sabato 31 ottobre 2015

Gliel'abbiamo dato noi, l'Aulin...


 
La festa di tutti i Santi, il 1 novembre si diffuse nell'Europa latina nei secoli VIII-IX. Si iniziò a celebrare la festa di tutti i santi anche a Roma, fin dal sec. IX.
Un'unica festa per tutti i Santi, ossia per la Chiesa gloriosa, intimamente unita alla Chiesa ancora pellegrinante e sofferente. Oggi è una festa di speranza: “l'assemblea festosa dei nostri fratelli” rappresenta la parte eletta e sicuramente riuscita del popolo di Dio; ci richiama al nostro fine e alla nostra vocazione vera: la santità, cui tutti siamo chiamati non attraverso opere straordinarie, ma con il compimento fedele della grazia del battesimo.

In Italia
è una festa religiosa, popolarmente: Ognissanti.
Probabilmente essa trae le sue origini culturali dalla devozione dei Latini per i Lari ed i Penati e dalle cerimonie relative a quei culti.
La festa di Tutti i Santi, pur essendo relativa ai defunti, per la Religione Cattolica è una giornata di gioia, di spe­ranza, di fede. Una delle giornate più intelligenti, più raf­finate che la liturgia ci propone; è la festa di tutta l'umanità, del­l'umanità che ha sperato, che ha sofferto, che ha cercato la giusti­zia, dell'umanità che sembrava perdente e invece è vittoriosa. E' la festa di Tutti i Santi, non solo di quelli segnati sul calen­dario e che veneriamo sugli alta­ri, ma anche di quelli che sono passati sulla terra in punta di pie­di, senza che nessuno si accor­gesse di loro, ma che nel silenzio del loro cuore hanno dato una bella testimonianza di amore a Dio e ai fratelli, forse parenti no­stri, amici, forse nostro padre, nostra madre, umili creature, che ci hanno fatto del bene senza che noi neppure ci accorgessimo. Nella festa di Tutti i Santi, la Chiesa ci dice che i santi sono uomini e donne comuni, una mol­titudine composta di discepoli di ogni tempo che hanno cercato di ascoltare il Vangelo e di metter­lo in pratica. Sono questi i santi che salva­no la terra. C'è sempre bisogno di loro. È in virtù dei santi che so­no sulla terra, che noi continuia­mo a vivere, che la terra continua a non essere distrutta, nonostan­te il tanto male che c'è nel mon­do. Ed è in virtù dei santi di ieri, dei santi che sono già salvati e che intercedono per noi: « una molti­tudine immensa che nessuno può contare, di ogni nazione, popolo e lingua ». 
Nella festa di Tutti i Santi, noi celebriamo la gioia di essere an­che noi eventualmente chiamati alla santità, per­ché ci è stato detto che abbiamo un cuore che batte come figli di Dio.

In Inghilterra ed in Nord America
All Hallows Eve... Halloween.
Nei paesi anglosassoni in questa data, la cultura celtica individuava il passaggio dalla stagione calda a quella fredda, ma anche un'occasione di riposo e ringraziamento degli dei dopo che le scorte e provviste per l'inverno erano state completate.
L'evangelizzazione delle isole britanniche portò alla cristianizzazione di questa ricorrenza che, tuttavia, non perse del tutto alcune delle sue caratteristiche originali conservando alcune influenze pagane. Ed oggi ha anzi acquisito una potente componente commerciale e coreografica, che conserva ormai ben poco della spiritualità sia cattolica, sia pagana.

Oggi festeggiamo qualche cosa che non sappiamo pronunciare, che non sappiamo che cos'è, né da che cosa derivi, e che non ci induce alcun pensiero più profondo di un "dolcetto o scherzetto" /"Trick or Treat"...
Buon Aulin a tutti, allora!

Via Salaria



la Via Salaria.


Si tratta di una strada romana, costruita durante la Repubblica ed utilizzata poi dall’Impero (come anche ancora oggi): essa è la più breve via di comunicazione tra Roma e l’Adriatico, in un sistema viario costituito di tre strade, le altre due essendo La Flaminia e la Tiburtina Valeria (vedi figura). La sua lunghezza è inferiore ai 200 chilometri.



Il sistema viario romano antico prevedeva tre strade che raggiungevano il Mare Adriatico da Roma: in rosso  è rappresentata la via Salaria, in violetto la via Tiberina Valeria ed in blu la via Flaminia.


Il Tracciato.

Dalle Mura Aureliane di Roma l’arteria usciva attraverso la Porta Salaria, costeggiava l’odierna Villa Ada e si dirigeva verso il baluardo di Forte Antenne (antica Antemnae) entrando nella Sabina. Attraversava il fiume Aniene con il Ponte Salario, e giungeva presso i colli di Fidene (Fidente), prodeguiva verso Settebagni (Septem Balnea), affrontava la collina  della Marcigliana Vecchia, superava Eretum (Monterotondo) ed il passo sul torrente Corese (Passo Corese). Presso Trebula Mutuesca (Monteleone Sabino) la strada si divideva. Un ramo (Via Cecilia) si dirigeva verso Oriente e scavalcava l’Appennino attraverso la Sella di Corno, la Piana di Amiternum, il Passo delle Capannelle e proseguiva verso il paese dei Pretutii (la provincia di Teramo) e poi fino al mare nei pressi di Giulianova.
Il ramo principale della via Salaria proseguiva in direzione nord, seguendo le pendici del monte Terminillo, il cui superamento spinse gli ingegneri di Augusto, Vespasiano e Traiano a trovare soluzioni per l’epoca molto avanzate. La strada infatti raggiunge un livello di 1000 metri (valico di Tornita), dopo di che inizia la discesa verso la conca amatriciana, attraversa la valle del Tronto, raggiunge Ascoli Piceno (Asculum) e tocca il mare Adriatico in corrispondenza di Castrum Truentinum, presso la riva destra della foce del fiume.

Comunemente si ripete che la Via Salaria traesse il suo nome dal sostantivo “sale” e che servisse, ovviamente, per portare il sale (genere utilissimo in molti modi) dalle Saline di Ostia alla città di Roma ed alle altre città e località che essa attraversa.
A questa ipotesi si oppongono alcuni fatti precisi:

1) Le saline di Ostia non sono mai state trovate: si presume soltanto che esistessero, e si traggono deduzioni da questa ipotesi. 
2) L'abbondante flusso d'acqua dolce del Tevere rende difficile l'uso dell'acqua delle vicinanze ("ostia" significa "foce") per l'estrazione del sale (data la bassa concentrazione). I Romani (e chi prima di loro: probabilmente gli Etruschi) avrebbero dovuto fare ricorso a laboriosi artifizi, per ottenere un buon sale.
3) Oltre il crinale Appenninico non avrebbe avuto alcun senso costruire la strada, dato che tutte le località avevano un mare molto più prossimo.
4) Non si è trovata una vera continuità tra la Via Ostiense e la Via Salaria: non sembrano essere frutto di un disegno unitario.

Queste considerazioni hanno spinto alcuni ad ipotizzare che il percorso del sale avvenisse eventualmente in tutt’altra direzione e che il nome stesso della strada derivasse da uno dei numerosi significati delle parole “sal”, "sale", "salis", in questo caso inteso però nel senso di “mare”: una strada che univa due mari per il percorso più breve...
Antonello Ferrero ha scritto al riguardo.



