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sabato 7 settembre 2013

La Misinformazione Sarda


 SEZIONE POPOLI DELLA SARDEGNA

di Salvatore Dedola (1).

Oltre all’etimologia dei nomi dei popoli noti, inserisco nell’elenco le etimologie relative a quattro cognomi (Arbéri, Bárbaru, Barbéri, Barbòne) che a mio giudizio sono degli arcaici appellativi utilizzati per indicare il popolo dei Barbaricini. Inserisco inoltre il cognome Sassu, anch’esso indicante un etnico.


ALCHITANI, Alkitani etnico. Secondo Pittau (OPSE 79) gli Alkitani erano gli antichi abitanti dell’attuale S.Nicolò Arcidano, e stavano nel territorio che arrivava sino alle pendici del Monte Arci (donde il nome dallo stesso Monte). É possibile, anzi diamo per certo che il territorio fosse questo. Ma intanto va detto che il Monte Arci ha un diverso etimo (vedi). L’etnico Alkitani trae invece trae l’etimologia dal babilonese alku ‘regione lungo una riva’, cui s’aggiunse il tema etnico latineggiante -tani. Si chiamavano Alkitani perchè stavano anzitutto lungo la ‘riva’ del rio Mogoro, che oggi fa semplicemente sorridere ma sino a un secolo fa incuteva terrore per le catastrofiche piene improvvise. La bonifica della Piana di Terralba-Arborea partì anzitutto dall’imbrigliamento del torrente con una diga. Tre-quattromila anni fa il villaggio doveva ancora trovarsi, a un dipresso, presso le rive boscose di una specie di “fiordo”, che vogliamo così chiamare per comodità, ma era più che altro la valle incassata del rio Mogoro, la quale all’altezza del villaggio era quasi sulle rive del Golfo di Oristano, per il fatto che il mare entrava ancora profondamente nella pianura; oppure, che è lo stesso, era il torrente che con le sue alte bancate dava il nome di Alku alla regione. Il “fiordo” poi (o le bancate del rio), proprio in virtù delle piene del torrente, fu gradualmente riempito dagli apporti alluvionali, ed oggi possiamo notare soltanto un mare impantanato, il quale altro non è che la laguna di Marceddì, che oggidì si è peraltro ritirata, e sta relativamente lontana dal villaggio.


ARBÉRI cognome che Pittau crede equivalente a (b)arbéri 'barbiere' < cat. barber (Wagner). La sua proposta è inaccettabile. La base etimologica del cognome è antichissima e si riferisce agli abitanti delle aree montagnose e incolte, quelli noti come (B)arbaricini. Un tempo (2000 anni fa) quelli che furono pure noti come Ilienses ed ancora prima come Jolaenses erano chiamati propriamente, da quelli delle pianure, Arbéris, Arbérus, con la base accadica arbu(m), warbum 'incolto, selvatico', ḫarbu(m) 'territorio abbandonato, deserto, ossia non adatto alle coltivazioni' + suff. sardiano -ri, -ru.


BARBARICÍNI. È un composto sardiano con base nell’akk. arbu ‘(montagna) aspra, incolta’ + rīqu(m) ‘libero’ + akk. enu ‘signore, lord’ (stato costrutto arba-rīq-enu > [b]arbarikinu > barbaricínu). Il significato sintetico è ‘libero signore delle montagne’. È noto infatti che i Romani ebbero pieno uso soltanto dei territori di pianura o collinari, ma non di quelli pertinenti agli Ilienses, costituenti l’asse montuoso centro-orientale della Sardegna.
Altro possibile etimo per Barbaricini è arbu ‘(montagne) aspre, incolte’ + aria ‘vuoto’ + kīnu ‘legittimo’ (stato costrutto arb-ari-kīnu), col significato di ‘legittimi (sott. abitatori) del territorio vuoto e incolto’.


BÀRBARU. Per capire questo cognome occorre prendere in considerazione primamente il cognome Barbàrja, Barbària, il quale a sua volta è una variante fonosemantica del coronimo Barbàgia < *Arba-ria ‘territorio incolto (quindi adatto alle greggi)’, da bab. arbu ‘waste, uncultivated’. Ma occorre pure fare i conti con l’etnico Barbaricìno, il quale è un composto sardiano con base nell’accad. arbu ‘(montagna) aspra, incolta’ + rīqu(m) ‘libero’ + suff. sardiano -ínu, col significato sintetico di ‘(uomo) libero che abita sulle montagne’.
Bàrbaru è, con tutta evidenza, un cognome-aggettivale sorto nel medioevo per influsso latino, considerato che furono gli occupanti Romani a interpretare come ‘luogo dei barbari’ l’Arbària, che essi chiamarono per paronomasia Barbària (in sardo Barbàgia). Peraltro a questo cognome i Romani non dettero un significato spregiativo, anche perché presso di loro esisteva lo stesso cognomen Barbarus.


BARBÉRI cognome che Pittau interpreta come ‘barbiere’, derivato dal cat. barber. Egli cita fra l’altro il cognome Barberij citato nel 1410 nel CDS II 45. Ma è proprio questa citazione a non lasciare scampo, essendo impossibile che a circa 80 anni dall’invasione la Sardegna avesse già recepito nella propria onomastica dei cognomi catalani. L’etimologia è assai diversa. Barbéri è una variante fonica e semantica di Arbéri, ed entrambi sono varianti foniche di Bàrbaru (vedi), a sua volta semplificazione di Barbaricínu.


BARBÒNE, Barbòni cognome che Pittau crede accrescitivo e peggiorativo del cgn it. Barba; alternativamente lo crede un cognome propriamente italiano. Ma sbaglia.
Barbòne, -i non è altro che una variante fonosemantica dell’etnico Bàrbaru (vedi), a sua volta semplificazione di Barbaricínu.


CAMPITÁNI popolo che il Pittau suppone esistente in Sardegna in epoca romana, dal quale egli riesce a derivare il medievale Campitanu, onde il nome Campidanu attribuito alla nota pianura sarda. Non sono d’accordo sull’impostazione della questione. Se ammettiamo l’esistenza dei Campitani, il nome può essere spiegato attraverso il lemma Idánu. Poiché Campidanu era il territorio che dai bordi orientali della pianura di Cagliari s'espande ad est attraverso le montagne ed i litorali rocciosi (per intenderci, sin oltre Burcei e sino alle lontane balze costiere di Maracalagonis), non è valida l’origine da campu come ‘pianura’, almeno non come ‘pianura’ degna di questo nome. Peraltro va notato un altro toponimo che avvalora la nostra impostazione, ed è Capitana, località tutta poggi e colline, annicchiata tra le montagne di Maracalagonis, che declina sul litorale con suoli aspramente movimentati, attualmente vocati alla pastorizia, mai ai cereali o agli ortaggi. Attualmente i bagnanti conoscono Capitana per le villette che declinano sul mare, e le attribuiscono l’etimologia popolare di ‘capitano’, ma decenni addietro quel territorio era una classica énclave vocata alla viticoltura. Onde anch’essa va ricondotta a un originario Campu Idanu ‘territorio a vigneti’, da sardo ide ‘vite’.


CARÉNSIOI, Karénsioi è uno degli etnici connotanti uno dei popoli dell’antica Sardegna. Pittau OPSE 116 propone il parallelo col nome dell’antica Karia (regione dell’Asia Minore), in virtù della sua ipotesi dell’arrivo dei Sardi dalla Lidia. Ma il fatto che la Sardegna sia letteralmente pervasa dall’antica lingua accadica suggerisce di cercare in essa il significato del termine. Karènsioi infatti è soltanto un morfema antico-greco, ma la radice del nome è accadica, da kāru(m) ‘quay, port, quay-bank; port on river, on sea’. In antico assiro significò pure ‘colonia commerciale’: proprio così. Non è la prima volta che scopriamo, nel significato dei vari etnici sardi, la vera vocazione del popolo così denominato.
Ebbene, Karénsioi significa ‘navigatori’, propriamente ‘marinai, gente che gestisce porti e moli’. Fu proprio su questa radice nominale che gli accadici forgiarono parecchi termini, quali ‘supervisore del porto’, ‘caserma dei gabellieri’, ‘prezzo corrente’, ‘negozio’. Quindi pare di capire che questo etnico ci presenti uno spaccato interessantissimo dell’attività dei Sardi d’età pre-fenicia.


DIAGHESBEÍS antica popolazione sarda che fonti romane fanno individuare in territorio dell’odierna Posada. «Alcuni la identificano con gli Ilienses-Iolei-Troes di Mulargia-Alà dei Sardi. Aveva vicino gli Esaronenses o Aisaronenses e i Falisci» (Di.Sto.Sa. 525). Strabone (V, 2, 7) scrive testualmente, a riguardo della Sardegna, che «alla bontà dei luoghi fa riscontro una grande insalubrità: infatti l’isola è malsana d’estate, soprattutto nelle regioni più fertili. Inoltre queste stesse regioni sono continuamente saccheggiate dagli abitanti delle montagne che si chiamano Diaghesbéi (Διαγησβεῖς), mentre una volta erano chiamati Iolei».
Vale la pena di dare peso all’affermazione di Strabone (2), e se proprio vogliamo dare un senso al nome di questo popolo, che Strabone precisa essere quello che abita sulle montagne, non può essere altro che il popolo altrimenti noto come Barbaricino (vedi). Non basta tale individuazione. I Barbaricini con questo appellativo di Diaghesbéis sono stati identificati come popolo errante, anzi transumante. Infatti tale etnico può avere un senso soltanto se lo traduciamo col gr. dià-ghes-baíno ‘*trans-humo’, ‘vado errando di terra in terra’. Questo appellativo indica la caratteristica più importante dei Barbaricini, eterni pastori transumanti dalla montagna al piano e dal piano alla montagna.


