo: imbecilli e no.



(°) Nel senso figurativo agricolo e nel senso da esso derivato di conoscenza, produzione intellettuale.
(*) http://pasuco.blogspot.it/2013/10/spam.html
ecco qui un'altra forma di spamming autoreferenziale!

domenica 11 agosto 2013

LIBRI LETTI 3 - NURAGHE LOSA.



Guida al NURAGHE LOSA
e introduzione alla
CIVILTA' DEI NURAGHES.

di
Giacobbe Manca


In realtà, esisteva già dal 2004 la piccola guida – con ottima iconografia: unica la foto documentaria del pozzo sacro del Losa, ora scomparso – di Vincenzo Santoni, circa 40 pagine reali (in tutto sarebbero di più, se s’includono anche le 24 pagine che compongono Bibliografia, Glossario, Sommario, Indice ed Elenco pubblicitario delle altre Collane di Delfino) scritte per la Collana “Sardegna Archeologica”  della Casa Editrice Delfino. Costo: 9 €.


Guida al NURAGHE LOSA e introduzione alla CIVILTA’ DEI NURAGHES”, invece, è un libro “vero”, Edizioni CSCM, Nuoro. Non si tratta solamente di una guida descrittiva fatta perché il turista, dopo la visita, sappia almeno raccontare che cosa ha visto.
 È molto di più.

In circa 120 pagine convincenti (di cui solo 8 utilizzate per Indice, Glossario e Bibliografia completi e precisi, seppur stampati in caratteri opportunamente più piccoli e senza spazi sprecati), un’iconografia strepitosa include anche foto aeree estremamente utili, didattiche ed affascinanti, di grande impatto visivo.

- Il libro, garbato e scorrevole, ha spesso il piglio didattico di una (ottima) guida, con fotografie che presentano funzionali rimandi grafici alla pianta del Nuraghe e permettono di essere sempre ben orientati ed informati su dettagli che possono sfuggire anche ad osservatori attenti.

- L’Autore mette subito in chiaro l’argomento, spiegando con chiarezza al lettore la gran differenza corrente tra ciò che può essere definito ‘megalitico’ e ciò che invece rientra nel ‘ciclopico’. Si tratta di una distinzione fondamentale: cronologica, vista l’enorme distanza temporale che separa le due metodiche (il megalitismo risale addirittura al Neolitico); ma anche d’uso pratico, visto che il megalitismo è – in prevalenza, se non addirittura unicamente – una manifestazione cultuale.

- Si prende inoltre la responsabilità delle proprie opinioni ed osservazioni fin dalle prime pagine, accompagnando il lettore tra le proprie ipotesi circa i possibili soppalchi lignei, circa l’uso ed il disuso dei passaggi ‘segreti’ ora obliterati, le metodiche di edificazione e molto altro. Ma – soprattutto – l’Autore ha il coraggio di formulare un’ipotesi circa la datazione dei Nuraghes in genere (e del Losa in particolare), che egli sostiene essere differente da quella ‘ufficiale’, sostenuta stancamente dagli archeologi cattedratici sardi più per pavido conformismo che per solida convinzione...

- Si sofferma su dettagli costruttivi importanti ed evidenti del Losa, che però – stranamente – sono sfuggiti a colleghi archeologi considerati di vaglio, pur essendo le strutture state sempre sotto gli occhi di tutti.

- Riporta una rassegna storiografica di tutti i ricercatori che si sono interessati del Losa nel corso del tempo: il Della Marmora, lo Spano, il Pinza, il Taramelli ed infine il Lilliu.

- Riferisce della grave mancanza di studi scientifici di ampio respiro sul Losa e della presenza invece solo di studi archeologici che definisce – con arguzia – “puntiformi”. Non lesina le critiche all’edificazione dell’edificio che serve da ‘museo’ in loco, costruito a suo tempo proprio sull’area archeologica del nuraghe.

- Infine, offre 10 schede (che egli definisce “quadri”) circa generalità, architettura, statica, edificazione, teorie vecchie e nuove, tesi militarista, destinazione,approfondimenti e sintesi. Il più interessante – a mio giudizio – è il quadro 8: esso descrive ciò che avveniva nelle altre parti del Mondo Antico, contemporaneamente al primo nascere, al vivere, all’evolversi e modificarsi del grande e vetusto gigante.

