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venerdì 25 luglio 2014

I Nuragici scrivevano?


Ecco, amico mio: I Protosardi hanno edificato strutture lodevolmente complesse e belle come i Nuraghi, numerosi, di vario tipo e dimensioni. Ne consegue - secondo logica - che dovevano possedere alcune misure (più probabilmente, basate sulle misure antropometriche più immediate: piede, braccio, e alcuni multipli derivati). Si è portati a credere che essi dovevano avere alcuni segni che servissero da notazione per quelle misure e da comunicazione ad altri, per potere trasmettere i dati e le informazioni. Sicuramente sapevano contare e parlare (anche se ancora non sappiamo affatto in quale lingua lo facessero).
Questo sopra è un tipo di pensiero che in Inglese si definisce: "Wishful thinking". Esso tradisce il desiderio di realizzazione in realtà di un fatto ipotetico non provato. Il "Wishful thinking" ha il grosso difetto di essere spesso contraddetto dalle dimostrazioni scientifiche, per cui non si può fare alcun affidamento su di esso...
Infatti e sino a prova contraria - per quanto possa apparire impossibile - i nuragici non scrivevano e non utilizzavano comunemente la scrittura per comunicare. Questo dato scientifico attuale è stato da alcuni biasimato come un pensiero fortemente offensivo e discriminatorio contro 'il popolo sardo'. 
Ma allo stato attuale della ricerca, non si può affermare alcunché di più: e per fortuna la maggior parte della popolazione sarda riesce a mantenersi serena, al riguardo. 
L’acquisizione di segni ed alfabeti di provenienza esterna è un conto; altro è pensare che qualcuno li conoscesse e li sapesse usare. Ne sono esempio le ceramiche nuragiche dell’ottavo secolo trovate da Valentina Porcheddu in un antico "emporio" a Villanova Monteleone con incisi, prima della cottura, segni alfabetici fenici e greci». Raimondo Zucca, tra i più autorevoli archeologi della generazione che ha raccolto la pesante eredità di Giovanni Lilliu, osserva dall’esterno l’acceso dibattito sulla scrittura nuragica. A riattivare un confronto che si trascina da anni è stato il blog del defunto giornalista Gianfranco Pintore, sempre attento a segnalare novità sui grandi temi del sardismo e dell’archeologia. Che insieme non dovrebbero stare, in quanto formanti un cocktail piuttosto indigesto, ma che proprio il Lilliu per primo mescolò indebitamente e servì alla sua Scuola.

L’esistenza o no di un alfabeto nuragico è uno di quelli che appassionano di più. Anche con toni spesso inutilmente accesi. Nel mondo dell’archeologia si muovono personaggi d’ogni genere, autorizzati e no, dai compassati studiosi ai sanguigni aedi paladini di una civiltà mitica e autoctona, quanto inesistente. Ed ecco il dibattito sui ritrovamenti – veri o presunti, dipende da come li si vuol vedere – delle prime iscrizioni nuragiche: le fantomatiche tavolette bronzee di Tziricotu (Cabras), l’anello-sigillo di su Pallosu (San Vero Milis), i segni sulla pietra di una capanna a Pedru Pes (Paulilatino) e un’iscrizione su un blocco di un muretto nella campagna di Abbasanta (nuraghe Pitzinnu). 
Il padre degli studi sulla civiltà nuragica, Giovanni Lilliu, ha sempre negato l’esistenza di un alfabeto originale perché non si è mai avuto un riscontro sul campo. Ma nessuno, (a cominciare proprio dall’ultimo Lilliu, allora ultranovantenne) esclude un ripensamento di fronte all’evidenza di una prova avvalorata dai crismi della scienza.

ZUCCA. «Tutto è possibile» sottolinea R. Zucca: «Degli antichi abitanti della Sicilia, i Sicani e gli Elimi, si pensava che solo i primi conoscessero la scrittura: Poi 40 anni fa in un tempio di Segesta è stata trovata una grande quantità di vasi greci con iscrizioni elima che hanno fatto ricredere gli storici. Per quanto sappiamo oggi la cultura sarda è profondamente orale: questo non e un mito perché nel mondo mediterraneo la scrittura fu elaborata dalle civiltà urbane, mentre la Sardegna esprime una civiltà contadina. Sino ad oggi conosciamo villaggi nuragici, ma non città, che nascono solo con l’arrivo dei fenici. Da quel momento (settimo-sesto secolo) convivono comunità distinte, ma ciò non esclude che gli autoctoni potessero aver acquisito o utilizzato alfabeti fenici».

STIGLITZ. Le scoperte da più parti annunciante sulle presunte iscrizioni nuragiche trovano puntuale smentita dagli esperti dell’Università e della Soprintendenza. Le misteriose tavolette di Tziricotu? L’archeologo Alfonso Stiglitz risponde con l’immagine di un reperto bizantino, un ornamento bronzeo di un fodero o di un altro oggetto: «La tavoletta è uguale. Le presunte iscrizioni nuragiche sono semplici decorazioni, usate sino al medioevo. Di per sé la tavoletta trovata a Cabras è molto importante perché è il primo esempio del genere rinvenuto in Sardegna. Ma poiché non è nuragico sembra disinteressare tutti. Il vero problema è questo: cerchiamo di valorizzare una civiltà che ci ha lasciato poco mentre trascuriamo altre di cui abbiamo abbondanti testimonianze». Stiglitz ribadisce un concetto ormai consolidato: «Un popolo che non ha la scrittura non viene più considerato barbarico, ma può essere comunque portatore di una grande civiltà. La scrittura nasce in contesti urbanizzati e con un potere centralizzato. Viene utilizzata per scopi amministrativi, burocratici e commerciali, serve per fare inventari. Ma in Sardegna mancano proprio quelle strutture sociali che in Oriente e in alcuni ambiti occidentali (etruschi, iberici, libici e italici) hanno dato via alle varie forme d’alfabeti».

DECORAZIONI. Nella maggior parte dei casi, quando si parla di presunte iscrizioni nuragiche, gli archeologi "ufficiali" chiamati a dare una valutazione scientifica arrivano ad altre conclusioni: «Si tratta di incisioni successive scolpite sul reperto originale oppure di semplici decorazioni scambiate per segni di lontane lingue orientali». Quelle che avrebbero influenzato la cultura dei mitici popoli del mare, gli Shardana, considerati da alcuni «padri dei nuragici». «Ma dov’è questa gente d’Oriente?» si domanda Alfonso Stiglitz: «Possibile che non abbiamo trovato alcuna traccia? Né tombe, né ceramiche, né armi. Eppure erano uomini che mangiavano e lavoravano come tutti. Mi stupisce che abbiano lasciato solo misteriose iscrizioni e neppure un segno del loro passaggio».

LA PRISGIONA. Ad Arzachena, nella rinomata terra del vino Capichera, il villaggio nuragico detto La Prisgiona ha restituito numerose capanne e una quantità di ceramiche. Un bel vaso sicuramente nuragico – datato tra il XII e il X secolo – mostra delle incisioni che hanno fatto pensare alla scrittura. «L’ennesimo falso allarme» spiega l’archeologa Angela Antona che ha diretto lo scavo: «L’hanno visto diversi esperti e tutti hanno parlato di semplici motivi decorativi. Nessun dubbio». Zucca ricorda ancora un esempio: a Huelva, in Andalusia, è venuto alla luce un blocco di 31 frammenti di ceramica nuragica insieme a vasi attici del periodo medio-geometrico (800-750 a. C). Tra questi reperti anche un’anfora vinaria sicuramente prodotta in Sardegna con due segni d’alfabeto. «Cosa significa?», si domanda l’archeologo oristanese: «È probabile che non sapessero scrivere, ma che utilizzassero segni di altri alfabeti per diversi scopi che non sono però quelli della scrittura così come la intendiamo noi». Una tesi che partendo da Lilliu e dai padri dell’archeologia nuragica (con qualche eccezione) si è consolidata nel tempo sulla scia di nuovi studi. E che i continui annunci di «clamorose scoperte» di un alfabeto tutto nuragico non scalfiscono di un pelo.

USAI. «Che gli antichi sardi parlassero una lingua comune, da nord a sud dell’isola, è ormai una certezza grazie agli studi filologici sui toponimi e sui "relitti" linguistici. Ma sull’esistenza di un alfabeto e sull’uso della scrittura non abbiamo alcun documento scientifico» ribadisce l’archeologo della Soprintendenza Alessandro Usai, responsabile per il territorio di Oristano da dove sono partite le più recenti segnalazioni (tavolette e iscrizioni). «Abbiamo riscontro di segni singoli sui lingotti di rame "oxhide" (cioè disegnati come pelli di bue), trovati in abbondanza nel bacino mediterraneo. Attribuiti da diversi studiosi alla civiltà nuragica risultano invece di provenienza cipriota alle luce delle analisi isotopiche. Altri singoli segni su ceramiche sono segnalati in uno scavo a Villanova Monteleone e a Monte Prama, nella zona dei famosi guerrieri di pietra. I segni però si notano non sulle statue, ma su modelli di nuraghi, fatti con elementi componibili: quindi si può ipotizzare che si tratti di indicazioni per far combacciare [sic!] i singoli pezzi. Non si può escludere, proprio perché non ne abbiamo mai trovato traccia, che esempi di scrittura si possano trovare su materiale deperibile, come argilla cruda, legno, pelli o tessuti. Ma oggi dobbiamo attenerci alle attuali conoscenze».

TZIRICOTU: un falso conclamato. Usai ha esaminato, per dovere d’ufficio, i casi di cui si discute vivacemente sul blog del giornalista Pintore, beccandosi anche ironici commenti. Ma una cosa è la discussione tra appassionati con incursioni di nomi di fama come il docente Giovanni Ugas che continua le sue ricerche sui presunti popoli Shardana (clamoroso caso di 'wishful thinking'). Altro sono le pubblicazioni scientifiche che devono passare al vaglio degli esperti di università e Soprintendenze. Le tavolette di Tziricotu? «Non c’è dubbio, un reperto tardobizantino o medievale, forse persino della civiltà longobarda che in Sardegna ha lasciato molte tracce, non abbastanza pubblicizzate», risponde Usai. Spiega che molti siti nuragici sono coperti da stratificazioni d’epoche successive: così reperti romani e medievali si possono mischiare a pezzi più antichi, confondendo – spesso in buona fede – i ricercatori meno avveduti. «Di molti reperti – conclude Usai – si parla, ma poi vengono tenuti nascosti per diversi motivi. In realtà chi cerca le prove dell’esistenza della scrittura nuragica guarda sempre in questa direzione e interpreta ogni segno a conforto della sua tesi. Ma i sardi nuragici erano un popolo contadino e non avevano bisogno di una scrittura per le necessità della loro vita».