ESARONÉSI. Tolomeo (III, 3,6) pone gli Aι̉σαρωνήσιοι nella lista dei 18 popoli che vivono in Sardegna. Il loro nome potrebbe derivare da akk. ašru(m) ‘regione’ + nēšū , nīšū ‘genti, popoli’, secondo il Semerano. Secondo Pittau (OPSE 179) occorre riferirsi al vocabolo etrusco aiser, che significa ‘déi’. Secondo lui, pertanto, l’etnico potrebbe significare ‘Religiosi, Pii’.
In realtà l’etnico greco, se scomposto bene nelle due componenti (Αἰσαρω-νήσιοι) significa, per la seconda parte, ‘isolani (νήσιοι). La prima parte, che in Teocrito indica un fiume italiano, Aἶσαρος (ed a seguirne le lusinghe andremmo lontani), è invece da accadico ešēru(m) che significa ‘fortunato, di successo (per i raccolti, i terreni, gli allevamenti, la riproduzione umana)’. Quindi Aἶσαρονήσιοι significa ‘isolani fortunati’, ‘(quelli dell’)isola fortunata’. E con ciò siamo perfettamente in linea con quanto favoleggiavano gli antichi sulla Sardegna. A ben vedere, la prima parte del composto è semanticamente vicina al lemma etrusco individuato dal Pittau.


HYPSITÁNI antichi abitatori dell’agglomerato poi chiamato Forum Traiani (oggi Fordongianus, provincia di Oristano). Le celebri acque calde, sulle quali i romani edificarono le bellissime terme ancora in piedi, furono chiamate da Tolomeo Aquae Hypsitanae. Quest'idronimo a prima vista sembra avere la base nel greco ‘ύψος 'sommità, altura, altezza', e con ciò dovremmo supporre che derivi dal fatto che in questa zona di confine i residenti erano tutti della stessa stirpe, a contatto diretto con i pastori che da quel punto in poi, al di là del limes, erano 'montanari'. In realtà la base etimologica è l’akk. ḫuppu(m) ‘buca, fossa, cratere’, ‘un genere di catino’ + ṣitu(m) ‘sorgente’.


KARÉNSIOI < akk. kārum ‘porto, molo’ (significa quindi ‘marinai, navigatori’). Vedi Carénsioi.


KORAKÉNSIOI «antica popolazione sarda che fonti romane fanno individuare in territorio degli odierni comuni di Ittiri e Villanova Monteleone. Dava o prendeva il nome dall’abitato scomparso di Coriaso» (Di.Sto.Sa. 465).
È un azzardo proporre un etimo per questo etnico. Ma è necessario. Occorre partire, a mio avviso, dal fatto che in Sardegna ci sono alcune sub-regioni caratterizzate dal fatto che le capanne, anziché essere costruite metà in pietra e metà in frasche, sono fatte integralmente in pietra, per intenderci, somigliano alle capanne pugliesi di Alberobello (3), le quali viste da fuori sembrano un forno, una fornace.
Potremmo quindi tentare di proporre questo etimo assumendo la caratteristica delle capanne che un tempo venivano costruite nella fascia di territorio che va da Bonnannaro-Borutta sino a Romana, molte delle quali ancora sopravvivono. La base etimologica è l’akk. kūru(m) ‘forno, fornace’ + kinšu ‘casa a base rotonda’.


ILIENSES (vedi Jolaenses).


JOLAENSES. Va fatta un po’ di chiarezza sulla commistione Il-/Iol- sempre esistita nella storia toponimica sarda. Dobbiamo anzitutto affermare che queste due radici sono nettamente distinte, e che i Romani avevano ragione a parlare di Il-ienses quando identificavano la maggiore tribù dei montanari sardi. I Romani sicuramente sapevano del termine Jol-a-enses, ma lasciavano che a gestirsi un tale lemma fossero i Greci. Conosciamo ormai tutto della tecnica paronomastica greca e della loro indefettibile capacità di riplasmare ogni toponimo sardo a proprio uso e consumo.
Nell’antichità greca la radice (v)iol- (che indica la ‘viola’) diede forma a nomi illustri, come quello di Jole (femminile di Jòlao) che nella mitologia gre ca era attribuito alla figlia del re Eurito. Di essa s’innamorò Eracle il qua le, adirato contro il re che gliela rifiutava, lo uccise e ne distrusse il re gno, portandola via. Deianìra, moglie gelosa dell’Eroe, si vendicò (4) facendo indossare ad Ercole la camicia stregata donatale dal centauro Nesso. Ercole impazzì e si getto sul rogo. Pausania (II sec. e.v.) riporta un po’ ampia men te una tradizione secolare, secondo cui l’ateniese ’Ιόλαος, nipote di Eracle (Ercole), condusse a colonizzare la Sardegna 48 dei 50 figli avuti da Ercole con le figlie di Tespio. Accompagnati da altri Ateniesi, i Tespiesi sospin sero con le armi gli aborigeni e occuparono le pianure più fertili, fondando alcune città (X, 17, I). Altri storici, ad iniziare da Diodoro Siculo che scrive due secoli prima, citano un ’Iολαεῖον riferito alla migliore pianura sarda.
Ma qui la questione si complica davvero, perché in Sardegna le pianure e gli altri siti ancora oggi imparentati con questo nome sono parecchie decine. Va affermata intanto la parentela tra Jòlao e Iólia/Ólia (pronunciata Olla o [Parti]Olla ma anche Dólia [Dolia-Nova] per evidente fusione del coronimo col segnacaso de). S’imparenta il boscosissimo e selvaggio monte Olìa presso Monti, che non a caso segnava il confine tra l’antica Barbagia e la Gallura (esso non può, per ovvie ragioni geografico-ambientali, riferirsi all’olivo o all’olivastro, di cui manca traccia). Sembra ugualmente corretto imparentarvi i numerosi toponimi del tipo Olái (< Jola-i): si noti che l’ugaritico Ilu (Dio), derivando dal verbo ’alāh ‘ascendere, salire verso l’alto’, ha il suo participio proprio in ‘olāh ‘offerta’ (Baldacci).
È parimenti facile imparentarvi la piccola pianura d’Ilùne [Cala Luna], che crea pure una spiaggia e dunque un antico approdo. Il suo nome deriva dal fenicio Ilu ‘Dio’, con l’aggiunta del suffisso sardiano -ne, ed è dunque imparentato strettamente col nome della Perda Iliàna.
Semerano fa derivare il nome Jolao dal semitico Ilāh. Se una colonizzazione avvenne a suo tempo nelle pianure sarde (e successivamente nelle montagne), non la dobbiamo agli Eraclidi d'origine greca ma agli Eraclidi (Melkartidi) d'origine cananea. In questo caso, si capisce meglio la commistione Il-/Iol- (forma semitica e forma greca) e restano salvi i numerosi toponimi "joléi" della Sardegna nonchè la loro autenticità più antica, per nulla appannata dalla sovrapposizione del mito greco. Con tutta evidenza, il mito di Jolao fu rivivificato dai monaci bizantini “in salsa greca”, ed essi tramandarono sino ad oggi pressoché intatte tutte le forme in Jol-.
Tornando alle parentele, è impossibile non imparentare con la radice Jol- il nome dell’ex città (ora villaggio) di Ollolai, che sino al 6° secolo e.v. era stata la capitale dei Barbaricini (gli Jolaenses o Ilienses), sede dell’eroico re Ospitone che subì le imposizioni conversorie di papa Gregorio Magno (in realtà capitolando manu militari ad opera del braccio armato, il bizantino Zabarda: vedi GMS). Ollolai fin dal 1341 è stato scritto Allela, Allala, Ollala, ma è facile scorgere in Ollolai/Allala una iterazione rafforzativa, quasi sacrale, del nome (J)olái = ‘città di Jòlao. È infine corretto imparentarvi Olièna, dai residenti pronunciato Olìana/Ulìana (da [J]ulìana) e nientaffatto riferibile agli ulivi.
Sembrerebbe, a tutta prima, ovvio includervi il toponimo Giùlia/Giulìa/Giuglìa, che sembra richiamare il latino Jūlĭa, femminile di Jūlĭus (Giulio Cesare pretendeva di discendere direttamente da Jūlus figlio di Enea). Grazie all’equivalenza delle radici indoeuropee e romanze Iu-/Io-, Diu-/Dio-, Giu-/Gio-, scaturirebbe in tal caso l’identità radicale tra Jòlao e Giùlia ed anche Jūlus, col che si darebbe man forte alla tesi che gli Jolaenses (gli attuali Barbaricini) non fossero altri che i discendenti di Jūlus-Jòlao, mitico fondatore della stirpe sarda (o uno di essi). Giuglìa è un sito nel cuore del regno degli antichi Iolaenses/Ilienses: sulla carta, è il nome del grande prato appena sotto l’alta e precipite vetta del Corrasi (ai piedi della quale c’è Oliena). Ma intanto i residenti sostengono che il nome non indica il prato ma fa tutt’uno con la vicina parte cacuminale della montagna, ossia con quell’area molto accidentata culminante nelle varie vette “cornute”.
Fatti tutti i conti, però, occorre vedere in Giuglìa un radicale diverso rispetto a quello di Julìana; e nel mentre che sono conscio della piacevol ricostruzione qui fatta per Giuglìa, in realtà il toponimo non è altro che una forma sardiana con base nel sumero ḫulu ‘ruination’ + suff. territoriale sardiano in -ìa, ed indica proprio l’asprezza della parte cacuminale di questa montagna “sfrangiata”.