Lo consiglio ai lettori ignari dell'argomento nuragico, ai quali servirà da introduzione. Ma ho anche la piena convinzione che anche quelli già esperti dell’argomento vi troveranno motivi di forte interesse, nuovi spunti nella lettura e – probabilmente – anche alcune notizie documentate delle quali erano all’oscuro...

mercoledì 7 agosto 2013

LIBRI LETTI - 1

Ho letto un libro interessante, anche se certamente non è una novità, né è affatto recente:  Giovanni Tolu, Storia di un bandito sardo, raccontata da lui medesimo (all'autore del libro, che è un giornalista: Enrico Costa, sardo anch'egli).

Si tratta (oltre che della storia del più famoso, forse, tra i banditi sardi e certamente anche dell' ultimo di essi) di un genuino spaccato della società Sarda del 1850 - e di riflesso di quella anche Italiana - che mostra quale grande, inimmaginabile, stupefacente possibilità di movimento avesse un bandito in quell'epoca in Sardegna. 
Grazie alla sincera ammirazione di pastori e 'barracelli', oltre che di comuni abitanti dei vari paesi (che oggi le autorità definirebbero come 'fiancheggiatori').

Non tace il disagio della vita raminga, solitaria ed alla macchia: e certamente parte della collaborazione doveva certamente essere dettata da paura (chi negherebbe un pasto o un letto ad un bandito armato di coltellaccio, di fucile e di pistole, che in più non ha nulla da perdere, perché è già condannato a morte?). 
Sorprendentemente, ci porta in un mondo di superstizione, di fede nella realizzazione dei sogni, di ignoranza e di analfabetismo, di paura di spie e delatori, di armi che devono essere montate al momento dell'uso e che con altissima probabilità faranno 'cilecca'.
Ci descrive sacerdoti buoni, che pure si dedicano alle arti delle fattucchiere (le 'ligature') e di sacerdoti cattivi, che assoldano traditori ed assassini, veri e propri 'bravi' di manzoniana memoria.
Ci mostra un poco edificante ritratto delle forze dell'ordine italiane, sempre temute, anche se discretamente inefficaci e pavide, rappresentate più spesso dagli odiati carabinieri, informati dai delatori e sempre pronti ad attribuirsi meriti non propri.

La figura di Giovanni Tolu ne esce come quella di un vero uomo, coraggioso e saggio a modo suo, purtroppo perseguitato da uno strano destino crudelissimo e beffardo, genuinamente ammirato dal popolo Italiano (non solamente dai Sardi) che ne pretende l'assoluzione, padre affettuoso e premuroso di una figlia generosa persino con la madre che l'aveva abbandonata prima e riavvicinata infine solo per motivi d'interesse. 

Il libro - a mio vedere - è ben argomentato, documentato e scritto, anche se nello stile un po' desueto di quasi due secoli fa. Riserva due colpi di scena finali - che mi esimo dal raccontare, naturalmente - uno dei quali, in qualche modo, spiega il vero motivo per cui il Tolu diventò un bandito. 
L'altro, sembra in fondo una punizione divina, quasi biblica, per colui che - pur cercando di essere quanto più possibile 'giusto' e di non fare del male a chi non gliene aveva fatto per primo - in fin dei conti aveva ucciso, o dovuto uccidere per autodifesa, numerose persone.

Insomma, caro amico mio: se non lo hai letto, te lo consiglio vivamente.

lunedì 8 luglio 2013

Beni: ti naru unu contu


FIABA E FAVOLA
Fiaba, dice il vocabolario, riprendendo in parte il solito pregiudizio, è una 'favola per fanciulli e specialmente novella che abbia del meraviglioso.'La novella a sua volta è 'racconto non lungo di un fatto inventato'La favola invece viene definita 'narrazione in prosa o in versi di carattere morale in cui parlano e operano animali o esseri immaginari'.
In base a questi criteri possiamo dire per esempio che Cenerentola o Biancaneve sono fiabe, in quanto posseggono i due requisiti fondamentali di essere brevi e di raccontare fatti inventati e meravigliosi. Mentre Il Corvo e la volpe di La Fontaine, dove agiscono e parlano due animali, è una favola.


