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sabato 25 maggio 2013

AL FIORENTINO NON FAR SAPERE...

"Fiore sardo" dop con pere caramellate al miele
è il gusto vincitore del secondo turno del Firenze 
Gelato Festival.

Il Gelato al pecorino 'Fiore sardo' dop con pere caramellate al miele, realizzato da Fabrizio Fenu, è il gusto vincitore del secondo turno del Firenze Gelato Festival. 

A premiare il maestro gelatiere sardo di Marrubiu (Oristano), è stata una giuria tecnica di qualità, formata da esperti e giornalisti specializzati nel settore della gastronomia. 

"In questo particolarissimo gelato il gusto del pecorino viene addolcito dal miele e rinfrescato dalle pere: tre sapori equilibrati che creano un gelato cremoso" spiega il vincitore, che a Marrubiu gestisce la Gelateria Centrale.

Menzioni speciali sono andate anche alla 'Crema del Vivoli', presentata da Silvana Vivoli della famosa gelateria fiorentina, e al gusto 'Ginepro' realizzato dagli studenti dell'Istituto Alberghiero Saffi, che hanno partecipato al Festival non solo somministrando i gelati in entrambi i turni, ma anche lavorando all'interno del laboratorio i Buontalenti insieme ai maestri gelatieri. 

Domani ultimo giorno del Firenze Gelato Festival: tutti i Villaggi saranno aperti dalle 12 fino a mezzanotte. Tra le sorprese, alle 18.30 all' Orion Village, in piazza Santa Maria Novella, andrà in scena il Gelato Show Cooking di Gianfranco Vissani, che preparerà un 'Gelato di pomodoro con pancotto e olive taggiasche' e un 'Gelato fior di latte con avocado shakerato alle olive nere'.


domenica 30 settembre 2012

Succu Busachesu


Su succu





Su succu” è una minestra di tagliolini, conosciuta e diffusa in 
molte parti della Sardegna, (con alcune varianti). Lo zafferano 
sardo è ciò che più caratterizza il piatto e lo porta ad elevati livelli
gastronomici. Rinomato e famoso è quello di Busachi (provincia di
Oristano), paese in cui a “su succu” è anche dedicata una sagra (il
 5 di Settembre, data da non perdere!).

Ingredienti necessari:

- tagliolini ottenuti dalla lavorazione a mano di 500 g di semola di
 grano duro impastata con un uovo, un pizzico di sale e acqua q.b.
- un chilogrammo di carne mista (agnellone o pecora, manzo e 
gallina)
- almeno 30 fili di zafferano polverizzato sul momento
- 300 g di formaggio pecorino fresco, acido, fermentato almeno
 due giorni a temperatura ambiente
- 4 cucchiai di pecorino stagionato e parmigiano grattugiati
- alcuni cucchiai di sugo di pomodoro
- sale q.b. per il brodo

Preparazione:

Preparare il brodo con le carni indicate.
Sciogliere lo zafferano in pochissimo brodo (circa 3 cucchiai).
Portare il restante brodo, colato, ad ebollizione in un recipiente
largo, possibilmente di coccio.
Aggiungere lo zafferano dosandolo con un cucchiaino (in modo
da non eccedere) sino ad ottenere una colorazione intensa.
Aggiungere circa 150 g di formaggio fresco acido sminuzzato (si
può schiacciare in un piatto con una forchetta) e due cucchiai di
formaggio stagionato.
Riportare il brodo a forte ebollizione, aggiungere 100 g di
tagliolini secchi e spegnere dopo un minuto.
Ricoprire con formaggio fresco tagliato a fette e una spolverata 
di formaggio secco.
Decorare col rimanente zafferano sciolto nel brodo e un po’ di 
sugo.
Servire ben caldo.
 

Scoprirai che – come succede con quasi tutte le cose sarde – non
è solamente ciò che sembra all’inizio, bensì molto, molto di più…

giovedì 23 agosto 2012

una ricetta che mi è cara


Il tortellino (al turtlén) 

nasce da un piatto povero, inizialmente molto più rozzo di quello attuale (sego macinato, tuorlo d’uovo, parmigiano) e dalla necessità di riciclare gli avanzi carnei delle tavole dei nobili ricchi, rendendoli però “presentabili” per il desco dei poveri.


Oggi i tortellini costituiscono un piatto ricercato e tradizionale, più spesso per il pranzo di Natale, meglio se “fatti in casa”, ma più spesso purtroppo - oggi -confezionati a macchina.

 

La ricetta:

Un ripieno macinato, che va “lasciato riposare”alcune ore, composto di:

-   lombo di maiale, 
-   prosciutto crudo,
-   mortadella di Bologna, che qualcuno sostituisce con manzo o vitello (i tre vanno precedentemente cotti insieme, con una piccola quantità di battuto e di odori)
- formaggio parmigiano  
-   uova 
-   noce moscata.

Una sfoglia di farina ed uova (un uovo a persona, tanta farina quanto le uova ne assorbono), 6/10 di mm spessore, (c’è anche sale e olio) “stesa” a piccole quantità per volta, mentre il resto dell’impasto va protetto in uno strofinaccio umido dall’evaporazione (e i tortellini non si chiuderanno).

Il tortellino è rigorosamente in brodo, di cappone (pollo nato ad aprile, castrato ad agosto di circa 1,5 kg: a Natale pesa 4 – 5 kg) o di gallina vecchia: altre variazioni sono apocrife, ma esistono, anche se fortemente disapprovate. Un sinonimo per un piatto di tortellini è "20 in brodo" (anche se chi scrive non si è mai limitato a questa cifra).  