Razionalmente, capisco tutto ciò e ne prendo atto. Comprendo bene che la scienza ufficiale non possa certificare ciò che non è provato. Ma col cuore, dentro di me sono certo che i Nuragici sapessero scrivere e che lo facessero, al bisogno, anche se certo non tutti. E spero fortemente che prima o poi se ne abbia la dimostrazione certa, al di là di ogni dubbio: è una cosa che mi farebbe veramente felice!
E' proprio per questo motivo che non perdono quei quattro cialtroni falsari interessati e politicanti che scherzano coi miei desideri proclamando con protervia di avere scoperto la scrittura nuragica nei loro ragnetti, nei loro falsi autografi, nelle loro ricerche da indigestione da spuntino sardo... 
Coi sentimenti non si scherza... 

domenica 23 febbraio 2014

Contro ogni falso


1915 - da dietro, a partire da sinistra: O. Barlow, Elliot Smith, Charles Dawson (considerato oggi l'autore del falso), Arthur Smith Woodward. Davanti: A.S. Underwood, Arthur Keith, William Plane Pycraft e Sir Ray Lankester.

(reblogged from: 'L'Uomo di Piltdown')

di Maurizio Feo


Perché si devono combattere i falsi?

- Un buon esempio del motivo è dato dal cosiddetto “Uomo di Piltdown”. 



Il 'cranio dell'Uomo di Piltdown' e la derivante ricostruzione ipotetetica del volto.

Nel 1912 l’archeologo dilettante Charles Dawson riferì alla Geological Society di avere trovato parecchi frammenti cranici molto spessi ed una mandibola incompleta in uno strato che conteneva ossa d’animali estinti, presso Piltdown Commons, nel Sussex. 


Lapide commemorativa sul luogo del ritrovamento, coerentemente di forma fallica.

Il Curatore del reparto di Storia Naturale del British Museum (l’anatomista Smith Woodward) lo appoggiò: secondo lui si trattava dell’anello mancante, come si diceva allora, cioè di un uomo estremamente antico e primitivo (anzi, il più antico), con un cranio voluminoso simile in tutto all’uomo moderno[12], e con una mandibola ancora scimmiesca i cui canini (mancanti nel reperto) avrebbero dovuto essere a forma di zanne sporgenti ed acute (secondo un’errata teoria in voga allora e derivata da Darwin) e propose il nome di Eoanthropus Dawsoni (uomo primitivo di Dawson)[13]

Un sacerdote cattolico francese (Teilhard de Chardin) appassionato d’archeologia, trovò proprio quei canini nel sito: erano perfettamente uguali a quelli di una scimmia. Niente di strano: qualcuno – rimasto ancora oggi ignoto – aveva costruito un abile falso. Si era procurato un cranio moderno insolitamente spesso, lo aveva spezzato in frammenti, aveva dipinto le ossa di marrone con materiale terroso fossile, aveva aggiunto una mandibola d’orango spezzata all’estremità articolare (altrimenti si sarebbe capito che non apparteneva al cranio umano), e ne aveva limato i molari per simulare il consumo dato dalla masticazione umana. Completò il tutto mettendo nel sito (solo in un secondo tempo, in un posto dove sarebbero state trovate dal sacerdote) zanne di scimpanzè, anch’esse limate e trattate ad arte per renderle “fossili”.

L’uomo di Piltdown fu chiuso sotto chiave, in una bacheca del Museo di Storia Naturale, gioiello della corona britannica. Gli studiosi non avevano accesso altro che a calchi in gesso: ecco perché il falso durò così tanto. 
Solo nel 1953, nel corso di un programma di verifica generale, si esaminò il reperto con l’allora nuovo metodo di datazione al fluoro, che denunciò il falso. Poi bastò il microscopio per riconoscere i segni della lima (J.S. Weiner, antropologo, Oxford). Infine si trapanò l’osso e si scoprì che l’interno era chiaro e moderno. 

 Una beffa umiliante!

Ma questo era stato considerato per 41 anni l’uomo più antico del Mondo intero. Aveva distolto ogni attenzione accademico-scientifica dagli studi faticosi e seri che da anni erano condotti in Sudafrica sull’Australopithecus Africanus (scimmia meridionale dell’Africa) da Raymond Dart dell’Università di Witwatersrand. 

Nel 1950 Robert Broom aveva rinvenuto, oltre ad altri esemplari d’Africanus, anche un’altra australopitecina che chiamò, per le sue caratteristiche Australopitecus Robustus

Con la dimostrazione del falso di Piltdown, gli studi s’incentrarono finalmente sull’Africa: oggi sappiamo con certezza che la Rift Valley fu abitata da almeno due tipi di scimmie antropomorfe, in un periodo compreso tra 3 milioni e un milione e trecentomila anni fa[14]

Nel 1973 D. Johanson scoprì, nel Triangolo di Afar, un’australopitecina ancora più antica, (Australopitecus Afarensis, 3.250.000 aa fa),  che divenne più nota con il nome di Lucy, essendo di sesso femminile[15]

Da allora, una vasta messe di nuove ricerche (Mary Leakey, Steven Ward e Andrew Hill)  dimostrarono che l’età degli ominidi era ancora più antica: fino a 5 milioni di anni fa.
E rivelarono che questi ominidi lasciarono per 25 metri le impronte solamente dei piedi, su uno strato di cenere proveniente dal vulcano Sadiman, che ci è stato gentilmente conservato dalla natura: camminavano come noi. 

Altre, numerose e più recenti scoperte ci parlano dell’antichità dell’Ardipithecus Ramidus (e dell’Ard. Kadabba, suo predecessore, risalente ad epoche anche precedenti), scoperto nel 1993 e pubblicato nel 2009.

Tutte queste rigorose ed affascinanti ricerche sull’origine vera dell’Uomo sono state terribilmente ritardate ed ostacolate da un falso, che adesso – forse – ci può far sorridere, ma che ha indubbiamente prodotto danni gravi alla scienza e mietuto numerose vittime innocenti tra i ricercatori seri. 

La sola considerazione finale dei danni creati dal falsario e dalla sua opera è sufficiente per convincersi che questo fenomeno va combattuto in ogni modo, sempre.

N.B. Le Note sono numerate a partire dalla [12] perché questo è solo la parte finale dell'articolo originale: 'L'Uomo di Piltdown è vivo'(che compare in questo stesso blog).





[12] Esisteva, infatti, il preconcetto che l’anello mancante dovesse avere un cervello molto sviluppato. Pertanto, il Pitecanthropus Erectus trovato a Giava da Eugene Dubois nel 1890 fu considerato insignificante, come progenitore dell’uomo (in seguito, fu riqualificato come Homo Erectus, ma Dubois morì sconfitto, convinto di avere trovato ‘solo una specie estinta di gibbone’, come ammise egli stesso). 

[13] Darwin, in realtà,  pensava ad un antico progenitore comune alle scimmie e all’uomo, non ancora umano.

[14] Datazione con decadimento del potassio radioattivo in argon radioattivo ed inversione del campo magnetico terrestre.

[15] Dalla canzone allora notissima e di moda: “Lucy in the Sky With Diamonds”, dei Beatles.


Martin Hinton è da alcuni considerato il vero autore del falso di Piltdown, vedi anche:
http://www.clarku.edu/~piltdown/map_prim_suspects/hinton/hinton_prosecution/pilthoax_whodunnit.html

Cronologia:
1856 -- Neanderthal man discovered
1856 -- Dryopithecus discovered
1859 -- Origin of Species published
1863 -- Moulin Quignon forgeries exposed
1869 -- Cro Magnon man discovered
1871 -- The Descent of Man published
1890 -- Java Man discovered
1898 -- Galley hill "man" discovered [modern, misinterpreted]
1903 -- First molar of Peking man found
1907 -- Heidelberg man discovered
1908 -- Dawson (1908-1911) discovers first Piltdown fragments
1909 -- Dawson and Teilhard de Chardin meet
1912 -- February: Dawson contacts Woodward about first skull fragments
1912 -- June: Dawson, Woodward, and Teilhard form digging team
1912 -- June: Team finds elephant molar, skull fragment
1912 -- June: Right parietal skull bones and the jaw bone discovered
1912 -- Summer: Barlow, Pycraft, G.E. Smith, and Lankester join team.
1912 -- November: News breaks in the popular press
1912 -- December: Official presentation of Piltdown man
1913 -- August: the canine tooth is found by Teilhard
1914 -- Tool made from fossil elephant thigh bone found
1914 -- Talgai (Australia) man found, considered confirming of Piltdown
1915 -- Piltdown II found by Dawson (according to Woodward)
1916 -- Dawson dies.
1917 -- Woodward announces discovery of Piltdown II.
1921 -- Osborn and Gregory "converted" by Piltdown II.
1921 -- Rhodesian man discovered
1923 -- Teilhard arrives in China.
1924 -- Dart makes first Australopithecus discovery.
1925 -- Edmonds reports Piltdown geology error. Report ignored.
1929 -- First skull of Peking man found.
1934 -- Ramapithecus discovered
1935 -- Many (38 individuals) Peking man fossils have been found.
1935 -- Swanscombe man [genuine] discovered.
1937 -- Marston attacks Piltdown age estimate, cites Edmonds.
1941 -- Peking man fossils lost in military action.
1943 -- Fluorine content test is first proposed.
1948 -- Woodward publishes The Earliest Englishman
1949 -- Fluorine content test establishes Piltdown man as relatively recent. 1951 -- Edmonds report no geological source for Piltdown animal fossils.
1953 -- Weiner, Le Gros Clark, and Oakley expose the hoax.

lunedì 3 febbraio 2014

Disterraus sardus - Emigrati sardi


  Alcuni concetti devono essere compresi e ricordati bene.

