sabato 11 luglio 2015

IDENTITÀ


IDENTITÀ

di Francesco Remotti
È indubbio che ‘identità’ è attualmente tra le parole più usate nell’ambito delle scienze umane e sociali, così come nel linguaggio politico, giornalistico e persino in quello comune. Ma non è sempre stato così, ovviamente: per questo vale la pena chiedersi non solo che cosa la parola significhi, ma anche perché ciò sia avvenuto ed eventualmente quali siano le implicazioni del suo uso e abuso. 
Quando una parola gode di tanta diffusione e tante applicazioni, è auspicabile e doveroso assumere nei suoi confronti un atteggiamento quanto meno critico, anche se non proprio iconoclastico.

Dalla filosofia alle scienze umaneÈ bene in primo luogo segnalare la differenza tra l’identità quale è stata usata nella filosofia occidentale (e quindi il suo uso logico e metafisico) e l’identità a cui invece fanno ricorso le scienze umane e sociali contemporanee.
Identità è un concetto che compare nella filosofia greca, in particolare con Aristotele, il quale connetteva tale concetto a quello di sostanza. Che cos’è che fa sì che una cosa sia identica a sé stessa, per esempio nel tempo? La sua sostanza. E che cos’è che fa sì che due cose siano identiche tra loro? Il fatto di condividere la stessa sostanza. Com’è noto, nella filosofia occidentale, specialmente a partire dal secolo XVIII (con filosofi come Christian WolffAlexander G. Baumgarten e Immanuel Kant) è invalsa l’espressione di principio di identità, con una sua specifica applicazione logica, in combinazione con il principio di non contraddizione. Con la formula A si intende sostenere il principio secondo cui una cosa (A) è identica a sé stessa, e come tale va considerata; mentre con la formula A / non-A si provvede a separare nettamente identità e alterità.
Sotto il profilo ontologico, è importante rendersi conto non solo del fondamento dell’identità sull’idea di sostanza, la quale – come si è visto – è ciò che garantisce l’identità di una cosa sia nell’evolversi del tempo e nel mutare delle condizioni, sia attraverso la molteplicità degli oggetti, ma anche del trattamento dell’alterità. Qui, l’alterità è espressa da ‘non-A’. Potremmo dire che il principio di identità comporta che l’identità stia sola con sé stessa, e che non venga mescolata con ciò che è diverso (non-A). L’identità, in un certo senso,indica una sfera: al suo interno non vi è altro che ‘A’, mentre al suo esterno si estende il ‘non-A’. L’interno è descritto in termini soltanto positivi (‘è’), mentre l’esterno è concepito in termini soltanto negativi (‘non’). Guai se il ‘non-A’ entrasse in ‘A’: quest’ultimo perderebbe la sua consistenza, il fondamento e la ragione della sua permanenza.
Nel XIX secolo Georg W.F. Hegel aveva provveduto a porre in luce la limitatezza di un’impostazione di questo genere, sostenendo che il principio di identità «invece di essere una vera legge del pensiero, non è altro che la legge dell’intelletto astratto» (Hegel 1967). La dialettica hegeliana si contraddistingue proprio per l’implicazione tra identità e alterità, considerando come più reale il mutamento, anziché la permanenza. Le cose, le entità, i soggetti storici non se ne stanno per Hegel distinti e separati, chiusi nei loro confini, ma si coinvolgono reciprocamente, si compenetrano, così come si compenetrano inevitabilmente l’identità e l’alterità. Tuttavia il mutamento, che vede l’alterità direttamente coinvolta in un processo di formazione, non avviene affatto a caso, bensì lungo una direzione dal valore universale.
In fondo, anche il marxismo – pur fondando la dialettica su altri presupposti (materialistici, invece che idealistici) – adotta una prospettiva di universalità, la quale giustifica l’inglobamento anche violento delle realtà locali entro un processo storico avente un significato e una destinazione universali. Le realtà locali sono, per esempio, le società ‘stagnanti’ dei continenti extra-europei che il colonialismo avrebbe il merito di strappare alla loro stagnazione e alla loro marginalità, per immetterle nel processo storico universale, quello che conduce verso la società in cui l’umanità realizza appieno sé stessa. Come si potrebbero chiamare e come di solito vengono oggi chiamate quelle realtà? Identità, o identità locali.

