martedì 2 luglio 2013

Archeologia Sarda e Mito




  Archeologia sarda, tra mito e realtà.

di Maurizio Feo


Quando finì il periodo nuragico? Non c’è consenso comune sulla risposta, che potrebbe, però, essere in qualche rapporto con il vocabolo italiano “Sardigna”. Con esso s’indicava un luogo suburbano in cui relegare i residui di macellazione e che oggi definisce, all’interno di un macello, un locale destinato a carni infette non commestibili, tornato tristemente d’uso comune per via dell’epizoozia detta “mucca pazza”[1]. Tutt’oggi, una zona di Firenze, fuori porta S. Frediano, si chiama Sardigna, dall’antico uso di gettarvi in Arno le carcasse di quadrupedi. La più verosimile connessione è attraverso la presenza, in Sardegna, di un’endemia malarica da tempi molto antichi e della sua identificazione con una zona malsana.
Il paludismo, o malaria deriva dal lat. Mala aria “cattiva aria”, “aria malsana”, perché si credeva che, oltre che dai piccoli insetti armati d’aculei (già Columella, nel suo De re rustica, ascrisse la malattia ad animaletti “aculei armata”), la malattia fosse causata da esalazioni mefitiche tipiche delle paludi. Varrone (I,12) riteneva responsabili “corpuscoli” che si introducevano attraverso la cute e le vie respiratorie, seguito in questa teoria da Lucrezio, nel suo De rerum natura, IV, 110. Così come Febris e Mefitis erano divinità italiche, correlate con la febbre malarica e con i miasmi che la causavano (palus vitanda est…propter pestilentia vel animalia inimica quae generat. Columella, De re rustica, I, 7), così gli accessi febbrili (is callenturas) si determinavano in rapporto ai miasmi (is fragus maus), anche nella credenza sarda. Ciascuno era responsabile di una malattia: si riteneva che il respirare l’aria polverosa, camminando dietro ad un gregge, determinasse la malaria. Oggi sappiamo che, in tal modo, è più probabile contrarre un’echinococcosi oppure una malattia di Lyme (rispettivamente da tenia echinococco e da puntura di zecca).
Già i romani applicavano il famigerato trasferimento punitivo in Sardegna[2], che però allora non comportava soltanto l’allontanamento dalle sedi centrali privilegiate di potere, bensì anche un forte rischio statistico di contrarre la più grave forma di malaria perniciosa. Quest’ultima era spesso mortale per i Latini, che non erano protetti dalla malattia, a differenza dei nativi dell’isola[3]. Tra le misure arcaiche per difendersi dalla malattia, rinveniamo quella di accendere grandi fuochi con legna resinosa di conifere, allo scopo di purificare l’aria, che in realtà doveva essere efficacissimo, allontanando gli insetti. Oggi sappiamo che il calore del fuoco ed il fumo, da qualsiasi barbecue o falò valgono bene all’uopo. Altri rimedi empirici della medicina popolare sarda, più recenti, sembrano molto meno raccomandabili: decotto di biondella, eucalipto, petali di rosolaccio, cimonida, gramigna e arrù crabio, talvolta con l’aggiunta di fichi secchi e miele per ottenerne uno sciroppo[4]. Non si possiedono prove certe sul reale impatto che la malaria ebbe sulle popolazioni antiche. L’andamento naturale della malattia è caratterizzato da periodi alterni di recrudescenza e remissione nell’ambiente non protetto, con effetti che possono essere devastanti su una popolazione. 
Alcuni autori hanno formulato l’ipotesi che il declino di varie civiltà - Etrusca, Magno Greca e Sarda - sia stato almeno in parte determinato dalla malaria, seppure in epoche diverse[5]. Per l’Etruria, lo spopolamento avrebbe avuto inizio già nel VII secolo a. C. per durare sino all’anno mille della nostra era[6]. L’ipotesi di un rapido declino malarico della civiltà nuragica è interessante e teoricamente possibile, ma non è stata chiaramente documentata. L’indebolimento della popolazione potrebbe averne minato le capacità di difesa. 