Salaria,via del sale…macchè !
Pubblicato da : Antonello Ferrero

October 16, 2013

in:
            Archeologia
            Cultura

Inizierò questa breve disamina con il citare il linguista e storico pugliese Mario Cosmai (1926-2002) il quale derivava la parola Salento dal latino antico sal-salis= mare, ovvero “terra in mezzo al mare” (due mari: Tirreno e Jonio) (1). E nel  celebre Dizionario etimologico di tutti i vocaboli ….che traggono origine dal greco (2) le parole : als-alos (da cui deriveranno le latine) hanno lo stesso primiero significato: mare. E tale accezione va oltre i tempi antichi e trasla nell’inizio dell’uso della lingua italiana, nel ‘300 Dante nella Divina Commedia nel  III ° Canto-13-14 : “metter ben potete per l’alto sal vostro naviglio”. E successivamente anche il poeta  Antonio Cammelli (1436-1502) detto il Pistoia, nelle Lettere: ”andorno nel sal, con l’altrui nave”.
Quindi il toponimo: salara-ia, non va inteso come “strada portatrice di sale”, come comunemente addotto, ma come “strada che unisce e collega due mari” (salis). Sarebbe però capziosità semantica suscettibile di analisi e discussioni, limitarsi alle etimologie che cambiano linguisticamente nei tempi, nei modi e a seconda di chi le usa. E quindi esporrò alcune linee storiche e delle considerazioni tecnico-merceologiche inerenti non solo il mondo antico.
La via Salaria: strada che unisce due mari
La via: la Salaria dice il Nibby (3) citando Strabone (4): ”E’ stata costrutta a traverso loro (ai Sabini) la via Salaria, che non è lunga, nella quale si confonde la via Nomentana presso Ereto castello della Sabina posto sopra il Tevere, la quale comincia dalla stessa  porta Collina”. Poi Festo (5) che ne da – unico – anche l’etimologia, che da allora verrà applicata pedissequamente alla strada: “Salariam viam incipere ait a porta quae nunc Collina a Colle Quirinale dicitur; Salaria autem propterea appellabatur, quod impetratum fuerit u tea liceret a mari in Sabinos salem portari”.Livio (6) con la notizia che i Galli si accamparono in essa :” Galli ad tertium lapidem Salaria via trans pontem Anienis castra habuere” nel 390 anno di Roma, ci dice che fu la più antica, precedendo l’Appia che viene considerata la prima vera strada di Roma costruita da Appio Claudio Censore il Cieco nel  442. La strada  che partiva da Porta Salaria a Roma arrivava ad Hadria (Atri) dopo un percorso di 150 miglia romane, e cioè circa 232 chilometri. E va anche detto come la via e le variazioni di essa erano certamente di origine pre-romana e che essi romani ebbero il merito di renderla unita ed omogenea; come si evince dal poderoso e fondamentale studio del Persichetti sulla strada, dei primi del ‘900, (7) ove motivando aggiunge, come “i sabini prendessero il sale dalle spiagge adriatiche anziché tirreniche”.
Cosa dunque oppongo all’antica dizione di Festo, che la descrive come “strada del sale”? La prima semplice considerazione è, che par strano che una strada adibita al trasporto del sale come compito precipuo nell’esser costruita, non partisse dalle saline di Ostia (dalla costa) ma a 14 miglia (20,7 chilometri) di distanza, internamente nella città, con un percorso davvero singolare ed inconsulto, anche perché non v’è collegamento, ne distanza ravvicinata tra la Salaria e la via Ostiense che partiva da Ostia e finiva alla Piramide Cestia (San Paolo), o la via Campana che secondo alcuni autori  partendo dalla costa poi raggiungeva la Salaria, (e che invece terminava all’isola Tiberina). E anche se sappiamo che sia ai piedi dell’Aventino presso la Porta Trigemina, che ove iniziava la Salaria, vi erano i magazzini del sale (ma non solo quelli) (8), la seconda altrettanto logica osservazione è comunque: ma se essa strada portava il sale ai sabini-umbri, poi lì si sarebbe fermata in un dato luogo, perché proseguire per le coste adriatiche che di sale ne avevano del loro e migliore?
Proseguo con delle note tecniche-merceologiche sul sale (cloruro di sodio) che per essere ottimale e trasportabile, deve avere un elevato grado di purezza (oltre il 90%) e per ottenere tale condizione, il clima deve avere 6-7 mesi di evaporazione e grandi temperature, condizioni ottimali nel Sud-Italia, mentre al Centro la situazione non è altrettanto idonea. Ma v’è di più: nelle saline (stagni) d’Ostia v’è lo scarico a mare del “biondo” (fangoso) Tevere, che oltre a diluire la salinità delle acque, porta con se le impurità del limo. Il sale che vi era ottenuto è senza dubbi un sale grigio “sporco” (una delle prerogative della fabbricazione del sale è tecnicamente il suo continuo lavaggio in acque correnti pure) e deliquescente, non omogeneo e poco adatto ad essere trasportato, un prodotto di second’ordine; certamente usato per tutte le prerogative dell’epoca (ed in special modo per la conservazione – in salamoia – del pesce, prodotto romano per eccellenza e che veniva anche esportato: il garum) ma non certo da costituire una materia prima da inviare lontano. E tra l’altro non si hanno notizie storiche di come i Romani producessero il sale, che aveva un difficoltoso e tecnico processo di raffinazione, ne di una sua commercializzazione nell’ambito mediterraneo (ed infatti non vi sono studi inerenti). Si può immaginare che facessero evaporare l’acqua di mare in profondi tini interrati; non risulta che usassero il fuoco per riscaldare l’acqua, la ove la stagione ed il sole non permettevano l’essicazione, così come – con un processo tecnicamente avanzato – era uso nel resto del centro-nord Italia (9). Anche le saline di Cervia (antica Ficocle) sul lato terminale della Salaria erano interessate a nord dalla vicinanza della foce del fiume Tronto, ma con meno scapito della costa romana, tant’è che dette saline sono ancora in uso. Dunque costruire una strada per un prodotto non ottimale e poco conservabile – e che era poi anticamente soppiantato dai popoli dell’interno con l’economico sale che ricavavano dalle ceneri delle piante – sembra poco probabile.
E’ ora di assegnare alla Salaria il suo vero uso e significato: era un’antica strada pre-romana, che univa due mari (salis: Tirreno e Adriatico) e che permise e le imprese militari romane ed i cospicui traffici con le popolazioni interne (tra l’altro i sabini furono tra i fondatori di Roma), coadiuvata dal percorso fluviale di risalita del Tevere con le navi caudicarie, queste adibite precipuamente al trasporto del pesce, del sale e delle verdure. Forse fu la strada più antica di Roma, costruita su precedenti manufatti dei popoli italici-sabini e per i loro commerci, resa solida e secondo le tecniche dei romani, che le avevano apprese dai cartaginesi nel corso delle guerre nel mezzogiorno d’Italia (10). Aveva un corso percorribile anche d’inverno non avendo elevazioni sopra i mille metri di quota nei valichi, e riportarla al suo vero e naturale ruolo, anche nel nome, mi sembra cosa opportuna. Tanto più che a volte molti storici – mancando loro le fonti – scelgono, è il caso di dirlo, la  “strada” più breve, saltando sia ricognizioni filologiche che ricostruzioni logiche.
Sempre riguardo alla Via Salaria leggi anche gli articoli:
                Salaria Antica: il Ponte Sambuco
                Il Ponte del Diavolo e la Salaria Antica
                Il Miliario della Salaria al Masso dell’Orso

Note:

1)         M.Cosmai -Antichi toponimi di Puglia e Basilicata- 1991

2)         A.Bonavilla- A.Marchi -Dizionario etimologico di tutti i vocaboli usati nelle scienze,arti e mestieri che traggono origine dal greco -1819

3)         A.Nibby in Roma antica di Fabiano Nardini -1820

4)         Strabone- Libro  V -pag.148

5)         Festo -De verborum  significatu -II° sec- su manoscritto mutilo dell’XI sec.

6)         Livio-Libro VI e VI

7)         Niccolò Persichetti-La Via Salaria pag.15-1910

8)         De Martino- Storia economica di Roma antica-1980

9)         J.C. Hocquet-Il sale e il potere-1990
10)       A.Nibby-op. cit.

giovedì 29 ottobre 2015

Guerriero del Bronzo, Tomba Intatta.

Bronze Age warrior tomb

 unearthed in SW Greece 





ArchaeoHeritage, Archaeology, Breakingnews, Europe, Greece, Southern Europe 





On the floor of the grave lay the skeleton of an adult male, stretched out on his back. Weapons lay to his left, and jewelry to his right. 





This gold ring with a Cretan bull-jumping scene was one of four solid-gold rings  found in the tomb. This number is more than found with any other single burial  elsewhere in Greece 
[Credit: University of Cincinnati, Pylos Excavations] 



Near the head and chest was a bronze sword, its ivory hilt covered in gold
A gold-hilted dagger lay beneath it. Still more weapons were found by the man's legs and feet. Gold cups rested on his chest and stomach, and near his neck was a perfectly preserved gold necklace with two pendants
By his right side and spread around his head were over one thousand beads of carnelian, amethyst, jasper, agate and gold
Nearby were four gold rings, and silver cups as well as bronze bowls, cups, jugs and basins.




Dagger with a gold hilt overlaid with gold in a rare technique imitating embroidery [Credit: University of Cincinnati, Pylos Excavations]

The above describes what a University of Cincinnati-led international research team found this summer when excavating what was initially thought to be a Bronze Age house. Instead, the team made a rich and rare discovery of an intact, Bronze Age warrior's tomb dating back to about 1500 B.C., and that discovery is featured in The New York Times, in an article titled: A Warrior's Grave at Pylos, Greece, Could Be a Gateway to Civilizations. 


One of six ivory combs found within the warrior's tomb 
[Credit: University of Cincinnati,  Pylos Excavations]




 The find is so extraordinary that UC's Shari Stocker, senior research associate in the Department of Classics, McMicken College of Arts and Sciences, states: "This previously unopened shaft grave of a wealthy Mycenaean warrior, dating back 3,500 years, is one of the most magnificent displays of prehistoric wealth discovered in mainland Greece in the past 65 years." 
Stocker co-leads the team that unearthed the undisturbed shaft tomb, along with Jack Davis, UC's Carl W. Blegen Chair in Greek Archaeology. 
Other team members include UC faculty, staff specialists and students, some of whom have worked in the area around the present-day city of Pylos on the southwest coast of Greece for the last quarter century as part of the Pylos Regional Archaeological Project. 
That UC-based effort is dedicated to uncovering the pre-history and history of the Bronze Age center known as the Palace of Nestor, an extensive complex and a site linked to Homeric legend. 
Though the palace was destroyed by fire sometime around 1200 B.C., it is nevertheless the best-preserved Bronze Age palace on the Greek mainland. 
It was UC archaeologist Carl Blegen, along with Konstantinos Kourouniotis, director of the National Archaeological Museum, who initially uncovered the remains of the famed Palace of Nestor in an olive grove in 1939. 
Located near the present-day city of Pylos, the palace was a destination in Homer's "Odyssey," where sacrifices were said to be offered on its beaches. 
The king who ruled at the Palace of Nestor controlled a vast territory that was divided into more than 20 districts with capital towns and numerous small settlements. 





