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giovedì 16 ottobre 2014

La più grande manifattura di ceramiche dell'antichità

Dopo lavori di scavo di circa 4 anno, presso l'antica Selinus dei Greci (Selinunte, la colonia greca più occidentale) è stata fatta una pregevole scoperta: la più grande manifattura di ceramiche e laterizi dell'antichità che si conosca ad oggi. 
Si estende  - un po' discosta dalla preiferia dell'antico centro - per una distanza di quasi mille metri e comprende la bellezza di 80 forni di cottura (il più grande dei quali supera di poco i 5 metri di diametro), estendendosi sul fianco della collina su quattro terrazzamenti. Rivolto verso l'antico abitato è un vero e proprio negozio, adibito alla vendita dei prodotti.
Il sito, datato intorno al 550 a.C., fu distrutto nel 409, quando i Cartaginesi presero Selinus.
La datazione è stata ottenuta grazie ad uno spesso strato di ceneri - causato dall'incendio - e dalle monete in esso contenute.

Largest pottery workshop of Greek antiquity found 


German archeologists have discovered the largest industrial quarter of the Greek world, during an excavation in Sicily. 




At the excavation in Selinunte, a kiln was uncovered that displays a well  preserved firing platform [Credit: Martin Bentz] 


Streching for more than 3,200 feet, (975 metri) the craft district relied on about 80 kilns for the production of ceramics.

“The largest one is 17 feet in diameter, making it the biggest kiln ever found in a Greek city,” Martin Bentz, an archeologist at the University of Bonn, told Discovery News.

 The finding was made in the periphery of Selinunte, on the southwest coast of Sicily. 

The farthest west of the Greek colonies, known for its grand temples, Selinunte enjoyed centuries of prosperity before being reduced to rubble by the Carthaginians during the first Punic War. 

Located along the river Cottone, now silted up, the industrial quarter operated inside the city walls. 

“It was separated from the rest of the city by an non-built-up area so to protect the inhabitants from fire danger, smell and noise,” Bentz said. 

Bentz’s team made long trenches to reach the end of the workshop and noticed it’s one big homogeneous construction built on four terraces on the slopes of the city hill. 

The industrial quarter featured a central courtyard for drying the products before firing, two large working and firing areas and, at the end toward the city, a shop to sell the products.

“The whole construction is more than 3,900 square feet, by far the largest workshop we know in the Greek world,” Bentz said.

The quarter and the workshop were founded around 550 B.C

At that time, the production focused on small artistic terracotta statuettes. 
Around the middle of the 5th century B.C., the new huge structure was built, beginning a mass production of roof tiles and vases of every kind

The workshop was destroyed when the Carthagians conquered Selinus, as the Greeks called it, in 409 B.C. 

“We have a thick ash layer which covered the structures and which can be well dated by coins,” Bentz said. 

Begun four years ago, the excavation is scheduled to continue until 2016 at least. 

Author: Rossella Lorenzi | Source: Discovery News [October 15, 2014]

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martedì 5 marzo 2013

FENICI E CARTAGINESI IN SARDEGNA - 2








So che il Prof. Pittau - come sempre succede, non solo a lui, per certi temi - ha ricevuto molte critiche per il suo articolo, cui anche io ho dato volentieri spazio in questo Blog. 
Fermo restando che tengo valido il principio per il quale ognuno  - se ama un argomento, un luogo, una persona - è conseguentemente obbligato a rappresentare l'oggetto del proprio amore quanto più realisticamente gli è possibile, mi permetto di annotare alcune delle puntualizzazioni che io stesso avrei nei confronti delle considerazioni che il Professore mi ha gentilmente partecipato.


Quel “quasi sicuramente” all’inizio dell'articolo andrebbe sostituito con un “forse”, visto che le solo ipotetiche “incursioni” dei cosiddetti e non confermati “Popoli del Mare” più probabilmente non avvennero così come la fantasia (anche quella erudita) è andata costruendole nel tempo, bensì furono episodi ben differenti, solamente in piccola parte da ascriversi alla categoria “fatti di guerra”.