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 giovedì, 01.11.2012 19:55 Categoria: Storia e Archeologia

Scrittura nuragica e falsificazioni

I Sardi sanno o “sentono” di avere a che fare col periodo più importante dell’intera storia della Sardegna. Perciò tutti i Sardi sono istintivamente portati a simpatizzare con chi sostiene che anche i Nuragici avevano una loro “scrittura nuragica nazionale”



Le falsificazioni sulla cosiddetta “scrittura nuragica”.
In Sardegna c’è una attenzione vivissima e quasi morbosa per la civiltà nuragica. Questa attenzione deriva dal fatto che, almeno in una forma in buona parte inconsapevole, i Sardi sanno o “sentono” di avere a che fare col periodo più importante e più glorioso dell’intera storia della Sardegna. Per questo motivo di fondo tutti i Sardi sono istintivamente portati a simpatizzare con chi sostiene che anche i Nuragici avevano una loro “scrittura nuragica nazionale”.

Una ventina di anni fa nel nuraghe Tzricottu del Sinis è stata trovata una targhetta metallica che, in una delle sue facce, porta chiarissimi “disegni ornamentali”, simili ad arabeschi. Intervennero due amanti di cose sarde, insegnanti medi, i quali dichiararono al pubblico che quei disegni in realtà erano i segni di una “scrittura nuragica”, mai conosciuta e riconosciuta prima.

Intervenne subito un archeologo il quale dimostrò – in modo del tutto convincente – che quella targhetta risale non all’epoca nuragica, bensì a quella bizantina e faceva parte dell’armatura di un militare.

Ovviamente c’era stato dunque un grosso abbaglio da parte dei due insegnanti. Uno di questi – anche per tentare di stornarlo da sé – andò avanti con la sua tesi pubblicando anche un libro nel quale c’è pure il disegno di altre tre targhette simili alla prima, ma anche lievemente differenti. Senonché, a mio fermo giudizio, queste altre targhette non sono altro che veri e propri “falsi”. Esse infatti non fanno altro che seguire il disegno della prima, ma con lievi variazioni interne. E si tratta chiaramente di un “falso” fanciullesco, dato che presuppone che la seconda targhetta contenga una iscrizione sovrapposta a quella della prima, la terza targhetta contenga una iscrizione sovrapposta a quella della seconda e della prima, la quarta targhetta una iscrizione sovrapposta a quella della terza, della seconda e della prima. E tutto ciò presuppone un gioco di inserimenti di iscrizioni che non potrebbe trovare posto neppure nei giochi di in una rivista di enigmistica. Che queste ultime targhette siano altrettanti “falsi” è dimostrato pure dal fatto che esse non sono state mai mostrate ad alcuno.

Messisi sulla strada ormai aperta delle “falsificazioni”, alcuni individui hanno finito con l’avere anche fastidi giudiziari rispetto a ciottoli fluviali che sarebbero stati trovati sulla riva del Tirso e che presenterebbero segni di scrittura etrusca.

Da qualcuno di questi individui, per telefono e senza farsi riconoscere, io ho avuto una offerta di fotografie contenenti “iscrizioni etrusche” (ormai si sapeva che io mi interessavo a fondo di “lingua etrusca”). Io non abboccai, dato che sono ben al corrente del fatto che fioriscono in Toscana, in Umbria e nel Lazio settentrionale, “falsari di oggetti etruschi” che offrono agli acquirenti ignari, e questi oggetti tanto più sono apprezzati se riportano scritte anch’esse “false”. Io feci al mio interlocutore anonimo alcune domande sulle supposte “iscrizioni etrusche” e compresi subito che ero di fronte a un inganno e a un tentativo di imbroglio. Per il quale il mio interlocutore aveva chiesto la modica somma di 20 mila euro…

Ma la strada delle “falsificazioni archeologiche e linguistiche” pure in Sardegna era stata ormai aperta, favorita immensamente anche dal ricorso al disponibilissimo “internet”. E infatti da una decina di anni in qua furoreggiano, soprattutto in qualche blog ospitale ed interessato, numerose riquadri di alfabeti e figure di scritte nuragiche, fornite delle necessarie lunghe didascalie. Si tratta però di “falsi”, nient’altro che di “falsi”, ripresi dai numerosissimi siti dell’internet, che possono ritrovare e riscontrare tutti coloro che sappiano e abbiano la pazienza di interrogare a dovere i generosi siti internet.

Però ovviamente questi “falsi” sono sottoposti al cambio di connotati, nel senso che possono appartenere ad una delle numerose lingue del mondo antico, ma, mutatis mutandis, sono presentati come “alfabeto o scrittura dei Nuragici”. Quando è opportuno le figure originali di scritture orientali subiscono qualche spostamento o inversione o ritocco; tutte operazioni che in internet si possono effettuare con estrema facilità e senza lasciare alcuna impronta digitale…

È possibile scoprire questi “falsi” ed anche evitare facili imbrogli a proprio danno? Sì, è possibile in questo semplice modo: invitare i propositori di queste “scritte nuragiche” a presentare la fotografia di un bronzetto o vaso nuragico che risulti esposto in uno dei numerosi musei archeologici della Sardegna e che dunque sia stato ufficialmente riconosciuto come “reperto autentico” dagli archeologi autorizzati. Poi farsi mostrare la esatta corrispondenza di segni incisi in quei bronzetti o vasi con le lettere di quello che i propositori dicono essere l’”alfabeto nuragico”, corrispondenza anche di sole 5 o 6 lettere appena.

Se questa dimostrazione di “corrispondenza di segni ad altrettante lettere” non fanno, i propositori in questione sono nient’altro che “falsari”, falsari della buona fede dei Sardi.

E approfitto dell’occasione per mettere in guardia i Sardi, amanti della nostra storia, dai “falsari di oggetti nuragici”, anche forniti di “segni di scrittura nuragica”, che ormai circolano numerosi anche in Sardegna. Sono stato chiaro sulle modiche somme che richiedono agli ingenui che siano disposti ad acquistarli?

Massimo Pittau

Fonte: rinabrundu.com

venerdì 13 settembre 2013

Elmi cornuti



tentativo di rendimento grafico degli elmi degli shardana

Le corna degli elmi sono una favola metropolitana: gli elmi erano calotte e basta, poco di più. 

Naturalmente, si deve intendere bene quali corna, di che dimensioni, di che animali, e di che materiale. Il discorso è piuttosto lungo e complesso: è stato studiato seriamente da pochi.

Gli elmi di zanne di cinghiale sono solo un'apparente contraddizione, per moltissimi motivi: essi sono leggeri, rivestiti di materiale resistente e morbido, legati insieme in modo elastico e quindi offrono 'compliance' e resistenza in modo apprezzabile, senza gravare di soverchio peso il guerriero.

La 'teoria' per cui tali elmi di corna non si siano conservati perché fatti di materiale deperibile è utile al perdurare della falsa credenza tra i non informati.

Anche gli elmi greci classici avevano protuberanze (in genere apicali, per sorreggere la decorazione, leggerissima, con crine di cavallo o penne o altro materiale appariscente e probabilmente multicolorato). 

Ma un corno rigido, posto a ciascun lato dell'elmo ed ancorato in modo robusto alla calotta dell'elmo è più utile all'avversario che al portatore dell'elmo stesso. Le corna sono maniglie per tenere fermo il portatore mentre gli si taglia la gola, oppure sono punti di scarico preferenziali dei vettori della forza applicata all'arma che colpisce l'elmo. 
La calotta scarica in senso tangenziale detti vettori, allontanadoli in senso centrifugo. 
Il corno, invece, cattura tutta la forza del colpo inferto e la riveicola in senso centripeto: in questo caso, si potrebbe avere di tutto, da una semplice contusione encefalica, a ferite aperte e fratture della teca o delle vertebre cervicali.

I guerrieri antichi saranno stati rozzi, ma non erano stupidi: non avevano corna negli elmi.
Naturalmente, l'Armata Brancaleone Shardariana si è data molto daffare per dimostrare l'esistenza dell'elmo cornuto tra i Popoli del Mare (espressione con la quale i componenti l'Armata intendono riferirsi unicamente ai Shardana), ideando alcune ricostruzioni di fantasia, che riporto qui.
ricostruzione a partire da un 'bronzetto sardo'
Inutile dire che l'archeologia non ha mai reperito elmi cornuti per uso militare...

Un ronzio di mosche


Traggo spunto da un'espressione frequente nel Romanzo di Sinhue l'Egiziano di Mika Waltari (che a sua volta s'ispirò agli scritti, veri, della Storia di Sinhue, contemporanei alla XII Dinastia Egizia).

UN RONZIO DI MOSCHE

di  Maurizio Feo

Ovunque sia un fastidioso ed insistente ronzio di mosche, ci sono in genere deiezioni, con tutti i rischi correlati al caso...

In un puteolente blog dal nome pomposo (chiamare 'giganti' statue di dimensione appena normale e monte una collina, fa parte dello spirito affabulatorio che pervade il sito) si radunano preferibilmente tutti coloro che Vidal Naquet definiva con sacrosanto disprezzo "Nazionalisti Atlantoidei".
Personalmente, io preferisco la più terra-terra definizione di 'Armata Brancaleone Shardariana', per adeguarmi al quoziente intellettivo della controparte, che è quel che è sotto il giudizio di tutti e sotto il sole...

E ronzano contenti, con fastidiosa insistenza sulle loro produzioni puteolenti, planando sull'acqua di sentina delle navi shardana...