LESITÁNI. Pittau fa gravitare questa antica tribù attorno a Lesa (attuali Terme di S.Saturnino). È probabile che anche il Nuraghe Losa abbia preso il nome da Lesa e dai Lesitani (5).  


LACONÍTI dicesi di un popolo stanziato attorno a Laconi in epoca romana. Il toponimo Laconitzi (Villagrande) sembra raccordarsi con Laconi, significando letteralmente ‘la cisterna della sorgente’, da akk. lakku ‘vasca’ + aram. itza ‘sorgente’, Il composto subì l’inserzione della -n- eufonica.


SARDÀNA, SHARDÀNA, ŠARDÀNA. A questo etnico calza male l’etimo proposto dal Semerano, dall’akk. šarru ‘re, gran re’ + dannupotente’ = ‘Signore potente’. É incontrovertibile che questo etnico sia stato, a dispetto degli increduli, uno dei più famosi dell’antichità preromana. Il suo primo membro (šar-) ha parecchi etimi cui attingere per una traduzione valida. Oltre a quello del Semerano, abbiamo šar = ‘3600’ (indicato come numero indefinito, idea d’immensità); sarru ‘falso, criminale; ribelle’; bab. ṣar in ṣar maḫaṣu ‘colpire brutalmente, duramente’; šarāru(m) ‘andare in testa (nelle battaglie); incoraggiare’.
Per tutto quanto sappiamo attraverso i testi ugaritici ed egizi, uno qualunque dei termini mesopotamici addotti calza perfettamente alla fama che questo Popolo del Mare si è conquistata. Gli Shardana, come sappiamo, erano infatti, ad un tempo, in numero ‘indefinito’ (vedi testi di Ugarit); erano ‘odiati’ dagli Ugaritici e dal Faraone; indubbiamente erano ‘ribelli’ e quindi ‘falsi’ o ‘criminali’ agli occhi del Faraone; il re di Ugarit ed il Faraone concordavano nell’affermare che ‘colpivano brutalmente’ lasciando dietro di loro solo terra bruciata; infine dal Faraone sappiamo che quei valorosi ‘andavano sempre in testa nelle battaglie’ in qualità di truppe scelte.
Il termine Šardana (ŠRDN), rinvenuto nella celebre stele di Nora (oltrechè nei testi egizi), nel mentre che è da tradurre come ‘Sardegna’, è pure l’omofono del suo etnico (Šardana = ‘abitante della Sardegna’). La Fuentes-Estanol, per il fenicio, dà Šrdn per ‘Sardo’ e Šrdn’ come gentilizio ‘Sardo’ ma anche Šrdny (possibile pronuncia Šardany), Šrdnt ‘Sardo’ come nome proprio.
Nei testi egizi gli Shardana sono registrati come Šarṭana, Šarṭenu, Šarṭina (EHD 727b). Altre volte nei testi egizi sono indicati proprio come Šarṭana n p iām ‘gli Shardana quelli del mare’ (per n EHD 339a, per p EHD 229a, per iām EHD 142b). Wallis Budge li considera provenienti dalla Sardegna. Lo stesso pensano gli archeologi ed i filologi egiziani, assieme alla maggioranza degli studiosi di scuola inglese e americana.
Dal sumerico ricaviamo šar ‘splendido’ + dan ‘puro, limpido’ (šardan), da tradurre come ‘Gli splendidi’, ‘I purissimi’, ‘Gli Immortali’ o simili. Peraltro tale etnico non poteva avere altra spiegazione, visto che gli stessi Sumeri chiamavano la Sardegna Sardō, da sar ‘giardino’ + ‘tutto quanto’, componibile in sar-dū ‘tutta un giardino’: come tale la Sardegna doveva essere vista dai popoli abituati alle grame fioriture dei deserti.


SARDUS. Secondo Pausania, Sardos libico è l’eponimo dei Sardi di Sardegna. Per l’ascendenza dobbiamo citare però l’omerica Σάρδεις, Sárdeis in Anatolia (Lidia). Il Semerano afferma che la denominazione originaria di Sardeis è Sfard, persiano Saparda, ebraico Sephārad. Questo lemma è collegato anche al nome del villaggio sardo Sàrdara.
Pittau (OPSE 235) propone il parallelo tra l’etnico antico Sardiános e l’etrusco-toscano Sartiano (= Sarteano) nonché Sartiana. Indubbiamente Pittau su basi linguistiche fa intendere ciò che peraltro già sappiamo, grazie a lui stesso, ossia che una parte dei Sardiani, una volta trasferitisi in Etruria, non poterono fare a meno di lasciare, in qualche villaggio, il proprio nome d’origine, così come fecero in Corsica, dove lasciarono il toponimo Sartène.
Ma su Sardus possiamo accampare pure qualche base sumero-semitica.
Le agglutinazioni sumeriche šar-du si prestano purtroppo a traduzioni collocabili ciascuna in un diverso campo semantico: quale šar ‘designazione della vacca’ + du ‘ammucchiare’ (come dire ‘quelli che allevano tante vacche’); oppure šar ‘scannare’ + du ‘dilagare’ (come dire ‘coloro che invadono e scannano’); oppure šar ‘essere perfetto, rendere splendido’ + du ‘suonare’ (come dire ‘splendidi musicisti’); a quest’ultimo proposito ricordo che sardium nell’antico assiro e ‘un canto di benedizione’.
Anche in accadico abbiamo più di una occorrenza. Prima occorrenza: abbiamo visto che sardium in antico assiro e ‘un canto di benedizione’, ed ha evidenti rapporti col sacro. Seconda occorrenza: si è sempre parlato della sardìna come pesce relativo alla Sardinia (e su ciò non c’è obiezione) ma nessuno ha mai messo in relazione quest’ittionimo con l’antico assiro sardum ‘impacchettato, appesantito’, segno evidente che proprio quel pesce era soggetto già da allora ad essere conservato sotto sale in ceste di legno o di asfodelo, e che dunque l’attuale sardìna deriva l’etimo dal concetto accadico di “impacchettamento”. Terza occorrenza: Sardus e Sardinia possono avere la stessa base linguistica del lemma Šardana (vedi), da akk. šarru ‘re’ + dannu ‘potente’ (OCE 591). Non possiamo dimenticare che la radice Sard- era nota ed usata un po’ in tutto il Vicino Oriente. L’ultimo nome noto è Sarduri II re di Urartu, capo di una coalizione di regni neo-ittiti che perse la guerra di fronte al re-usurpatore assiro Tiglat-phalasar (744-727). Anche gli Ebrei conoscevano la radice citata. L’ebreo Sèred סֶרֶד (Gn 46,14 e altri passi biblici) era uno dei tanti che si trasferirono da Israele in Egitto.
Come si vede, c’è una pletora di occorrenze delle quali soltanto una sarà attendibile; o può esserlo a un tempo più di una. Ma, occorrono dei “distinguo”. L’affermazione di Pausania che Sardus libico è l’eponimo dei Sardi, aiuta a mettere in relazione Sardus-Sardi ma non porta acqua all’approfondimento della ricerca etimologica. Parimenti, non aiuta a trovare l’etimologia il sapere che i Sardi possono derivare il proprio etnico dalla citta lidia Sardeis. Peraltro, le due attestazioni storiche sembrano escludersi a vicenda.
Con l’accadico e le lingue del Vicino Oriente poniamo invece una base linguistica di maggiore solidità, anzi quattro basi su cui argomentare, ma le quattro basi a loro volta non possono non partire dalla celebre attestazione della Stele di Nora, dove si legge lo storicissimo e incontrovertibile vocabolo Šardana (da intendere come isola e quindi come nome d’origine).
La Sardegna è stata l’unica regione dove si estraevano pro di giose quantità di sale. Che ne facevano, i Sardi, di tanto sale, se non lo usavano nemmeno a conservare le sardine che da loro presero il nome? Altro che, se lo usavano! Chiaramente, sardina è collegata al lemma acca dico sardum. Quanto a Sardus, che esso sia almeno da 3000 anni l’etnico dell’uomo sardo, è anch’esso incontrovertibile. E pure qui ci ritroviamo tra le mani un termine accadico: non si può infatti respingere la forza dell’evidenza, che cioè tutti i termini riferiti alla Sardinia ed a Sardus hanno la base accadica. È da mettere nel conto pure l’apporto di sardium in quanto ‘canto di benedizione’, sul quale non c’è altro da argomentare se non che, evidentemente, questo modo di salmeggiare era tipico dei sacerdo ti dell’isola di Sardinia, e che furono proprio gli Šardana a farlo conoscere nel Mediterraneo.
Ma come la mettiamo, infine, con šarru-dannu = ‘re po ten te’, proposto dal Semerano? Che valore gli diamo? È veramente l’etimo degli Šardana? Forse sì. Può darsi infatti che gli Egizi, i quali per primi usarono questo etnico, accettassero proprio tale significato accadico, intendendo quindi Šarṭana nel senso di ‘guerrieri illustri, re potenti’. Peraltro fu un uso mediterraneo quello di catalogare i popoli erranti e guerrieri nella categoria logica suprema, quella riservata ai Re. Gli Hyksos furono tra quelli, furono i ‘Re pastori’(6), così come lo furono pure tutti i grandi proprietari di greggi che colonizzarono le montagne della Sardegna, i quali lasciarono il loro appellativo nei toponimi in , -: vedi per tutti Arcu ‘e Rì (Arquerì) che ha la base nell’akk. (w)arḫu ‘passo, valico transitabile’ (v. urḫu ‘way, path’) + ebr. rē’û = ‘pastore’, ed anche ‘re pastore’ (come dire: patriarca, padrone di mandrie).
Non si può però chiudere l’argomento di šarru-dannu senza dire qualcosa pure sul termine ebraico Dan. Ma a proposito rimando al lemma Šardana.