Ho trattato in un libro intero (“L’Ira degli Dei ed i Popoli del Mare”, Ed. CSCM - 2012) questo argomento e non ritengo utile qui fare una lunga e complessa digressione citando tutti gli elementi a riprova della mia tesi (che non è solo mia, sia ben chiaro).

Questa necessaria ed imprescindibile premessa modifica però di molto ogni successivo approccio al tema “Fenici e Cartaginesi in Sardegna”.


In più, ancora oggi credo si sia piuttosto lontani da una soddisfacente ed esaustiva definizione unanime di “Fenici” e di “Cartaginesi”. Purtroppo, anche per una definizione di “Nuragici” su cui esista un consenso comune si dovrà attendere ancora di più, visto il faticoso progredire degli studi tra molte fastidiose interferenze non accreditate. 

Ne consegue che le considerazioni successive (circa chi abbia potuto portare quali segni e quali oggetti o persone in Sardegna nei secoli XIII e XII, oppure nel XI) appartengono al mondo etereo delle ipotesi.


Ox-Hide Ingot, dal relitto della KYRENIA

Personalmente, non credo affatto che i Nuragici abbiano mai gestito, né avuto, una propria flotta indipendente: l’archeologia non ha mai reperito navi definibili nuragiche, né cantieri navali sull’isola, anche posteriori. 
Indiscutibilmente, però, alcuni nuragici viaggiarono per mare (ad esempio: reperti archeologici in Spagna di ceramiche ‘nuragiche’ d'uso quotidiano - non preziose - fatte con terre locali). 
Il che significa solamente che, se in assenza di prove non si possono fare affermazioni del tutto negative, certamente non sono per nulla giustificate  le 'quasi certezze' (o anche assolute certezze) sciorinate da alcuni al riguardo a favore della 'navigazione nuragica'. 
Se nessuno si azzarda a pensare che i Nuraghi NON siano stati eretti dai locali mentre la loro funzione è ancora oggetto di discussione, i bronzetti - invece - sono indiscutibilmente opere votive posteriori all'epoca dei Costruttori. Le loro somiglianze con altro ed eterogeneo materiale estraneo alla Sardegna è un fatto di cosiddetta convergenza, come avviene anche per le imbarcazioni e per altro.
Illustrazione dal libro provocatorio "Centuries of Darkness", dell'Archeologo Peter James.

Non mi azzardo a formulare ipotesi mie su come e quando – in dettaglio – i Fenici siano mai giunti in Sardegna.
Apprezzo molto le descrizioni dell’origine autoctona di molti dei toponimi e l’esiguità estrema dei toponimi isolani riportabili ad etimologia ‘fenicia’, come anche la scarsissima presenza assoluta di vocaboli che derivano direttamente dalla lingua fenicio-punica (trattazione fatta dal Prof. Pittau)
Le conseguenze che ne derivano, però, credo vadano ancora più accuratamente valutate, alla luce di varie altre considerazioni d'interesse primario, non collaterale o periferico.
Faccio notare, ad esempio, che l’apporto linguistico fenicio-cartaginese nel sardo è una cosa, l’apporto antropologico culturale un’altra ed infine (e soprattutto) il flusso genetico dall'esterno verso la popolazione isolana un’altra ancora. E non è detto che le tre cose – distinte – abbiano avuto un comportamento sempre parallelo o paragonabile. Anche se - in fondo - si tratta sempre di fenomeni antropologici che fanno capo agli uomini.

Sono genericamente d’accordo con il fatto che i Fenico-Punici non abbiano mai avuto il possesso di tutta l’isola (forse neanche solo quello delle coste, ovviamente, anche se gli approdi erano proprio ciò che suppongo essi desiderassero potere usare: e lo fecero certamente), e sono d’accordo sul fatto che grandi numeri non siano mai stati implicati nell’apporto semitico in Sardegna. Ma aggiungo che dal lato isolano si contrapponevano numeri altrettanto ridotti, contrariamente a quello che fonti non erudite sostengono con partigianeria resistenziale...