È senz’altro possibile che l’introduzione del ferro nel 1000 a.C. sia stata un fattore determinante del declino nuragico[7]. Non mancano altre e più affascinanti teorie: ad esempio, quella che identificherebbe la Sardegna con Atlantide. La parte meridionale dell’isola sarebbe stata spazzata da onde di maremoto, che avrebbero distrutto tutte le pareti a sud-est dei nuraghi del Campidano, seppellendo nel limo Barumini fino alla sua scoperta[8].  La creazione dei miti non si arresta mai, è vero. Se un giorno si rinvenissero tracce stratigrafiche inconfutabili, o altri documenti, comprovanti che la Sardegna è stata Atlantide, le colonne d’Ercole sono state in Sicilia[9] e la Tartesso tutta d’argento non si trovava in Spagna, bensì nascosta da qualche parte nel Sulcis, a molti di noi, ammettiamolo sinceramente, non dispiacerebbe affatto… Per il momento, però, è bene non volar troppo alti. La zona che ha subito un destino maggiormente compatibile con quello della mitica Atlantide è l’isola vulcanica di Thera Santorini, nell’Egeo a nord di Creta. Studi comparativi d’accrescimento dendrocronologico su alberi estremamente longevi, stratigrafici dei ghiacci polari, di alcuni archivi cinesi, permettono di stabilire la data della distruzione dell’isola di Thera attorno al 1628 a.C.[10]
Forse, infine, Platone semplicemente inventò di sana pianta - nei suoi dialoghi Crizia e Timeo - la perfezione d’Atlantide (potente, civile e sacra a Poseidone, più grande della Libia e dell’Asia), spinto anche dal rimpianto per l’abbandono del suo maestro Socrate e per i suoi insegnamenti. L’eruzione di Thera fu, probabilmente paragonabile o maggiore di quella del vulcano Tambora (1815, 92.000 morti) e quindi molte volte superiore a quella, più famosa perché ebbe testimoni occidentali, del Krakatoa (1883, 36.000 morti). Un disastro di portata globale lascia – piuttosto che chiacchiere neo-catastrofiste – tracce ben evidenti[11].
Tuttora non esiste consenso su questioni, anche fondamentali, riguardanti il prezioso patrimonio archeologico sardo. Gli archeologi considerano un’indebita ingerenza ogni tentativo d’intromissione in quello che loro vedono come un proprio campo esclusivo. Non v’è dubbio alcuno che ciò sia giustissimo in alcuni casi, ma sia un atteggiamento francamente sbagliato e controproducente, se assunto nei confronti d’altri seri specialisti. A questo proposito si può di passaggio ricordare che fu un architetto inglese d’origine greca, Michael Ventris, a decifrare l’antico Lineare B; un commerciante avventuriero tedesco, Schliemann, scoprì e scavò Troia (seppure con metodi molto poco ortodossi ed animato da un ego mitomane); un subacqueo sportivo, Henry Cosquer, ha scoperto l’ingresso della più antica grotta preistorica dipinta (più antica di quella di Lascaux). Nessuno di costoro era un archeologo, ma l’indiscussa rilevanza, anche archeologica, del loro apporto alla cultura è più che evidente. Per restare più vicini a noi, si potrà rilevare come la lingua etrusca abbia cessato di essere un mistero quando finalmente a tradurlo non sono più stati gli archeologi, bensì gli esperti di lingue: oggi n’abbiamo una conoscenza forzatamente incompleta, ma soltanto i commercianti ciarlatani parlano ancora di “sfinge etrusca”. Ad onore del vero, esistono sicuramente numerosissimi casi di segno contrario, in cui l’intervento di un archeologo avrebbe permesso di salvare patrimoni inestimabili: per brevità si può citare il caso della recente distruzione dei giganteschi Budda rupestri afgani da parte di fanatici religiosi. Se da un lato l’atteggiamento di chiusura è criticabile perché controproducente, quello d’apertura indiscriminata lo è anche di più, perché antiscientifico[12]. D’altro canto, è opportuno che l’archeologia diventi meno ingessata, accogliendo nei suoi metodi di ricerca specialisti d’altre discipline, in un clima di collaborazione sicuramente benefico, ai fini dei risultati. Si obietterà che ipotizzare tutto questo sia facile e bello, mentre altra cosa è il trasformarlo in realtà[13] . Nella pratica, però, abbiamo di fronte agli occhi studi di monumenti stranieri che di per sé costituiscono un costante rimprovero per il nostro mondo scientifico: si pensi a Stonehenge. Il sito è stato studiato in modo approfondito, nel corso degli anni. Sono sicuramente stati commessi alcuni errori[14] concettuali, che vanno considerati fisiologici in qualsiasi studio, che prosegua per tentativo ed errore. Di Stonehenge si è calcolato con buon’approssimazione il numero d’ore lavorative necessario per la costruzione; sono state scelte con spirito critico le più verosimili tra le varie funzioni astronomiche ipotizzate; sono state vagliate le possibili tecniche costruttive con metodi sperimentali; è stato definito l’arco d’anni d’utilizzazione; se ne conoscono le varie fasi evolutive nel tempo, dal primo cerchio in