BREVITA'
La brevità è una caratteristica molto importante. Deriva dai tempi in cui queste storie meravigliose, di origine popolare, venivano tramandate oralmente e presuppone che la narrazione (e più tardi la lettura) possa farsi in un'un unico lasso di tempo, senza spezzare il racconto per rimandarlo all'indomani. Questo fatto è molto importante ai fini della struttura della storia. La brevità costringe inoltre il narratore o lo scrittore a disegnare i personaggi nella loro essenzialità, descrivendone solo le caratteristiche funzionali e necessarie per lo svolgersi dei fatti, senza nessun approfondimento psicologico. Più che personaggi essi rappresentano funzioni, come ha osservato acutamente Vladimir Propp in Morfologia della Fiaba. Oppure incarnano un archetipo: quello del re che detiene il potere assoluto, quello della madre amorosa pronta al supremo sacrificio, quello della fanciulla ingenua che viene iniziata alla vita da adulta...
Se manca la brevità, la presenza della magia o del meraviglioso non basta a fare di un testo una fiaba. Per esempio non sono fiabe l'Iliade o l'Odissea, pur con tutti gli interventi divini, i mostri e i prodigi. Non è una fiaba l'Orlando Furioso, pur col suo Ippogrifo e col castello di Atlante.

IL MERAVIGLIOSO
Infatti non è fiaba neppure il racconto breve che rappresenta la realtà così com'è, senza introdurvi elementi meravigliosi e/o poco verosimiglianti. Sono spesso fiabe i 'cunti' di Giambattista Basile; non lo sono -tranne il caso anch'esso discutibile di quella che ha per protagonisti Messer Torello e il Saladino- le cento novelle del Decamerone di Boccaccio.


L'ETA' DEI DESTINATARI
Non è casuale che abbia nominato autori come Ariosto o Boccaccio che appartengono alla Letteratura cosiddetta Alta, quella destinata a lettori adulti di buona cultura.Infatti -e anche questa è una cosa molto importante che non bisogna dimenticare – la fiaba non è un genere letterario destinato specificamente a un pubblico di bambini. In origine anzi le fiabe erano destinate più ai grandi che ai piccoli. Non si trattava di testi scritti, ma di racconti che a causa della loro brevità potevano facilmente essere imparati a memoria e tramandati oralmente. Certo, tra il pubblico analfabeta che ascoltava il narratore orale c'erano anche bambini di varie età. Così come c'erano bambini alfabetizzati fra i lettori della Bibbia, dell'Eneide, delle Vite parallele di Plutarco, che però nessuno si sogna di considerare 'libri per bambini'. L'uso di una letteratura scritta apposta e unicamente per i bambini, iniziato nel tardo Seicento, si è diffuso nella nostra cultura solo nell'Ottocento.