SASSU. Questo cognome manca nel Wagner ma c’è nel codice di S.Pietro di Sorres e nel CDS II 58/2, 60/1. Ciò è segno di alta antichità. Pittau (CDS) lo fa derivare dal sardo sassu ‘sabbione’ < lat. saxum. In realtà deriva dal bab. sassu ‘base, pavimento’. Va in ogni modo ricordato che Šašu erano chiamati nel Nuovo Regno egizio i nomadi del Sinai (1540-1070 a.e.v.), onde forse è da qui che deriva il cgn. sardo Sassu. In tal caso, avremmo una ulteriore prova, per via indiretta, del "ritorno degli Shardana" in terra sarda. Infatti la teoria che gli Shardana d'Egitto si fossero almeno mischiati agli Hyksos, prima che questi rifluissero verso il Sinai, ha parecchi sostenitori. Vedi al lemma Hyksōs.


TIRRENI. Per gli antichi Greci i Τυρςηνοί provengono dalle alture dell’Athos, le quali figurarono da loro occupate. Secondo Erodoto (I, 7; I, 94) Tyrsenos, figlio di Atys, avrebbe guidato i Lidi in Italia e avrebbe dato nome ai Tirreni. Ma c’è pure la terza citazione, quella di Strabone (V, 2,7), secondo cui, arrivando in Sardegna, gli Joléi, si mischiarono con gli abitanti delle montagne che si chiamavano Tυρρηνοί. Secondo Ellanico, i Pelasgi sono stati designati col nome Tυρσηνοί dopo il loro arrivo in Italia. Le quattro attestazioni, a ben vedere, non si contraddicono ma vanno interpretate.
Anzitutto, il popolo etrusco, da qualcuno chiamato Tirreno, non gradì mai quell’appellativo, pago del più antico rāš-, di Rasenna, da accadico rēšu ‘head, top quality’, cananeo rāš, ebraico rōš ‘capo, principe, leader’ + akk. enu ‘lord’, col significato di ‘signore-principe’. Tirreni, da altri interpretati “erranti”, è più consono ai Tirreni della Sardegna (vedi Strabone), perché in tal caso l’appellativo sarebbe semanticamente identico a quello di Diaghesbeís (= *Transhumantes), come in seguito i montanari sardi furono chiamati.
L’appellativo Tyrrèni può essere spiegato in verità come un composto creato sulla base dell’aramaico tur ‘monte’ + accadico-sumerico enu ‘lord’ e si riferisce a Tiro, la quale stava sopra un alto scoglio. Il sardiano Tur-enu (poi lat. Tyrrenus) significò quindi, letteralmente, ‘signore di Tiro’, ‘dominatore, abitante di Tiro’. È quindi chiaro che i Tyrr-eni non erano altro che i Tyr-i, gli abitanti di Tiro, ossia erano i Šardano-Fenici che ritornavano ad abitare o frequentare la madrepatria, la Sardegna, dopo l’epopea dei Sea Peoples.
In ogni modo, non possiamo omettere di citare il Tirreno proveniente dalla Lidia. Secondo il confluire di fonti quali Dionigi d’Alicarnasso 1,27, Erodoto I, 7; I, 94, Nicola Damasceno FGrH 90, 15, Gige nonno di Atys, prima d’inaugurare la lista dei re lidii in Sardi, fu tiranno a Tύρρα. È da qui che si giustifica il nome di Tyrrhenos figlio di Atys, che letteralmente significò ‘Signore, dominatore di Tyrrha’ (nome di nostalgia). È pure da qui che deriva il cognome sardo Turra. Non va quindi sottovalutata l’importanza della citazione di Erodoto e degli altri autori. Quel Tirreno proveniente dalla Lidia avente lo stesso nome dei nostri Tirreni, crea confusione. Ma secondo il mio modo d’intendere, il concorrere del nome lidio-accadico Tirreno inteso come ‘Signore, dominatore di Tyrrha’ è una conconcomitanza fortuita che non inficia il fatto che i Tirreni che diedero il nome al Mare Tirreno furono gli Shardana-Fenici tornati da Tiro.


UDDADHADDAR. Quest etnico fu letto in agro di Cuglieri su una iscrizione confinaria latina recante la seguente frase: TERMINUS QUINTUS UDDADHADDAR NUMISIARUM, che può essere tradotto di primo acchitto come segue: Quinto cippo terminale degli Uddadhaddar delle Numisie. La frase, da me verificata presso il Museo di Cagliari, è scritta in un latino pulito, ma resta da chiarire anzitutto il significato di Uddadhaddar.
Anzitutto va precisato che il terminus quintus è un cippo di delimitazione territoriale: il ‘quinto cippo’. Forse ce ne furono degli altri. Nei tempi andati le delimitazioni territoriali avvenivano in tale modo, legalmente riconosciuto, in uso anche presso i Sumeri ed i Babilonesi. Ancora oggi nei villaggi sardi ci sono degli esperti in grado di individuare tutti i cippi di confine. Evidentemente, ci fu un preciso accordo giuridico affinchè gli Uddadhaddar avessero un territorio di pertinenza.
Il lemma Uddadhaddar ha il suffisso tipicamente sumerico (-dr in sumerico è una semplice consonante finale sostituente spesso la -d, e al tempo dei Romani fu letta evidentemente come -dar). Per Uddadhaddar l’unica base valida è la lingua sumera, dove abbiamo u-dada-dar (u ‘pastore, pecoraio’ + dada ‘ostile’ + dar ‘disperdere’ (of crowd: break up), col significato di ‘pastori ostili dispersi’.
Quanto a Numisiarum, espresso col tema latino, se ci attenessimo al nome della gens romana di cui i dizionari dànno il maschile Numisius, sembrerebbe che gli Uddadhaddar siano appartenuti a un latifondista della gens Numisia (come schiavi?). Ma perché il plurale femminile? Perchè certamente Uddadhaddar, sentito latinamente come femminile, esprimeva già di per sé un plurale (i Latini non declinavano mai i nomi semitici). Poiché l’etnico Uddadhaddar è sumerico, anche Numisiārum deve avere la base sumerica, anche perché l’uso del latino nella parte radicale darebbe seri problemi. Alcuni traducono Numisiarum ‘della Numidia’. Ma è scorretto: ci saremmo aspettati allora Uddadhaddar Numidiae ‘U. della Numidia’. Se invece si dovevano citare delle donne nùmide, ci saremmo aspettati U. Numidārum. Se poi sostituiamo il lemma con una parola greca, questa deriverebbe soltanto da νομεύω ‘fare il pastore, pascolar le greggi’, νομή ‘luogo del pascolo’, νομῆες ‘pastori’, da cui νομάς - νομάδος ‘nomade, che erra per mutare pascolo’: ma questi termini greci hanno basi semitiche, da akk. numītu ‘pasturage’, numû ‘wasteland’, sum. numun ‘erba’, numun ‘moltiplicare’. Eccoci dunque alla traduzione giusta.
Aggiungendo al sintagma u-dada-dar il composto sumero-accadico in stato costrutto numi- + šiyû ‘forza’, siyû ‘a plant’ (Numi-si-ārum), abbiamo il significato di ‘pastori ostili dispersi tra i pascoli. Si vede che a questa gente fu negata l’opportunità di risiedere entro la città di Cornus e che essa fu relegata a un destino pastorale, quale tributaria del commercio cornense.
Esplicando il sintagma sintetico TERMINUS QUINTUS UDDADHADDAR NUMISIARUM, abbiamo quindi: “Quinto cippo dei pastori ostili dispersi nei pascoli (del vicino Montiferru)’. È facile immaginare cosa era successo in quel periodo. Gli U (pastori) erano dada (ostili: alla città punico-romana di Cornus; la assalivano con le bardàne, ossia con cavalcate guerrigliere). Per tale ragione furono dispersi dalla truppa romana e costretti a vivere sul Montiferru selvaggio, con reciproche garanzie confinarie.

Legenda:

Ho preso - senza modificarlo - l'articolo di Salvatore Dedola dal suo sito (www.linguasarda.com), salvo l'aggiunta dei seguenti codici colore:

In rosso : nome di glottologo o linguista
in azzurro : lingua ipotizzata come origine di parole sarde
sottolineato : panzana evidente, a mio vedere.
in grassetto: nome di storico.

1) Laureato in glottologia con tesi in Germanistica. E' stato più volte presidente del Club Alpino Regionale e credo sia - oltre che una persona amabile ed interessante - anche un ottimo naturalista. Ma credo (e spero) si muova molto  meglio tra piante e fiori, che tra etimi e cenni di storia.
2) Strabone, geografo greco del la metà del I secolo a.C.: scarsamente attendibile in genere, ma specialmente per le questioni riguardanti questo argomento, che rimanda a duemila anni prima.
3) L'autore sembra non conoscere il nome dei Trulli, né la loro origine cronologicamente molto più recente (sono di epoca moderna), che li esclude da qualsiasi confronto etimologico formale con vocaboli appartenenti alle lingue antiche.
4) In realtà, il mito racconta che Nesso ingannò Deianira, dicendole trattarsi di un filtro d'amore per riconquistare Ercole, che ella temeva di perdere.
5) Il nuraghe Losa prese il nome dal vocabolo 'losa', che significa lapide,  lastra di pietra (in sardo, come in spagnolo e persino in italiano) per via delle numerose sepolture rinvenute sul posto.
6) M. Bernal descrive invece tutta un'altra etimologia (Black Athena), più convincente: in particolare cita il noto gioco di parole (presente anche nelle 'Supplici' di Eschilo) tra hikes(ios) e Hyksos.

giovedì 5 settembre 2013

Salvatore Dedola, nell'isola di Yahweh


Tratto da Salvatore Dedola - Religione precristiana in Sardegna.