legno fino alle modifiche strutturali tardive. E’ vero che, parallelamente, si è sviluppata la falsa mitologia ossianico-druidica[15], ma con scarsa incidenza, oggi, a fronte della mole degli studi. Il risultato, di questo differente atteggiamento, è che Stonehenge (con gli altri coevi monumenti megalitici inglesi ed i woodhenges) è comunque più conosciuto in campo internazionale, di quanto non siano i monumenti sardi, molto più numerosi, almeno altrettanto mirabili, molto più vari, ma colpevolmente molto meno studiati. Se ci riferiamo ad esempio ad un nuraghe, ebbene possiamo affermare che oggi non possediamo, al riguardo, alcun’idea definitiva di consenso comune su di esso. Non sappiamo quanto tempo richiedesse la sua costruzione, giacché non abbiamo stabilito in modo preciso la tecnica edilizia, né si sono condotti seri esperimenti in merito. Non sappiamo chi fosse preposto alla costruzione (maestranze itineranti specializzate ben pagate? artigiani locali e liberi, presenti in ogni comunità? se schiavi, come con leggerezza talvolta si dice, quali? e perché schiavi e di chi? Non è stata descritta una credibile società sarda arcaica). Inutile entrare nel ginepraio della finalità funzionale del nuraghe, su cui è fiorita un’ormai troppo lunga diatriba per anni, che tuttora vede ufficialmente vincente la tesi di gran lunga meno convincente[16]. Non si conosce con certezza la loro data di costruzione, né si sono stabiliti dei precisi limiti di tempo tra i quali essi avrebbero avuto vita e fortuna[17]. È giustificata, ancora oggi, una domanda che non dovrebbe più esserlo: come sono stati datati i nuraghi? Quel famoso trave ligneo incastrato nella cupola centrale del nuraghe di Barumini[18] è stato o non è stato usato per una datazione al C14 e dendrocronologica? Simili mortificanti considerazioni possono farsi per le tombe dei giganti, per i pozzi sacri e - in special modo - per lo “ziqqurat” di Monte d’Accoddi. Da ciò, tra l’altro, deriva che i nuraghi sono poco noti nel mondo e perfino nella penisola italiana, mentre Monte d’Accoddi è sconosciuto persino a molti sardi. In tale situazione, come garbatamente fa notare G. Manca, quasi tutto si può impunemente affermare, senza troppo temere smentite, circa il passato della Sardegna. Purtroppo, è proprio quello che accade, da sempre.
 Il Santuario di Monte d’Accoddi: le vicende moderne del tempio hanno inizio con la donazione allo Stato di un’amena collinetta, alta dieci metri circa.  Sita a 11 km da Sassari, sulla strada per Porto Torres. La donazione, da parte dell’allora senatore Antonio Segni, fu accompagnata dalla raccomandazione di cercarvi quel qualcosa che certamente vi si celava, probabilmente un nuraghe. L’archeologo Ercole Contu fu scelto dalla soprintendenza e si avvalse della mano d’opera d’una cinquantina di detenuti, “prestati” dal carcere dell’Asinara. La costruzione rinvenuta fu coraggiosamente definita una piramide a gradoni, di tipo mesopotamico. Fu rinvenuto un “obelisco” (menhir) di quasi quattro metri e mezzo, abbattuto, ed un lastrone ovale di oltre tre metri, su sostegni di pietra, di sicuro significato sacrale (altare, simbolo solare). I risultati degli scavi furono accolti con freddezza ed i lavori abbandonati fino al 1979, quando l’ormai sovrintendente Contu affidò nuovi lavori a Santo Tiné, docente d’archeologia di Genova. Fu descritta la “stanza rossa” (un locale rettangolare, di pietre cementate con malta, con pareti e pavimento dipinti d’ocra rossa), fu rinvenuta una stele di poco più di un metro raffigurante una divinità femminile, sita in cima al monumento, sul lato opposto alla rampa d’accesso. L’interpretazione che ne fu data fu la seguente: prima del 2400 a.C. esisteva un sito megalitico di tipo mediterraneo (menhir e altare); dopo accadde qualche cosa, per cui fu costruito un “posto alto”, con rampa d’accesso laterale, sormontato da un tempietto in muratura cementata e dipinta. Vi fu una distruzione col fuoco, di cui sono state riconosciute le tracce. Seguì una ricostruzione con sopraelevazione fino a dieci metri d’altezza, che inglobò la vecchia rampa laterale, rendendo necessaria una rampa frontale, lunga quarantadue metri, larga tredici. Probabilmente, in cima al nuovo posto alto si trovava un altro tempio, di cui, però, non è rimasta traccia. La presenza di una batteria antiaerea durante l’ultima guerra non ha certo aiutato. Tutt’intorno, si sono rinvenuti numerosi idoletti femminili, definiti del tipo cicladico e centinaia di migliaia di conchiglie, accumulate in piccoli pozzetti votivi, segno di un lungo periodo di fortunata devozione al sito. Gli archeologi sono estremamente prudenti nel formulare qualsiasi tentativo d’ipotesi, per non incappare nel ridicolo bruciante d’una pubblica smentita. Anche il termine Ziqqurat è pronunciato timidamente. Ma, infine, ci si chiederà, di che cosa si tratta?