Eclissi dell’universalismoLa tesi che si intende qui proporre è che l’emergere dell’idea e dell’interesse per l’identità nelle scienze umane e sociali sia riconducibile a una fase di eclissi delle prospettive universalistiche. Un pensiero di tipo universalistico tende a schiacciare o a sottovalutare l’incidenza delle realtà locali o particolari, sussunte come sono, o come devono essere, entro quadri e movimenti ben più vasti e importanti.
Di fronte alla realizzazione di un movimento rivoluzionario di ordine universale o a uno Stato che ritiene di esserne il prodotto, quale peso possono mai avere le ‘identità’ locali? In un periodo di pensiero universalistico esse non vengono nemmeno chiamate identità. Iltermine ‘identità’ e, quindi, l’interesse per tale nozione cominciano ad affiorare quando nelle scienze umane e sociali tendono a scemare impostazioni di tipo universalistico o fortemente generalizzante (non solo il marxismo, ma anche il funzionalismo o lo strutturalismo), e proprio per questo l’attenzione si sposta verso configurazioni o contesti locali, portatori di irriducibili significati particolari.
Considerato da un punto di vista storico, questo doppio movimento (eclissi di prospettive universalistiche e affioramento di contesti particolari) può essere agevolmente collocato attorno agli anni Sessanta e Settanta del XX secolo. Tra psicologia sociale, psicoanalisi, interazionismo simbolico, costruzionismo sociologico – quali prendono forma soprattutto nel Nord America – è possibile constatare un ricorso sempre più consistente al termine ‘identità’.
Per autori come Erving Goffman e Peter Berger, per esempio, la nozione di identità viene collegata al concetto di rappresentazione di sé in un contesto sociale. L’idea di fondo è che l’individuo si formi (si costruisca) in un contesto sociale fatto di attori che recitano su una scena. L’interpretazione drammaturgica della realtà sociale non si riferisce a un piano superficiale (quello della recitazione e della rappresentazione), sotto il quale esisterebbero strutture naturali di ordine universale; si combina invece con una prospettiva costruzionistica, secondo la quale gli esseri umani, in società, mentre inscenano e rappresentano, costruiscono sé stessi (o costruiscono immagini di sé). Tali rappresentazioni-costruzioni, proprio perché avvengono in contesti specifici, assumono valori particolari e danno luogo a forme di identità locali.
È facile intuire come, in un momento di riflusso di universalismi di tipo storico o psicologico, tutta una serie di rivendicazioni di ‘sé’ o di ‘noi’ abbiano potuto essere avanzate. La nozione di identità è indubbiamente servita a motivare e a nobilitare tali rivendicazioni. Una cosa è, per esempio, la rivendicazione di un diritto alla parola da parte di gruppi o fazioni senza tirare in ballo l’identità; altra faccenda è invece quella stessa rivendicazione se viene fondata su un’affermazione esplicita di ‘identità’: ‘noi’ siamo così, e per questo abbiamo diritto a… L’affermazione dell’identità risulta primaria; la rivendicazione di un particolare diritto appare secondaria o derivata.
Situazione ancora diversa – e più drammatica – è quella, poi, in cui si assiste non all’affermazione di un’identità data per scontata, nota e acquisita, ma alla rivendicazione di un’identità che esige ancora di essere ammessa e riconosciuta. In quest’ultimo caso, abbiamo a che fare con la formazione di ‘soggetti’ (individuali o collettivi) che avanzano pretese di riconoscimento. Ma – è bene ribadire – quando si tira in ballo l’identità, sia essa già riconosciuta oppure da costruire, rappresentare e far riconoscere, le richieste diventano tutte molto pesanti. Se c’è un’identità, non va forse rispettata e i suoi diritti riconosciuti? E se si forma un’identità, chi prende la decisione di negarle il diritto all’esistenza? Mettere in campo l’identità è in qualche modo un premunirsi. Per certi versi, può essere una minaccia: chi tocca l’identità, muore (o fa morire). La nozione di identità allude, infatti, a qualcosa di intoccabile e di irrinunciabile: quali soggetti (individuali o collettivi) sono disposti a rinunciare alla propria identità? L’identità pare essere il bene più prezioso, per difendere o affermare il quale si è disposti ad azioni anche cruente.