(Riportato immodificato e senza commenti)

IÁCCU. Terzo nome del Dio sardiano, senz’altro il più intrigante, è Iáccu, anch’esso panmediterraneo. Íaccos, Ἴακχος è pure il nome solenne di Bacco (Diónisos) nei Misteri Eleusini. Ricordo il grido rituale in onore del Dio: Iacco! Nei Misteri Íaccos era considerato figlio di Zeus e di Demetra ovvero sposo di Demetra, e veniva distinto dal Dioniso tebano, figlio di Zeus e Sémele. In alcune tradizioni Iaccos è considerato figlio di Bacco, ma in altre i due personaggi sono identici. Nel mondo latino talvolta era identificato con Libero.
Circa l’etimo di Iáccu, Íaccos, Ἴακχος, possiamo inferire che la sua base etimologica è ebraica, non per altro, ma solo perché gli Ebrei lo considerano il vero nome (quello segreto) del proprio Dio. Il sardo Iáccu, gr. Íaccos, è lo stesso tetragramma ebraico YHWH, il nome di Dio Onnipotente, da pronunciare così com’è scritto, ossia Yaḥuh. In Sardegna questo nome sacro è ripetuto numerose volte, nei nomi personali, nei cognomi, e anche in parecchi toponimi.
Tale nome sacro appare nella Bibbia 5410 volte a cominciare da Gn 2, 4. Secondo i vari rabbini che hanno pubblicato la Bibbia ebraica (ivi compreso, per l’Italia, Rav Dario Disegni), la vocalizzazione e la pronuncia di YHWH, יהוה, non sono note «perché per antichissima tradizione esso non viene mai pronunciato ma sostituito da Adonai, ‘il Signore’». A partire dal XVIII secolo nella Bibbia sono presenti tradizioni compositive differenti che si distinguono per l’utilizzo dei diversi appellativi divini. Ad esempio, nel libro della Gènesi è presente una versione della creazione che utilizza il nome Elohim; nel testo masoretico il tetragramma appare come Adonai. Nel testo greco dei Settanta è scritto Kýrios, aggettivale significante ‘che ha potere, forza, autorità’, tradotto normalmente come ‘Signore’ ma che è meglio tradurre come ‘Potente’. Si badi bene che nei più antichi frammenti greci della Bibbia (I-II secolo a.e.v.) al posto dell’aggettivale citato c’è soltanto il tetragramma ebraico. Invece in altre bibbie greche (come quella dell’Aquila) il tetragramma è scritto in lettere greche. Evidentemente essa è, dopo tali frammenti, tra le più antiche bibbie greche tramandate.
I Testimoni di Géova finora sono stati gli unici a parlare con una certa libertà di questo lemma, e ripetono le ovvie considerazioni di alcuni liberi ricercatori anglosassoni (George Howard, Paul Kahle, Sidney Jellicoa), secondo cui nei frammenti più antichi il nome divino è scritto in aramaico, o in lettere paleoebraiche, poi è traslitterato in lettere greche, infine in tutte le restanti bibbie greche il tetragramma è tradotto con Kýrios (κύριος): quest’ultimo lemma denuncia una ovvia innovazione cristiana.
L’interpretazione etimologica del tetragramma (interpretazione ebraica, s’intende) si basa su Esodo 3, 13-14-15, allorchè Dio manda Mosè dal Faraone a chiedere ed ottenere l’uscita dall’Egitto. «Allora Mosè disse al Signore: “Ecco quando io mi presenterò ai figli di Israele, e annunzierò loro: Il Signore dei padri vostri mi manda a voi, se essi mi chiederanno qual è il nome di Lui che cosa dovrò rispondere?”. E il Signore rispose: “Io sono quello che sono” e aggiunse: “Io sono, mi manda a voi”. Inoltre così disse il Signore a Mosè: “Annunzia ai figli d’Israele che è il Signore dei vostri padri, Dio di Abramo, Isacco, Giacobbe che m’invia a voi. Questo è il mio nome in perpetuo, questo è il mio modo di designarmi attraverso le generazioni”».
Secondo Rav Dario Disegni, «le espressioni di questo verso [14] e del seguente sono oscure forse volutamente. Ne sono state tentate varie spiegazioni, fra le quali è difficile scegliere. In queste parole è, a quanto pare, da vedersi un’allusione al nome divino, che noi non pronunziamo, scritto con le lettere J. H. V. H. che contengono la radice del verbo che significa ‘essere’. L’espressione può significare: l’eternità, l’immutabilità di Dio. Il fatto che Egli è l’Essere, Esistente per se stesso, può voler dire: “Poco importa il mio nome, quello che importa è che Io sono”. Altra spiegazione: L’Essere di cui l’esistenza ha la sua causa in Se Stesso, e non mutua la Sua origine da alcun altro essere».
Henri Serouya (La Cabala 97) scrive che «il pensiero ebraico, portando più avanti la sua forza di astrazione, libera il segno dalla cosa significata, la parola o il nome dall’oggetto denominato; poi accorda al nome, alla parola e persino alla lettera o al numero un valore in sé, in quanto principio essenziale. Così un significato si applica a ogni nome proprio di Dio, usato dalla Scrittura: Elohim è ora Yahvé, ora Shaddai. Il nome di quattro lettere, o Yahvé, sembra avere avuto, dall’epoca talmudica, una parte capitale nel misticismo teorico e soprattutto nel misticismo pratico. Il Talmud (Yoma, IIa) dice che un tempo si sapeva pronunciare questo nome e che allora era permesso al saggio di insegnarlo ai suoi figli e ai suoi discepoli scelti, una volta alla settimana. Questo tetragramma, detto anche “nome distintamente pronunciato” (Mishnah Yoma, VI, pag. 2) e “nome unico, proprio” (Sanh., 56a; Shebuoth, 36a) poteva essere pronunciato solo nel Santuario, dai sacerdoti che recitavano la benedizione sacerdotale (Mishnah Sotà, VII, pag. 6) e dal Gran Sacerdote il giorno del digiuno (Mishnah Yoma, loc. cit.). Secondo un testo di Maimonide “dopo la morte di Simeon il Giusto, i sacerdoti, suoi fratelli, cessarono di benedire con il tetragramma ma benedissero con il nome di dodici lettere”. Questo nome divino, come distaccato da se stesso, tende a costituire un essere in sé. “Prima della creazione del mondo”, dichiara il Talmud, “non vi era che Lui e il suo nome”.
È lampante che l’interpretazione degli Ebrei è una non-interpretazione. Essi, per timore e rispetto alla santità dell’Essere, rinunciano a scandagliare scientificamente il problema dell’etimologia, anzi si rifugiano negli assurdi meandri della cabalistica, e dobbiamo dire che la loro autorevole inazione (o distrazione) ha indotto qualunque altro ricercatore, che fosse laico o ebraico o cristiano, a non immischiarsi nella questione, anzi a rimuoverla.
Se dovessi tentare personalmente una interpretazione etimologica, penso che, con quelle premesse, non riuscirei ad andare lontano. Tenuto conto che gli Ebrei hanno origine sumerica e constatato che la lingua sumerica è la più antica del mondo (tra quelle scritte), mi è forza basarmi sul termine sumerico ia ‘oh’ (una esclamazione, una esortazione), ma dopo questa esclamazione non ho nient’altro da esaminare. Però soccorre meglio l’accadico i ‘let’s, come on, suvvia’ (esortazione simile a quella sumerica), alla quale affianco aḫu che significa ‘fraternizzare’ ma principalmente ‘forza’: in composto abbiamo i-aḫu, y-aḫw, col significato di ‘Oh Forza’, ‘Oh Potenza’ (esclamativo, esortativo). Il termine accadico aḫu significante ‘forza, potenza’ giustificherebbe anche la traduzione fatta dai Settanta mediante Kýrios ‘Potente’. Questo esortazione-epiteto è, se vogliamo, un fatto normale, diciamo pure banale, anche perché da sempre, e fino ai nostri giorni, ci si è rivolti a Dio esclusivamente mediante l’esortazione (leggi ad es. le varie parti della Santa Messa cristiana).
Il fatto che Dio abbia ordinato a Mosè di chiamarlo mediante una esortazione riferita alla Sua potenza infinita, non deve meravigliare, poiché nella Bibbia (e anche nei Vangeli) Dio non ha mai cercato le astrusità e i sotterfugi, tantomeno le simbologie: anzi ha sempre voluto un rapporto chiaro e diretto con l’Uomo. Sono stati gli Ebrei ad avere forzato nella direzione di un distacco totale tra l’Essere divino e la Parola. E questa tradizione giudaico-cristiana è, purtroppo, ancora oggi, inossidabile.
Questa vicenda del vero nome personale di Dio, il quale a tutt’oggi permane non-riferibile, anzi addirittura ignoto (perché ignoto è sempre stato, non dimentichiamolo!), è tuttavia mal posta. Tutti i ricercatori brancolano nella cecità totale (una cecità reale, obiettiva, ma ad un tempo esilarante), e si rammaricano di non poter andare più a fondo in questa ricerca. Esilarante e assurda. Non hanno tenuto conto del fatto che Dio, alla precisa domanda di Mosè, non poteva rispondere altrimenti di come ha risposto, dicendo in sintesi che Lui NON AVEVA NOME e che poteva essere invocato soltanto come ‘il Potente’. È esilarante vedere i nostri ricercatori basiti! Eppure basta poco a capire che DIO NON PUO AVERE UN NOME! E perché mai dovrebbe averlo? Egli è Dio, è YHWH, nient’altro! A questo punto, dichiaro chiusa ogni discussione: il volerla tenere aperta è segno di dabbenaggine e di scarsissimo rispetto per la Maestà di Nostro Signore Onnipotente.
E, a dirla tutta, qua non è in gioco soltanto la dabbenaggine e lo scarso rispetto dei ricercatori. Ci aggiungerei, a loro disdoro, anche una dose d’ignoranza. Dobbiamo ammettere che abbiamo spesso proiettato gli studi biblici su uno schermo metastorico, anche perché ne siamo stati forzati dall’esegesi rabbinica, mentre al contrario ogni passo della Bibbia necessita di essere rigorosamente contestualizzato in una precisa fase della storia. Per quanto riguarda le vicende di Mosè e dell’Esodo, non possiamo capirle se non inquadrandole nella temperie culturale dei tempi in cui gli Ebrei vivevano in Egitto. E allora va chiarito che presso gli Egizi il nome personale era sottoposto a un rigorosissimo tabù, non poteva essere mai pronunciato.