This unique necklace measures more than 30-inches long and features two gold pendants  decorated with ivy leaves. It was found near the neck of the warrior's skeleton  
[Credit: University of Cincinnati, Pylos Excavations]



 Explains Stocker, "This latest find is not the grave of the legendary King Nestor, who headed a contingent of Greek forces at Troy in Homer's 'Iliad.' Nor is it the grave of his father, Neleus. 
This find may be even more important because the warrior pre-dates the time of Nestor and Neleus by, perhaps, 200 or 300 years. 
That means he was likely an important figure at a time when this part of Greece was being indelibly shaped by close contact with Crete, Europe's first advanced civilization." 
Thus, the tomb may have held a powerful warrior or king -- or even a trader or a raider -- who died at about 30 to 35 years of age but who helped to lay the foundations of the Mycenaean culture that later flourished in the region. Davis speculates, "Whoever he was, he seems to have been celebrated for his trading or fighting in nearby island of Crete and for his appreciation of the more-sophisticated and delicate are of the Minoan civilization (found on Crete), with which he was buried." 
Potential Wealth of Information The team found the tomb while working in the area of the Palace of Nestor, seeking clues as to how the palace and its rulers came to control an area encompassing all of modern Messenia in western Greece and supporting more than 50,000 inhabitants during the Bronze Age. 



The golden necklace of the grave at Ano Englianos 
[Credit: University of Cincinnati,  Pylos Excavations]




 Davis says that researchers were there to try and figure out how the Palace of Nestor became a center of power and when this rise in power began, questions they now think the tomb may help answer. 
Given the magnitude of this find, it may be necessary to rethink when Plyos and the wider area around it began to flourish. It may have been earlier than previously thought since, somehow, whether via trade or force (e.g., raiding), its inhabitants had acquired the valuable objects found within the tomb. 
Many of the tomb's objects were made in nearby Crete and show a strong Minoan style and technique unknown in mainland Greece in the 15th century BC. 





Finds from the grave at Ano Englianos 
[Credit: University of Cincinnati,  Pylos Excavations]




 The same would likely have been true of the warrior's dwelling during this lifetime. 
He would have lived on the hilltop citadel of nearby Englianos at a time when great mansions were first being built with walls of cut-stone blocks (vs. uncut rock and stones) in the style then associated with nearby Mediterranean Island of Crete and its Minoan culture, their walls decorated with paintings influenced by earlier Minoan wall paintings. The weapons of bronze found within the tomb included a meter-long slashing sword with an ivory handle covered with gold. 

Wealth of Jewels and Weaponry 

A remarkable store of riches was deposited in the tomb with the warrior at the time of his death. The mere fact that the vessels in the tomb are of metal (vs. ceramic pottery) is a strong indication of his great wealth. 





The team of Jack L. Davis and Sharon R. Stocker, from the University of Cincinatti  has brought to light this unlooted and extremely wealthy tomb  
[Credit: University of Cincinnati, Pylos Excavations]




 "It is truly amazing that no ceramic vessels were included among the grave gifts. 
All the cups, pitchers and basins we found were of metal: bronze, silver and gold. 
He clearly could afford to hold regular pots of ceramic in disdain," according to Stocker. 

This member of the elite was accompanied in the afterlife by about 50 seal-stones carved with intricate Minoan designs of goddesses as well as depictions of bulls and human bull jumpers soaring over their horns. 
Four gold rings in the tomb contain fine Minoan carvings. 
A plaque of carved ivory with a representation of a griffon with huge wings lay between the man's legs. 
Nearby was a bronze mirror with an ivory handle. 
Archaeological conservator Alexandros Zokos was essential partner in the removal, cleaning and preservation of the finds from the grave. 
The weapons of bronze within the tomb include a meter-long slashing sword with an ivory handle, several daggers, a spearhead, along with the already-mentioned sword and dagger with gold pommels. 




View of the excavation 
[Credit: University of Cincinnati,  Pylos Excavations]




 Other grave gifts originally rested above the dead warrior atop a coffin of wood which later collapsed, spilling a crushing load of objects down on the skeleton -- and making the job of excavation difficult and slow. 



Sharon Stocker standing in the excavated tomb
 [Credit: University of Cincinnati,  Pylos Excavations]

The gifts atop the coffin included bronze jugs; a large, bronze basin; thin bands of bronze, probably from the warrior's suit of body armor; many wild boar's teeth from the warrior's helmet.
 In combination with this weaponry, the discovery of so much jewelry with a male burial challenges the commonly held belief that these apparently "feminine" adornments and offerings accompanied only wealthy women to the hereafter.

Previously Unexplored Field 

What would eventually become the successful excavation of the tomb began on the team's very first day of its field work in May 2015, conducted in a previously unexplored field near the Palace of Nestor. 
They immediately found one of the four walls of the warrior's grave.




This is one of more than four dozen seal stones with intricate Minoan designs  found in the tomb. Long-horned bulls and, sometimes, human bull jumpers  soaring over their horns are a common motif in Minoan designs   
[Credit: University of Cincinnati, Pylos Excavations]




 "We put a trench in this one spot because three stones were visible on the surface," says Davis, adding, "At first, we expected to find the remains of a house. 
We expected that this was the corner of a room of a house, but quickly realized that it was 
the tops of the walls of a stone-lined grave shaft."

In the end, the shaft measured about 5 feet deep, 4 feet wide and 8 feet long. 
It took the team about two weeks to clear the shaft before "we hit bronze," says Stocker. At that point, they realized they might have an exceptional prize: an undisturbed grave shaft, never stripped by looters. 
She explains, "The fact that we had not encountered any objects for almost a meter indicated that whatever was at the bottom had been sealed for a long time." Stocker and Alison Fields, a UC graduate student of classics, did most of the actual excavation because their smaller size allowed them to work more easily and carefully around the tomb and its many precious objects.

What Comes Next 

Both Stocker and Davis say it was good luck to discover this intact grave. Given the rarity of the find, it's unlikely to be repeated. "It's almost as if the occupant wants his story to be told," Davis says. 






A bronze mirror with an ivory handle 
[Credit: University of Cincinnati,  Pylos Excavations]




 And that story will continue to unfold. 

The UC team and others are studying the artifacts in detail, with all artifacts remaining in Greece and their final disposition determined by the Greek Archaeological Service. 

Former UC anthropologist Lynne Schepartz, now of the University of Witwatersrand in Johannesburg, South Africa, will study the skeletal remains. 





The skeleton of an adult male stretched out on his back lay in the grave with  weapons arranged to his left and a hoard of fine jewellery on his right  
[Credit: Denitsa Nonova]


Catalogue of Objects Found Within the Warrior Tomb

- Gold 
Four complete solid-gold seal rings to be worn on a human finger. 
This number is more than found with any single burial elsewhere in Greece. 
Two squashed gold cups and a silver cup with a gold rim 
One unique necklace of square box-shaped golden wires, more than 30 inches long with two gold pendants decorated with ivy leaves. 
Numerous gold beads, all in perfect condition.

- Silver 
Six silver cups.

- Bronze 
One three-foot long sword, with an ivory hilt overlaid with gold in a rare technique imitating embroidery (found at warrior's left chest). 
Under this sword was a smaller dagger with a gold hilt employing the same technique. Other bronze weapons by his legs and feet. 
Bronze cups, bowls, amphora, jugs and a basin, some with gold, some with silver trim.

- Seal Stones 
More than 50 seal stones, with intricate carvings in Minoan style showing goddesses, altars, reeds, lions and bulls, some with bull-jumpers soaring over the bull's horns -- all in Minoan style and probably made in Crete.

- Ivory 
Several pieces of carved ivory, one with a griffon with large wings and another depicting a lion attacking a griffon. Six decorated ivory combs.

- Precious Stone Beads 
An astonishing hoard of over 1000 beads, most with drill holes for stringing together. 
The beads are of carnelian, amethyst, jasper and agate. Some beads appear to be decorations from a burial shroud of woven fabric, suggested by several square inches of cross woven threads which survived in the grave for 3,500 years. 



Source: University of Cincinnati [October 26, 2015]


martedì 27 ottobre 2015

Geni Mobili ed Evoluzione.

Scientists discover protein factories 

hidden in 

human jumping genes 


Breakingnews, Evolution, Genetics, Human Evolution 

Scientists have discovered a previously unknown wellspring of genetic diversity in humans, chimps and most other primates. 
This diversity arises from a new component of itinerant sections of genetic code known as jumping genes.