Non mi inoltro in difficili distinzioni tra termini infidi quali  ‘frequentazione’, ‘pre-colonizzazione’ e ‘colonizzazione’ fenicia oppure altrui: fatto sta che i Fenici in Sardegna ci arrivarono. Il dato è reale. Piaccia oppure no.

La Genetica di Popolazioni (che è una scienza e procede con metodi scientifici, non inseguendo le farfalle identitarie) ne ha infatti rinvenuto alcune tracce genetiche inconfondibili ed assolutamente innegabili, in tutte quelle sedi costiere che proprio la Storia ci ha tramandato come ‘Fondaci’ Fenici. Un caso? No. Quindi i Fenici arrivarono e risedettero in Sardegna, inequivocabilmente. Gli studi internazionali di Spencer Wells ne hanno dato documentazione convincente, accettata da tutti gli scienziati mondiali, meno che da un manipolo rumoroso di incolti sardi.
Quali fossero i rapporti con i locali non è dato sapere: la genetica non ci rivela alcunché di quanto resta quindi affidato alla fantasia romanzata più selvatica ...

L’Archeologia ha rinvenuto in differenti sedi sarde, anche dell’interno, materiali risalenti persino al XIII/XIV secolo che sono attribuiti a provenienza ‘Micenea’.
Come giunsero questi materiali in Sardegna, nessuno ce lo dimostra: il campo è aperto ad una ridda d’ipotesi. 
Ognuno dovrebbe però avere la decenza di portare un’ipotesi che sia possibile, che sia anche credibile e non macchiata da ideologie personali o politiche.

Ho spesso portato all’attenzione quanto esiguo fosse sempre stato il numero assoluto degli abitanti dell’isola – citando gli studi da cui derivo questa realtà, che è mondiale, non solo locale isolana – perché non si ricorresse con troppa facilità ad ipotesi infondate, implicanti brulicanti moltitudini di Neolitici Sardi o di Nuragici disposti a continua difesa delle coste isolane.

Credo infine si debbano tenere a debita distanza sia l’argomento, sia gli eventi che lo composero, sia le parti che ebbero a dibattersi in essi, confusamente (per noi oggi).
Trovo interessante la definizione accurata delle date che il Prof. Pittau ci offre con precisione e trovo peraltro molto credibile la descrizione della situazione contingente di Roma e la sua conseguente probabile impossibilità ad intervenire verso Cartagine con qualche peso politico in un secondo trattato. 

La presenza, in seguito, di reparti mercenari sardi nell’esercito cartaginese per me parla logicamente a favore di un’evidente colonizzazione, ma non ne faccio una questione di principio assoluta.
Il Prof. Pittau conclude con la conferma anche linguistica della conquista capillare romana della Sardegna, che sostituì al Paleosardo forse non Indoeuropeo, il Neosardo Neolatino, parlato tutt’ora sull’isola.

Alcuni punti fermi, quindi, esistono. Molto è dubbio ed aperto alla speculazione. 
Nella speculazione, ognuno vede ciò che preferisce.

Ognuno - formulando le proprie ipotesi - in realtà non dice mai davvero molto sull'argomento "Fenici e Cartaginesi in Sardegna", quanto in realtà afferma e rivela di se stesso e delle proprie convinzioni.
Percorso - nel Tempo - della Tecnica dell'Agricoltura e degli strumenti per la produzione di cibo.