È evidente che siano un bel po’ confusi (giudizio di stato mentale e non valutazione di merito: in quella sarei meno salottiero del “gabbaroballo” e degli altri graziosi attributi che l'esimio prof. Giggi Sanna distribuisce con generosità equanime[1] a tutti i suoi critici, invece di controbattere scientificamente le critiche stesse – e poi, come potrebbe essere scientifico in quello che propala forse anche  inventandoselo nel difficile post-prandium?).
D’altronde non potrebbero essere altro che confusi, visto che si sono costretti su una strada  totalmente sbagliata ed empirica, votati a difenderla ad oltranza, contro ogni evidenza certa e contro ogni rigore metodologico, contro ogni risultato scientifico. Basterebbe che si liberassero della loro ottica strabica e guardassero alle cose con anche la minima obiettività. 
 Si potrebbe dar loro un consiglio?
Certamente sì, ma con la certezza che non lo seguiranno, perché contrasta appieno con la loro essenza:

"Volete essere ascoltati?
- Fate pubblicazioni scientifiche – peer reviewed per accettazione – e non minchiate.
- Rispondete con argomenti scientifici alle critiche, non con epiteti, lazzi, frizzi, chiacchiere e nacchere.
- Non ricorrete a sotterfugi: ad esempio per entrare all’Università usate la porta principale e non una porta di servizio lasciata socchiusa da amici compiacenti (che poi si troveranno in palese difficoltà per colpa vostra: non è così, Sanna?).
- lasciate la politica fuori dalla scienza: è una questione di gusto, anche, oltre che di metodo scientifico.
- Non sostenete la veridicità di ciò che è provato falso, perché in quel caso sono possibili solo due casi: o vi sbagliate fragorosamente, oppure siete collusi (tertium non datur).
- Non seguite la fisica della birra, insomma, ma la logica della storia.
Una nota: Il prof Luigi Amedeo Sanna ha alle spalle un’onorata e premiata carriera di insegnante, per cui è ancora stimato da molte persone che lo hanno conosciuto come colleghi ed alunni e ne conservano un ottimo (giustificato) ricordo. Quel ricordo non sembra proprio compatibile con un'altra figura, quel Giggi Sanna imbrancato in un gruppo che - ripeto, per chiarezza - Vidal Naquet definiva: “Nazionalisti-Atlantoidei”. Il professore dovrebbe sapere che il suo passato non  può giustificare il suo presente: è inutile che si arrabatti a procurarsi attestati di stima dei suoi trascorsi. E' la sua 'produzione' attuale quella che attira le mosche.
- Per incitarvi a trovare argomenti scientifici credibili, sono disposto persino a chiedere scusa e rimangiarmi la definizione di Armata Brancaleone Shardariana, semmai dimostrerete vera una vostra ‘tesi’ (Allai, Tzricottu, scrittura nuragica, riscrittura della Storia del Mediterraneo, Shardana=Nuragici, datazione dei bronzetti, Atlantide, l'Archeoastronomia Nuragica, etc).
- Fino ad allora, però, sappiate che vi dovrete tenervi sul groppo le meritatissime succitate definizioni e l’altrettanto meritato disinteresse del mondo scientifico, che vi ride dietro unanime,
Ricambiando appieno la vostra scortese disistima."

Ma – va da sé – non credo affatto che quelle cosiddette fantasmagoriche e risibili ‘tesi’ saranno mai dimostrate vere scientificamente. 
Non credo affatto che riusciranno mai, in alcun modo, a dare ad esse la dignità minima, sufficiente perché siano accettate in campo ufficiale, neppure sotto forma dubitativa.
Per il semplice fatto che si tratta di farneticazioni, talvolta oltraggiose.

Quindi, sono più che certo che i gabbaroballi di diritto resteranno sempre loro, con le loro chiacchiere e nacchere, con accluso tutto il restante corteo di gentilezze, di autoreferenzialità e di affabulazione senile e frustrata che l'astinente fisica della birra ed l'incontinente professore in pensione distribuiscono con generosità.

Solamente un ronzio di mosche, niente di più (naturalmente, nelle acque di sentina delle navi shardana).





Maurizio Feo


2009, tempo in cui forse Sanna non aveva ancora riconosciuto Losi come sodale (ma non posso garantire che sia lui l'autore): “Gentile Dottoressa, o cara amica se me lo consenti ma perchè andare ad "infognarsi" ? Non ti conviene lasciar perdere ??? Parla di fisica - che forse conosci meglio - e lascia l'archeologia sarda a quegli ottusi caproni ...forse non fa per te... Del resto ce ne sono già tanti pseudoarcheologi che pontificano sulla storia - senza aver mai fatto uno scavo o seri studi in materia alle spalle... Lascia perdere le susybladate e beviti una bella birra !!! Magari Archeoicnussa.... Pensaci”.

lunedì 9 settembre 2013

Un'altra ragione contro i falsi,

Forgeries 'used to fund terror'
Victoria and Albert Museum
The Victoria and Albert museum is exhibiting examples of forged art
Forged archaeological artefacts are being used to fund terrorism, police have said.Profits from fake relics "exported by the tonne load" from the Middle East are finding their way into the hands of terrorists, according to police.
Examples of the seized forgeries and accompanying false documentation are on private display at the Victoria and Albert museum, west London.
The trade in fake art in Britain as a whole is worth up to £200m a year.
 We know for a fact that there is a terrorism link 
Det Con Ian Lawson
"We know for a fact that there is a terrorism link," said Det Con Ian Lawson.
"Archaeological stuff is being exported by the tonne load from Middle Eastern countries. If the money goes back into criminality, some will inevitably end up in the hands of terrorists," he added.
The Investigation of Fakes and Forgeries exhibition is designed to show art experts the methods used by forgers to fool investigators.
 As quickly as criminals are adapting their techniques we are also developing ways to eliminate this type of crime 
Det Sgt Vernon Rapley
Also included in the show is the work of master forger Robert Thwaites, who received a two-year jail sentence after he sold a fake painting to a respected gallery owner for £20,000.
The forgery was so expertly done that the buyer was able to sell it on again for a 300% profit.
According to police, art forgery is increasingly being used to finance operations by criminal networks with continually evolving techniques.
But Det Sgt Rapley, head of the Metropolitan Police's Arts and Antiques Unit, said: "As quickly as criminals are adapting their techniques we are also developing ways to eliminate this type of crime."

Scotland Yard are considering opening the private exhibition to the public next year. 

Almeno questo motivo non sembra esser presente, per il momento, in Sardegna: un pensiero consolante.

S.S. (Scuola Sarda).

Guerrieri di ferro e abili navigatori riecco i Shardana

SANT’ANTIOCO Un popolo misterioso, ancora poco conosciuto. I docenti di un liceo e di una scuola primaria hanno deciso di farli sbarcare tra i banchi inserendoli nel programma di studio

di Roberto Mura

Navi veloci, terribili. Guerrieri invincibili. Un popolo magico. Torri che sfidano il cielo. Sono loro: “I ribelli Shardana che nessuno ha mai saputo combattere. Arrivarono dal centro del mare navigando arditamente con le loro navi da guerra, nessuno è mai riuscito a resistergli”. Così li definisce il terzo monarca della XIX dinastia egizia: Ramses II (che regnò dal 1279 a.C al 1213 a.C) in una stele ritrovata a Tanis, nel Basso Egitto. Popolo misterioso, gli Shardana-Nuragici: is mannus nostus. Poco conosciuto anche qui da noi. Per cercare di levar via un po’ di tenebra dai loro elmi cornuti e dalle loro spade, Stefano Soi - docente di filosofia e storia al liceo scientifico Lussu di Sant’Antioco - e Patrizia Incani – insegnante di storia e italiano nella scuola primaria, nel plesso di via Virgilio del circolo didattico di Sant’Antioco - hanno deciso di farli (ri)sbarcare tra i banchi di scuola. Dopo circa tremila anni, secolo più, secolo meno. Due decisioni prese in autonomia, ognuna con motivazioni differenti. Un filo rosso lega però quest’idea: la conoscenza di Marcello Cabriolu. Santantiochese, studioso di Beni Archeologici, collaboratore esterno della Soprintendenza per i Beni e le Attività Culturali, Cabriolu è autore de “Il Popolo Shardana”, edito lo scorso anno dall’editrice selargina Domus de Janas. Un libro che ha “fulminato sulla via di Damasco” Stefano Soi e Patrizia Incani. O che, quantomeno, ha dato loro una spinta in più per maturare una decisione, forse, già in animo. Spiega Stefano Soi: «Il mio desiderio di arricchire il programma scolastico, con interventi esterni di altissimo profilo storico, nasce dal credere che la sana e buona cultura debba essere eversiva. In particolare lo è la storia, perché obbliga a problematizzare il presente e a migliorarlo». La tradizione, il racconto storico, continua Soi «connette il passato alle aspettative presenti, dà sostegno e speranza alla ricerca di un significato positivo per il presente e il futuro ». Non si può, dice Soi «raccontare un popolo di navigatori e non chiedersi come mai oggi ci si senta imprigionati. Né come mai da civiltà a tutto tondo ci si sia regionalizzati ». La scuola, prosegue il docente di filosofia «ha il compito di far immaginare il nostro passato ma anche possibili scenari futuri, non avvertiti come minaccia ma come possibilità di creazione per dare significato al presente». Diverso il target di Patrizia Incani, alle prese coi suoi monelli. L’insegnante elementare spiega: «Il mio programma è rivolto ai bimbi della quarta classe della scuola primaria. Si descrivono e si inquadrano le prime civiltà conosciute, il loro rapporto con l’ambiente e l’importanza che hanno avuto per i popoli moderni». Verranno studiate la civiltà Mesopotamica, gli Egizi, la civiltà Indiana, la civiltà Cinese, le antiche civiltà del mare: Cretesi, Micenei, Fenici; gli Ebrei e il popolo Shardana. Nonostante i libri delle scuole non ne parlino, Patrizia ha deciso di proporre la storia degli Shardana: «Credo sia opportuno che i miei alunni conoscano le proprie origini e possano apprezzare la presenza dei sardi nei processi storici studiati. Ho voluto dare il giusto valore al nostro popolo, perché lo si possa inquadrare nuovamente rispetto alle precedenti valutazioni storiche». Per Patrizia non è un semplice esperimento: «Visto che l’argomento è supportato scientificamente, in futuro questo studio non potrà che ampliarsi». IL PLAUSO DELLO STUDIOSO Marcello Cabriolu è lo studioso promotore di quest’eresia: far studiare gli antichi sardi a scuola. Il suo libro “Il Popolo Shardana” è un affascinante viaggio nelle origini del popolo che dette inizio alla nostra storia, un popolo di navigatori, dalle grandi conoscenze tecnologiche e dalla profonda religiosità. «Condivido l’idea dei due docenti sull’utilità della riscoperta del nostro patrimonio storico. Dare ai ragazzi la possibilità di sentirsi come gli egiziani o i greci, quando studiano le loro rispettive grandi civiltà, significa motivarli e renderli orgogliosi di loro stessi». Poter insegnare ai ragazzi quali «formidabili navigatori e guerrieri fossero i sardi li aiuterà a considerare il ruolo di primissimo piano e di conquista avuto dalla Sardegna». Marcello si è complimentato coi due insegnanti per la scelta loro coraggiosa e li ha incoraggiati a non desistere in futuro dal proposito: «Auspico che questo sassolino nel mare possa essere da esempio per tanti altri insegnanti».