 

Invece, sono inaccettabili pappecotte le varianti asciutte, con panna o – orrore! – con ragù.

Il tortellino deve essere molto piccolo (a partire da un quadratino di sfoglia di poco meno di 4 cm di lato) e molto pieno di ripieno (fino a lasciare appena un poco di bordo da pressare con le dita e poi da assicurare con un’abile movimento di torsione (vedi sotto).

Infine, deve essere bello (cosa che la macchina non permette): secondo la leggenda, deve riprodurre l’ombelico di Venere.

 

Oppure l’ombelico di una nobildonna che si fermò nella locanda “la Corona” di Castelfranco Emilia, di cui il proprietario ebbe a rubare nascostamente la visone: la gradì e volle riprodurlo, appunto.

In Emilia - naturalmente - si discute ancora sul fatto che il locandiere si sia davvero limitato ad un’attività unicamente contemplativa, oppure no: il tortellino si sa, può essere un piatto grasso, come pure l’umorismo…

Lo si chiude magistralmente, sulla punta di un dito, appunto, e quasi non ci si vede attraverso…

Non deve assolutamente aprirsi e non deve rompersi in cottura.

Ergo, bisogna essere abili massaie: l’artefice era la “rezdora”

“zdaura”, cioè la reggitrice della casa

La massaia emiliana.


Ecco, in modo semi-scherzoso, le varie fasi di preparazione e chiusura del tortellino: va tenuto presente che si tratta di una manovra talmente rapida da non permettere di comprenderne i dettagli.
Sapendo che la lingua della Zdaura è molto più veloce delle sue dita, nessuno osa mai contraddirla.
 Come si vede, il ripieno deve essere molto, in proporzione alle dimensioni del quadratino di sfoglia…


Questa è la fase in cui molti ignavi si fermano: non è un tortellino, è un mezzo raviolo e si aprirà certamente in cottura… 


Studiare attentamente questo disegno (circa due settimane) aiuterà a produrre tortellini di forma almeno passabile… 


Una massaia esperta impiega circa 6 decimi di secondo a tortellino… Un comune mortale – alla sua prima esperienza – può rischiare la crisi ipertensiva…
A questo punto, buon appetito! 

lunedì 6 agosto 2012

Caro PASUCO:
             oggi mi tira di titillare le papille gustative, quindi descriverò qualche cosa che abbia un gusto.

Scriverò come fare (bene) la pasta "Cacio e Pepe" e diventare così gli eroi del proprio giro di amicizie. Premetto che non è proprio un piatto facile-facile: semplicemente perché possiede pochissimi ingredienti, quindi si deve essere un po' più attenti a fare le cose per bene, altrimenti si ottiene un'ottima pasta col formaggio e con il pepe, che non è affatto il "Cacio e Pepe"...

Che cosa serve:
- una pentola dove bollire l'acqua.
- una padella, dove risottare la pasta, per portarla a cottura completa.
- un colapasta.
- una seconda pentola, dove raccogliere l'acqua di cottura.
- la pasta (i puristi sostengono debbano essere spaghetti, altri si trovano meglio con tonnarelli, bucatini, paste più voluminose; è preferibile che sia fresca; la dose può variare a seconda del personale "senso d'arrotolamento" di ognuno).
- il pecorino, grattugiato di fresco.
- il pepe nero macinato.

Come procedere:
- portare la pasta a mezza cottura (alcuni preferiscono aspettare di più: fino a circa due minuti dalla cottura).
- scolarla, avendo cura di recuperare tutta l'acqua di cottura con un'altra pentola.
- versarla in una padella, dove si deve "risottarla" (trattarla come si farebbe con un risotto: è qualche cosa di piuttosto diverso dal semplice "mantecare" che usano tutti, ma non è il caso di essere troppo schizzinosi), aggiungendo man mano piccole quantità di acqua di cottura, fino a portarla a cottura completa. Il razionale di questo passaggio fondamentale è quello di cuocere la pasta, evaporando l'acqua di cottura che contiene l'amido della pasta, fino a che essa assorba la quantità necessaria di acqua (differente, per diversi tipi di pasta e tra pasta secca e fresca) e sia alla fine piacevolmente immersa in quella "specie di crema" tanto difficile da ottenersi altrimenti.
- giunta la pasta a cottura, si aggiungono il formaggio ed il pepe; si mescola brevemente con posate di legno, si applica un coperchio e si lascia "riposare" per breve tempo a fiamma spenta, naturalmente.

Se per caso qualcuno degli ospiti dovesse dirvi che "ci avrebbe messo un po' d'olio", siete vivamente pregati di sgarrettargli tutte le pecore e di rigargli il volvo.

Questo è un cosiddetto "piatto povero", probabilmente antico (anche se fissato nella tradizione della recente cucina "romanesca"): per questo motivo, come altri altrettanto antichi (pappardelle sulla lepre, trenette col pesto), è privo di pomodoro, perché precedente alla sua importazione nel Vecchio Mondo. In origine, verosimilmente, non si trattava di pasta, bensì di "puls" (e questo è il motivo per cui il formato della pasta, in fondo, non è affatto importante); inoltre, almeno all'inizio, non c'era il pepe (che giunse molto più tardi dall'oriente), che era sostituito da altre sostanze piccanti ("garum", oppure anche bacche di mirto o altro ancora). Ma ci sarà tempo per parlarne...