Certamente di una costruzione edificata da uomini, che devono pertanto avere avuto idee umane, mezzi reali, motivazioni valide e necessità che noi conosciamo bene, perché in massima parte le condividiamo, oggi, con i nostri antenati di allora. Anche se oggi possediamo, in più, acquedotti ed elettrodotti. La cesura culturale con l’ambiente circostante è chiara, tanto da far presupporre la disponibilità di una certa forza che la garantisse. Analogamente, le tracce di distruzione con il fuoco permettono di ipotizzare l’uso della forza, forse nel corso di una reazione violenta da parte dei nativi. La mole del lavoro è notevole, il che presuppone una discreta quantità di mano d’opera. La motivazione, non trattandosi di una tomba, è più probabilmente di culto religioso e, forse, simbolica e richiede la presenza di un rappresentante del culto, oltre che di un architetto (forse nella stessa persona). La popolazione d’origine degli edificatori, perciò, è almeno organizzata in Chefferie, se non già in Stato. La tecnica edilizia, molto avanzata per l’epoca, rende giustizia al successivo nome di “punto di passaggio” che i naviganti Eubei dettero all’isola[19], ma permette anche di ipotizzare che i nuovi venuti possedessero altre perle preziose nel loro bagaglio culturale e che le divisero con gli indigeni. Dovremmo cercarle. Perché non considerare autoctoni questi costruttori? Perché se lo fossero stati, probabilmente non avremmo soltanto un Altare di Monte d’Accoddi, ma più d’uno, magari in differente stato di conservazione e non coevi, similmente a come accade per i nuraghi. Ciò equivale ad affermare – con un certo coraggio – che un numero imprecisato (ma discretamente elevato) di stranieri (includenti militari, operai e individui di rango più alto, dotati d’istruzione e di motivazioni religiose), di più probabile provenienza asiatico-egea, sbarcarono (o naufragarono?) circa quattromilacinquecento anni fa presso Platamona (?), si stabilirono lontano dalla costa, costruirono un tempio a gradoni (e un villaggio) e vi si stabilirono per un tempo ignoto, ma presumibilmente lungo. Lentamente, poi, scomparirono, forse per la malaria (?) e non ebbero più la capacità d’imporre i propri costumi differenti da quelli dei nativi. In Beozia esiste un altro tempio a gradoni: la tomba d’Anfione e Zetos, primi mitici fondatori di Tebe[20]. Si tratta di un posto molto venerato in tempi classici, che risale al III millennio a. C. (pressoché coevo all’altare di Monte d’Accoddi) e che fu purtroppo depredato prima di essere sistematicamente studiato[21]. Altre numerose costruzioni a gradoni esistono ancora in Sicilia, ma è stato dimostrato che sono molto tardive, risalendo ad un’azione di spietramento dei terreni, effettuato dagli agricoltori negli ultimi tre secoli[22]. Monte d’Accoddi, certamente, non è frutto di spietramento: costituisce un’eccezione mondiale ed un mistero, che la Sardegna conserverà fino ad un nuovo studio più fortunato, deciso, completo e comparativo, oppure per sempre.
Si devono fornire anche suggerimenti, non solo critiche, si dirà. Ebbene: in Sardegna non sono stati condotti studi archeologici incrociati con marcatori culturali, quale la matematica, per citarne almeno uno. È necessaria una digressione, che possa illustrare meglio la proposta.
Non sembra esistere una convincente spiegazione per la quale i Babilonesi avessero adottato il 60 come base per la loro numerazione. Tutte le lingue indoeuropee adottano il medesimo metodo, per contare; possiedono una serie di parole molto simili per esprimere i numeri. Sembra che il sistema decimale derivi dall’uso delle dita delle mani. E’ stata formulata l’ipotesi che l’origine del sistema babilonese con base 60 fosse astronomica, con la rappresentazione dell’anno come 6 giorni per 60, ma non è certo[23]. Sicuramente, però, 60 è una quantità conveniente a scopi commerciali. E’ scomponibile in un gran numero di fattori (2, 3, 4, 5, 6, 10, 12, 15, 20, 30) e pertanto semplifica le suddivisioni in misure più piccole, senza l’uso di più complessi numeri frazionari. Il fatto che il sistema di conteggio indoeuropeo (su base decimale) si sia in seguito affermato, ha qui poca importanza e probabilmente, è in diretto rapporto con il successo che le lingue indoeuropee hanno avuto sulle altre. Ciò che di babilonese è rimasto, ad esempio, è il sistema posizionale[24], per cui noi sommiamo le unità con le unità, le decine con le decine, le centinaia con le centinaia, adottando un sistema che letteralmente “pensa” per noi e ci rende più facile il conto. E’ qualcosa di semplice, che sembra quasi automatico, oggi, ma che sarebbe totalmente impossibile con i numeri romani (ad esempio, si provi a sommare XIX e XVI mettendoli in colonna, o come si preferisce). I babilonesi introdussero anche una notazione particolare (prima uno spazio vuoto, poi un punto) col significato di “zero”.
Prescindendo dalla minore versatilità specifica delle popolazioni, si deve ammettere che “il senso del numero” esiste già persino nel mondo animale[25] e ovviamente nell’uomo, prima ancora di acquisire quella capacità d’astrazione con cui lo rappresenta graficamente e lo elabora[26]. In civiltà molto primitive, esistono soltanto vocaboli per esprimere il concetto di uno, due e molti. Anche in molte lingue europee sopravvivono i vocaboli primo e secondo, che non corrispondono ai rispettivi uno, due; da terzo in poi, invece, la corrispondenza tra numerali ed ordinali è completa. Ciò dimostrerebbe che le parole uno e due appartengono ad un’epoca molto anteriore, corrispondente ad una matematica più primitiva e naturale, che però ha lasciato tracce culturali. Una concezione più primitiva e limitata del contare è probabilmente presente nelle parole che indicano specificamente alcuni oggetti, quali ad esempio: un paio di braccia, una coppia di pernici, un duetto musicale. Un concetto analogamente arcaico potrebbe essere espresso dal sardo “unu kemu” (= una manciata, quattro, cinque?).
