Il tortellino
(al turtlén)
nasce da un piatto povero, inizialmente molto più rozzo di
quello attuale (sego macinato, tuorlo d’uovo, parmigiano) e dalla
necessità di riciclare gli avanzi carnei delle tavole dei nobili ricchi, rendendoli però “presentabili” per il desco dei poveri.
Oggi
i tortellini costituiscono un piatto ricercato e tradizionale, più
spesso per il pranzo di Natale, meglio se “fatti in casa”, ma più spesso
purtroppo - oggi -confezionati a macchina.
La ricetta:
Un ripieno macinato, che va “lasciato riposare”alcune ore, composto di:
- lombo di maiale,
- prosciutto crudo,
- mortadella di Bologna, che qualcuno sostituisce con manzo o vitello (i tre vanno precedentemente cotti insieme, con una piccola quantità di battuto e di odori)
- formaggio parmigiano
- uova
- noce moscata.
Una
sfoglia di farina ed uova (un uovo a persona, tanta farina quanto le
uova ne assorbono), 6/10 di mm spessore, (c’è anche sale e olio) “stesa”
a piccole quantità per volta, mentre il resto dell’impasto va protetto
in uno strofinaccio umido dall’evaporazione (e i tortellini non si chiuderanno).
Il tortellino è rigorosamente in brodo,
di cappone (pollo nato ad aprile, castrato ad agosto di circa 1,5 kg: a
Natale pesa 4 – 5 kg) o di gallina vecchia: altre variazioni sono
apocrife, ma esistono, anche se fortemente disapprovate. Un sinonimo per
un piatto di tortellini è "20 in brodo" (anche se chi scrive non si è
mai limitato a questa cifra).
Invece, sono inaccettabili pappecotte le varianti asciutte, con panna o – orrore! – con ragù.
Il tortellino deve essere molto piccolo (a partire da un quadratino di sfoglia di poco meno di 4 cm di lato) e molto pieno di ripieno
(fino a lasciare appena un poco di bordo da pressare con le dita e poi
da assicurare con un’abile movimento di torsione (vedi sotto).
Infine, deve essere bello (cosa che la macchina non permette): secondo la leggenda, deve riprodurre l’ombelico di Venere.
Oppure
l’ombelico di una nobildonna che si fermò nella locanda “la Corona” di
Castelfranco Emilia, di cui il proprietario ebbe a rubare nascostamente
la visone: la gradì e volle riprodurlo, appunto.
In
Emilia - naturalmente - si discute ancora sul fatto che il locandiere si sia davvero
limitato ad un’attività unicamente contemplativa, oppure no: il
tortellino si sa, può essere un piatto grasso, come pure l’umorismo…
Lo si chiude magistralmente, sulla punta di un dito, appunto, e quasi non ci si vede attraverso…
Non deve assolutamente aprirsi e non deve rompersi in cottura.
Ergo, bisogna essere abili massaie: l’artefice era la “rezdora” o
“zdaura”, cioè la reggitrice della casa.
La massaia emiliana.
Ecco,
in modo semi-scherzoso, le varie fasi di preparazione e chiusura del
tortellino: va tenuto presente che si tratta di una manovra talmente
rapida da non permettere di comprenderne i dettagli.
Sapendo che la lingua della Zdaura è molto più veloce delle sue dita, nessuno osa mai contraddirla.
Come si vede, il ripieno deve essere molto, in proporzione alle dimensioni del quadratino di sfoglia…
Questa è la fase in cui molti ignavi si fermano: non è un tortellino, è un mezzo raviolo e si aprirà certamente in cottura…
Studiare attentamente questo disegno (circa due settimane) aiuterà a produrre tortellini di forma almeno passabile…
Una
massaia esperta impiega circa 6 decimi di secondo a tortellino… Un
comune mortale – alla sua prima esperienza – può rischiare la crisi
ipertensiva…
A questo punto, buon appetito!