Salk researchers discovered a new genetic component, called ORF0, spread  throughout the DNA of humans, chimps and most other primates. This image  shows the locations of the ORFO on human and chimp chromosomes 
 [Credit: Salk Institute] 




In a paper published October 22, 2015 in Cell, Salk scientists report finding human and chimp DNA peppered with sequences of genetic code they've dubbed ORF0, which spreads throughout the genome on jumping genes. 
The ORF0 sequences may produce hundreds or even thousands of previously unknown proteins. 
The abundance of ORF0 instances in the human genome suggests that it played--and still plays--an important role in evolutionary diversity and flexibility by serving as a mechanism for generating novel proteins. The discovery of these mobile protein factories may also shine light on the origins of genetic mutations responsible for cancer, mental disorders and other diseases
"This discovery shows that jumping genes are an even more important source of variation in the primate genome than we thought, whether you're looking at the level of different species, different people or even the different cells within an individual's body," says Rusty Gage, senior author of the paper and a professor in Salk's Laboratory of Genetics. 
With the sequencing of the human genome, it became clear that jumping genes--mobile genetic elements first discovered in maize by Barbara McClintock in the early 1950s--were also present and highly active during human evolution. 
About half of the human genome resulted from sequences of genetic code that moved or insert extra copies of themselves throughout the genome. 
The evolutionary importance of jumping genes was highlighted by the results of another recent study by Gage and collaborators at Stanford. The research used stem cell technologies developed in Gage's lab to explore how differences in gene expression contribute to human and chimp facial structure. 
The findings, also reported in Cell, suggested that jumping genes played a role in the evolutionary split between humans and other primates. 
In the more recent study that uncovered ORF0, Gage and his colleagues focused on a class of jumping genes known as LINE-1 elements, which make up about 17 percent of the human genome. 
These elements contain all the necessary genetic machinery for moving themselves and other classes of jumping genes, unaided, to elsewhere in the genome. 
Previously, it was thought that LINE-1 elements contain just two sequences that coded for proteins, the ultimate product of genes that serve a wide range of roles in our cells and organs. 
These sequences are known as open reading frames (ORF), and the two previously known sequences, ORF1 and ORF2, are thought to be involved in producing proteins that are important for allowing LINE-1 elements to move around in the genome. In their new study, Gage and his colleagues discovered a third open reading frame. They named it ORF0 based on its location in the LINE-1 element next to ORF1. The scientists found ORF0 in about 3,500 locations in the DNA of humans and about 3,000 locations in the chimp and most other primate genomes. 
The structure of LINE-1 elements is such that when an element moves to another site there is a possibility that the ORF0 sequence can blend with genetic sequences in new location in DNA. The result of the new gene sequences can be a new protein. Evolutionarily speaking, this represents a way to generate entirely new molecules that could be beneficial to a species. On the other hand, the reshuffling of an existing ORF0 sequence during a jump could result in a disease-causing mutation. 
"This discovery redraws the blueprint of an important piece of genetic machinery in primates, adding a completely new gear," says Ahmet Denli, a staff scientist in Gage's lab and the first author on the paper reporting the findings. 
"Jumping genes with ORF0 are basically protein factories with wheels, and over the eons evolution has been driving the bus." 
Now that they have identified ORF0 in the primate genome, Denli says they plan to determine how many of the instances of ORF0 actually code for proteins and to investigate what function those proteins serve. The researchers also plan to investigate the behavior of ORF0 in different cell types and diseases. They are particularly interested in exploring its role in cancers and in neurological disorders such as schizophrenia, where previous studies have suggested jumping genes may be involved. 

Source: Salk Institute [October 22,2015]



domenica 25 ottobre 2015

"Origini" e "identità"

Sì, Pasuco: questo post è scientifico e troppo lungo. 
Quindi non lo leggerà proprio nessuno, qui su Google+. 
Ed io me ne frego e lo presento egualmente.

Riflessioni sul caso dei Fenici
Articolo di  Paolo Xella


Résumés

Il presente contributo si propone di riesaminare la questione dell’identità fenicia come si è andata delineando negli studi, in sintetico parallelo con il problema delle « origini » etrusche. Dopo una premessa di carattere metodologico, incentrata sull’approccio che riceve la questione identitaria in campo socio-antropologico, si delinea brevemente la storia degli studi fenici, dalla fondazione a opera di Sabatino Moscati, alla situazione presente. Una rapida valutazione delle evidenze, interne e esterne, suggerisce sicuramente di non abbandonare i termini Fenicio e fenici, ma di limitarne l’uso alla loro funzionalità euristica, considerando che, dal punto di vista storico, l’orizzonte è molto più ampio e articolato di quanto non si tenda generalmente a ritenere. Piuttosto che di « identità fenicia », si deve parlare di « identità cittadine », per i vari centri, che non hanno mai dato manifestazioni di coscienza nazionale unitaria.

Notes de l’auteur

Il presente contributo presuppone e sviluppa alcuni miei precedenti studi (Xella 1995, 2007 e 2008), ai quali si rinvia per taluni spunti e riferimenti bibliografici.

Texte intégral


O fia serva tra l’Alpe ed il mare ;
Una d’arme, di lingua, d’altare,
Di memorie, di sangue e di cor
 ».(Alessandro Manzoni, Marzo 1821).
« Les arbres doivent se résigner, ils ont besoin de leurs racines ; les hommes pas. Nous respirons la lumière, nous convoitons le ciel, et quand nous nous enfonçons dans la terre, c’est pour pourrir. La sève du sol natal ne remonte pas par nos pieds vers la tête, nos pieds ne servent qu’à marcher. Pour nous, seules importent les routes. Ce sont elles qui nous convoient – de la pauvreté à la richesse ou à une autre pauvreté, de la servitude à la liberté ou à la mort violente. Elles nous promettent, elles nous portent, nous poussent, puis nous abandonnent. Alors nous crevons, comme nous étions nés, au bord d’une route que nous n’avions pas choisie ».
(Amin Maalouf, Origines, Paris, 2004, p. 9).

Generalità

  • 1 Anche per il mondo antico, il tema è stato recentemente al centro di numerosi interventi e convegni (...)
1L’argomento che mi è stato proposto di trattare – di cui è evidente l’estrema complessità – è tutt’altro che nuovo, specie nella sua portata epistemologica più generale. Sia per quanto riguarda il mondo antico (naturalmente, Fenici ed Etruschi inclusi) sia, ancor più, per le società tradizionali e moderne, specifico oggetto dello studio socio-antropologico, il problema dell’identità (a vari livelli) è al centro di un’amplissima e sempre viva discussione teorica. Esso è stato e continua a essere affrontato da varie angolazioni e con diversi livelli di approfondimento, a cominciare dalla plausibilità stessa della questione posta in tali termini e, di conseguenza, della validità euristica della categoria concettuale di riferimento1.
2Come ho inteso rendere esplicito nel titolo, nel mio caso si tratta di osservazioni« minimalistiche », senza pretesa di trattare l’argomento in tutti i suoi numerosi aspetti né, tanto meno, di esporre organicamente la complessa problematica. Sono spunti di riflessione del tutto personali, esiti di un percorso che ha contrassegnato, soprattutto in filigrana, le mie decennali ricerche sulla cultura fenicia.
3L’occasione è comunque propizia per richiamare brevemente – in tutta umiltà e con spirito costruttivo – qualche buon consiglio offerto dal versante antropologico, indispensabile quando si toccano temi quali « identità » (etnica) e« origini », peraltro strettamente interrelati. En passant, là dove se ne presenti l’occasione, emergeranno differenze e analogie – l’ordine di menzione non è casuale – che mi sembra caratterizzino la questione fenicia e la questione etrusca.
  • 2 Rinvio qui a Bellelli (ed.) 2012, dove è fornita la bibliografia più rilevante in merito e lostatu (...)
  • 3 Moscati 1963, 1984 e 1993 ; vedi anche Moscati 1974 e 1992.
  • 4 Vedi ad esempio Garbini 1980 e 1983 ; Röllig 1983, 1995 ; Xella 1995, 2007 e 2008.
4Se per l’Etruscologia la questione « origine degli Etruschi » si lega inscindibilmente al nome e all’opera di Massimo Pallottino2, per gli studi fenici è altrettanto di rigore chiamare in causa Sabatino Moscati. Quest’ultimo, vero fondatore di tale settore di studi, ha posto le basi per impostare la questione fenicia, come egli stesso l’ha definita3, in una serie di contributi di notevole coerenza, nei quali – analogamente al suo illustre collega etruscologo testé menzionato – ha mantenuto sostanzialmente immutato il suo pensiero nel corso degli anni, accettando di sfumare qualche valutazione, ma ribadendo a cadenze regolari i punti forti del suo argomentare. Intorno a lui, tuttavia, sono emerse alcune opinioni diverse, anche se non radicalmente, dalla sua4, sicché è opportuno qui anche dare uno sguardo alla storia degli studi, dall’impostazione data da Moscati già negli anni ’60 del secolo scorso, fino a più recenti posizioni espresse da altri studiosi. In questi cenni, evitando argomentazioni troppo tecniche e dettagliate, proporrò una veloce verifica dei parametri che solitamente si considerano fondamentali per la questione identitaria, non trascurando però di gettare uno sguardo comparativo alla questione delle auto-denominazioni e delle etero-denominazioni.
5Entrambi gli studiosi sopra menzionati, Pallottino e Moscati, come ben si sa, hanno giustamente respinto il vetusto (e infondato) approccio della « ricerca delle origini », inteso essenzialmente come provenienza geografica di Etruschi e Fenici, accentrando invece l’attenzione sui processi formativi delle rispettive culture. Fermo restando che, comunque, sussiste il problema di identificare anche convenzionalmente ciascuna di esse, andrà osservato come non sia casuale che, in campo etruscologico, sia emersa e stata dibattuta proprio la questione delle origini, piuttosto che – ed è una differenza molto significativa – quella dell’identità, mentre per i Fenici è accaduto esattamente l’inverso : la questione delle origini è stata liquidata senza fatica e, in quest’ultimo caso, il problema posto è stato senz’altro quello identitario.
6Le ragioni di tale stato di cose mi paiono abbastanza chiare. Degli Etruschi, nessuno dubita che essi siano esistiti, abbiano un’auto-denominazione, una precisa localizzazione geografica almeno a partire da una certa epoca, una propria lingua e, per quanto possa essere ambiguo il concetto, una propria cultura. I Fenici, tralasciando un momento la lingua (vedi infra), sono invece designati da un’etero-denominazione, possiedono un’area d’insediamento e parametri cronologici i cui limiti sono fluidi e tuttora soggetti a discussione, mentre anche una cultura a essi riferibile non è facilmente definibile in modo unitario.
  • 5 Friedrich – Röllig – Amadasi 1999 : « Die Phönizisch-punische Sprache ist eine semitische Sprache u(...)
7Anticipando in parte quanto si dirà più avanti sulla lingua, mentre l’etrusco appare un idioma sostanzialmente isolato dal punto di vista genealogico – quindi altamente identificativo – il fenicio non lo è e, anzi, si inserisce senza problemi nell’ambito delle lingue semitiche dette nord-occidentali del I millennio, presentando le maggiori affinità con l’ebraico e le lingue transgiordaniche (ammonitico, edomitico, moabitico)5, il che lo rende quindi assai menoidentificativo. Dal punto di vista storico, le città del I millennio che definiamo « fenicie » possiedono in realtà un background documentario che raggiunge agevolmente il III millennio a.C. (di certo Biblo e Berito, ma non solo), mostrando un solido radicamento sul territorio, laddove per gli Etruschi v’è una fase di visibilità preceduta però da oscuri antecedenti. Per questi ultimi, quindi, la domanda è stata piuttosto « da dove vengono », non « chi sono », mentre per i Fenici è accaduto l’inverso.
  • 6 Erodoto (I 1 ; VII 89) riteneva che i Fenici venissero dal Mare Eritreo / Mar Rosso (sostanzialment (...)
  • 7 Couroyer 1973, il quale adduceva a sostegno delle proprie tesi, oltre alle fonti classiche, alcuni(...)
  • 8 Moscati 1975.
8Affrontare il tema « origini » – vere o presunte – è, come si sa, passo costitutivo primario del processo che porta a una (qualsivoglia) definizione identitaria. Qui ricordo solo come non vi sia dubbio che coloro che chiamiamo Fenici fossero ben inseriti e integrati nel contesto culturale siro-libano-palestinese, al punto che le opinioni antiche che sostenevano una loro provenienza extra siro-palestinese sono state valutate ma giustamente dismesse come stravaganti ipotesi, talora basate su trasparenti paraetimologie6 : stando così le cose, un ingenuo tentativo di dare credito a tali informazioni7 fu facilmente azzerato da Moscati8e non se ne riparlò più.