La lunga digressione serve per sostenere meglio quanto segue. Si potrebbero considerare sotto questo punto di vista anche i reperti “nuragici” e “prenuragici”, misurandoli e pesandoli accuratamente e valutandoli matematicamente o altrimenti e confrontandoli con reperti simili d’altre zone. I sassi levigati artificialmente, del peso di “circa” 500 grammi e di “circa” un chilo e mezzo, (reperiti in diversi nuraghi, ad esempio il “Santu Antine” e tuttora di significato ignoto); i 17 ‘lingotti’ di rame, di circa 30 kg (o talenti a forma di pelle bovina, ox hide ingots), marcati con lettere minoiche, e definiti di provenienza egea , non potrebbero – insieme con altri reperti, forse - rappresentare frazioni o multipli d’unità di un antico sistema di misura? Lo studio in tal senso potrebbe rivelarsi una ricerca con esito ultimo negativo, ma potrebbe anche inaspettatamente offrire interessanti novità culturali sulla civiltà antica della Sardegna e sulla sua provenienza. A questo proposito sono interessanti direzioni di ricerca le possibili misure lineari nuragiche[27], ipotizzate molto credibilmente su base antropometrica, proposte da alcuni, in particolare la yarda megalitica.  Anche l’asserzione della conoscenza pratica, da parte dei costruttori di nuraghi, del teorema di Pitagora[28], meriterebbe maggiori indagini. Si dovrebbe, però, iniziare una sperimentazione programmatica: risolvendo un problema che è, prima di tutto, di disposizione mentale verso la materia di studio.
La mistificazione è di casa nella Storia, perché il potere non può, né sa prescindere dalla manipolazione dei fatti, spesso complicandosi o scontrandosi con vari nazionalismi, conservatorismi ed irredentismi. Il potere crea sempre un’ideologia per proteggersi da spinte centrifughe, ricorrendo anche alla religione, fino dai tempi delle prime Chefferie. Non può stupire che la Sardegna, impigliata nelle trame sognanti del mito fino a tempi ormai storici, n’esca soltanto a fatica e soltanto per giustificare le più strumentali millanterie da condottieri militari stranieri di vario genere. L’avvenuta e completa conquista cartaginese è oggi spesso negata per motivi d’orgoglio nazionalistico; la capillarità anche culturale della conquista romana è rifiutata per lo stesso motivo, anche se l’unicità del neosardo la testimonia in modo definitivo ed incontrovertibile. Il sincretismo religioso che ha fatto indossare panni cristiani a preesistenti divinità pagane è passato sotto doveroso silenzio, nelle sedi dei martirologi di antichi santi con nomi nuragici[29]. Qualcuno ostinatamente sostiene che le navi sarde fossero munite di alettoni, che permettevano una velocità superiore alle navi normali[30]. Invece le navi sarde, essendo costruite in legno, non potevano avere alettoni, perché questi ultimi, sottoposti a stimolazioni meccaniche, avrebbero danneggiato il fasciame e determinato il naufragio del vascello. La presunta somiglianza tra le navi bipropre degli antichi Sardi ed il tardo Drakkar Vichingo, unitamente all’inesistente somiglianza tra gli elmi cornuti e crestati dei Sardi e quelli che erroneamente si attribuiscono ai Vichinghi (che invece non li ebbero mai, nella loro storia), ha fatto parlare e persino scrivere di fantasiosi contatti tra le due popolazioni. Si tratta di mitogenesi recente, molto cara all'Armata Brancaleone dei fantarcheologi.

L’episodio leggendario che si racconta intorno al castello di Posada[31], possiede tutte le caratteristiche della beffa arguta di repertorio, di sapore medievale. Il castello era sotto assedio da parte di pirati musulmani, come più volte può essere successo, data la posizione invitante. La situazione era difficile per ambedue le parti, assediati ed assedianti, a causa della scarsità di scorte alimentari. Ecco che dal castello parte un fitto volo di piccioni, alcuni dei quali facile preda degli arcieri arabi. Ma ecco l’amara sorpresa: i piccioni hanno il gozzo pieno di fave e ciò può soltanto significare che il cibo non scarseggia nel castello, se gli occupanti possono permettersi di trattare così bene persino i piccioni. Gli arabi non intuiscono il trucco disperato degli assediati e credono di non avere speranze di conquista: prendono il largo, risparmiando così l’estenuato borgo fortificato, che da allora si chiamò il Castello della fava. Sicuramente una favola affascinante, anche se di maniera, che deve essere stata copiata a più riprese e attribuita ai posti più disparati, nel tempo[32]. Ben diversa e più dura la realtà dei fatti: sappiamo infatti dai resoconti storici[33], dalla distribuzione dei cognomi[34] e dalla genetica[35] che gli abitanti di vari insediamenti più ameni ma più esposti (Siniscola, Torpé) si ritirarono verso zone più produttive e più sicure dell’interno, per sfuggire ora alla malaria, ora ai saraceni, oppure alle carestie ed al sovrappopolamento[36]. Le realtà umane, purtroppo, sono talvolta misere, spesso addirittura noiose e sempre molto meno reboanti di come si vorrebbe, ma possiedono genuine misure umane, le uniche compatibili con il Vinciano Canone dell’Uomo: è ingiusto ed ingeneroso non riconoscere la vera dignità là dove ce n’è di cristallina, soltanto perché appartiene a semplici uomini normali, che ubbidiscono alla legge di gravità, dell’invecchiamento biologico e a tutte le altre leggi fisiche del mondo reale.