Non ritengo utile precisare che - un'altra volta ancora - ho sottolineato quelle che considero - con ottima possibilità - assolute panzane. E' odioso l'uso ideologico del vocabolo improprio 'Popolo', per gli 'Shardana', che forse non sono neppure un gruppetto etnico e su cui la Scienza non ha ancora trovato un Consenso. I Shardana non possono scientificamente essere quindi considerati 'antenati' dei Sardi: potrebbero infatti essere stati un corpo militare specializzato (come dire che i Tunisini discendono dal 'Battaglione Sacro' cartaginese e gli Italiani dai 'guastatori' o dai 'corazzieri'). Non è in alcun modo dimostrata né come categoria di navigatori, né come di guerrieri, né particolarmente religiosi. La produzione dei bronzetti, infine, è notoriamente e provatamente tarda (Età del Ferro) e non può in alcun modo rappresentare  l'aspetto e gli usi di cinque, sette, nove secoli antecedenti. La sede di loro produzione, infine, è Cipriota, non Sarda: difficile quindi collegarli ad una fantasiosa epopea isolana...

Poveri bimbi sardi: che devono sentirsi raccontare queste pappecotte ideologizzate come se fossero storia vera.

sabato 7 settembre 2013

La Misinformazione Sarda


 SEZIONE POPOLI DELLA SARDEGNA

di Salvatore Dedola (1).

Oltre all’etimologia dei nomi dei popoli noti, inserisco nell’elenco le etimologie relative a quattro cognomi (Arbéri, Bárbaru, Barbéri, Barbòne) che a mio giudizio sono degli arcaici appellativi utilizzati per indicare il popolo dei Barbaricini. Inserisco inoltre il cognome Sassu, anch’esso indicante un etnico.


ALCHITANI, Alkitani etnico. Secondo Pittau (OPSE 79) gli Alkitani erano gli antichi abitanti dell’attuale S.Nicolò Arcidano, e stavano nel territorio che arrivava sino alle pendici del Monte Arci (donde il nome dallo stesso Monte). É possibile, anzi diamo per certo che il territorio fosse questo. Ma intanto va detto che il Monte Arci ha un diverso etimo (vedi). L’etnico Alkitani trae invece trae l’etimologia dal babilonese alku ‘regione lungo una riva’, cui s’aggiunse il tema etnico latineggiante -tani. Si chiamavano Alkitani perchè stavano anzitutto lungo la ‘riva’ del rio Mogoro, che oggi fa semplicemente sorridere ma sino a un secolo fa incuteva terrore per le catastrofiche piene improvvise. La bonifica della Piana di Terralba-Arborea partì anzitutto dall’imbrigliamento del torrente con una diga. Tre-quattromila anni fa il villaggio doveva ancora trovarsi, a un dipresso, presso le rive boscose di una specie di “fiordo”, che vogliamo così chiamare per comodità, ma era più che altro la valle incassata del rio Mogoro, la quale all’altezza del villaggio era quasi sulle rive del Golfo di Oristano, per il fatto che il mare entrava ancora profondamente nella pianura; oppure, che è lo stesso, era il torrente che con le sue alte bancate dava il nome di Alku alla regione. Il “fiordo” poi (o le bancate del rio), proprio in virtù delle piene del torrente, fu gradualmente riempito dagli apporti alluvionali, ed oggi possiamo notare soltanto un mare impantanato, il quale altro non è che la laguna di Marceddì, che oggidì si è peraltro ritirata, e sta relativamente lontana dal villaggio.


ARBÉRI cognome che Pittau crede equivalente a (b)arbéri 'barbiere' < cat. barber (Wagner). La sua proposta è inaccettabile. La base etimologica del cognome è antichissima e si riferisce agli abitanti delle aree montagnose e incolte, quelli noti come (B)arbaricini. Un tempo (2000 anni fa) quelli che furono pure noti come Ilienses ed ancora prima come Jolaenses erano chiamati propriamente, da quelli delle pianure, Arbéris, Arbérus, con la base accadica arbu(m), warbum 'incolto, selvatico', ḫarbu(m) 'territorio abbandonato, deserto, ossia non adatto alle coltivazioni' + suff. sardiano -ri, -ru.


BARBARICÍNI. È un composto sardiano con base nell’akk. arbu ‘(montagna) aspra, incolta’ + rīqu(m) ‘libero’ + akk. enu ‘signore, lord’ (stato costrutto arba-rīq-enu > [b]arbarikinu > barbaricínu). Il significato sintetico è ‘libero signore delle montagne’. È noto infatti che i Romani ebbero pieno uso soltanto dei territori di pianura o collinari, ma non di quelli pertinenti agli Ilienses, costituenti l’asse montuoso centro-orientale della Sardegna.
Altro possibile etimo per Barbaricini è arbu ‘(montagne) aspre, incolte’ + aria ‘vuoto’ + kīnu ‘legittimo’ (stato costrutto arb-ari-kīnu), col significato di ‘legittimi (sott. abitatori) del territorio vuoto e incolto’.


BÀRBARU. Per capire questo cognome occorre prendere in considerazione primamente il cognome Barbàrja, Barbària, il quale a sua volta è una variante fonosemantica del coronimo Barbàgia < *Arba-ria ‘territorio incolto (quindi adatto alle greggi)’, da bab. arbu ‘waste, uncultivated’. Ma occorre pure fare i conti con l’etnico Barbaricìno, il quale è un composto sardiano con base nell’accad. arbu ‘(montagna) aspra, incolta’ + rīqu(m) ‘libero’ + suff. sardiano -ínu, col significato sintetico di ‘(uomo) libero che abita sulle montagne’.
Bàrbaru è, con tutta evidenza, un cognome-aggettivale sorto nel medioevo per influsso latino, considerato che furono gli occupanti Romani a interpretare come ‘luogo dei barbari’ l’Arbària, che essi chiamarono per paronomasia Barbària (in sardo Barbàgia). Peraltro a questo cognome i Romani non dettero un significato spregiativo, anche perché presso di loro esisteva lo stesso cognomen Barbarus.


BARBÉRI cognome che Pittau interpreta come ‘barbiere’, derivato dal cat. barber. Egli cita fra l’altro il cognome Barberij citato nel 1410 nel CDS II 45. Ma è proprio questa citazione a non lasciare scampo, essendo impossibile che a circa 80 anni dall’invasione la Sardegna avesse già recepito nella propria onomastica dei cognomi catalani. L’etimologia è assai diversa. Barbéri è una variante fonica e semantica di Arbéri, ed entrambi sono varianti foniche di Bàrbaru (vedi), a sua volta semplificazione di Barbaricínu.


BARBÒNE, Barbòni cognome che Pittau crede accrescitivo e peggiorativo del cgn it. Barba; alternativamente lo crede un cognome propriamente italiano. Ma sbaglia.
Barbòne, -i non è altro che una variante fonosemantica dell’etnico Bàrbaru (vedi), a sua volta semplificazione di Barbaricínu.


CAMPITÁNI popolo che il Pittau suppone esistente in Sardegna in epoca romana, dal quale egli riesce a derivare il medievale Campitanu, onde il nome Campidanu attribuito alla nota pianura sarda. Non sono d’accordo sull’impostazione della questione. Se ammettiamo l’esistenza dei Campitani, il nome può essere spiegato attraverso il lemma Idánu. Poiché Campidanu era il territorio che dai bordi orientali della pianura di Cagliari s'espande ad est attraverso le montagne ed i litorali rocciosi (per intenderci, sin oltre Burcei e sino alle lontane balze costiere di Maracalagonis), non è valida l’origine da campu come ‘pianura’, almeno non come ‘pianura’ degna di questo nome. Peraltro va notato un altro toponimo che avvalora la nostra impostazione, ed è Capitana, località tutta poggi e colline, annicchiata tra le montagne di Maracalagonis, che declina sul litorale con suoli aspramente movimentati, attualmente vocati alla pastorizia, mai ai cereali o agli ortaggi. Attualmente i bagnanti conoscono Capitana per le villette che declinano sul mare, e le attribuiscono l’etimologia popolare di ‘capitano’, ma decenni addietro quel territorio era una classica énclave vocata alla viticoltura. Onde anch’essa va ricondotta a un originario Campu Idanu ‘territorio a vigneti’, da sardo ide ‘vite’.


CARÉNSIOI, Karénsioi è uno degli etnici connotanti uno dei popoli dell’antica Sardegna. Pittau OPSE 116 propone il parallelo col nome dell’antica Karia (regione dell’Asia Minore), in virtù della sua ipotesi dell’arrivo dei Sardi dalla Lidia. Ma il fatto che la Sardegna sia letteralmente pervasa dall’antica lingua accadica suggerisce di cercare in essa il significato del termine. Karènsioi infatti è soltanto un morfema antico-greco, ma la radice del nome è accadica, da kāru(m) ‘quay, port, quay-bank; port on river, on sea’. In antico assiro significò pure ‘colonia commerciale’: proprio così. Non è la prima volta che scopriamo, nel significato dei vari etnici sardi, la vera vocazione del popolo così denominato.
Ebbene, Karénsioi significa ‘navigatori’, propriamente ‘marinai, gente che gestisce porti e moli’. Fu proprio su questa radice nominale che gli accadici forgiarono parecchi termini, quali ‘supervisore del porto’, ‘caserma dei gabellieri’, ‘prezzo corrente’, ‘negozio’. Quindi pare di capire che questo etnico ci presenti uno spaccato interessantissimo dell’attività dei Sardi d’età pre-fenicia.