« consigli dell’antropologo »

  • 9 Seguo qui essenzialmente Fabietti 2013.
9Prima di ricordare in breve i punti essenziali della questione fenicia, mi permetto dunque di richiamare qui alcuni principi metodologici di base elaborati in sede antropologica9.
10Da questa prospettiva, in linea generale e sostanzialmente condivisa, l’identità etnica – giacché di questo si parla anche nel caso delle « origini » – viene concepita come relativa a una comunità di individui, riuniti sotto una stessa denominazione ; essi si pensano come appartenenti a una stessa comunità territoriale, si sentono legati tra loro geneticamente, nonché accomunati da campi di interazione costituiti dalla lingua, dall’organizzazione sociale e da altri valori che definiamo « culturali » quali la religione (da intendersi qui come sistema simbolico e rituale che presuppone l’esistenza di poteri sovrumani variamente concepiti e concepibili) ; in breve, tale comunità di individui si pensa come categoria a sé, distinta da altre dello stesso (o di analogo) tipo.
  • 10 Fabietti 2013, p. 21 s.
11L’antropologia ci ammonisce però anche a ricordare che, intesa in questi termini, l’identità etnica non possiede naturalmente una sua consistenza ontologica, ma è anch’essa una categoria concettuale, una costruzione simbolica che scaturisce da specifiche situazioni storiche. Dal punto di vista dello studioso esterno (etic), la questione di fondo è, naturalmente, se tale categoria concettuale possieda o meno valore e utilità euristici ma, anche in caso di risposta positiva, si deve sempre essere coscienti che i parametri identitari sopra menzionati (nome, territorio, lingua, istituzioni, visione del mondo, etc.) possono creare prospettive illusorie ; in altri termini, anch’essi sono suscettibili di farci percepire la realtà umana come discontinua e frammentata, mentre ciò che soprattutto conta è il livello simbolico di tale condizione : si tratta di un processo di costruzione culturale e storico contingente, senza che ciò implichi reificazioni di sorta10.
  • 11 Vedi tra gli altri Epstein 1978.
  • 12 Lo studio classico in proposito è Hobsbawn – Ranger 1983.
12L’identità è di fatto una definizione del sé e/o dell’altro : l’idea del NOI vs LORO etnicamente connotati mette a sua volta in azione simboli e immagini che potenziano – talora con azioni di ritorno – il sentimento identitario11. Del resto, se consideriamo in termini analoghi ciò che definiamo « tradizione », constatiamo che il sentimento di appartenervi nasce da una serie di pratiche condivise ma per nulla statiche, considerate fermamente « autentiche », originali e immutabili, ma spesso ben individuabili nelle loro (a volte recenti) genesi storiche e, comunque, sempre sottoposte a continue riformulazioni12. Il problema è insomma capire – per le società antiche come per quelle moderne – in quali specifici termini gli interessati si pensino identici « etnicamente » e cosa questo comporti sul piano delle relazioni con chi non appartiene alla loro « etnia », non già cosa eventualmente li renda davvero omologhi gli uni agli altri (il che resta su un piano ben diverso d’indagine).
  • 13 Fabietti 2013, p. 16 ss. e bibliografia ivi citata.
  • 14 Benveniste 1969.
13Come è stato da più parti segnalato13, ad esempio, nomi di etnia sono non di rado il risultato di rappresentazioni esterne, imposti da parte di gruppi dominanti, o comunque esito di processi etnocentrici. Spesso tali definizioni esterne sono accolte e, anzi, hanno, per così dire, successo anche all’interno, non solo quando sono cariche di connotazioni positive (si veda il caso di Welsh dawealth), ma anche nei casi di implicazioni etimologicamente squalificanti, comeSlavo (da sclavus)14.
  • 15 Numerosissimi studi hanno osservato che, una volta « costruite » attraverso un processo duplice, es (...)
  • 16 Fabietti, p. 22 epassim.
14Dal punto di vista storico, infine, massima attenzione va prestata alle autodefinizioni, in quel processo noto in antropologia come la dinamica in group // out group, che rinvia alla dicotomia emic // etic. Attraverso il riconoscimento e la continua enfatizzazione di aspetti ritenuti congenitamente caratteristici del gruppo ( = nozione falsa di autenticità), ci si attribuisce un’omogeneità interna e, di riflesso, una diversità nei confronti degli altri15 : la produzione dell’identità, del noi etnico, del sentimento identitario, è una continua riformulazione, prodotto di rappresentazioni contingenti certo non privi di nessi con la realtà storica, ma tutt’altro che nel senso di un rispecchiamento diretto16.
15L’antropologia invita dunque a :
- considerare un gruppo etnico come categoria di ascrizione e identificazione 
da parte degli attori ;
- evitare di ricorrere a tipologie etniche, ma esaminare piuttosto i processi di costruzione identitaria
 ;
- tralasciare la prospettiva (falsamente storica) della 
« ricostruzione delle etnie », quali entità omogenee sul piano sociale, culturale, linguistico, ecc., a vantaggio dello studio dei c.d. confini etnici e dei meccanismi (dinamici, dialettici) che ne contrassegnano il perpetuarsi.