 
Lo stemma dei quattro mori fu trasformato, dall’insipienza burocratica ed indifferente di una tipografia statale Sabauda, in una crudele metafora dello stato coloniale dell’isola. I quattro turbanti che incoronavano i re mori, sconfitti da Pietro il Grande d’Aragona, divennero sottili bende sugli occhi di semplici servi. Il simbolo glorioso della vittoria militare sul campo divenne, più tardi, l’amara espressione di resa di una terra povera e tradita da troppi falsi programmi di Rinascita. Ora rappresenta, ai più, un esempio umoristico involontario di questo genio dell’uomo per la mitogenesi, oppure è un segno rabbioso ed incompreso, graffiato sul granito per monito e per protesta. Ma il turista col naso spellato e soprattutto ogni giovane sardo, dovrebbero conoscere anche la verità: quello è proprio il simbolo intorno al quale i fantaccini della Brigata Sassari comprarono con il sangue alla Sardegna un antico vessillo, un tempo straniero e male accetto, ma ormai tutto sardo, di diritto, e sacro. Erano pastori, artigiani, operai e contadini, che impararono a vivere (e, per l’appunto, a morire) insieme, sotto quel simbolo e non vorrebbero certo restituirlo, né cambiarlo con altri, oggi: ecco finalmente un mito positivo, ancora vivo tutt’oggi, che parla di valori nazionali condivisi e che può essere d’esempio buono, affinché la Sardegna prosegua da sé sul sicuro cammino di crescita che da qualche tempo ha intrapreso, da sola. Forza paris, in questo contesto, suona come un rispettoso e dovuto omaggio ed un augurio, per nulla arrogante, né fuori luogo...
Jung ebbe a dire: “Non si può invertire il giro della ruota e tornare a credere per forza ciò di cui si sa che non è. Ma si può provare a render conto del significato dei simboli”. Questo può applicarsi vantaggiosamente anche alla tradizione dell’isola, oltre che al metodo della psicanalisi. I sardi, oggi, devono tentare di render conto di quei simboli controversi – miti, favole, leggende – che potranno ormai sembrare confusi e forse incomprensibili, ma che possiedono un profondo significato per il solo fatto di essere esistiti, di essere stati creati per errore, o per esigenza, o addirittura per caso. Soprattutto, di essere stati creduti veri dai nostri padri.

Un’isola in un mare di simboli. Nella sua travagliata storia millenaria e nella semplice e ricca tradizione popolare, la Sardegna è, infatti, intrisa di simboli d’ogni specie, grazie proprio al conservatorismo isolano che quei simboli ha fino ad ieri gelosamente custoditi dall’ingerenza forestiera, e dal logorio del tempo, per tramandarli con fiducia ai propri figli. Questi ultimi li ricevevano con rispetto timorato e quasi rituale, ossequiando il detto: “Osserva il comando di tuo padre, non disprezzare l’insegnamento di tua madre[37]”. Questo comportamento, unito al perdurante scarso popolamento dell’isola, ha così permesso ancora oggi agli studiosi di rinvenire, ben conservate, numerose reliquie del passato, che altrove il passaggio irrispettoso dell’uomo ha guastato e manomesso e che nuove inutili mode hanno cancellato per sempre, anche nel ricordo degli anziani. Un Mito buono, tradizionale, antico, è realmente esistito. Va correttamente interpretato. Esso ci spiega perché siamo diventati quelli che siamo oggi e da dove siamo partiti, seguendo sentieri spinosi e contorti, che sono solo nostri. Esistono poi miti cattivi e falsi, frutto di recenti contaminazioni, d’interpretazioni sciatte o troppo entusiaste, di mistificazioni volutamente fuorvianti, ideati soltanto per abbindolare un compratore… Oggi, quasi ci si vergogna dei propri antichi costumi sardi, dei miti e persino dell’accento, come di cose polverose e vecchie, da relegare pudicamente in sa credda, se non addirittura da bruciare senza rimpianti, perché ormai sorpassate. Sempre meno giovani sardi sono sardi “veri”, con tutta la dignità e la piena memoria del proprio essere sardi[38]. Alcuni non parlano, né scrivono il sardo. S’imitano comportamenti non sardi, prendendo avidamente dall’esterno, prima se non solo, i difetti e le superficialità più evidenti e deteriori, in un processo lento ma inesorabile d’amalgama con il futile e l’effimero, perdendo così, col tradirlo, un grande patrimonio inestimabile e unico, fragile ed antico.