DIAGHESBEÍS antica popolazione sarda che fonti romane fanno individuare in territorio dell’odierna Posada. «Alcuni la identificano con gli Ilienses-Iolei-Troes di Mulargia-Alà dei Sardi. Aveva vicino gli Esaronenses o Aisaronenses e i Falisci» (Di.Sto.Sa. 525). Strabone (V, 2, 7) scrive testualmente, a riguardo della Sardegna, che «alla bontà dei luoghi fa riscontro una grande insalubrità: infatti l’isola è malsana d’estate, soprattutto nelle regioni più fertili. Inoltre queste stesse regioni sono continuamente saccheggiate dagli abitanti delle montagne che si chiamano Diaghesbéi (Διαγησβεῖς), mentre una volta erano chiamati Iolei».
Vale la pena di dare peso all’affermazione di Strabone (2), e se proprio vogliamo dare un senso al nome di questo popolo, che Strabone precisa essere quello che abita sulle montagne, non può essere altro che il popolo altrimenti noto come Barbaricino (vedi). Non basta tale individuazione. I Barbaricini con questo appellativo di Diaghesbéis sono stati identificati come popolo errante, anzi transumante. Infatti tale etnico può avere un senso soltanto se lo traduciamo col gr. dià-ghes-baíno ‘*trans-humo’, ‘vado errando di terra in terra’. Questo appellativo indica la caratteristica più importante dei Barbaricini, eterni pastori transumanti dalla montagna al piano e dal piano alla montagna.


ESARONÉSI. Tolomeo (III, 3,6) pone gli Aι̉σαρωνήσιοι nella lista dei 18 popoli che vivono in Sardegna. Il loro nome potrebbe derivare da akk. ašru(m) ‘regione’ + nēšū , nīšū ‘genti, popoli’, secondo il Semerano. Secondo Pittau (OPSE 179) occorre riferirsi al vocabolo etrusco aiser, che significa ‘déi’. Secondo lui, pertanto, l’etnico potrebbe significare ‘Religiosi, Pii’.
In realtà l’etnico greco, se scomposto bene nelle due componenti (Αἰσαρω-νήσιοι) significa, per la seconda parte, ‘isolani (νήσιοι). La prima parte, che in Teocrito indica un fiume italiano, Aἶσαρος (ed a seguirne le lusinghe andremmo lontani), è invece da accadico ešēru(m) che significa ‘fortunato, di successo (per i raccolti, i terreni, gli allevamenti, la riproduzione umana)’. Quindi Aἶσαρονήσιοι significa ‘isolani fortunati’, ‘(quelli dell’)isola fortunata’. E con ciò siamo perfettamente in linea con quanto favoleggiavano gli antichi sulla Sardegna. A ben vedere, la prima parte del composto è semanticamente vicina al lemma etrusco individuato dal Pittau.


HYPSITÁNI antichi abitatori dell’agglomerato poi chiamato Forum Traiani (oggi Fordongianus, provincia di Oristano). Le celebri acque calde, sulle quali i romani edificarono le bellissime terme ancora in piedi, furono chiamate da Tolomeo Aquae Hypsitanae. Quest'idronimo a prima vista sembra avere la base nel greco ‘ύψος 'sommità, altura, altezza', e con ciò dovremmo supporre che derivi dal fatto che in questa zona di confine i residenti erano tutti della stessa stirpe, a contatto diretto con i pastori che da quel punto in poi, al di là del limes, erano 'montanari'. In realtà la base etimologica è l’akk. ḫuppu(m) ‘buca, fossa, cratere’, ‘un genere di catino’ + ṣitu(m) ‘sorgente’.


KARÉNSIOI < akk. kārum ‘porto, molo’ (significa quindi ‘marinai, navigatori’). Vedi Carénsioi.


KORAKÉNSIOI «antica popolazione sarda che fonti romane fanno individuare in territorio degli odierni comuni di Ittiri e Villanova Monteleone. Dava o prendeva il nome dall’abitato scomparso di Coriaso» (Di.Sto.Sa. 465).
È un azzardo proporre un etimo per questo etnico. Ma è necessario. Occorre partire, a mio avviso, dal fatto che in Sardegna ci sono alcune sub-regioni caratterizzate dal fatto che le capanne, anziché essere costruite metà in pietra e metà in frasche, sono fatte integralmente in pietra, per intenderci, somigliano alle capanne pugliesi di Alberobello (3), le quali viste da fuori sembrano un forno, una fornace.
Potremmo quindi tentare di proporre questo etimo assumendo la caratteristica delle capanne che un tempo venivano costruite nella fascia di territorio che va da Bonnannaro-Borutta sino a Romana, molte delle quali ancora sopravvivono. La base etimologica è l’akk. kūru(m) ‘forno, fornace’ + kinšu ‘casa a base rotonda’.


ILIENSES (vedi Jolaenses).


JOLAENSES. Va fatta un po’ di chiarezza sulla commistione Il-/Iol- sempre esistita nella storia toponimica sarda. Dobbiamo anzitutto affermare che queste due radici sono nettamente distinte, e che i Romani avevano ragione a parlare di Il-ienses quando identificavano la maggiore tribù dei montanari sardi. I Romani sicuramente sapevano del termine Jol-a-enses, ma lasciavano che a gestirsi un tale lemma fossero i Greci. Conosciamo ormai tutto della tecnica paronomastica greca e della loro indefettibile capacità di riplasmare ogni toponimo sardo a proprio uso e consumo.
Nell’antichità greca la radice (v)iol- (che indica la ‘viola’) diede forma a nomi illustri, come quello di Jole (femminile di Jòlao) che nella mitologia gre ca era attribuito alla figlia del re Eurito. Di essa s’innamorò Eracle il qua le, adirato contro il re che gliela rifiutava, lo uccise e ne distrusse il re gno, portandola via. Deianìra, moglie gelosa dell’Eroe, si vendicò (4) facendo indossare ad Ercole la camicia stregata donatale dal centauro Nesso. Ercole impazzì e si getto sul rogo. Pausania (II sec. e.v.) riporta un po’ ampia men te una tradizione secolare, secondo cui l’ateniese ’Ιόλαος, nipote di Eracle (Ercole), condusse a colonizzare la Sardegna 48 dei 50 figli avuti da Ercole con le figlie di Tespio. Accompagnati da altri Ateniesi, i Tespiesi sospin sero con le armi gli aborigeni e occuparono le pianure più fertili, fondando alcune città (X, 17, I). Altri storici, ad iniziare da Diodoro Siculo che scrive due secoli prima, citano un ’Iολαεῖον riferito alla migliore pianura sarda.
Ma qui la questione si complica davvero, perché in Sardegna le pianure e gli altri siti ancora oggi imparentati con questo nome sono parecchie decine. Va affermata intanto la parentela tra Jòlao e Iólia/Ólia (pronunciata Olla o [Parti]Olla ma anche Dólia [Dolia-Nova] per evidente fusione del coronimo col segnacaso de). S’imparenta il boscosissimo e selvaggio monte Olìa presso Monti, che non a caso segnava il confine tra l’antica Barbagia e la Gallura (esso non può, per ovvie ragioni geografico-ambientali, riferirsi all’olivo o all’olivastro, di cui manca traccia). Sembra ugualmente corretto imparentarvi i numerosi toponimi del tipo Olái (< Jola-i): si noti che l’ugaritico Ilu (Dio), derivando dal verbo ’alāh ‘ascendere, salire verso l’alto’, ha il suo participio proprio in ‘olāh ‘offerta’ (Baldacci).
È parimenti facile imparentarvi la piccola pianura d’Ilùne [Cala Luna], che crea pure una spiaggia e dunque un antico approdo. Il suo nome deriva dal fenicio Ilu ‘Dio’, con l’aggiunta del suffisso sardiano -ne, ed è dunque imparentato strettamente col nome della Perda Iliàna.
Semerano fa derivare il nome Jolao dal semitico Ilāh. Se una colonizzazione avvenne a suo tempo nelle pianure sarde (e successivamente nelle montagne), non la dobbiamo agli Eraclidi d'origine greca ma agli Eraclidi (Melkartidi) d'origine cananea. In questo caso, si capisce meglio la commistione Il-/Iol- (forma semitica e forma greca) e restano salvi i numerosi toponimi "joléi" della Sardegna nonchè la loro autenticità più antica, per nulla appannata dalla sovrapposizione del mito greco. Con tutta evidenza, il mito di Jolao fu rivivificato dai monaci bizantini “in salsa greca”, ed essi tramandarono sino ad oggi pressoché intatte tutte le forme in Jol-.
Tornando alle parentele, è impossibile non imparentare con la radice Jol- il nome dell’ex città (ora villaggio) di Ollolai, che sino al 6° secolo e.v. era stata la capitale dei Barbaricini (gli Jolaenses o Ilienses), sede dell’eroico re Ospitone che subì le imposizioni conversorie di papa Gregorio Magno (in realtà capitolando manu militari ad opera del braccio armato, il bizantino Zabarda: vedi GMS). Ollolai fin dal 1341 è stato scritto Allela, Allala, Ollala, ma è facile scorgere in Ollolai/Allala una iterazione rafforzativa, quasi sacrale, del nome (J)olái = ‘città di Jòlao. È infine corretto imparentarvi Olièna, dai residenti pronunciato Olìana/Ulìana (da [J]ulìana) e nientaffatto riferibile agli ulivi.
Sembrerebbe, a tutta prima, ovvio includervi il toponimo Giùlia/Giulìa/Giuglìa, che sembra richiamare il latino Jūlĭa, femminile di Jūlĭus (Giulio Cesare pretendeva di discendere direttamente da Jūlus figlio di Enea). Grazie all’equivalenza delle radici indoeuropee e romanze Iu-/Io-, Diu-/Dio-, Giu-/Gio-, scaturirebbe in tal caso l’identità radicale tra Jòlao e Giùlia ed anche Jūlus, col che si darebbe man forte alla tesi che gli Jolaenses (gli attuali Barbaricini) non fossero altri che i discendenti di Jūlus-Jòlao, mitico fondatore della stirpe sarda (o uno di essi). Giuglìa è un sito nel cuore del regno degli antichi Iolaenses/Ilienses: sulla carta, è il nome del grande prato appena sotto l’alta e precipite vetta del Corrasi (ai piedi della quale c’è Oliena). Ma intanto i residenti sostengono che il nome non indica il prato ma fa tutt’uno con la vicina parte cacuminale della montagna, ossia con quell’area molto accidentata culminante nelle varie vette “cornute”.
Fatti tutti i conti, però, occorre vedere in Giuglìa un radicale diverso rispetto a quello di Julìana; e nel mentre che sono conscio della piacevol ricostruzione qui fatta per Giuglìa, in realtà il toponimo non è altro che una forma sardiana con base nel sumero ḫulu ‘ruination’ + suff. territoriale sardiano in -ìa, ed indica proprio l’asprezza della parte cacuminale di questa montagna “sfrangiata”.