Con buona pace di chi non crede che il percorso della Cultura sia stato parallelo a quello del recipiente che la trasportava: l'Uomo.
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venerdì 1 marzo 2013

Fenici e Cartaginesi, in Sardegna




Ricevo e pubblico con piacere questo scritto del prof. M. Pittau: perché è sempre importante parlarne, con serenità, con affetto per la materia e con spirito collaborativo. Anche quando le opinioni e le risultanze di ciascuno non coincidessero con quanto sostengono altri: le differenti competenze e conoscenze possono indurre a formulare teorie divergenti, talvolta poco, talvolta molto. Ma lo scambio di vedute e di conoscenze specifiche deve sempre condurre ad una crescita, ad un ampliamento delle prospettive. Nel rispetto reciproco e - soprattutto - nell'interesse del proprio oggetto di studio. Amare significa conoscere anche i difetti dell'oggetto del proprio amore e di conseguenza obbliga a rappresentarlo come esso esattamente è, come è stato: e questo vale anche per la Sardegna, in ciascuno dei suoi aspetti. 

Fenici e Cartaginesi in Sardegna.

Quasi sicuramente i Sardi Nuragici ebbero i loro primi contatti col popolo fenicio in Oriente, in occasione delle incursioni che essi fecero coi «Popoli del Mare», e precisamente sia in Fenicia, sia in Cipro, sia infine in Egitto, dove i Fenici erano di casa, dato che erano quasi sempre al servizio dei Faraoni. Quelle incursioni, infatti, che sono avvenute fra i secoli XIII e XII a. C., sono precedenti di circa due secoli ai primi approdi effettuati dai Fenici in Sardegna forse nel secolo XI a. C. È molto probabile dunque che siano stati i Sardi Nuragici a frequentare i Fenici nella Fenicia, assai prima che i Fenici frequentassero i Sardi Nuragici nella Sardegna. Da questa importante circostanza si debbono trarre due logiche e necessarie conseguenze:

1) È molto più ovvio e logico ritenere che i più antichi reperti fenici che sono stati trovati in Sardegna, vi siano stati portati non dai Fenici stessi, bensì dai Sardi al ritorno dai loro viaggi effettuati in Egitto, a Cipro e nella stessa Fenicia.

2) La prima spinta all'arrivo dei Fenici in Sardegna sarà venuta dagli approcci che essi avranno avuto coi Sardi nelle citate zone del vicino Oriente. Si può addirittura ipotizzare con verosimiglianza che siano stati gli stessi Sardi a sollecitare la venuta in Sardegna degli abili e intraprendenti mercanti della Fenicia (cfr. M. Pittau, Gli antichi Sardi fra i “Popoli del mare”, Domus de Janas edit., Selargius, CA, 2011).