[1] Un’affezione in cui piccole componenti proteiche modificate – dette prioni - si comportano come agenti infettanti, trasmettendo una malattia nervosa bovina, molto simile alla neurospongiosi umana, di Creutzfeld-Jacob.
[2] La traduzione forzata sull’isola di un rilevante numero d’eversivi di religione cristiana, fastidiosi per il potere, ma non così tanto colpevoli da essere condannati ad metalla, o capite, o ad martyria, favorì – tra l’altro - la precocissima cristianizzazione della Sardegna, fatta di una mescolanza di elementi pagani resistenti con quelli cristiani neointrodotti.
[3] Vedi Sard.Ant. # 18, “Orizines”. È una protezione relativa e costosa, ma pur sempre una protezione.
[4] La biondella è l’erythraea centaurum, l’eucalipto è d’introduzione recente, la cimonida non è stata identificata, l’arrù crabio è la smilax aspera o smilace, (più utile in affezioni dermatologiche o come antinfiammatorio).
[5] Celli A. “La malaria nell’antichità” Pisa, 1927 e Toscanelli N. “La malaria nell’antichità e la fine degli Etruschi” Pisa, 1927. Schreiber W., Mathis F. - Infectio, 1987.
[6] La decadenza dell’Etruria è documentata dall’elenco delle città (Tito Livio, Storie) che parteciparono agli approvvigionamenti per la campagna in Africa di Scipione (205 a. C.): i centri di produzione principali non sono più, come nel VI secolo, quelli costieri, bensì tutti dell’interno non malarico.
[7] O direttamente, con l’arrivo di un popolo armato meglio, o con lo spostamento delle rotte commerciali dalla Sardegna ed il conseguente declino economico delle popolazioni dell’isola. Oppure con ambedue i meccanismi, che non escludono la concomitante azione della malaria.
[8] S. Frau, “Le colonne d’Ercole, un inchiesta”. Ed Nur Neon, 2002.
[9] I confini del mondo si sono indubbiamente spostati, nel tempo, come anche il confine del Wild West, erroneamente chiamato, in Italia soltanto, Far West. Quest’ultima espressione non ha alcun significato, in Inglese.
[10] M. Bernal, Black Athena. L’eruzione del vulcano, visibile dalle coste, sarebbe responsabile anche della rappresentazione biblica del Dio di Vendetta: una colonna di fuoco di notte e di fumo di giorno.
[11] Quali, appunto la profonda caldera sommersa di Santorini, oppure il vasto crater lake nell’Oregon meridionale. Inoltre, non a caso “Tsunami” è un termine giapponese: la grande maggioranza dei maremoti avviene nell’Oceano Pacifico. I fondali irregolari e poco profondi del Mediterraneo permetterebbero un maremoto di vaste proporzioni solo nel caso della caduta di un oggetto di 400 metri di diametro: evento che si verifica ogni 100.000 anni circa, nella realtà, ma molto più spesso nella fantascienza…
[12] Un valido esempio d’apertura acritica e non scientifica è dato dalla cosiddetta Fantarcheologia, pericolosissima per via della veste spettacolare con cui è proposta, che la rende di rapida diffusione e difficile da sradicare.
[13] L’organizzazione contemporanea di diversi Istituti Universitari non collegati tra loro, con i loro limiti di competenza ed i loro rapporti interni, spesso complicati; il reperimento e l’acquisizione di molto maggiori fondi necessari ed il loro definitivo orientamento; il superamento di una selva di vincoli regionali, nazionali ed internazionali; la definizione stessa delle gerarchie e della strategia d’azione nello stabilire le priorità e molto altro ancora, costituiscono formidabili problemi, che fino ad oggi hanno evidentemente scoraggiato l’iniziativa proposta.
[14] Fino ad alcuni anni fa si pensava che le pietre blu fossero state portate dall’uomo: intere classi di studenti sono state convinte dai loro professori a rotolare su tronchi pietre di peso simile per chilometri, allo scopo di dimostrarlo possibile. Oggi si pensa che, più economicamente, un ghiacciaio, le abbia portate sul posto del loro utilizzo umano. Le pietre blu erano evidentemente tenute in alta considerazione, tanto da figurare in sepolture di famiglie nobili.
[15] In realtà si tratta di pura fantasia letteraria, iniziata con il cosiddetto “ciclo di Ossian”.
[16] La tesi militarista è tuttora ufficialmente accreditata dagli archeologi. Più verosimile è invece quella multifunzionale, con valenze sacrali (tesi templare), politiche, commerciali e sociali. Ambedue non sono provate. Altre sarebbero possibili. C’è chi propone i nuraghi costieri come punti cospicui per la navigazione. Sicuramente, ci si deve affidare ad un corretto criterio di credibilità competitiva, non al pregiudizio, né all’invenzione.