Identità e soggettiNell'uso sociale, psicologico o politico dell’identità, siamo ovviamente lontani dal concetto di sostanza e dalle garanzie metafisiche che esso forniva (unità, continuità, permanenza). Nel mondo contemporaneo l’identità risulta collegata – come loro specifica qualità e condizione – a dei ‘soggetti’ (non a ‘sostanze’). Essi sono individui o persone, gruppi di individui di vario tipo, Stati-nazione, ‘generi’, partiti, fazioni, ‘etnie’ ecc. Nei campi sociali in cui i soggetti agiscono, essi non sono – se non in apparenza e per una sorta di illusione – realtà da sempre garantite nel tempo (appunto, non sono sostanze). La loro esistenza non dipende dall’ordinamento ontologico del mondo, ma dalla configurazione psicologica, sociale e politica degli universi in cui recitano. La loro identità non è lì, in loro, dentro il loro essere (la loro essenza), in attesa semplicemente di essere ‘scoperta’. Essa dipende dalle interazioni in cui si trovano ad agire; è ilprodotto non di una scoperta, ma di un’invenzione: anzi, potremmo persino dire il prodotto di una ‘finzione’, cioè un qualcosa che non c’è, ma viene appositamente costruito. Se l’identità nella filosofia classica è strettamente collegata all’‘essere’, qui invece risulta collegata al ‘fare’, che è anche un ‘rappresentare’ e dunque un ‘fingere’. Proprio per queste sue basi non onto-logiche (il granito della sostanza), ma socio-logiche (il carattere effimero delle rappresentazioni), le identità esigono per sé stesse il ‘riconoscimento’. Il loro ‘essere’ coincide in buona misura con l’‘essere riconosciute’ e, prima ancora, con la richiesta, spesso gridata e minacciosa, del diritto al riconoscimento. Proprio per questo, si usa spesso l’espressione di identità ‘negoziata’: tra la richiesta del riconoscimento da parte di un ‘noi’ e l’effettivo riconoscimento sociale da parte di ‘altri’ si apre, in effetti, la fase della negoziazione, che in definitiva è destinata a non chiudersi mai.

Le implicazioni del concetto di identitàC’è dunque una differenza rilevante tra il concetto di identità in ambito filosofico e il concetto di identità qual è impiegato nelle scienze umane e sociali contemporanee. Tuttavia, data per ammessa la differenza delle basi e dei presupposti – sostanze in un caso, soggetti individuali o sociali in un altro; strutture ontologiche in un caso, progetti, costruzioni e finzioni nell’altro –, è importante notare come il concetto di identità comporti pur sempre alcune caratteristiche ricorrenti; tra queste, intendiamo segnalare: un’idea di permanenza;un grado sufficientemente elevato di compattezza interna; un’accettabile definibilità verso l’esterno; un carattere di separatezza e distinzione. Rivendicare la propria identità – da parte di un individuo o di un gruppo – significa esigere il riconoscimento delle caratteristiche sopra elencate. Se – come giustamente sostiene Ugo Fabietti (1995) – occorre collocare la questione dell’identità nella prospettiva della competizione per le risorse, è bene rendersi conto che l’obiettivo, a cui i soggetti aspirano per competere al meglio e con maggiori probabilità di successo, è il riconoscimento del proprio ‘essere’, del proprio diritto a un’esistenza autonoma e separata. È vero che le identità vengono intese, dalle scienze umane e sociali, come prodotti di un ‘fare’, di un ‘costruire’ (e persino di un ‘fingere’), anziché come manifestazioni di un ‘essere’. Ma i soggetti che rivendicano o affermano la propria identità assai facilmente scivolano dall’idea del ‘fare’ a quella dell’‘essere’: a loro conviene far passare il presupposto che la loro identità, invece di essere il frutto di progetti, scelte, negoziazioni e finzioni (tutte cose contestabili, di cui si può porre in luce l’arbitrarietà), sia la manifestazione di un loro ‘essere’, storico fin che si vuole, e che tuttavia si configura come una realtà ‘incontestabile’. Se un’identità viene riconosciuta, come può essere negata o contestata? Le scienze umane e sociali sono indubbiamente disposte a riconoscere – come si è accennato prima – il sostrato della competizione, da cui sorgono le richieste di identità; ma i soggetti che rivendicano la propria identità, lo fanno per sottrarsi in qualche modo alla competizione, ovvero per raggiungere un livello tale di riconoscimento da rendere incontestabili, e dunque garantite a tempo indeterminato, le proprie aspirazioni e le proprie richieste.