L’uomo ha sempre parlato poco, e nel passato – fino a secoli recenti – la parola pronunciata era considerata sacra. Ogni parola pesava come un sasso. Ogni parola un impegno. La parola fu sempre sacra. Nessuno poteva pronunciarla invano, nessuno poteva tradirla. L’origine sacrale del linguaggio impedì per millenni di operare una netta distinzione tra le parole e le cose. L’uomo di Sumer, di Babilonia, del Nilo, della Sardegna precristiana, per quanto acculturato, non si liberò mai dal pensare concreto. Le prime idee astratte furono prerogativa degli antichi Greci, ed il loro apparire, checché se ne pensi, non fu meno rivoluzionario dell’invenzione della ruota.
Possiamo affermare che la storia fu sempre fatta, almeno fino alla Nuova Era, dall’Homo concretus, il quale ha sempre pensato che tra il nome personale e la persona fisica esistesse un legame sostanziale e vincolante, sul quale si poteva agire magicamente. In Egitto si ricordava il mito di Iside, la quale divenne la Dea Madre dell’Universo soltanto dopo aver conosciuto, mediante le sue arti magiche, il vero nome di Ra (del Sole), spodestandolo. L’uomo vide nel proprio nome una parte vitale di sé, e di conseguenza se ne prese cura, ad evitare che gli togliessero la vita. Questo legame vitale fu sentito un po’ da tutti i popoli. Fino ai tempi di Frazer (100 anni fa) tutti questi popoli tennero accuratamente nascosto ogni nome personale.
Presso gli antichi Egizi ogni persona aveva «due nomi, il nome vero e il nome buono o il nome grande e quello piccolo; e mentre il nome buono, o piccolo, era di pubblico dominio, quello vero, o grande, sembra fosse tenuto accuratamente nascosto» (Frazer). Infatti per gli Egizi «il nome era una seconda creazione dell’individuo, innanzitutto al momento della nascita, quando dalla madre viene imposto al neonato un appellativo che ne esprime sia la natura, sia il destino che ella gli augura, ma anche ogni volta che viene pronunciato. Questa fede nella virtù creatrice del Verbo determina tutto il comportamento degli Egiziani rispetto alla morte: infatti, nominare una persona o una cosa equivale a farla esistere al di là della scomparsa fisica, e quindi diventa necessario moltiplicare i segni di riconoscimento. È questo il motivo per cui la cappella funeraria, e in generale il luogo ove si praticava il culto del defunto, racchiudono una somma di indicazioni la più precisa possibile, in modo che il ka possa godere senza problemi di quanto gli è dovuto» (Grimal, SAE 139).
Questa temperie culturale degli Egizi aveva contagiato gli Ebrei; quindi appare assurda la pretesa di Mosè di conoscere il vero nome di Dio. Salvo il fatto che, come ho già detto, Dio non ha nome, non può averlo. E perché mai dovrebbe averlo? A cosa Gli servirebbe? L’uomo, senza accorgersene, continua a trattare Dio come una persona o come una cosa, dimenticando che Dio non è uomo, né cosa, e non può essere nemmeno puro pensiero, come invece ci si ostina a blaterare nella incommensurabile insufficienza del nostro linguaggio. Egli È. Nient’altro. Qualunque altra asserzione è una bestemmia.
Quindi all’uomo basta e avanza l’opportunità d’invocare Dio come YHWH o (che è lo stesso) come Kýrios, il ‘Potente’. Se poi gli Ebrei sono talmente imbalsamati dalla paura di chiamare direttamente Dio, qualcuno dovrebbe aiutarli a capire che gli epiteti da loro inventati per by-passare il tabù hanno esattamente la stessa semantica della parola tabuizzata, sono infatti la tautologia di YHWH.
Il fatto che i Sardi non abbiano mai patito il tabù degli Ebrei, la dice lunga sul fatto che il nome universale di YHWH dai Sardi è stato trattato con maggiore libertà, visto che in Sardegna quel nome sacro esiste un po’ dovunque. Certo, non esiste al modo come vorremmo, anche perché in Sardegna manca la tradizione scritta d’epoca precristiana (salva qualche frase fenicia). E tocca a noi oggi “sgusciare” e “raddrizzare” filologicamente certi nomi, certi epiteti, certi toponimi, allo scopo di capire la situazione di quei tempi e allo stesso tempo capire gli artifici che i preti bizantini inventarono, nella foga di ottundere e sopprimere ogni forma di dottrina che i Sardi avevano sulla religione dei padri.
Per ricuperare la storia antica della Sardegna, basta partire dal fatto che i preti bizantini fecero tabula rasa della pregressa religione, ma lo fecero con delle costanti che, una volta svelate, appalesano nitidamente le modalità con cui procedevano nel soffocare le parole-emblemi-simboli della religiosità del popolo. Il loro procedere era talmente capzioso che nessuno mai intuì l’inganno. Si trattava, per lo più, di approfittare del fatto che essi parlavano greco ed avevano quindi una lingua assai diversa da quella del popolo sardo, che parlava ancora lo “zoccolo duro” semitico. La differenza di toni, di accenti, di fonetiche, talora di concettualizzazioni da parte di quei preti che si sforzavano comunque di parlare sardo, suscitava nel popolo un irrefrenabile moto di simpatia e di disponibilità al dialogo. Quindi il popolo analfabeta accettava facilmente le “dotte” prediche con le quali i preti spiegavano che YHWH (letto i-aḫu) era lo stesso San Jacopo o Giacomo, che essi si premurarono da quell’istante di chiamare (guai a sbagliarsi!) con la fonetica sarda: Yaḫu, Yaku, Yaccu, Jagu. Fu tale la convinzione del popolo, che oggi ci ritroviamo una serie di località chiamate Santu Jaccu, Santu Jacci, e ritroviamo pure il cognome Giágu.
Ma è ovvio che Iaccu, Giágu non c’entra nulla con san Giacomo apostolo. Iaccu, Giágu è nome di origine mediterranea. Non è il vezzeggiativo di Jacomo, come pensano De Felice e Pittau, ma si confronta linearmente con l’ebr. YHWH o YḤWH (leggi i-aḫu), con successiva variante patronimica latineggiante in -i: Jaci. Quindi anche i toponimi sardi noti come Jaci o Santu Jaci rimandano sempre al tetragramma ebraico (e sardo-mediterraneo). Esattamente come il cognome Giágu.
Prima di chiudere la discussione sul tema, va sottolineato che la grande paura degli Ebrei di pronunciare il nome di Dio è – tutto sommato – oltreché paradossale, relativamente recente: data dal 539 a.e.v., quasi 2500 anni, ed è possibile “storicizzarla”, decorrendo dal momento del ritorno babilonese e del rigorismo che ne conseguì. Ai tempi del Primo Tempio gli Ebrei invece praticavano una religione più ariosa e con meno tabù; ciò è dimostrato da una serie di nomi personali (e cognomi attuali, quale Netan-iahu) che sono nitidamente teoforici, ossia recano incastonato il nome di Dio, sia El o Yaḥwh. Vediamone qualcuno, partendo ovviamente dalla celebre esortazione ebraica (poi diventata anche cristiana) Allelùja, ebr. Hallelûyāh (הַלְּלוּ-יָהּ), che significa ‘preghiamo, lodiamo Dio’. Un altro termine ebraico che fa riflettere è Ahellil, designante i Salmi comincianti con l’invocazione Hallelûyāh.
Cito anzitutto il teoforico di un profeta ebreo, Gioèle ( יואל ), che racchiude il più antico nome di Dio, ossia El, abbinato a quello di Yhwh; significò ‘Yah[wh] è El’ ossia ‘Iaccu è proprio Dio!, è Dio medesimo!’. Esso è un arcaico nome nato ai tempi in cui si cominciava a identificare il nome del Dio siro-mesopotamico (El) col nome del Dio del deserto (Yḥwh).
Il teoforico Giovanni è dall’ebr. Yeho-chānān, composto da Yeho + Chānān col significato di ‘Dio di Canaan’. Cfr. l’anglosassone John, una contrazione portata all’eccesso ma nella quale ancora s’intravedono i due radicali Jo (dalle tre apofonie Yah, Yeh, Yoh: vedi la contrazione יו in Gio-ele) + Hn (Chānān). A sua volta Canaan < ebr. כְּנַעַן ha la base etimologica nell’antico akk. qanānu ‘fare il nido, insediarsi’, qannu ‘il costruito’, qanu, qanā’u ‘tenere il possesso di’, ‘acquisire’; ma anche kânu ‘divenire permanente, stabile’ (di casa, territorio).
Va precisato che il nome del Dio del deserto, Yaḥ, Yḥ o Yhwh, in origine non fu altro che lo stesso nome del Dio Luna (sul quale torneremo ampiamente al Capitolo 7). Non fu un caso se il monte sacro del deserto frequentato dagli Habiru (i futuri Ebrei) fu chiamato Sināi, in onore del Dio lunare Sîn, un altro nome concorrente di Yaḥ. Il dio Luna Yah era conosciuto con lo stesso nome dall’Egitto a Babilonia. Da esso deriva il nome del patriarca Giacobbe, Yah’cobb, ‘Protetto dal Dio Luna’. Dopo la cacciata degli Hyksos dall’Egitto, il culto di Yaw continuò nella città di Ugarit sotto forma di demone del mare Yamm, ma decadde in Siria sostituito dal culto del dio della pioggia Baal Hadad. Mentre tra i nomadi Šasu Edomiti del Sinai continuò nella sua forma originaria Yhw: dio delle tempeste.
Un altro nome teoforico che propongo è Elìa, così noto dalla tradizione latina (Elias) e greca (Eleias, Elias) dall’ebr. Eliyyahu o Eliyyah: essendo lo stesso composto di Gioèle, ha ovviamente lo stesso significato: ‘El è Yahwh’, ‘El è proprio Dio’.
Altro nome teoforico è Zaccarìa, da ebr. Zekharyah (da zachar ‘ricordarsi’ e Yah ‘Dio’ = ‘Dio si è ricordato’).
Il teoforico Gioacchìno, ebr. Yohaqim è da Yah + qum ‘sollevare’ = ‘innalzato da Dio’).
Il teoforico Michèa, ebr. Mihan abbreviato da Mi-kha-yâh significa ‘chi è come Dio?’.
L’ebr. Ezeriel עַזְרִיאֵל è composto da ezer ‘aiuto’ + El ‘Dio’ col significato di ‘Dio aiuta’.
L’ebr. Matteo, Mattìa, Mattityahu מַתִּתְיָהוּ è composto da matath ‘dono’ + Yah ‘Dio’, col significato di ‘Dono di Dio’.