La questione fenicia : fondazione di un campo di studi

16Verso la metà degli anni ’60 del secolo scorso Sabatino Moscati concepì un progetto scientifico ambizioso, la « costruzione » dell’identità fenicia : mettere a fuoco i Fenici e la loro cultura, rivalutare il loro apporto alla formazione delle antiche civiltà mediterranee, ricercarne puntigliosamente tracce, insediamenti, itinerari di espansione, rivisitando le fonti indirette e promuovendo ricerche archeologiche ad ampio spettro. Fu un’operazione di tipo sistematico, da cui è scaturita un’incredibile serie di risultati e nuove scoperte, la cui portata è sotto i nostri occhi, sicché nessuno può dubitare dell’enorme guadagno scientifico apportato. Tuttavia, si deve al contempo notare che, nei termini in cui Moscati l’ha formulata, la nozione di identità fenicia ha in qualche misura – forse, inevitabilmente – condizionato anche negativamente gli studi.
17Prima di Moscati, s’è detto, i Fenici erano tutt’al più delle ombre sfumate nella storia culturale delle civiltà mediterranee. Nel 1963 Moscati dava alle stampe un libro divulgativo intitolato Antichi imperi d’Oriente, che conobbe riedizioni e traduzioni in lingue straniere e fu ripubblicato, ampliato, nel 1978. Qui – è sufficiente scorrere l’indice – di Fenici in autonomia non v’è traccia, eppure figurano capitoli dedicati a Cananei e Aramei, Ebrei, Persiani. Pochissimi anni dopo, i Fenici erano già entrati, con sezioni specifiche, in opere editoriali e manuali di ampio respiro, non solo edite da Moscati ; nel 1969 nasceva a Roma un « Centro si studio sulla civiltà fenicia e punica » e nel 1973 veniva fondato un periodico scientifico (la Rivista di studi fenici) esclusivamente dedicato ai Fenici.
18È lecito chiedersi : cosa era accaduto ? Scoperte di documenti inediti, esiti di nuove ricerche ? Ben poco (almeno, ancora) di tutto ciò, ricognizioni e imprese preparatorie, programmazione a vasto raggio. Si trattò di un’operazione intelligentemente concepita a tavolino, lanciata su presupposti esclusivamente teorici, mirante a focalizzare e affermare un oggetto fino ad allora sfuggente (o sfuggito) alla ricerca, cioè appunto quell’identità fenicia, che egli si adoperò a precisare in termini di cronologia, territorio, lingua, cultura.
19Nel corso di vari decenni, e a cadenza quasi regolare, Moscati ha affrontato la questione dell’identità fenicia, non senza rielaborazioni e parziali aggiustamenti, ma riproponendo nella sostanza la stessa valutazione. A suo avviso, i Fenici sarebbero stati da individuare come popolo in base a un nome, una lingua comune, una coscienza nazionale e una stessa regione di riferimento ; essi sarebbero emersi in autonomia solo a partire dall’età del Ferro ; la loro area geografica di pertinenza sarebbe stata da individuarsi sulla costa siro-libano-palestinese, più o meno da Tell Suqas ad Acco, con irradiazioni temporanee nelle zone limitrofe ; il limite cronologico inferiore sarebbe stato fissato (alquanto convenzionalmente, è vero) al 332 a.C., anno della conquista di Tiro da parte di Alessandro Magno. I Fenici avrebbero dunque costituito una sorta di novità del I millennio a.C., nello scacchiere politico-culturale del Levante. Fin qui, in estrema sintesi, l’analisi di Moscati. Veniva in tal modo realizzato il guadagno dell’identità fenicia, scaturito dall’esigenza di fondare una disciplina con ambizioni di autonomia, di sottrarsi all’abbraccio soffocante di formidabili concorrenti (classicisti, orientalisti in generale, biblisti in particolare) adusi a relegare, nella migliore delle ipotesi, tale (per loro) fantomatica cultura in un ruolo marginale.
  • 17 Moscati 1974.
20L’operazione di Moscati fu innegabilmente il risultato di una precisa politica accademica dalle evidenti conseguenze, che ha comunque permesso di riconsiderare in nuova luce temi e questioni, reinterpretare vecchi dati, produrre un formidabile aumento quantitativo di documentazione archeologica ed epigrafica, che è stata caratteristica costante degli ultimi decenni. Tuttavia, molta acqua è passata sotto i ponti e, a quasi vent’anni dalla scomparsa di Moscati, è lecita una serena riflessione critica, senza dimenticare che proprio l’impostazione data dallo studioso alla questione fenicia – oltre ai benèfici effetti prodotti sul piano delle conoscenze – ha permesso di sottoporre a verifiche e riassestamenti i suoi punti fermi. Inoltre, va notato che gli studi fenici e punici – dopo essersi affermati come settore specifico di ricerca non inglobabile negli studi classici o in quelli orientalistici tradizionali – hanno non di rado registrato una tendenza a dimenticare (o ritenere superflua) una preparazione seria e adeguata in questi altri campi, chiudendosi in una auto-referenzialità che, limitandone le potenzialità comparative, ha prodotto talvolta un certo scadimento di qualità nella ricerca. È superfluo ricordare che il vero fascino dei Fenici sta proprio nella loro funzione di collante culturale delle società mediterranee, nel loro ruolo – perfettamente compreso da Moscati17 – di attivo interfaccia tra sostrati e adstrati, che richiede imprescindibilmente una notevole dimestichezza (storica, archeologica, linguistica) con le culture con cui vennero a contatto.
21In ogni caso, sembra che i Fenici abbiano ormai acquisito piena cittadinanza negli studi, anche se i tempi nuovi non paiono più così promettenti e, piuttosto che sperare in nuovi sviluppi, sembra più saggio mirare alla tenuta delle posizioni. Da tempo è venuta meno la necessità di affermare a tutti i costi un’ottica fenicio-centrica, da contrapporre a una classico-centrica e una biblio-centrica. Adesso sembra tempo di riesaminare sine ira et studio la formulazione dell’identità fenicia nei parametri da Moscati individuati e proposti, e cioè : nome, territorio, lingua, arco cronologico, coscienza nazionale.

I parametri identitari

  • 18 Fabietti 2013, p. 46.
22Cominciamo dalla denominazione. È stato osservato che « […] le culture cominciano ad essere nominate quando vi è qualcuno in grado di imporre i nomi agli altri. Alcune culture hanno il potere di dare nomi, altre no ; i rapporti di dominio assumono un ruolo decisivo nel tramandare la visione degli altri soprattutto quando i dominatori possono avvalersi di un mezzo scritto per trasmettere la loro memoria »18. Queste considerazioni si applicano assai bene al caso dei Fenici.
  • 19 Ercolani c.d.s. (ringrazio l’Autore per avermi fatto leggere il testo prima della pubblicazione). S (...)
23Come Moscati stesso ben sapeva, « Fenici » è una denominazione etnica coniata e attribuita da esterni. Non sto qui a ricordare la questione dell’etimologia diPhoinikesPhoinikePhoinix, per cui rinvio all’abbondantissima letteratura precedente e, in particolare, a una recentissima e intelligente messa a punto19. Quel che sembra certo è il senso cromatico di fondo, rosso (scuro) del termine, probabilmente scelto dai Greci in relazione al colore della pelle di questi« stranieri ». Eteronimo, dunque, assurto però a indicatore d’identità etnica ed entrato a vele spiegate negli studi, spesso senza un sufficiente vaglio critico circa la sua utilità euristica e senza un’adeguata consapevolezza delle insidie nascoste nel suo impiego. Infatti, occorre ricordare che non esiste alcun corrispondente nella lingua fenicia né per l’etnonimo né per il toponimo. Fenici e Fenicia sono un’invenzione greca.
  • 20 Cf. per il cratere Od. 4, 611 s. e 15, 111 s.
24Dato che gli studi esistenti mi esimono dall’esporre la vasta documentazione relativa, mi limito qui a un cenno alle menzioni nei poemi omerici, anzi, a un passo selezionato, per mostrare i termini della questione. Illuminante è in particolare Il. 23, 740 s., in cui è questione di un cratere d’argento dono di Phaidimos re di Sidone20 e posto da Achille come premio nei giochi funebri in onore di Patroclo :
740 Πηλεί̈δης δαἶψἄλλα τίθει ταχυτῆτος ἄεθλα
741 
ἀργύρεον κρητῆρα τετυγμένον ἓξ δἄρα μέτρα
742 
χάνδανεναὐτὰρ κάλλει ἐνίκα πᾶσαν ἐπαἶαν
743 
πολλόνἐπεὶ Σιδόνες πολυδαίδαλοι εὖ ἤσκησαν,
744 
Φοίνικες δἄγον ἄνδρες ἐπἠεροειδέα πόντον,
745 
στῆσαν δἐν λιμένεσσι […]