TEMPO E LUOGO
Un'altra delle caratteristiche particolari della fiaba è che la vicenda che narra non è mai situata geograficamente e cronologicamente in un tempo definito.Lo si capisce fin dall'attacco classico: 'C'era una volta in un paese lontano...''Una volta' si riferisce a un passato che può essere recente o lontanissimo, ma tutto sommato non importa esattamente quando. L'unica cosa certa è che non è adesso.Altrettanto si può dire del 'dove'. Un paese lontano può essere dovunque. Però non qui.Sul 'paese lontano', che lui chiama 'il regno di Feeria' J. R. R. Tolkien ha scritto un saggio molto interessante intitolato Albero e foglia.Tolkien, che le amava, sapeva benissimo:-1) che le fiabe non sono necessariamente un genere letterario per bambini;-2) che ci sono molti libri per bambini che non sono fiabe.
Racconta infatti, a proposito di sé stesso da piccolo: "Io non desideravo avere sogni o avventure sul tipo di Alice, e la loro narrazione mi divertiva e basta. Non desideravo gran che andare in cerca di tesori nascosti o battermi con i pirati, e L'isola del Tesoro mi lasciò indifferente. Ma la terra del Mago Merlino e re Artù era più suggestiva, e soprattutto mi affascinava l'innominato nord di Sigurd della Voelsung, e il principe di tutti i draghi. Queste terre erano sommamente desiderabili. Non immaginai mai che il drago fosse dello stesso ordine del cavallo. Il drago aveva impresso sopra a chiare lettere il marchio 'del regno delle fate'. Quale che fosse il mondo di questa creatura, era un altro mondo.'Stevenson, chiamato in causa per il suo L'isola del Tesoro, che è un libro per bambini (scritto appositamente per il figliastro Samuel Lloyd di undici anni), ma non è una fiaba -e che non piaceva neppure a Henry James- a sua volta ribatte alle critiche rivoltegli da quest'ultimo affermando: "se non ha mai cercato tesori nascosti, si può facilmente dimostrare che Henry James non è mai stato un bambino. Eccettuato il signorino James, non c'è mai stato infatti un solo bambino che non sia stato cercatore d'oro, e pirata, e comandante di battello, e bandito di montagna; che non abbia combattuto e non sia naufragato o finito in prigione; e non si sia sporcato le manine di sangue, e non abbia romanzescamente rovesciato le sorti di una battaglia, o trionfalmente protetto l'innocenza e la beltà".Quanto a Henry James, il fatto che non ritenesse adatta a un bambino L'isola del Tesoro, non significa che lui stesso da piccolo fosse un lettore di fiabe. Nel suo libro autobiografico Un bambino e gli altri elenca fra le sue primissime letture Il Lampionaio datogli dai grandi per convincerlo, senza riuscirci, a lasciar perdere l'immorale Robinson Crusoe. Oltre a Defoe invece il 'signorino James' leggeva Dickens e La capanna dello zio Tom, tutti libri che non possono essere chiamati altro che romanzi. Romanzi per adulti di cui il piccolo Henry si era impadronito, come molti altri bambini avevano fatto e faranno non solo con Robinson, ma anche con I Viaggi di Gulliver, scritti in origine per adulti.Ma per tornare al passo di Tolkien citato più sopra, possiamo dunque affermare col suo autorevole appoggio che Alice nel paese delle meraviglie e L'isola del Tesoro, pur essendo stati scritti entrambi appositamente per bambini, non sono fiabe.
Cosa sono allora? Sono romanzi. Al di là dell'argomento, la lunghezza e la struttura del racconto diviso in capitoli, l'attenzione alla psicologia dei personaggi e alla loro ambiguità, li colloca nel 'genere letterario' del romanzo, d'avventure l'uno, del romanzo surreale l'altro. Infatti è pur vero che nella storia di Alice capitano tante cose inverosimili, ma queste somigliano più alla trasformazione di Gregorio Samsa in scarafaggio in Metamorfosi di Kafka che alla scarpetta di cristallo di Cenerentola.Così come rientrano nel genere letterario del romanzo Il libro della Jungla di Kipling e Pinocchio di Collodi. Non si tratta di romanzi 'realistici', è vero, ma neppure quelli di Stephen King lo sono, e nessuno li ha mai chiamati fiabe, neppure quando il protagonista è un bambino piccolo come in Shining o in L'incendiaria.

FAVOLA
Torniamo adesso alla definizione di favola trovata sul vocabolario: Narrazione in prosa o in versi di carattere morale, in cui parlano e operano animali o esseri immaginari.Favole sono per esempio quelle del greco Fedro e del latino Esopo. E in epoca più recente quelle del francese La Fontaine.Nelle favole in genere la morale è dichiarata esplicitamente. –:«Mio bel signore, imparate che ogni adulatore vive alle spalle di chi lo ascolta. La lezione senza dubbio vale una forma di formaggio.» – spiega la volpe al corvo dopo averlo imbrogliato.