Noi / altriNell’argomentazione precedente è implicita la distinzione tra un livello analitico e un livello operativo: un conto è la nozione di identità, utilizzata come strumento analitico da parte delle scienze umane e sociali, e un altro conto è la nozione di identità, come rivendicazione da parte di soggetti individuali e collettivi. Mal’eccessiva e unilaterale insistenza sull’identità da parte delle scienze umane e sociali, senza che si provveda ad accompagnare questa nozione con altri concetti, possibilmente contrastanti, comporta il rischio di far passare per buone, a livello analitico, le stesse prospettive finzionali e reificanti adottate a livello operativo dai soggetti interessati.
Tanto per cominciare forse sarebbe bene – specialmente quando trattiamo di identità sociali (e quale identità, anche quella individuale, non è sociale?) – riconoscere i ‘noi’ come soggetti che rivendicano l’identità. Si sarebbe così obbligati a spostarsi dal livello dell’‘essere’ (finto) a quello (operativo) del ‘fare’: sono i ‘noi’ che ‘fanno’ o ‘fingono’ il loro ‘essere’, la loro ‘identità’. Ma i ‘noi’ non hanno di per sé le caratteristiche che, tramite l’identità, si attribuiscono: se non per finzione, o per illusione.
A differenza dell’identità, i ‘noi’ sono molteplici. Il numero di ‘noi’, di cui ogni individuo può far parte, sia pure in un dato momento della sua vita, è strabiliante: i ‘noi’ della famiglia, del vicinato, della squadra di calcio, del partito, dell’organizzazione religiosa, della scuola, dell’amicizia ecc.; e ognuno di questi noi si può frammentare – quasi all’infinito – in unità di noi più minuscole.
L’identità è astratta; il ‘noi’ indica invece qualcosa di più concreto: i ‘noi’ sono soggetti e come tali agiscono, fanno, si comportano, pensano in qualche modo.
Ciononostante, i noi sono molto mobili. Mentre l’identità si riferisce a una dimensione permanente (o che pretende di essere tale), i ‘noi’ sono fortemente situazionali: affiorano, compaiono e agiscono in certe situazioni, scompaiono in altre.
L’identità suggerisce e anzi impone confini che si vogliono netti e indiscutibili (di qui l’identità, di là, inevitabilmente, l’alterità); se li guardiamo bene in faccia, i ‘noi’ presentano invece confini sfumati, arbitrari e revocabili. Se i ‘noi’ non si ammantano troppo di identità, si vede bene come i loro confini siano frutto di decisioni, che in quanto tali possono essere contestate e riformulate.
Dire identità significa inevitabilmente opporre e separare identità e alterità; dire ‘noi’ – come del resto suggeriscono molte nostre lingue europee – significa quasi sempre dire ‘noi/altri’. Al di là delle questioni etimologiche dell’espressione ‘noialtri’, qui si vuole suggerire il rapporto di coinvolgimento e di profonda, inestricabile intrinsechezza tra ‘noi’ e gli ‘altri’. La porosità, labilità, provvisorietà dei confini indicano che l’alterità è dentro il ‘noi’; soltanto quando il ‘noi’ si appella all’identità, l’alterità viene spesso in modo violento, oltre che arbitrario, cacciata all’esterno.
Se la nozione di identità comporta l’idea di compattezza interna, il ‘noi’ (privo del manto dell’identità) molto più facilmente può ammettere le proprie fenditure, diversità, articolazioni, oltre che le proprie ‘alterazioni’.
Se il ricorso all’identità fa trasparire un atteggiamento più o meno disinvolto di allontanamento e di rifiuto dell’alterità (invocando la purezza o paventando la contaminazione), i ‘noi’ sono invece più disposti ad ammettere – anche se, talvolta, a denti stretti – che essi hanno bisogno dell’alterità. Che cos’è l’esogamia, se non l’ammissione che per riprodurci abbiamo bisogno dell’intervento e della cooperazione dell’altro? Che cos’è il cannibalismo, se non il riconoscimento del ‘valore’ dell’altro, a tal punto da doverlo ingoiare?
L’identità è quasi sempre un’affermazione di completezza; i ‘noi’ – sempre che non si illudano troppo della loro identità – spesso ammettono la loro radicale incompletezza.
Dall’affermazione della completezza scaturisce la chiusural’ammissione dell’incompletezza è invece il fondamento dell’apertura, del dialogo, della comunicazione.

