mercoledì 18 luglio 2012


Caro Pasuco, oggi userò le parole, per spiegare un po’ meglio l’olfatto e gli odori. E questo forse spiegherà come sia nata un’espressione popolare della lingua italiana, che implica sia la vista, sia l’olfatto, associate a creare una capacità cognitiva immediata, che chiamiamo anche “sesto senso”.




“A lume di naso”.


Tra i diversi sensi, sono sempre stati più considerati la Vista e l’Udito come i principali. Tatto, Gusto ed Olfatto hanno sempre avuto un ruolo secondario. Anche se le classifiche di merito assegnano il primato e la sequenza in modo variabile, l’olfatto è sempre stato poco considerato dalla Cultura Occidentale.

Solo per fare un esempio: Lucrezio (De Natura Rerum, libro IV)  Assegna 230 versi alla vista, 110 all’udito, 60 al gusto e solo 32 all’olfatto, lasciando ultimo il tatto con 10.

Eppure, l’olfatto doveva essere importante, anche solamente nel passato non troppo lontano, quando tutte le attività industriali non intrudevano nella nostra vita quotidiana ed essa era profumata dagli odori naturali e da quelli delle poche attività umane, tra cui quelle più moleste venivano relegate fuori della città (ad esempio la puzzolentissima concia delle pelli).
- Se pensiamo all’antica Roma, ad esempio, essa doveva essere piena d’odori molto più intensi (oggi sono coperti dai fumi d’idrocarburi combusti e dal consumo di copertoni, dall’inquinamento industriale), tra cui quelli alimentari, delle fulloniche - lavanderie quelli dell’urina (senz’altro: gli effluvi provenivano da quella degli animali adibiti ai carri, alla macina e anche da quella umana, scaricata liberamente per strada, oppure abbondantemente raccolta nelle foriche - latrine), quelli del fieno tagliato, i vari olezzi del mercato e quelli della folla del Foro, quelli dei bracieri d'inverno.

Forse anche per questo i Latini consideravano l’olfatto un senso che non può essere tradito: le famose oche del Campidoglio non dettero l’allarme perché videro, oppure udirono i Galli. Lucrezio ci riporta che le oche ne percepirono l’odore.[1]

Naturalmente, l’olfatto – per potere servire a qualche cosa – presuppone l’odore, dal quale non può prescindere.

Sono numerosi gli esempi dell’olfatto “latino” trattato come un utile strumento d’indagine: esso compare persino in alcune gustose commedie di Plauto[2] ed è persino accostato alle capacità oracolari e divinatorie. “Sagax” è definito un buon naso ed è quindi, per definizione, il cane. La sagacitas è la fine capacità di seguire un’indagine delicata ed avveduta, con metodo e precisione, fino alla sua felice conclusione, proprio come un cane segue la sua traccia sul terreno e nell’aria.[3]

Tra il puzzare e l’essere troppo profumati esiste però un giusto mezzo, raccomandato dai Latini Plauto, Cicerone, Marziale, Seneca: in sintesi, “odora bene chi non odora affatto”.
Ma l’olfatto, allora, aveva molta più importanza di oggi, è vero: non a caso il vocabolo “ignaro” (colui che ignora) è fatto risalire a sine naribus (senza narici). Perché , per gli antichi, annusare (saperlo fare) equivaleva a sapere.





Fonte principale:

Isabella Tondo
Università di Palermo
Via Abruzzi 1
I – 90144 Palermo 
Da: “A lume di naso. Per una Storia Antica dell’Olfatto” - I QUADERNI DEL RAMO D’ORO ON-LINE
n. 2 (2009), pp. 101-110




[1] Lucrezio (4.6890-683): “Humanum longe praesentit odorem, Romuidarum arcis servator candidus anser”, “Fiutando di lontano l’odore dell’uomo, la candida oca salvò la rocca della prole di Romolo”
[2] “Miles Gloriosus”, (vv. 1255-1259); “Curculio” (v. 110).
[3] Numerosi autori latini fanno questo (abituale) parallelo: Festo, Quintiliano, Lucrezio, Plinio, Cicerone, Valerio Massimo.