IL DESTINATARIO 'SEMPLICE': POPOLO E BAMBINI
I narratori o gli scrittori di favole non si rivolgevano a un pubblico di bambini, né ad essi era rivolta la loro morale, che invece criticava spesso aspramente certi costumi immorali del mondo adulto. Ma ai bambini cui capitava di ascoltarle le favole piacevano per via degli animali parlanti. E pian piano esse diventarono parte del patrimonio letterario adulto passato ai piccoli 'per usucapione', così com'era successo ai romanzi d'avventure citati poc'anzi, che non erano stati scritti per bambini.Così come successe nell'Ottocento alle fiabe popolari che i borghesi colti disdegnavano appunto perché popolari e che le bambinaie analfabete venute dalle campagne raccontavano nelle nursery ai figli bambini di quegli stessi borghesi. (...)La fiaba è nata infatti come genere popolare, anonima. In origine le fiabe venivano tramandate oralmente, modificandosi nel passaggio da un narratore all'altro. Come il narratore non era un letterato, così l'uditorio era popolare, familiare, d'età mista; comprendeva tutte le generazioni di una comunità o d'una famiglia.Le fiabe più belle del nostro patrimonio popolare non hanno autore, ma sono il frutto del talento d'innumerevoli e anonimi narratori analfabeti. Perrault, che nel Seicento scrisse una delle prime raccolte di fiabe, scrisse anche che le aveva sentite raccontare da 'una vecchia di casa'. I fratelli Grimm andavano in giro per boschi e paesi a intervistare narratori e narratrici analfabeti, che a loro volta avevano ascoltato quelle storie da altri vecchi, in una catena che si perdeva nel tempo. La più bella e completa raccolta di fiabe italiane, quella fatta da Italo Calvino, indica per ogni fiaba la fonte o le fonti orali e le diverse varianti. Neppure la più famosa raccolta di fiabe orientali, Le Mille e una notte, ha un autore. Al suo interno si può invece ricostruire il viaggio dei racconti nello spazio –India, Iraq, Persia, Arabia, Egitto- e anche nel tempo, dal IX secolo alla prima traduzione in francese del 1717.La bellezza delle fiabe tradizionali nasce proprio dalla loro non programmata e incontrollabile stratificazione. Di bocca in bocca, di uditorio in uditorio, ciò ch'era inutile e contingente si è perduto e, per decantazione, come in un'acquavite distillata e conservata a lungo, è rimasto solo l'essenziale. I suoi personaggi, i nodi delle vicende, sono diventati archetipi della condizione umana. (...)Ma per tornare all'Ottocento, sull'onda del romanticismo, il patrimonio della cultura popolare cominciò a venire scoperto e nobilitato dagli studiosi del folclore. Molti scrittori romantici si misero a scrivere 'fiabe d'autore'. Qualcuno di loro, come Andersen, le scriveva rivolgendosi ai bambini. Ma Heine e Hoffmann, tanto per fare un esempio, non pensavano a un pubblico giovanile, e neppure lo stesso Gorthe, quando scrisse Marchen.(...)Riassumendo possiamo dunque ribadire che:
-fiabe e favole sono due generi letterari diversi, ognuno con caratteristiche specifiche;
-fiabe e favole NON sono necessariamente destinate a un pubblico infantile
-NON tutto ciò che viene scritto o raccontato pensando a un pubblico infantile è una fiaba o una favola.
Dal saggio di Bianca Pitzorno: Qualche premessa sulla letteratura per l'infanzia apparso in Scrivere per bambini, a cura di Francesca Lazzarato, Mondadori 1997