IACCU HIRVU. Dolores Turchi (Maschere, miti e feste della Sardegna 89-90) tratta delle figura di Iácco, Ἴακχος, nome solenne di Bacco (Dióniso) nei Misteri Eleusini, il quale deriva dal grido rituale in onore del Dio: Iacco! Nei Misteri Eleusini Iacco era considerato figlio di Zeus e di Demetra ovvero sposo di Demetra e veniva distinto dal Dioniso tebano, figlio di Zeus e Sémele.
L’etimologia di questo nome è stata discussa più su al lemma Iacco (vedi); esso sembra, almeno con riguardo alle epoche arcaiche ed ai luoghi dove il mito siro-fenicio nacque, un’esortazione, un richiamo solenne che capta l’attenzione dei fedeli nei momenti solenni, e pure al momento della distribuzione del ciceòne.
Qui riprendo la questione poichè la Turchi crede di scorgere il nome di questo personaggio mitico in parecchi toponimi della Sardegna, generalmente accompagnato da un epiteto: Iaccu Piu, Iaccu Ruiu, Iaccu Hirvu. È difficile darle torto. In tal senso, dobbiamo ammettere che il personaggio Iaccu era conosciuto in Sardegna a prescindere dai Misteri Eleusini, quindi in termini collaterali al mondo greco, pertanto in modo autonomo, nella misura in cui possa dirsi autonoma una cultura che ha legami solidi col Vicino Oriente, e s’irraggiò da là per approdare anche nel mondo egeo-greco (non viceversa).
Iaccu Hirvu è toponimo dell’agro di Orgòsolo. Per quanto riguarda Iaccu, esso disvela il nome del Dio Unico Universale, quello che per gli Ebrei era YHWH (leggi i-aḫu), da tradurre ‘Oh Potente!’.
Circa Hirvu, la sua traduzione sembra avere la base nel sum. ir ‘potenza’ + bu ‘perfetta’. Quindi Iaccu Hirvu sembra un epiteto sacro riferito al Dio Unico Universale, col significato di ‘Yahwh dalla perfetta potenza’.


IÁCCU PÍU Dolores Turchi (Maschere, miti e feste della Sarddegna 89-90) tratta delle figura di Iacco, Ἴακχος, nome solenne di Bacco (Dioniso) nei Misteri Eleusini, il quale deriva dal grido rituale in onore del Dio: Iacco! Nei Misteri Eleusini Iacco era considerato figlio di Zeus e di Demetra ovvero sposo di Demetra e veniva distinto dal Dioniso tebano, figlio di Zeus e Sémele.
L’etimo di questo nome è stato trattato a suo luogo (vedi Iacco); esso sembrerebbe, almeno con riguardo alle epoche arcaiche ed ai luoghi dove il mito siro-fenicio nacque, un’esortazione, un richiamo solenne che capta l’attenzione dei fedeli nei momenti solenni, e pure al momento della distribuzione del ciceòne.
Qui riprendo la questione poichè la Turchi crede di scorgere il nome di questo personaggio mitico in parecchi toponimi della Sardegna, generalmente accompagnato da un epiteto: Iaccu Píu, Iaccu Rùiu, Iaccu Hirvu. È difficile darle torto. In tal senso, dobbiamo ammettere che il personaggio Iaccu era conosciuto in Sardegna a prescindere dai Misteri Eleusini, quindi in termini collaterali al mondo greco, pertanto in modo autonomo, nella misura in cui possa dirsi autonoma una cultura che ha legami solidi col Vicino Oriente, e s’irraggiò da là per approdare anche nel mondo greco (non viceversa).
Per quanto riguarda Iaccu, esso disvela il nome del Dio Unico Universale, quello che per gli Ebrei era YHWH (leggi i-aḫu), da tradurre ‘Oh Potente!’. Píu ha la base nell’akk. pedû, pādû ‘indulgente’. L’epiteto (o invocazione) è da tradurre come ‘Yahwh indulgente’.
Sembra incredibile quanto la religione precristiana si avvicini ai sentimenti e ai concetti di quella cristiana.


IÁCCU PUDZÒNE è un toponimo dell’agro di Orotelli. Dolores Turchi (Maschere, miti e feste della Sardegna 89-90) non lo traduce come un normale nome + cognome (‘Giacomo Uccello’), il quale peraltro è molto usato in Sardegna. Considerato che pudzòne (camp. pillòni) in sardo indica pure il membro virile dell’uomo, la Turchi vede nel toponimo una cristallizzazione di una vicenda sacra riferita a Dioniso (chiamato Íacco nei Misteri Eleusini), cui s’addice anche il sacro membro nella sua funzione rigeneratrice.
Può darsi che la Turchi abbia ragione, e se ce l’ha, occorre inquadrare la questione nell’ambito dei Misteri siro-fenici di Adone, non di quelli greci, poichè la Sardegna non ha mai ricevuto influssi culturali greci. In tal guisa, possiamo recuperare anche gli altri toponimi Iaccu Hirvu, Iaccu Piu e Iaccu Ruiu, già discussi secondo questa visione.
Di pudzòne, camp. pillòni ‘uccello’, ‘volatile’ può cogliersi l’etimo soltanto se, mettendoci dal punto di vista degli antichi Sardi, consideriamo gli uccelli per quello che un tempo erano: un genere di animali particolarmente nocivi alle colture, che potevano essere tenuti a freno soltanto ingannandoli e catturandoli con le reti. Non è un caso se in Sardegna la caccia con le reti dura ancora inossidabile, sin dall’Era paleolitica. E dura pure la caccia coi laccetti. In altre parti si usano pure gli specchietti (es. per catturare le allodole).
Ci sono due termini accadici che concorrono a pari titolo a fornire il giusto etimo. Alla base sta comunque un composto sardiano, che trova espressione nell’akk. pīgu ‘inganno’ + unû (un tipo di carne) (stato costrutto pīgu-unû); e c’è pīdu ‘cattura, imprigionamento’ + unû (stato costrutto pīdu-unû); i due composti si traducono come ‘carne da inganno’ e ‘carne da cattura, ossia da rete’. Col tempo è subentrato il lat. pullus a complicare la resa fono-semantica, con un intreccio tra pīgu, pīdu e pullus + unû; onde camp. pill-òni, log. pidzòne, pudzòne. Onde il log. puḍḍu ‘gallo’ < lat. pullus (che però è un ‘piccolo dell’animale’, non solo il ‘pulcino’ o il ‘pollastro’, vedi akk. pūdu, būdu ‘pecora’, e vedi sardo puḍḍécu, pudréḍḍu < *puḍḍaréllu); la cavalla ancora vergine è sa puḍḍeca, e tanti animali molto giovani hanno lo stesso appellativo puḍḍécu, pudréḍḍu, ivi compresa una donna adolescente vocata al godimento e al divertimento (puḍḍeca).
Questo campo fono-semantico è alquanto inflattivo, a ben vedere, considerata pure la presenza dell’it. pigliare, con base nell’akk. pillatu ‘beni rubati, beni ottenuti col furto’ (a proposito di pigliare, le strampalate ipotesi etimologiche del DELI sono da dimenticare).
Pillòni, con la variante log. Pudzòne, Puggiòni, è anche cognome.
Trattata l’etimologia di pudzòne in quanto ‘uccello’, torniamo a Iaccu Pudzòne per proporre un etimo che però con gli uccelli non ha niente da spartire. Se crediamo che il toponimo possa celare un arcaico epiteto di Dio, allora occorre vedere in Iaccu il nome del Dio Unico Universale, quello che per gli Ebrei era YHWH (leggi i-aḫu), da tradurre ‘Oh Potente!’. In Pudzòne abbiamo un epiteto sacro dal sum. pu ‘giardino’ + zu ‘to know’ + ne ‘forza’: puzune poderoso giardino di conoscenza; Quindi Iaccu Pudzòne significò ‘Oh Potente, Forte Giardino della conoscenza’.