Comunicare agli altriAncora una volta, se ci si libera un poco del fascino e della morsa dell’identità, si è molto più disposti a riconoscere l’illusorietà dell’‘essere’ identitario (‘noi siamo così…’) e, per converso, la priorità, rispetto all’‘essere’, non solo del ‘fare’ e del ‘costruire’, ma anche del ‘comunicare’, dello ‘scambiare’ o dell’‘interagire’ con gli altri. Non è certo il caso di illudersi che tutti i problemi possano essere risolti con questi spostamenti d’accento. È un vero peccato, però, che molti settori e rappresentanti delle scienze umane e sociali (per non parlare di politici e di opinionisti), con l’innalzare l’identità a ruolo di concetto primario, abbiano finito per dimenticare forze, tendenze ed esigenze che nei vari ‘noi’ agiscono in senso contrario, quello dell’apertura e della comunicazione con gli altri. Tra universalismi improponibili e localismi inaffidabili, l’unico spazio praticabile pare essere quello del rapporto costante e voluto con l’alterità. Non c’entra la tolleranza, se non verso noi stessi, dato che dovremo alla fine ammettere che ‘noi siamo gli altri’, ovvero che vi è un’identità di sostanza (questa sì) tra noi e gli altri, mentre le differenze che di volta in volta ci separano e spesso ci oppongono sono artefatte e finzionali.

Bibliografia citataAmselle Jean-Loup, Logiche meticce. Antropologia dell’identità in Africa e altrove, Torino, 
Bollati Boringhieri, 1999 (ed. orig. 1990).
Berger Peter, Luckmann Thomas, La realtà come costruzione sociale, Bologna, il Mulino, 1969 (ed. orig. 1966).
Fabietti Ugo, L’identità etnica. Storia e critica di un concetto equivoco, Roma, La Nuova Italia
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Geertz Clifford, Mondo globale, mondi locali. Cultura e politica alla fine del ventesimo secolo, Bologna, il Mulino, 1999.
Goffman Erving, La vita quotidiana come rappresentazione, Bologna, il Mulino, 1969(ed. orig. 1956).
Hegel Georg Wilhelm Friedrich, Enciclopedie delle scienze filosofiche in compendio, Bari, Laterza, 1967 (ed. orig. 1817).
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Remotti Francesco, Noi, primitivi. Lo specchio dell’antropologia, Torino, Bollati Boringhieri, 1990. 
Remotti Francesco, Contro l’identità, Roma-Bari, Laterza, 1996.