Circa poi gli stanziamenti che i Fenici avrebbero effettuato in Sardegna si impone l'obbligo di respingere un esempio di quella xenomania da cui si sono finora dimostrati affetti non pochi studiosi della Sardegna antica, xenomania che in questo caso si specifica come feniciomania. Essi hanno sostenuto e sostengono la tesi secondo cui i Fenici avrebbero fondato loro «stanziamenti stabili» nell'Isola e avrebbero addirittura fondato città, da cui avrebbero effettuato tentativi riusciti di penetrazione verso l'interno; e avrebbero fatto tutto ciò in opposizione e cioè contro la resistenza degli indigeni, i Sardi Nuragici.
Questa tesi va respinta innanzi tutto per precise e stringenti ragioni di carattere militare, quelle in base alle quali si sa con certezza che una «testa di ponte» mette sempre in grave "crisi tattica" un qualunque esercito la tenti o la effettui. Non si può affatto ipotizzare, dunque, che «teste di ponte» create dai Fenici in Sardegna in opposizione ai Sardi Nuragici si potessero prima mantenere e dopo allargare nel retroterra. E ciò per due concomitanti e insormontabili difficoltà: da una parte l'enorme distanza di mille miglia esistente fra quelle «teste di ponte» e le loro basi logistiche della Fenicia (l’odierno Libano), distanza che avrebbe impedito il necessario continuo rifornimento di uomini, armi, navi e viveri, dall'altra la circostanza che quelle «teste di ponte» sarebbero state effettuate non in una terra più o meno disabitata, bensì in una terra abitata da un popolo, il quale aveva già espresso grandi capacità politiche, militari ed economiche e che proprio in quel torno di secoli aveva raggiunto l'acme della sua potenza. Nel secolo XI a. C. sarebbe stato del tutto facile per i Sardi Nuragici respingere o distruggere le teste di ponte che i Fenici avessero tentato di effettuare nelle coste dell'Isola contro la loro volontà di padroni di casa. E ciò va detto anche nella supposizione che le basi di partenza dei Fenici non fossero propriamente quelle della lontanissima madrepatria, ma fossero le colonie fenicie dell'Africa settentrionale, ad esempio Utica, fondata, secondo la tradizione, nel 1101 a. C.
Con tutto ciò è ovvio che noi non intendiamo affatto negare che i Fenici abbiano effettivamente stabilito nell'Isola alcune «teste di ponte», ma queste avranno avuto esclusivamente il carattere di «stazioni mercantili» od «empori commerciali» e nient'affatto un carattere militare e inoltre esse non saranno state imposte con la forza ai Sardi Nuragici, ma saranno state da questi consentite, autorizzate e controllate. Inoltre, in base a precise testimonianze relative ad altri popoli antichi, c'è anche da supporre che i Fenici pagassero ai Sardi Nuragici tasse e dazi a titolo di licenza commerciale e di affitto per i terreni occupati nell'Isola, così come in seguito i loro connazionali di Cartagine faranno a lungo a favore degli indigeni dell'Africa settentrionale.
A questo proposito ci piace citare il punto di vista di Emidio De Felice, linguista di notevole autorità, conseguita anche in virtù della sua ampia apertura alla problematica storica e culturale dei popoli: «I Fenici (....) non sono presenti in Sardegna come dominatori e conquistatori, ma solo come navigatori e commercianti, in un rapporto non di egemonia o di prevaricazione rispetto ai Sardi Nuragici, ma di parità e di reciproco rispetto: creano approdi per le loro rotte occidentali - che d'altra parte si svolgono prevalentemente lungo le coste dell'Africa -, basi di rifornimento, fondaci; non vi è traccia di fortezze e di grandi complessi fortificati, e non appaiono infatti in Sardegna i toponimi in 'gdr "muro di difesa, fortificazione" del tipo Gadir, Gades, presenti invece nell'Africa settentrionale e in Iberia».
Sempre affetta da «feniciomania» e quindi da respingere anch'essa è la tesi, secondo cui i Fenici avrebbero fondato in Sardegna le città di Karalis, Nora, Bithia, Sulci, Tharros e Bosa. Relativamente a Karalis (Cagliari) c'è da affermare che è assurdo ritenere che, molto prima dei Fenici, i Sardi Nuragici non avessero messo occhio e provato interesse per questa località, caratterizzata come era da facili approdi, sia ad oriente che ad occidente, munita di un colle dirupato, facilmente trasformabile in roccaforte, ricca di importanti saline e posta all'imboccatura di quella laguna di Santa Gilla, che non solo era molto pescosa, ma portava anche fino ad Assemini, nella direzione delle risorse agricole del Campidano e di quelle minerarie dell'Iglesiente. Del resto risulta accertato che nell'area di Cagliari lo stanziamento umano risale al periodo eneolitico e forse anche a quello neolitico, come risulta dai ritrovamenti effettuati a Sant'Elia, San Bartolomeo e a Monte Claro. Inoltre è un fatto che il toponimo Karalis è quasi sicuramente sardiano o protosardo, dato che trova riscontro nei toponimi sardiani Carále (Austis) e Carallái (Sorradile) e soprattutto nell’appellativo sardiano caraíli «macigno, roccia, rupe» (Isili, Villaputzu) (DitzLes).