domenica 23 giugno 2013

E' deceduto Martin Bernal,autore di Black Athena


Martin Bernal, 

‘Black Athena’ Scholar, 

Dies at 76




Martin Bernal, whose three-volume work “Black Athena” ignited an academic debate by arguing that the African and Semitic lineage of Western civilization had been scrubbed from the record of ancient Greece by 18th- and 19th-century historians steeped in the racism of their times, died on June 9 in Cambridge, England. He was 76.
Harvey Ferdschneider
Martin Bernal, who taught at Cornell for almost 30 years.
The cause was complications of myelofibrosis, a bone marrow disorder, said his wife, Leslie Miller-Bernal.
“Black Athena” opened a new front in the warfare over cultural diversity already raging on American campuses in the 1980s and ’90s. The first volume, published in 1987 — the same year as “The Closing of the American Mind,” Allan Bloom’s attack on efforts to diversify the academic canon — made Mr. Bernal a hero among Afrocentrists, a pariah among conservative scholars and the star witness at dozens of sometimes raucous academic panel discussions about how to teach the foundational ideas of Western culture.
Mr. Bernal, a British-born and Cambridge-educated polymath who taught Chinese political history at Cornell from 1972 until 2001, spent a fair amount of time on those panels explaining what his work did not mean to imply. He did not claim that Greek culture had its prime origins in Africa, as some news media reports described his thesis. He said only that the debt Greek culture owed to Africa and the Middle East had been lost to history.
His thesis was this: For centuries, European historians of classical Greece had hewed closely to the origin story suggested by Plato, Herodotus and Aeschylus, whose writings acknowledged the Greek debt to Egyptian and Semitic (or Phoenician) forebears.
But in the 19th century, he asserted, with the rise of new strains of racism and anti-Semitism along with nationalism and colonialism in Europe, historians expunged Egyptians and Phoenicians from the story. The precursors of Greek, and thus European, culture were seen instead as white Indo-European invaders from the north.
In the first volume of “Black Athena,” which carried the forbidding double subtitle “The Afroasiatic Roots of Classical Civilization: The Fabrication of Ancient Greece — 1785-1985,” Mr. Bernal described his trek through the fields of classical Greek literature, mythology, archaeology, linguistics, sociology, the history of ideas and ancient Hebrew texts to formulate his theory of history gone awry (though he did not claim expertise in all these subjects).
The scholarly purpose of his work, he wrote in the introduction, was “to open up new areas of research to women and men with far better qualifications than I have,” adding, “The political purpose of ‘Black Athena,’ is, of course, to lessen European cultural arrogance.”
He published “Black Athena 2: The Archaeological and Documentary Evidence” in 1991, and followed it in 2006 with “Black Athena 3: The Linguistic Evidence.”
Another book, “Black Athena Writes Back,” published in 2001, was a response to his critics, who were alarmed enough by Mr. Bernal’s work to publish a collection of rebuttals in 1996, “Black Athena Revisited.”
One critic derided Mr. Bernal’s thesis as evidence of “a whirling confusion of half-digested reading.” Some were more conciliatory. J. Ray, a British Egyptologist, wrote, “It may not be possible to agree with Mr. Bernal, but one is the poorer for not having spent time in his company.”
Stanley Burstein, a professor emeritus of ancient Greek history at California State University, Los Angeles, said Mr. Bernal’s historiography — his history of history-writing on ancient Greece — was flawed but valuable. “Nobody had to be told that Greece was deeply influenced by Egypt and the Phoenicians, or that 19th-century history included a lot of racial prejudice,” he said in a phone interview Tuesday. “But then, nobody had put it all together that way before.”
The specific evidence cited in his books was often doubtful, Professor Burstein added, but “he succeeded in putting the question of the origins of Greek civilization back on the table.”
Martin Gardiner Bernal was born on March 10, 1937, in London to John Desmond Bernal, a prominent British scientist and radical political activist, and Margaret Gardiner, a writer. His parents never married, a fact their son asserted with some pride in interviews.
“My father was a communist and I was illegitimate,” he said in 1996. “I was always expected to be radical because my father was.”
His grandfather Alan Gardiner was a distinguished Egyptologist.
Mr. Bernal graduated from King’s College, Cambridge, in 1957, earned a diploma of Chinese language from Peking University in 1960 and did graduate work at the University of California, Berkeley, in 1963 and Harvard in 1964. He received his Ph.D. in Oriental studies from Cambridge in 1966 and remained there as a fellow until he was recruited by Cornell.
His other books, which also focused on the theme of intercultural borrowing, were “Chinese Socialism Before 1907” (1976) and “Cadmean Letters: The Westward Diffusion of the Semitic Alphabet Before 1400 B.C.” (1990).
Besides his wife, he is survived by his sons, William, Paul and Patrick; a daughter, Sophie; a stepson, Adam; a half-sister, Jane Bernal; and nine grandchildren.
Mr. Bernal was asked in 1993 if his thesis in “Black Athena” was “anti-European.” He replied: “My enemy is not Europe, it’s purity — the idea that purity ever exists, or that if it does exist, that it is somehow more culturally creative than mixture. I believe that the civilization of Greece is so attractive precisely because of those mixtures.”