740 Subito per la corsa propose altri premi il Pelide
 ;
741 un cratere d’argento sbalzato, che sei misure
742 teneva e per bellezza vinceva ogni altro su tutta la terra
743 e molto, perché l’avevano fatto con arte gli esperti Sidonii
 ;
744 
uomini fenici l’avevano portato sul mare nebbioso,
745 l’avevano esposto nei porti […]
(traduzione di R. Calzecchi Onesti).
  • 21 Vedi Ercolani c.d.s.
  • 22 I passi relativi, riportati in Mazza – Ribichini – Xella 1988 (T.3 – T.9, p. 24-26), sono Il. 23, 7 (...)
25Qui è molto chiara la distinzione tra i « Sidonii » (Σιδόνες), che producono l’oggetto, e gli « uomini fenici » (Φοίνικες ἄνδρες), che lo trasportano, laddove solo il primo è un etnonimo specifico. Anch’io, come A. Ercolani21, sono convinto che « Sidonii » non indichi i Fenici nel loro complesso, né che Tiro non sarebbe menzionata perché, a quell’epoca, sarebbe stata sottomessa a Sidone, secondo un’ipotesi abbastanza popolare ma indimostrabile. Qui, come in altri passi omerici22« Sidonii » possiede una sua propria autonomia, mentre« Fenici / fenicio » sono una denominazione generica, denotante genti che solcano i mari e commerciano, che vendono prodotti ma non li producono, che colpiscono per il loro aspetto, senza precise coordinate spaziali o temporali (si veda in italiano l’uso corrente del termine « Marocchini », che non necessariamente si riferisce al Marocco).
  • 23 Per la documentazione su quanto segue, vedi Xella 1995.
  • 24 Dossin 1973.
  • 25 Tra le varie edizioni del testo : Dietrich – Loretz 1985.
26Vediamo ora cosa ci dicono le fonti dirette. Esiste un’auto-denominazione che identifichi i Fenici come un unico popolo ? Ebbene, la risposta è assolutamente negativa. La sola possibilità teorica sarebbe stata rappresentata dal termine « Cananei », e « Canaan » per la regione, ma anche questa è una strada senza uscita, per le seguenti ragioni23 :
- « Cananei » come etnonimo è assente dalle fonti dirette in lingua fenicia (vedi
infra per l’unico caso) e quindi, fino a prova contraria, non può essere considerato auto-designazione dei « Fenici ».
- « Canaan » è infatti attestato solo su legende monetali di Beirut in epoca ellenistica (187-133 a. C.) dove si legge : 
llʾdkʾ ʾš bknʿn, ovvero llʾdkʾ ʾm bknʿn, espressione di interpretazione discussa (« Laodicea che si trova in Canaan » / « Laodicea metropoli di Canaan »), ma che, eventualmente, fa riferimento a un singolo centro (molte città d’Asia Minore e dell’Oriente ellenistico hanno questo nome, p. es. in Frigia o sulla costa siriana presso Ugarit [Lattakia]).
- Nel II millennio « Canaan » è attestato in una lettera di Mari
24 e nell’iscrizione di Idrimi re di Alalakh25 e, all’epoca amarniana, possiede una valenza assai precisa : designa tutta la Palestina e la costa settentrionale del Levante fino a Beirut (ma esclude città come Tripoli, Biblo, etc.) e non si limita alla fascia costiera.
- Nell’Antico Testamento, si osserva che i « Cananei » sono le genti che occupano la terra promessa prima degli Ebrei ; questo etnonimo sembrerebbe essere talora impiegato come sinonimo di « Sidonii », ma ha anche la valenza più ampia e generica di « mercanti », richiamando da presso l’uso omerico di « Fenici ». 
  • 26 Liverani 20037, p. 555.
27Si deve pertanto concludere che né « Canaan » né « Cananei » si riferiscono a realtà etniche e nazionali, non individuano né la « Fenicia » né i « Fenici », ma indicano un’entità geografica molto vasta in ambito siro-palestinese che, durante il Tardo Bronzo, costituiva una dei tre distretti del territorio soggetto al controllo egiziano, corrispondente all’incirca alla Palestina (con capitale Gaza)26.
28Dalla documentazione diretta emerge invece un dato difficilmente oppugnabile : troviamo « Tirii », « Sidonii », « Arwaditi », « Gubliti », cioè tutti etnonimi derivati dalle singole città (o regni), ma nessuna denominazione comune, nessun indizio di « coscienza nazionale » o senso di appartenenza a una comune tradizione. Si continua una tendenza imperante già durante l’età del Tardo Bronzo, allorché i sovrani dei regni costieri, da Ugarit fino al Sud della Palestina, che forse avrebbero potuto in certa misura comunicare all’interno del semitico occidentale, si scrivevano tra loro in accadico, optando quindi per la lingua diplomatica del Vicino Oriente e considerandosi reciprocamente come stati stranieri proprio come facevano, ad esempio, con la corte faraonica o con il grande re di Hatti.
29Per i « Fenici » d’Oriente l’immagine che emerge è quella di un accentuato particolarismo politico, che prevale su una nostra prima eventuale impressione di sostanziale omogeneità culturale. Il particolarismo cittadino è testimoniato da contrasti e strategie politiche non coordinate, ma perseguite autonomamente e in vista dei propri specifici interessi. Si pensi ai diversi atteggiamenti tenuti dalle varie città nei confronti delle grandi potenze dell’epoca, o, ancora, al diverso ruolo – certo frutto anche di decisioni strategiche – rivestito da Tiro, Sidone e altre città fenicie nell’espansione mediterranea. Per l’Occidente, poi, è naturalmente ancora più improponibile pensare a una qualche omogeneità, resa comunque a priori improbabile da una diaspora contrassegnata da una chiara dialettica tra continuità e innovazione a livello culturale.
  • 27 Un caso tra gli altri, anche se di età tarda, è quello illustrato da Lichtenberger 2009.
30Forte e chiara è, invece, nel Levante, la manifestazione di « identità » cittadine locali27, che si esprime soprattutto nella diversa articolazione del pantheon dei singoli centri. Questi universi divini appaiono simili per struttura, ma rivelano precise peculiarità nelle forme in cui sono articolati, come mostrano, senza troppe pretese, le note sintetiche che seguono.
31Si riscontra ovunque la preminenza di una coppia divina poliade, ma costituita da differenti figure e panthea diversamente articolati :
- BIBLO : Baalat ( = Signora) di Biblo, epiclesi locale di Astarte con influssi egiziani (Hathor, Iside) + Baal ( = Signore) di Biblo (e varie altre divinità minori) ;
- SIDONE : Eshmun, Baal di Sidone ( ?) + Astarte (e varie altre divinità minori) ;
- TIRO : Melqart, Baal di Tiro + Astarte (e varie altre divinità minori).
32In questo caso la religione – per quel poco che possiamo intravedere : sappiamo pochissimo su mitologia e riti – si segnala ancora una volta come un potente mezzo per veicolare l’individualità culturale.
33Sempre in un’ottica di valutazione storica generale, va anche parzialmente rivista la valutazione dell’emergere dei Fenici nell’età del Ferro, di contro a una loro presunta maggiore « mimetizzazione » nelle epoche anteriori. A tal proposito, si richiama qui il punto della situazione fatto di recente da S. F. Bondì, che vale la pena di citare estesamente :
  • 28 S. F. Bondì in Bondìet al. 2009, p. VII-IX.
Si intende generalmente per civiltà fenicia la cultura sorta e sviluppatasi sulle coste orientali del Mediterraneo (approssimativamente nella zona occupata dall’attuale Libano) dalla fine del II millennio a.C. all’epoca ellenistica. Su questa definizione, tuttavia, non mancano dibattiti e controversie, che riguardano sia i limiti iniziali della sua attestazione, sia l’origine del popolo che espresse tale cultura. Oggi è ampiamente condivisa la tesi secondo cui i Fenici emergono in autonomia, dalla sostanziale unità culturale che caratterizzò queste regioni, tra il XVI e il XII sec. a.C., a seguito di una serie di sommovimenti che investirono le regioni del Mediterraneo orientale […] Così ora, nella differenziazione rispetto a entità diverse e non presenti prima nel territorio, appare in piena autonomia quella civiltà dei centri costieri della Siria centro-settentrionale che può a buon diritto chiamarsi fenicia e che, nell’organizzazione politica, nella produzione artistica e nella religione, appare la continuatrice più fedele della cultura urbana del Tardo Bronzo. In essa non mancano naturalmente elementi innovativi […] : la civiltà fenicia non è una sorta di “fossile” sopravvissuto ai grandi rivolgimenti dell’epoca, bensì l’espressione vitale di una cultura, quella dei centri urbani della costa levantina del Mediterraneo, che aveva costituito senz’altro il polo più evoluto dell’area. […]. Oggi l’emergere della civiltà fenicia appare il risultato di un’evoluzione avvenuta suoi luoghi stessi che la videro fiorire, cioè la regione orientale del Mediterraneo che convenzionalmente delimitiamo a nord all’altezza di Tell Sukas (antica Shukshu) e a sud nell’area del Monte Carmelo ed è compresa tra il Mar Mediterraneo a ovest e le montagne del Libano e dell’Antilibano a est28.
34Molto, ma non tutto, è da condividere di quanto sopra citato. Segnatamente, l’« emergere in autonomia » dovrebbe a mio avviso essere modificato in « guadagnare visibilità » ; la « sostanziale unità culturale » che caratterizzerebbe l’età del Bronzo (diciamo, il II millennio) è tale solo ai nostri occhi probabilmente proprio a causa della scarsa documentazione che possediamo ; parlerei di « centri costieri dell’area siro-palestinese », e non di « centri costieri della Siria centro-settentrionale » ; non mi è chiaro infine il senso dell’espressione « polo più evoluto dell’area », che di certo non può avere implicazioni di tipo evoluzionistico e, pertanto, avrebbe bisogno di essere esplicitata.
35In ogni caso, è chiaro che non sono tanto i Fenici a emergere, quanto il contesto circostante a mutare. Il loro imporsi all’attenzione deriva essenzialmente dal parziale tramonto di un « modello politico » (la città-stato su base territoriale, che invece continua a caratterizzarli) affiancato o sostituito da un « modello » diverso, quello dello stato nazionale, che proietta alla ribalta gli stati aramaici (Damasco in primo luogo), palestinesi (Israele e Giuda) e transgiordanici (Ammon, Edom, Moab). Fanno compagnia ai Fenici, invece, come esponenti dell’« antico » modello socio-politico, i Filistei, pur di recente insediamento, e non a caso in competizione con i « nuovi » stati palestinesi. Piuttosto che tratti innovativi – delle « cesure » alle quali accennava a suo tempo Moscati non è il caso di parlare – emergono notevoli fattori di continuità tra cultura fenicia dell’età del Ferro e precedenti manifestazioni nel Tardo Bronzo, fatte salve le trasformazioni dovute alla perenne dinamica storica.
  • 29 Bellelli (ed.) 2013, p. 23.
36Per quanto riguarda la lingua, essa assume particolare rilievo per varie ragioni ed è perfettamente valido l’assunto di M. Pallottino per gli Etruschi – ma anche in generale nelle questioni identitarie – circa l’incidenza del fattore linguistico nella ricerca sulle « origini » : come scrive V. Bellelli, è dunque « […] sul terreno linguistico che si giocano le maggiori speranze di avvicinarci alla verità »29.
37Una volta stabilita – se vogliamo, con qualche dose di convenzionalità – l’equazione lingua = cultura (società, etnia), come identificatore o fil rougeidentitario, diventa quasi naturale desumere uno schema di derivazione storica delle etnie (come testimonia la questione etrusca) dallo schema di derivazione storica delle lingue.
  • 30 Xella c.d.s.
38Per quanto riguarda il fenicio – almeno quello veicolato dall’alfabeto lineare che è documentato all’incirca dalla metà dell’XI secolo a.C. con l’iscrizione di Ahiram re di Biblo – la sua area di diffusione (Occidente mediterraneo escluso) va dall’attuale costa siriana a quella meridionale della Palestina, giungendo almeno fino alla regione del Monte Carmelo, anche se ora sono sempre più numerose le testimonianze epigrafiche in fenicio più a sud e anche verso l’entroterra30. Occorre ancora aggiungere Cipro, mentre nell’Anatolia sud-orientale, dal IX al VII secolo a.C., il fenicio fu usato come lingua ufficiale e di prestigio (quella di Karatepe è l’iscrizione fenicia più lunga che si conosca). Nella diaspora mediterranea, la lingua seguì i viaggiatori e sempre di fenicio si tratta, anche per quello che si definisce abitualmente punico (mentre il neopunico, come è noto, è solo riferibile al tipo di scrittura corsiva), pur nelle varianti ed evoluzioni locali. Quanto alla cronologia, si può indicare l’XI secolo a.C. da una parte, e il II secolo d.C. dall’altra (un ostrakon da Kharayeb, in Libano), mentre in Nord Africa arriviamo forse al III secolo d.C.
  • 31 Un limite di questo contributo che qui dichiaro apertamente è la mancanza di valutazione approfondi (...)
39Se non si può dunque negare una sostanziale unità linguistica del fenicio, date e area geografica allargano notevolmente i limiti in cui si è pensato di confinare l’identità fenicia. Non va dimenticato che, anche prima della diffusione dell’alfabeto, si parlava già naturalmente un « fenicio » a Tiro, Sidone, Biblo, etc., e dunque l’etnonimo deve eventualmente connotare anche tali città durante l’età del Bronzo. Analoghe considerazioni, en passant, possono prodursi per le altre manifestazioni culturali. Non va dimenticato, ancora, che c’è anche chi – come G. Garbini – parla tout court di dialetti del fenicio, spingendosi forse un po’ troppo avanti nel considerarle lingue autonome, ma segnalando comunque giustamente che differenze grammaticali e sintattiche (oltre che lessicali) dovevano esistere, pur se da noi poco percepibili a causa del tipo e della scarsa entità della documentazione pervenutaci31.
40Per concludere. Anche solo verificando quante volte, nel presente intervento, ho usato i termini « Fenici » e « fenicio », appare chiaro come essi siano praticamente indispensabili (o, almeno, tali sono divenuti) come strumenti euristici consolidati, a condizione (meno rispettata di quanto si pensi abitualmente) che si sia sempre coscienti della loro portata e dei loro limiti.
41Detto questo, mi sembra comunque che gli elementi esaminati non siano sufficienti per attribuire ai Fenici un’identità etnica e la coscienza di appartenervi. In riferimento al Levante (altro è il discorso per l’Occidente mediterraneo), l’area geografica è grosso modo quella indicata a suo tempo da Moscati, ma senza artificiali limitazioni verso nord, sud ed entroterra ; l’arco cronologico deve includere vicende e culture delle città « fenicie » per tutto il tempo in cui esse sono attestate, valutando naturalmente con attenzione continuità e discontinuità, fasi « oscure » e fasi di luce per quantità e omogeneità di fonti ; questo significa pertanto includere almeno il Tardo Bronzo e anche più indietro nel tempo mentre, come si è visto, è necessario abbassarsi cronologicamente ben dopo la data della conquista di Tiro da parte di Alessandro Magno.
42Ben venga, dunque (è un fatto compiuto !), il termine « fenicio » per definire in certa misura convenzionalmente un campo di studi vasto e suggestivo, che non può tuttavia avere barriere geografiche e cronologiche artificiali per meglio « compattare » l’oggetto dell’indagine. Soprattutto, a mio avviso, va sempre ricordato che ogni definizione non è che un mero strumento da noi creato da usare, modificare o dismettere secondo la sua utilità, e non una categoria ontologica che, a rischio di intrappolarci, asserva e condizioni la ricerca limitandone grandemente strategie, obiettivi, insomma, la sua stessa irrinunciabile libertà d’azione.
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Bibliographie