IACCÙRU è un toponimo di Arìtzo che Dolores Turchi (Maschere, miti e feste della Sardegna 89-90) smembra in Iáccu Curu, interpretando il secondo membro come il gr. koúros, il fanciullo divino che rappresenta Bacco-Dióniso. Ella pone prepotentemente in primo piano, nelle manifestazioni carnascialesche sarde, la triade Demetra-Persefone-Dioniso, che poi è la stessa triade dei Misteri Eleusini.
La Dea Madre Mediterranea è nota in Grecia come Demétra, Δη-μήτηρ, che ebbe la figlia amatissima rapita dal Dio degli Inferi: questa è la celebre Perséfone, nota anche come trimorfa, in sembianze ora di figlia (Kóre), ora di sposa (Perséfone, compagna di ‛ Ἄιδης o Πλούτων), ora in veste di matura dea lunare (la ferale Ecáte). In realtà è quest’ultima ad essere sicuramente trimorfa o tricipite, dotata di tre corpi e tre teste, essendo stata a un tempo Seléne (Luna) in Cielo, Artémide in Terra, Perséfone nel Mondo infero. Ecate ebbe un ruolo di primo piano nella ricerca di Perséfone, e quando questa fu trovata, rimase al suo fianco come assistente e amica. Divenne così una divinità del mondo infero, della quale si celebrava la terribile e grandiosa potenza. Si diceva che di notte mandasse sulla terra ogni sorta di demoni e di esseri fantasmatici, che conoscesse le arti della stregoneria e che dimorasse di preferenza presso gli incroci viari o in prossimità del sangue delle persone uccise. Si riteneva altresì che si spostasse e vagabondasse con le anime dei morti. Ad Atene, alla fine di ogni mese, vigeva l’uso di lasciare ai quadrivi dei piatti con del cibo appositamente per lei; il cibo veniva poi consumato dai poveri (Anna Ferrari).
L’etimo di Perséfone, Περσε-φóνη, non è stato bene indagato. Lo si collega con la ‘perdizione, devastazione’ (πέρθω, ‘devasto, desolo’) e con la ‘uccisione’ (φονή, ‘uccisione, strage’) senza ragione. In realtà la sua base è l’akk. persu(m) ‘divisione’, ‘cessazione’ + būnu ‘figlio’, col significato sintetico di ‘figlia separata’, ed è il nome che a questa déa viene dato nei mesi in cui lascia la madre per scendere all’Inferno.
L’etimo di Ecáte, Ἔκάτης, ha la base nell’akk. ēqu (un sepolcro) + atû(m) ‘custode della porta’, col significato sintetico di ‘custode dei sepolcri’, ‘amante degli ingressi dei sepolcri’ (evidentemente si tratta di sepolcri “a corridoio”).
Kóre, Κόρη è un nome greco; il comune kόρη indica una ‘fanciulla, donzella, figlia’ collegata al masch. κόρος ‘bambino, fanciullo, figlio’; il corrispettivo verbale si dice rappresentato, nel campo indoeuropeo, dal lat. creo, cresco, e non è vero. Comunque la fase più antica del termine è l’akk. ḫūru ‘son’, sum. ḫurum ‘bimbo’.
Come si può notare, anche questo arcaico mito greco, e le stesse cerimonie misteriche ad esso legate, sono preindoeuropei, orientali. La lingua sumero-accadica consente di affermare, scientificamente, che tali miti riguardarono tutto il Mediterraneo ed il Vicino Oriente, non solo la Grecia preindoeuropea. Questa considerazione aiuta a sistemare meglio le credenze della Turchi, che nella sostanza non vengono inficiate ma soltanto ricollocate in ambito semitico, come peraltro è giusto fare parlando dell’isola di Sardegna, la quale, a detta degli storici e degli archeologi, non subì mai alcun influsso elladico ma visse una temperie culturale inquadrabile nell’ottica degli scambi col Vicino Oriente.
Fatta questa ampia disamina, sembra ovvio che Iaccùru non sia scomponibile, come propone la Turchi, in Iáccu Curu, ma sia invece un composto sardiano con base nell’ebr. YHWH (leggi i-aḫu), da tradurre ‘Oh Potente!’ (un composto di i ‘let’s, come on, suvvia’, esortazione simile a quella sumerica, alla quale affianco aḫu che significa ‘fraternizzare’ ma principalmente ‘forza’: in composto abbiamo i-aḫu, y-aḫw, col significato di ‘Oh Forza’, ‘Oh Potenza’ (esclamativo, esortativo). Il termine accadico aḫu significante ‘forza, potenza’ giustifica anche la traduzione fatta dai Settanta mediante Kýrios ‘Potente’. All’invocazione YHWH, i-aḫu si abbina il sum. ur ‘ungere, unzione’. Il significato di i-aḫ-ur è ‘O Forza degli Unti’, ‘O Forza dei Messia’ .
Anche questo risultato, come tanti altri dell’antica religione dei Sardi, fa capire che niente fu innovato sulla faccia della Terra, poiché la consacrazione dei fedeli attraverso la “cresima” avveniva già in epoca precristiana. Ma qui per unto s’intende il gr. Christós ‘Messia’.


IÁCCU RÙJU. Dolores Turchi (Maschere, miti e feste della Sardegna 89-90) scrive: «Ad Olièna si afferma che quando sta per piovere Iaccu Ruiu dà il segnale, perchè a mezza montagna si forma uno strato di nuvole... Resiste il detto Iaccu Ruiu annuau, abba sicura ‘Iacco Rosso annuvolato, acqua sicura’». La Turchi è convinta che questo personaggio fantastico sia lo stesso che dà il proprio nome a una vallicola sull’alto monte di Olièna. Poichè ella crede che in Sardegna nel passato ci siano stati molti e nitidi episodi legati ai Misteri Eleusini, di cui fa parte Íacco (nome solenne di Bacco-Dioniso nei Misteri di Eleusi), ella ritiene che questo personaggio sardo sia proprio Dioniso.
A mio parere, la valletta di Iaccu Ruju (tradotto in italiano sarebbe Giacomo Rossi) indica, fino a prova contraria, soltanto il nome-cognome di un pastore del passato, che soggiornò lungamente nell’area utilizzando il pascolo comunale.
Quanto all’incrollabile certezza della Turchi sulla presenza in Sardegna dei Misteri Eleusini e di tutti i personaggi divini che ne sono l’oggetto di culto, la risposta è data dagli storici e dagli archeologi, i quali ritengono che in Sardegna sia mancato ogni genere di influsso greco, escluso ovviamente quello dei Bizantini, i quali però erano cristiani, e vennero in Sardegna con lo scopo dichiarato di sradicare ogni pratica pagana (compito peraltro cui si applicarono egregiamente).
Essendo impensabile che i culti di Eléusi siano stati importati dai Romani, e tantomeno dai Bizantini, occorre cercare in altra direzione l’etimologia di Jaccu Rùju in quanto essere fantastico. Per essere coerenti con quanto sappiamo delle civiltà che ebbero una presa diretta in Sardegna prima dell’invasione romana, credo occorra cercare nei vocabolari del Vicino Oriente l’origine o la base fono-semantica di questo nome fantastico. E allora possiamo dare a Iaccu la sua propria etimologia (vedi a Iaccu), e indicarlo propriamente come ‘Dio’, con base nell’ebr. YHWH (leggi i-aḫu), da tradurre ‘Oh Potente!’ (composto di i ‘let’s, come on, suvvia’, esortazione simile a quella sumerica, alla quale affianco aḫu che significa ‘fraternizzare’ ma principalmente ‘forza’: in composto abbiamo i-aḫu, y-aḫw, col significato di ‘Oh Forza’, ‘Oh Potenza’ (esclamativo, esortativo). A i-aḫu sommiamo l’akk. ruḫû(m) ‘sorcery’, col significato sintetico di ‘Dio magico’ o ‘Dio delle magie’.
In tal guisa, Jaccu Rùju sembra che dagli antichi Olianesi fosse immaginato come Dio degli incantesimi. Non sembri blasfemo (peraltro la bestemmia fu creata dai preti Bizantini!) se ora vediamo in Jaccu Ruju lo stesso diavolo altrimenti noto come Cusidòre ossia ‘ciabattino’; costui è un démone innocuo, o poco nocivo, appartenente anch’esso alla cultura di Oliéna, che il popolo immagina abbia dato il nome al Monte Cusidòre, una delle vette su cui notoriamente s’accumulano i temporali, prima che la sottostante Oliéna ne riceva gli effetti. Si dice infatti che Cusidore, assiso sulle vette, borbotti spesso (tuonando, da par suo), esprimendo così il proprio disappunto per essere costretto a ripararsi le scarpe logorate costantemente sulle rocce asperrime della montagna.
In tal guisa veniamo a sapere che Jaccu Rùju e Cusidòre sono due facce della stessa medaglia, l’una pre-cristiana, la seconda cristiana.


IÁCI cognome italiano di origine mediterranea. Non è il vezzeggiativo di Jacomo, come pensano De Felice e Pittau, ma ha la base nell’ebr. YHWH (leggi i-aḫu), con successivo suffisso patronimico latineggiante in -i. Anche in Sardegna abbiamo termini del genere, oltre al cognome Giágu (vedi per la discussione approfondita), che indica lo stesso fenomeno.