LESITÁNI. Pittau fa gravitare questa antica tribù attorno a Lesa (attuali Terme di S.Saturnino). È probabile che anche il Nuraghe Losa abbia preso il nome da Lesa e dai Lesitani (5).  


LACONÍTI dicesi di un popolo stanziato attorno a Laconi in epoca romana. Il toponimo Laconitzi (Villagrande) sembra raccordarsi con Laconi, significando letteralmente ‘la cisterna della sorgente’, da akk. lakku ‘vasca’ + aram. itza ‘sorgente’, Il composto subì l’inserzione della -n- eufonica.


SARDÀNA, SHARDÀNA, ŠARDÀNA. A questo etnico calza male l’etimo proposto dal Semerano, dall’akk. šarru ‘re, gran re’ + dannupotente’ = ‘Signore potente’. É incontrovertibile che questo etnico sia stato, a dispetto degli increduli, uno dei più famosi dell’antichità preromana. Il suo primo membro (šar-) ha parecchi etimi cui attingere per una traduzione valida. Oltre a quello del Semerano, abbiamo šar = ‘3600’ (indicato come numero indefinito, idea d’immensità); sarru ‘falso, criminale; ribelle’; bab. ṣar in ṣar maḫaṣu ‘colpire brutalmente, duramente’; šarāru(m) ‘andare in testa (nelle battaglie); incoraggiare’.
Per tutto quanto sappiamo attraverso i testi ugaritici ed egizi, uno qualunque dei termini mesopotamici addotti calza perfettamente alla fama che questo Popolo del Mare si è conquistata. Gli Shardana, come sappiamo, erano infatti, ad un tempo, in numero ‘indefinito’ (vedi testi di Ugarit); erano ‘odiati’ dagli Ugaritici e dal Faraone; indubbiamente erano ‘ribelli’ e quindi ‘falsi’ o ‘criminali’ agli occhi del Faraone; il re di Ugarit ed il Faraone concordavano nell’affermare che ‘colpivano brutalmente’ lasciando dietro di loro solo terra bruciata; infine dal Faraone sappiamo che quei valorosi ‘andavano sempre in testa nelle battaglie’ in qualità di truppe scelte.
Il termine Šardana (ŠRDN), rinvenuto nella celebre stele di Nora (oltrechè nei testi egizi), nel mentre che è da tradurre come ‘Sardegna’, è pure l’omofono del suo etnico (Šardana = ‘abitante della Sardegna’). La Fuentes-Estanol, per il fenicio, dà Šrdn per ‘Sardo’ e Šrdn’ come gentilizio ‘Sardo’ ma anche Šrdny (possibile pronuncia Šardany), Šrdnt ‘Sardo’ come nome proprio.
Nei testi egizi gli Shardana sono registrati come Šarṭana, Šarṭenu, Šarṭina (EHD 727b). Altre volte nei testi egizi sono indicati proprio come Šarṭana n p iām ‘gli Shardana quelli del mare’ (per n EHD 339a, per p EHD 229a, per iām EHD 142b). Wallis Budge li considera provenienti dalla Sardegna. Lo stesso pensano gli archeologi ed i filologi egiziani, assieme alla maggioranza degli studiosi di scuola inglese e americana.
Dal sumerico ricaviamo šar ‘splendido’ + dan ‘puro, limpido’ (šardan), da tradurre come ‘Gli splendidi’, ‘I purissimi’, ‘Gli Immortali’ o simili. Peraltro tale etnico non poteva avere altra spiegazione, visto che gli stessi Sumeri chiamavano la Sardegna Sardō, da sar ‘giardino’ + ‘tutto quanto’, componibile in sar-dū ‘tutta un giardino’: come tale la Sardegna doveva essere vista dai popoli abituati alle grame fioriture dei deserti.


SARDUS. Secondo Pausania, Sardos libico è l’eponimo dei Sardi di Sardegna. Per l’ascendenza dobbiamo citare però l’omerica Σάρδεις, Sárdeis in Anatolia (Lidia). Il Semerano afferma che la denominazione originaria di Sardeis è Sfard, persiano Saparda, ebraico Sephārad. Questo lemma è collegato anche al nome del villaggio sardo Sàrdara.
Pittau (OPSE 235) propone il parallelo tra l’etnico antico Sardiános e l’etrusco-toscano Sartiano (= Sarteano) nonché Sartiana. Indubbiamente Pittau su basi linguistiche fa intendere ciò che peraltro già sappiamo, grazie a lui stesso, ossia che una parte dei Sardiani, una volta trasferitisi in Etruria, non poterono fare a meno di lasciare, in qualche villaggio, il proprio nome d’origine, così come fecero in Corsica, dove lasciarono il toponimo Sartène.
Ma su Sardus possiamo accampare pure qualche base sumero-semitica.
Le agglutinazioni sumeriche šar-du si prestano purtroppo a traduzioni collocabili ciascuna in un diverso campo semantico: quale šar ‘designazione della vacca’ + du ‘ammucchiare’ (come dire ‘quelli che allevano tante vacche’); oppure šar ‘scannare’ + du ‘dilagare’ (come dire ‘coloro che invadono e scannano’); oppure šar ‘essere perfetto, rendere splendido’ + du ‘suonare’ (come dire ‘splendidi musicisti’); a quest’ultimo proposito ricordo che sardium nell’antico assiro e ‘un canto di benedizione’.
Anche in accadico abbiamo più di una occorrenza. Prima occorrenza: abbiamo visto che sardium in antico assiro e ‘un canto di benedizione’, ed ha evidenti rapporti col sacro. Seconda occorrenza: si è sempre parlato della sardìna come pesce relativo alla Sardinia (e su ciò non c’è obiezione) ma nessuno ha mai messo in relazione quest’ittionimo con l’antico assiro sardum ‘impacchettato, appesantito’, segno evidente che proprio quel pesce era soggetto già da allora ad essere conservato sotto sale in ceste di legno o di asfodelo, e che dunque l’attuale sardìna deriva l’etimo dal concetto accadico di “impacchettamento”. Terza occorrenza: Sardus e Sardinia possono avere la stessa base linguistica del lemma Šardana (vedi), da akk. šarru ‘re’ + dannu ‘potente’ (OCE 591). Non possiamo dimenticare che la radice Sard- era nota ed usata un po’ in tutto il Vicino Oriente. L’ultimo nome noto è Sarduri II re di Urartu, capo di una coalizione di regni neo-ittiti che perse la guerra di fronte al re-usurpatore assiro Tiglat-phalasar (744-727). Anche gli Ebrei conoscevano la radice citata. L’ebreo Sèred סֶרֶד (Gn 46,14 e altri passi biblici) era uno dei tanti che si trasferirono da Israele in Egitto.
Come si vede, c’è una pletora di occorrenze delle quali soltanto una sarà attendibile; o può esserlo a un tempo più di una. Ma, occorrono dei “distinguo”. L’affermazione di Pausania che Sardus libico è l’eponimo dei Sardi, aiuta a mettere in relazione Sardus-Sardi ma non porta acqua all’approfondimento della ricerca etimologica. Parimenti, non aiuta a trovare l’etimologia il sapere che i Sardi possono derivare il proprio etnico dalla citta lidia Sardeis. Peraltro, le due attestazioni storiche sembrano escludersi a vicenda.
Con l’accadico e le lingue del Vicino Oriente poniamo invece una base linguistica di maggiore solidità, anzi quattro basi su cui argomentare, ma le quattro basi a loro volta non possono non partire dalla celebre attestazione della Stele di Nora, dove si legge lo storicissimo e incontrovertibile vocabolo Šardana (da intendere come isola e quindi come nome d’origine).
La Sardegna è stata l’unica regione dove si estraevano pro di giose quantità di sale. Che ne facevano, i Sardi, di tanto sale, se non lo usavano nemmeno a conservare le sardine che da loro presero il nome? Altro che, se lo usavano! Chiaramente, sardina è collegata al lemma acca dico sardum. Quanto a Sardus, che esso sia almeno da 3000 anni l’etnico dell’uomo sardo, è anch’esso incontrovertibile. E pure qui ci ritroviamo tra le mani un termine accadico: non si può infatti respingere la forza dell’evidenza, che cioè tutti i termini riferiti alla Sardinia ed a Sardus hanno la base accadica. È da mettere nel conto pure l’apporto di sardium in quanto ‘canto di benedizione’, sul quale non c’è altro da argomentare se non che, evidentemente, questo modo di salmeggiare era tipico dei sacerdo ti dell’isola di Sardinia, e che furono proprio gli Šardana a farlo conoscere nel Mediterraneo.
Ma come la mettiamo, infine, con šarru-dannu = ‘re po ten te’, proposto dal Semerano? Che valore gli diamo? È veramente l’etimo degli Šardana? Forse sì. Può darsi infatti che gli Egizi, i quali per primi usarono questo etnico, accettassero proprio tale significato accadico, intendendo quindi Šarṭana nel senso di ‘guerrieri illustri, re potenti’. Peraltro fu un uso mediterraneo quello di catalogare i popoli erranti e guerrieri nella categoria logica suprema, quella riservata ai Re. Gli Hyksos furono tra quelli, furono i ‘Re pastori’(6), così come lo furono pure tutti i grandi proprietari di greggi che colonizzarono le montagne della Sardegna, i quali lasciarono il loro appellativo nei toponimi in , -: vedi per tutti Arcu ‘e Rì (Arquerì) che ha la base nell’akk. (w)arḫu ‘passo, valico transitabile’ (v. urḫu ‘way, path’) + ebr. rē’û = ‘pastore’, ed anche ‘re pastore’ (come dire: patriarca, padrone di mandrie).
Non si può però chiudere l’argomento di šarru-dannu senza dire qualcosa pure sul termine ebraico Dan. Ma a proposito rimando al lemma Šardana.