A proposito di Nora si deve considerare che nella cerchia cittadina si trova ancora un pozzo nuragico, sono stati rinvenuti uno stiletto e una navicella nuragici, un elemento costruttivo di nuraghe inserito nel muro del tempio cartaginese di Tanit, elemento che probabilmente apparteneva a quel nuraghe che era situato nell'istmo fino 70 anni fa e che è stato distrutto completamente per la costruzione della odierna stazione militare. E anche il toponimo Nora non è fenicio, mentre trova riscontro in altri due uguali dell'Asia Minore. «I coloni fenici e punici - ha scritto sensatamente il linguista Vittorio Bertoldi - si stanziarono nel centro di Nora già abitato da indigeni, rispettandone il nome».
A proposito di Bithia si è parlato di «interazione dei due elementi - Sardo e Fenicio - », come dimostra il rinvenimento di tombe che hanno dato materiale nuragico. Ma più significativo è il fatto che tutt'intorno alla città si trovano ancora i resti di almeno 8 nuraghi e inoltre che il toponimo è quasi sicuramente sardiano o protosardo.
A Sulci (= Sant'Antioco) sono stati rintracciati i resti di 23 nuraghi, di cui uno sotto le fondamenta del cosiddetto «Fortino Sabaudo», posto a pochi metri da un tempio cartaginese; così come resti di nuraghi esistono ancora nella vicina isola di San Pietro (antica Enosim = «Isola degli Sparvieri»).
Il retroterra di Tharros, cioè tutta la zona del Sinis è punteggiata da nuraghi, due nuraghi esistono nella penisola in cui era situata la città e uno si trovava proprio nella zona del suo tophet. E pure il toponimo Tharros/Tárrai non è fenicio, mentre trova riscontro in quello sardiano Tarrái (Galtellì).
 Per Bosa poi, da una parte è quasi incredibile che si osi affermare che essa sia stata fondata dai Fenici soltanto per la circostanza che vi sarebbe stata rinvenuta una scritta in fenicio – una sola, smarrita dalla fine dell’Ottocento e probabilmente falsa - dall'altra si sorvoli sul fatto che anche a Bosa esistono resti di nuraghi, uno nella periferia orientale della città e gli altri tre nel suo territorio.
Orbene, siccome è certo che i nuraghi sono stati costruiti dai Sardi Nuragici e non dai Fenici, c'è logicamente da concludere che anche a Nora, Bithia, Sulci, Tharros e Bosa esistevano già altrettanti stanziamenti nuragici, prima che ad essi si affiancassero quelli fenici.
E pure l'antichità degli stanziamenti fenici in Sardegna va grandemente ridimensionata, come dimostra la seguente affermazione dell'archeologo Ferruccio Barreca: «L'archeologia documenta la presenza di Fenici in Sardegna già nel sec. XI a. C., con un frammento epigrafico rinvenuto a Nora. Quel frammento però non è sufficiente a dimostrare la presenza permanente dei Fenici nell'Isola; presenza che è invece sicuramente documentata solo a partire dal sec. VIII a. C., grazie alla scoperta, in luoghi di culto cittadino (tophet), di ceramiche fenicie e greche databili a quel secolo (Sulci e Tharros)».
Concludiamo quest'altro punto dicendo che è indubitabile che in Sardegna c'è stata una "precolonizzazione semitica", cioè promossa dai Fenici che provenivano dalle loro basi della lontana madrepatria orientale od anche dalle loro colonie dell'Africa settentrionale, ma questa precolonizzazione non è stata effettuata in opposizione o contro la volontà dei Sardi Nuragici, bensì è stata da questi probabilmente sollecitata e sicuramente consentita, autorizzata e verosimilmente sottoposta a pedaggi. Ancora è indubitabile che in Sardegna è esistita anche una «colonizzazione semitica», imposta contro la volontà dei Sardi Nuragici, ma essa si è identificata con l'imperialismo dei Cartaginesi, che però è stato di molto posteriore nel tempo, dato che è iniziato - come vedremo più avanti - non prima dell'anno 480, con la seconda spedizione cartaginese in Sardegna guidata dai fratelli Amilcare e Asdrubale, figli di Magone.