[17] Tant’è che il periodo nuragico costituisce una specie d’accogliente refugium peccatorum, in cui sistemare alla rinfusa tutto ciò cui non si riesce ad assegnare una più precisa destinazione. Il risultato è un periodo obiettivamente troppo lungo per ospitare un solo tipo di cultura, anche se eccezionalmente longeva.
[18] “Per caso”, secondo una guida del posto. Più credibilmente per reggere una scala lignea secondo altri, tra cui D. Scintu, in “Le torri del cielo”. Il quale si lamenta di non avere potuto misurare Su Nuraxi, per via dei vincoli della Sovrintendenza. Ne ha misurati 350 (circa il 5% del totale), che evidentemente non sono meritevoli di tanta protezione..
[19] Ichnoussa, impropria la traduzione con “orma”. Non esistevano sistemi di rilevamento così sofisticati.
[20] Cadmo ne fu soltanto il secondo mitico fondatore, dopo la sua distruzione.
[21] L’archeologo greco T. Spiropoulos descrive i pochi reperti superstiti alla spoliazione come egiziani e la tecnica costruttiva è assimilata a quella delle più antiche piramidi egizie.
[22] Si tratta della “piramide” di Pietraperzìa, presso Enna e di molte altre, che sono andate in parte o del tutto distrutte per via del rampante abusivismo nella zona perietnea: la più grande – ora distrutta – era la “Torretta del Baruneddu” a Tremestieri. Analogo discorso di potrebbe fare per le Specchie pugliesi.
[23] Altre possibilità prospettate: che si trattasse della fusione di due sistemi; che derivasse da un sistema di pesi e misure usato comunemente e che corrispondesse a sessanta unità, forse nato accidentalmente da una misura standard, rappresentata da un oggetto a noi ignoto, scelto in origine per comodità.
[24] Fu sviluppato intorno al 2000 a. C.: la posizione di ogni numero ne determina parzialmente la quantità, riducendo il numero di notazioni necessario. 123 significa 1 x 100 + 2 x 10 + 3. (In caratteri cuneiformi, sarebbe stato 1x 60 x 60 + 2 x 60 +3, cioè 3723. Il ragionamento su base sessagesimale ci riesce più facile in termini di tempo: 123 è un’ora, due minuti e tre secondi, cioè 3723 secondi, nel sistema decimale).
[25] E’ dimostrato sperimentalmente che gli animali sanno tenere il conto a mente di piccole quantità. È un comportamento innato, come il disfarsi dei gusci d’uovo dopo la schiusa: l’interno del guscio non è mimetizzato e attira il predatore.
[26] Si tratterebbe di “schemi di fissazione”, cioè capacità innate: nessuno ci deve insegnare a ridere, o a piangere, né a comprendere il significato del riso o del pianto di altri. (Il riso sardonico, invece, è un’espressione innaturale e studiata, un tratto culturale, che deve essere appreso dall’ambiente).
[27] Che sarebbero state utilizzate nell’atto d’edificare i nuraghi.
[28] Danilo Scintu, architetto, in “Le torri del cielo”.
[29] Bachis, Sadurru, Lussurgiu, Pilimu, Efis, ed altri ancora: l’argomento merita un articolo a parte.
[30] In genere s’ispirano alla presenza dei piedini presenti in alcune navicelle votive bronzee.
[31] Forse eretto dai giudici di Gallura nel 1200, vi si fa riferimento come castello della fava per la prima volta nella “Carta Pisana” del 1275.
[32] A Tolfa, piccolo centro posto sopra Civitavecchia, si narra che le truppe francesi, inviate dal Papa (in punizione, per il rifiuto dei tolfetani di pagare le imposte) furono demotivate da uno stratagemma ideato da una vecchia tolfetana, di nome Lizzera. Ella precipitò dalla rupe della fortezza assediata dei Frangipane le ultime risorse: un vitello rimpinzato di grano, a dimostrare che le scorte erano abbondanti. In realtà i tolfetani furono sterminati interamente: gli attuali abitanti di Tolfa non sono loro diascendenti. Ultima e più recente imitazione di una favola medievale di maniera: in “Baudolino”, di U. Eco; compare un episodio molto simile, durante l’assedio di Alessandria da parte di Federico Barbarossa.
[33] “Il Castello della fava…” di G. Zirrottu, Sardegna Antica N° 15.
[34] Cavalli Sforza, Zei et al.
[35] A. Piazza et Al.: “Genetic and population structure of four sardinian villages” Ann Hum Genet (1985) 49,47-63.
[36] Nuoro è nata piuttosto recentemente da gruppi umani provenienti da Orosei, Siniscola e Posada. Non è pertanto, per alcun titolo, “l’Atene sarda”, come erroneamente ripetono alcuni.
[37] Proverbi 6,20.
[38] Tra il vestire il costume tradizionale sardo (rifiutando ogni novità esterna) e l’ostentazione del pacchetto punk, piercing & metal (rinnegando l’autentico trascorso sardo) esiste un modo garbato, aggiornato e propositivo d’essere veri sardi, come diversi giovani mostrano d’avere oggi ben compreso.