SASSU. Questo cognome manca nel Wagner ma c’è nel codice di S.Pietro di Sorres e nel CDS II 58/2, 60/1. Ciò è segno di alta antichità. Pittau (CDS) lo fa derivare dal sardo sassu ‘sabbione’ < lat. saxum. In realtà deriva dal bab. sassu ‘base, pavimento’. Va in ogni modo ricordato che Šašu erano chiamati nel Nuovo Regno egizio i nomadi del Sinai (1540-1070 a.e.v.), onde forse è da qui che deriva il cgn. sardo Sassu. In tal caso, avremmo una ulteriore prova, per via indiretta, del "ritorno degli Shardana" in terra sarda. Infatti la teoria che gli Shardana d'Egitto si fossero almeno mischiati agli Hyksos, prima che questi rifluissero verso il Sinai, ha parecchi sostenitori. Vedi al lemma Hyksōs.


TIRRENI. Per gli antichi Greci i Τυρςηνοί provengono dalle alture dell’Athos, le quali figurarono da loro occupate. Secondo Erodoto (I, 7; I, 94) Tyrsenos, figlio di Atys, avrebbe guidato i Lidi in Italia e avrebbe dato nome ai Tirreni. Ma c’è pure la terza citazione, quella di Strabone (V, 2,7), secondo cui, arrivando in Sardegna, gli Joléi, si mischiarono con gli abitanti delle montagne che si chiamavano Tυρρηνοί. Secondo Ellanico, i Pelasgi sono stati designati col nome Tυρσηνοί dopo il loro arrivo in Italia. Le quattro attestazioni, a ben vedere, non si contraddicono ma vanno interpretate.
Anzitutto, il popolo etrusco, da qualcuno chiamato Tirreno, non gradì mai quell’appellativo, pago del più antico rāš-, di Rasenna, da accadico rēšu ‘head, top quality’, cananeo rāš, ebraico rōš ‘capo, principe, leader’ + akk. enu ‘lord’, col significato di ‘signore-principe’. Tirreni, da altri interpretati “erranti”, è più consono ai Tirreni della Sardegna (vedi Strabone), perché in tal caso l’appellativo sarebbe semanticamente identico a quello di Diaghesbeís (= *Transhumantes), come in seguito i montanari sardi furono chiamati.
L’appellativo Tyrrèni può essere spiegato in verità come un composto creato sulla base dell’aramaico tur ‘monte’ + accadico-sumerico enu ‘lord’ e si riferisce a Tiro, la quale stava sopra un alto scoglio. Il sardiano Tur-enu (poi lat. Tyrrenus) significò quindi, letteralmente, ‘signore di Tiro’, ‘dominatore, abitante di Tiro’. È quindi chiaro che i Tyrr-eni non erano altro che i Tyr-i, gli abitanti di Tiro, ossia erano i Šardano-Fenici che ritornavano ad abitare o frequentare la madrepatria, la Sardegna, dopo l’epopea dei Sea Peoples.
In ogni modo, non possiamo omettere di citare il Tirreno proveniente dalla Lidia. Secondo il confluire di fonti quali Dionigi d’Alicarnasso 1,27, Erodoto I, 7; I, 94, Nicola Damasceno FGrH 90, 15, Gige nonno di Atys, prima d’inaugurare la lista dei re lidii in Sardi, fu tiranno a Tύρρα. È da qui che si giustifica il nome di Tyrrhenos figlio di Atys, che letteralmente significò ‘Signore, dominatore di Tyrrha’ (nome di nostalgia). È pure da qui che deriva il cognome sardo Turra. Non va quindi sottovalutata l’importanza della citazione di Erodoto e degli altri autori. Quel Tirreno proveniente dalla Lidia avente lo stesso nome dei nostri Tirreni, crea confusione. Ma secondo il mio modo d’intendere, il concorrere del nome lidio-accadico Tirreno inteso come ‘Signore, dominatore di Tyrrha’ è una conconcomitanza fortuita che non inficia il fatto che i Tirreni che diedero il nome al Mare Tirreno furono gli Shardana-Fenici tornati da Tiro.


UDDADHADDAR. Quest etnico fu letto in agro di Cuglieri su una iscrizione confinaria latina recante la seguente frase: TERMINUS QUINTUS UDDADHADDAR NUMISIARUM, che può essere tradotto di primo acchitto come segue: Quinto cippo terminale degli Uddadhaddar delle Numisie. La frase, da me verificata presso il Museo di Cagliari, è scritta in un latino pulito, ma resta da chiarire anzitutto il significato di Uddadhaddar.
Anzitutto va precisato che il terminus quintus è un cippo di delimitazione territoriale: il ‘quinto cippo’. Forse ce ne furono degli altri. Nei tempi andati le delimitazioni territoriali avvenivano in tale modo, legalmente riconosciuto, in uso anche presso i Sumeri ed i Babilonesi. Ancora oggi nei villaggi sardi ci sono degli esperti in grado di individuare tutti i cippi di confine. Evidentemente, ci fu un preciso accordo giuridico affinchè gli Uddadhaddar avessero un territorio di pertinenza.
Il lemma Uddadhaddar ha il suffisso tipicamente sumerico (-dr in sumerico è una semplice consonante finale sostituente spesso la -d, e al tempo dei Romani fu letta evidentemente come -dar). Per Uddadhaddar l’unica base valida è la lingua sumera, dove abbiamo u-dada-dar (u ‘pastore, pecoraio’ + dada ‘ostile’ + dar ‘disperdere’ (of crowd: break up), col significato di ‘pastori ostili dispersi’.
Quanto a Numisiarum, espresso col tema latino, se ci attenessimo al nome della gens romana di cui i dizionari dànno il maschile Numisius, sembrerebbe che gli Uddadhaddar siano appartenuti a un latifondista della gens Numisia (come schiavi?). Ma perché il plurale femminile? Perchè certamente Uddadhaddar, sentito latinamente come femminile, esprimeva già di per sé un plurale (i Latini non declinavano mai i nomi semitici). Poiché l’etnico Uddadhaddar è sumerico, anche Numisiārum deve avere la base sumerica, anche perché l’uso del latino nella parte radicale darebbe seri problemi. Alcuni traducono Numisiarum ‘della Numidia’. Ma è scorretto: ci saremmo aspettati allora Uddadhaddar Numidiae ‘U. della Numidia’. Se invece si dovevano citare delle donne nùmide, ci saremmo aspettati U. Numidārum. Se poi sostituiamo il lemma con una parola greca, questa deriverebbe soltanto da νομεύω ‘fare il pastore, pascolar le greggi’, νομή ‘luogo del pascolo’, νομῆες ‘pastori’, da cui νομάς - νομάδος ‘nomade, che erra per mutare pascolo’: ma questi termini greci hanno basi semitiche, da akk. numītu ‘pasturage’, numû ‘wasteland’, sum. numun ‘erba’, numun ‘moltiplicare’. Eccoci dunque alla traduzione giusta.
Aggiungendo al sintagma u-dada-dar il composto sumero-accadico in stato costrutto numi- + šiyû ‘forza’, siyû ‘a plant’ (Numi-si-ārum), abbiamo il significato di ‘pastori ostili dispersi tra i pascoli. Si vede che a questa gente fu negata l’opportunità di risiedere entro la città di Cornus e che essa fu relegata a un destino pastorale, quale tributaria del commercio cornense.
Esplicando il sintagma sintetico TERMINUS QUINTUS UDDADHADDAR NUMISIARUM, abbiamo quindi: “Quinto cippo dei pastori ostili dispersi nei pascoli (del vicino Montiferru)’. È facile immaginare cosa era successo in quel periodo. Gli U (pastori) erano dada (ostili: alla città punico-romana di Cornus; la assalivano con le bardàne, ossia con cavalcate guerrigliere). Per tale ragione furono dispersi dalla truppa romana e costretti a vivere sul Montiferru selvaggio, con reciproche garanzie confinarie.

Legenda:

Ho preso - senza modificarlo - l'articolo di Salvatore Dedola dal suo sito (www.linguasarda.com), salvo l'aggiunta dei seguenti codici colore:

In rosso : nome di glottologo o linguista
in azzurro : lingua ipotizzata come origine di parole sarde
sottolineato : panzana evidente, a mio vedere.
in grassetto: nome di storico.

1) Laureato in glottologia con tesi in Germanistica. E' stato più volte presidente del Club Alpino Regionale e credo sia - oltre che una persona amabile ed interessante - anche un ottimo naturalista. Ma credo (e spero) si muova molto  meglio tra piante e fiori, che tra etimi e cenni di storia.
2) Strabone, geografo greco del la metà del I secolo a.C.: scarsamente attendibile in genere, ma specialmente per le questioni riguardanti questo argomento, che rimanda a duemila anni prima.
3) L'autore sembra non conoscere il nome dei Trulli, né la loro origine cronologicamente molto più recente (sono di epoca moderna), che li esclude da qualsiasi confronto etimologico formale con vocaboli appartenenti alle lingue antiche.
4) In realtà, il mito racconta che Nesso ingannò Deianira, dicendole trattarsi di un filtro d'amore per riconquistare Ercole, che ella temeva di perdere.
5) Il nuraghe Losa prese il nome dal vocabolo 'losa', che significa lapide,  lastra di pietra (in sardo, come in spagnolo e persino in italiano) per via delle numerose sepolture rinvenute sul posto.
6) M. Bernal descrive invece tutta un'altra etimologia (Black Athena), più convincente: in particolare cita il noto gioco di parole (presente anche nelle 'Supplici' di Eschilo) tra hikes(ios) e Hyksos.