*   *   *

Sconfitti nella loro prima spedizione effettuata in Sardegna e guidata da Malco, i Cartaginesi tornarono all'attacco con una più forte spedizione guidata dai fratelli Amilcare e Asdrubale, probabilmente qualche anno dopo il 480 a. C. Questa data, che segna la presenza di reparti mercenari di Sardi nell'esercito cartaginese sconfitto dai Siracusani ad Imera in Sicilia, ovviamente va considerata come il terminus post quem per la seconda spedizione dei Cartaginesi in Sardegna. Questa volta i tentativi dei Cartaginesi di allargare le loro teste di ponte in Sardegna ottennero effettivamente risultati positivi. Ai Sardi Nuragici sicuramente venne meno qualsiasi aiuto da parte dei loro connazionali, sia i Sardiani della Lidia sia i Tirreni dell'Etruria. I primi infatti erano ormai sotto il pesante dominio dei Persiani, i secondi erano ormai sotto la forte pressione della crescente potenza di Roma.
I recenti storici della Sardegna antica ritengono invece che la seconda spedizione dei Cartaginesi per la conquista dell'Isola sia immediatamente anteriore o posteriore all'anno 509/508, al quale risalirebbe il primo trattato stipulato tra Cartagine e Roma. Noi invece seguiamo quegli storici moderni, con in testa Teodoro Mommsen, Ettore Pais e Andràs Alföldi, i quali ritengono che quel trattato non ci sia mai stato e che Polibio che ne ha parlato abbia fatto confusione col trattato del 348/347, il quale definiva i diritti-doveri delle due potenze: i Cartaginesi rinunziano ad ogni mira commerciale nella penisola italiana, mentre i Romani riconoscono che la Sardegna appartiene alla sfera di influenza politica e coloniale dei Cartaginesi. Noi ci limitiamo a far osservare che è pressoché assurdo che Roma, che nel 509/508 era appena uscita da una gravissima crisi interna, determinata dalla cacciata della monarchia etrusca dei Tarquini e dal suo passaggio istituzionale dalla monarchia alla repubblica, avesse la capacità e la forza politica per entrare in un accordo paritetico con Cartagine, che era allora la più grande potenza del Mediterraneo centrale.
D'altra parte, pur prescindendo dalla questione della data anche approssimativa della seconda spedizione dei Cartaginesi in Sardegna, nonostante i sicuri successi sia diplomatici sia militari che avevano consentito a Cartagine di far entrare la Sardegna nella sua sfera di influenza, esistono numerose prove che dimostrano che da un lato il suo dominio sull'Isola tardò parecchi decenni prima di imporsi realmente, dall'altro esso non riuscì mai a includere anche la zona interna e montana dell'Isola, nella quale varie tribù nuragiche mantennero sempre una effettiva indipendenza e autonomia dalla potenza dominante.
D'altronde a noi sembra, in linea generale, che in questi ultimi decenni da parte di alcuni archeologi sia stata enfatizzata in maniera spropositata la presenza dei Fenicio-Punici in Sardegna, in termini antropici, militari e culturali. Essi hanno disegnato e presentato carte geografiche della Sardegna antica, in cui sono tracciate le supposte linee di sistemi fortificati costruiti dai Cartaginesi, di loro strade che sarebbero arrivate fin nella Sardegna interna e montana, di stanziamenti fenicio-punici stabiliti dappertutto nell'Isola, perfino nelle sue zone più interne.... Tutto questo motivato e sostanziato soltanto dalla circostanza di aver trovato qua e là nell'interno dell'Isola qualche anello o collana o statuina o vaso di fattura fenicio-punica e trascurando di considerare che questo materiale poteva essere il semplice frutto del commercio fra i Cartaginesi e gli indigeni sardi, oppure di razzie effettuate da questi a danno di quelli. Peggio ancora: hanno parlato di stanziamenti fenicio-punici in località della Sardegna interna, in cui hanno trovato i resti di capanne di forma quadrangolare (ad es. a Nurdole, presso Nùoro), quasi che i Sardi Nuragici fossero capaci di costruire soltanto capanne circolari e non anche capanne quadrangolari....
