venerdì 6 febbraio 2015

DIVULGAZIONE

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di 
@domenica_pate
Pochi giorni fa sono capitata per caso su un post del blog americano PublicHistoryCommons, progetto del National Council on Public History nato per offrire una piattaforma per l’incontro di “practitioners, scholars, and others with an interest in the presentation and interpretation of history in public”. 

Il sito offre una vasta gamma di materiali a disposizione di storici, insegnanti, studenti, ma anche archeologi, operatori museali, conservatori, archivisti, bibliotecari, nella prospettiva di un loro utilizzo per generare “public engagement with the past” e di rendere la storia attuale e rilevante nel presente.  

 Il post in questione, scritto da Jason Steinhauer in vista della conferenza annuale dell’associazione, metteva al centro una nuova figura professionale, quella dell’History Communicator, per la quale, suggerisce l’autore, i public historians sarebbero decisamente tagliati. Il “divulgatore storico”, come potremmo tradurlo in italiano, è l’equivalente del divulgatore scientifico. Il suo ruolo dovrebbe essere quello di   advocate for policy decisions informed by historical research; step beyond the walls of universities and institutions and participate in public debates; author opinion pieces; engage in conversation with policymakers and the public; and work diligently to communicate history in a populist tone that has mass appeal across print, video, and audio. Most important, History Communicators will stand up for history against simplification, misinformation, or attack and explain basic historical concepts that we in the profession take for granted (fonte)   

I compiti del divulgatore storico secondo questa definizione, vanno oltre la divulgazione pura e semplice, quella che comunemente viaggia tramite le trasmissioni televisive, i libri, i blog. Essa coinvolge il grande pubblico e la cittadinanza, rompe quel muro che divide l’università dal resto del mondo, si rivolge alle istituzioni e non da ultimo alla politica per educare ed insegnare, prima di tutto, perché quello che per gli “addetti ai lavori” è scontato, non lo è per tutti gli altri.  
 “Scavate dinosauri?” vi dice qualcosa? 
“Qual è la cosa più preziosa che hai mai trovato?”  
 È diventato quasi un inside joke tra alcuni archeoblogger l’espressione “il tempio tetrastilo”. 

Alessandro D’Amore l’ha usata in un suo post non molto tempo addietro analizzando il gap comunicativo tra archeologi e pubblico: chiunque ha studiato archeologia sa cos’è un tempio tetrastilo, ha ben chiaro il tipo di struttura, il contesto storico e culturale a cui ci riferiamo, ma gli altri?   

Serve comunicare l’archeologia se parlo di templi tetrastili e esedre e plinti e vetrina e protograffita?   E aggiungo altra carne al fuoco.   
La scorsa settimana Giuliano De Felice ha ripreso una notizia che personalmente mi era sfuggita: il rapporto del FAI I luoghi del cuore 2003-2013 sugli ultimi dieci anni dell’omonimo censimento annuale, comprende diverse migliaia di “luoghi” segnalati dai cittadini come meritori di conservazione e tutela.   
Tra questi, poco più di 800 sono beni archeologici.
Sul sito è scritto:   … stupisce la scarsa attenzione riservata ai beni archeologici, con poche segnalazioni concentrate ancora una volta negli ambiti urbani, segno di quanto poco radicata sia la percezione del loro valore: un dato che colpisce in un Paese come l’Italia, tra i più ricchi di testimonianze della storia antica.   

Posso dire che stupisce davvero poco?   I palazzi storici, con i loro affreschi, gli arazzi, i giardini e i musei con le loro collezioni e le mostre, sono in piedi, sono visitabili, almeno quando ci si adopera perché lo siano. Richiedono, certo, una mediazione, una spiegazione, un approfondimento, ma sono visibili.   
L’archeologia è in rovina. 
Letteralmente.   
Pompei crolla (di nuovo) e persino i famosi Fori di Roma sono un susseguirsi di edifici e resti, parti di basamenti e colonne, il cui fascino, talvolta, sembra ridursi ad una reminiscenza del Grand Tour.   

L’archeologia necessita una mediazione, ha bisogno che i pochi resti materiali di un passato che non esiste più siano resi attuali, contestualizzati, raccontati. 

E serve raccontare anche il processo, spiegare perché non scaviamo dinosauri, perché tutto quello che troviamo è prezioso anche se non è d’oro, e perché quando la politica promuove e pubblicizza interventi su siti archeologici importanti (abbiamo parlato di Capo Colonna la settimana scorsa, ma ci sono tanti esempi) deve farlo nel rispetto dei resti su cui agisce e con azioni utili e qualificanti.   

Se non siamo noi archeologi a fornire quella mediazione, chi lo farà?   

Se non siamo noi “professionisti del settore” ad educare il pubblico sulla storia che noi stessi contribuiamo ad interpretare e scrivere, chi lo farà?   L’archeologia pubblica in Italia ha fatto passi da gigante negli ultimi anni e sono diversi i progetti promossi da università e gruppi di ricerca che lavorano in questo senso, coinvolgendo le amministrazioni locali e contribuendo a creare un senso di comunità intorno all’archeologia di quei territori, ma non basta, dobbiamo fare di più.   
E chi studia archeologia, chi insegna archeologia, deve saperlo.   
C’è una forte componente etica e sociale nel nostro lavoro. 
I nostri progetti di ricerca sono finanziati quasi sempre da fondi pubblici. 
Ma anche se non lo fossero, che senso ha indagare il passato se questo passato non diventa di tutti?   Insomma, c’è tanto lavoro da fare e da fare subito se non vogliamo che l’archeologia sia buona solo per grandi proclami ed “interventi spot” e se non vogliamo che gli archeologi diventino completamente irrilevanti nella società di oggi, ancorati a cliché stantii – scopritori di tesori, “quelli che bloccano i lavori”, avventurieri col capello di paglia in jeep nel deserto – o chiusi nella loro torre d’avorio a discutere cose di cui non importa nulla a nessuno.   
Dobbiamo ritrovare il senso profondo di quello che facciamo.   E una volta ritrovato, dobbiamo imparare a comunicarlo agli altri. - 

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