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Notes

1 Anche per il mondo antico, il tema è stato recentemente al centro di numerosi interventi e convegni : la bibliografia in proposito è amplissima e un’elencazione dettagliata va al di là del presente contributo, nel quale sono rimasto sostanzialmente fedele al testo letto. Si vedano comunque, tra gli altri, Hall 1989 ; Bettini (ed.) 1992 ; Neusner – Frerichs 1995 ; Hall 1989 ; Hall 1997 ; Jones 1997 ; Blömer – Facella – Winter 2009 ; Cruz Andreotti – Mora Serrano (edd.) 2004 ; Gargiulo – Peri – Regalzi 2004 ; Delgado – Ferrer 2007 ; Álvarez Martí-Aguilar 2009 ; Álvarez Martí-Aguilar – Ferrer Albelda 2009 ; Gruen (ed.) 2011 (vari contributi, tra cui Bonnet 2011 e Quinn 2011) ; Melchiorri, c.d.s. Sul fronte antropologico, per restare nell’ambito nazionale, è di rigore citare almeno Remotti 2008, che prende decisamente posizione contro l’ « ossessione identitaria », il suo uso inflazionato, le prospettive illusorie che crea ; e Fabietti 2013, che invece non ritiene di dismettere il concetto, pur segnalando la delicatezza dell’uso e la vigilanza metodologica che deve presiedervi (in questi due lavori si troveranno adeguate referenze bibliografiche). Altri studi saranno menzionati più avanti.
2 Rinvio qui a Bellelli (ed.) 2012, dove è fornita la bibliografia più rilevante in merito e lo status quaestionis.
3 Moscati 1963, 1984 e 1993 ; vedi anche Moscati 1974 e 1992.
4 Vedi ad esempio Garbini 1980 e 1983 ; Röllig 1983, 1995 ; Xella 1995, 2007 e 2008.
5 Friedrich – Röllig – Amadasi 1999 : « Die Phönizisch-punische Sprache ist eine semitische Sprache und hat ihre nächste Verwandten im Hebräischen und dem […]Ammonitischen, Edomitischen und Moabitischen » (p. I).
6 Erodoto (I 1 ; VII 89) riteneva che i Fenici venissero dal Mare Eritreo / Mar Rosso (sostanzialmente, il Golfo arabico) ; Strabone (XVI 3,4) e Plinio (IV 36) indicavano all’incirca la stessa area geografica (templi e città di tipo fenicio sarebbero sorti nel Golfo Persico) ; secondo Giustino (XVIII 3, 2-4), i Fenici provenivano da una loro patria lontana, un luogo imprecisato da cui sarebbero fuggiti a seguito di un terremoto, insediandosi prima presso il « Lago Siro » (= Mar Morto?), quindi sulle coste mediterranee, loro attuale sede ; solo Filone di Biblo (Eus., Praep. Ev. I 9, 14-19) si pronunciava in favore della loro autoctonia.
7 Couroyer 1973, il quale adduceva a sostegno delle proprie tesi, oltre alle fonti classiche, alcuni dati egiziani e ugaritici del tutto inconsistenti.
8 Moscati 1975.
9 Seguo qui essenzialmente Fabietti 2013.
10 Fabietti 2013, p. 21 s.
11 Vedi tra gli altri Epstein 1978.
12 Lo studio classico in proposito è Hobsbawn – Ranger 1983.
13 Fabietti 2013, p. 16 ss. e bibliografia ivi citata.
14 Benveniste 1969.
15 Numerosissimi studi hanno osservato che, una volta « costruite » attraverso un processo duplice, esterno e interno, le « etnie » sembrano acquistare una consistenza concreta per coloro che vi si riconoscono.
16 Fabietti, p. 22 e passim.
17 Moscati 1974.
18 Fabietti 2013, p. 46.
19 Ercolani c.d.s. (ringrazio l’Autore per avermi fatto leggere il testo prima della pubblicazione). Si vedano, senza pretese di esaustività, Wathelet 1974 e 1989 ; Bunnens 1983 ; Baurain 1986 ; Vandersleyen 1987 e ulteriore bibliografia citata da Ercolani.
20 Cf. per il cratere Od. 4, 611 s. e 15, 111 s.
21 Vedi Ercolani c.d.s.
22 I passi relativi, riportati in Mazza – Ribichini – Xella 1988 (T.3 – T.9, p. 24-26), sono Il. 23, 740-745 ; Od. 4, 80-85. 611-619 ; 13, 271-286 ; 14, 287-300 ; 15, 111-119. 415-484.
23 Per la documentazione su quanto segue, vedi Xella 1995.
24 Dossin 1973.
25 Tra le varie edizioni del testo : Dietrich – Loretz 1985.
26 Liverani 20037, p. 555.
27 Un caso tra gli altri, anche se di età tarda, è quello illustrato da Lichtenberger 2009.
28 S. F. Bondì in Bondì et al. 2009, p. VII-IX.
29 Bellelli (ed.) 2013, p. 23.
30 Xella c.d.s.
31 Un limite di questo contributo che qui dichiaro apertamente è la mancanza di valutazione approfondita di quella importantissima parte della documentazione definita usualmente cultura materiale, che merita invece la massima attenzione e deve essere trattata sistematicamente e a parte. Qui si nota solo che dietro una sostanziale (apparente ?) omogeneità, si intuisce una ricchezza di sotto-tradizioni (mi si passi il termine) autonome, che non sempre siamo in grado di caratterizzare. Ma questa è certo un’altra storia.
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