Però su questo preciso argomento tali archeologi vengono contraddetti in maniera chiara e decisiva dalla linguistica storica: nell'intero patrimonio lessicale della odierna lingua sarda sono stati trovati appena 7 (sette) vocaboli che derivano direttamente dalla lingua fenicio-punica dei Cartaginesi: ásuma «alaterno», curma «ruta d'Aleppo», grúspinu «crescione», sicchiría «varietà di aneto», sintzurru «equiseto palustre», tzíppiri «rosmarino» (tutti fitonimi), tzingorra «ceriola, anguilla giovane» e inoltre i toponimi Macomer «Città di Merre», Magomadas «Villa Nova» e Mara e Villamar «fattoria». Il che ha fatto giustamente dire al linguista Emidio De Felice che in Sardegna «l'apporto fenicio e cartaginese è insignificante» ed a Paul Swiggers: «(a) nelle zone dove i Fenici e i Punici si sono stabiliti, la cultura autoctona - e gli usi linguistici autoctoni - sono sopravvissuti, e (b) la colonizzazione fenicio-punica in Sardegna era soprattutto una espansione economica, e non era guidata da una politica culturale. Concretamente questo vuol dire che la presenza dei Fenici e dei Punici sull'isola sarda era centrata attorno ad empori ed implicava una interazione molto ridotta fra le popolazioni indigene e i colonizzatori».
Lo studioso tedesco della lingua sarda, Max Leopold Wagner, ha commentato da par suo questi incontrovertibili dati linguistici: «i Punici abitavano le città del litorale, mentre i contadini dei dintorni erano sardi. Singoli punici si erano certamente stabiliti nei latifondi presso le città litoranee ed è probabile che in queste regioni si sia formata una popolazione mista, sardo-punica; ma che, ad ogni modo, non siano esistiti nell'interno nuclei punici importanti, lo prova il fatto che le necropoli puniche di qualche rilievo si trovano unicamente nelle città della costa e che più addentro si è tutt'al più scoperta qualche tomba isolata, come a Sagama e a Geremeas. Condizioni non molto diverse si riscontrano nelle altre regioni che furono in possesso dei Punici, in Sicilia, in Spagna e persino nell'Africa settentrionale, dove i Punici occuparono le città del litorale, mentre il retroterra era abitato dai Libici e vi si parlava la lingua libica».
Questa importante e sostanziale considerazione di carattere linguistico ne implica un'altra di carattere demografico od antropico generale: l'apporto antropico dell'elemento semitico in Sardegna - prima fenicio e dopo cartaginese - sarà stato molto ridotto in tutti i tempi. Una immigrazione notevole di individui di stirpe fenicia e punica nell’Isola è da escludersi con decisione. Certamente è il caso di pensare ad una immigrazione forzata nell'Isola di manodopera servile o semiservile importata e adoperata dai Cartaginesi nelle miniere dell'Iglesiente e del Sarrabus e nei lavori agricoli del Campidano, ma neppure questa avrà mai raggiunto cifre rilevanti di individui e inoltre sarà stata non di etnia fenicio-punica, bensì di etnia africana o berbera. Se tutto questo non fosse vero, non potremmo in alcun modo spiegare la su indicata irrilevanza dell'apporto linguistico fenicio-punico in Sardegna. Del tutto diversa ed opposta invece è stata la successiva posizione di Roma: essa ha "cancellato" quasi completamente la lingua sardiana o protosarda o nuragica - della quale adesso restano soltanto pochi relitti toponimici e pochissimi relitti lessicali - ed ha imposto totalmente la sua lingua latina.