L'iscrizione latina del restauro del tempio del Sardus Pater ad Antas
e la problematica istituzionale*
La vitalità delle antiche tradizioni pagane in Sardegna è testimoniata simbolicamente dalla dedica effettuata attorno al 213 d.C. all’imperatore Caracalla, in occasione dei restauri dell’antico tempio di Antas (comune di Fluminimaggiore): un edificio che integrava il culto imperiale (fondato su un’articolata organizzazione provinciale) con il culto salutifero del grande dio eponimo della Sardegna, il Sardus Pater figlio di Eracle, interpretatio romana del dio fenicio di Sidone (Sid figlio di Melkart), dell’eroe greco Iolao compagno di Eracle e dell’arcaico Babi. Quest’ultimo rimanderebbe a tradizioni locali di età preistorica (esattamente in parallelo con l’Esculapio Merre del II secolo a.C. della trilingue di San Nicolò Gerrei, interpretato in greco come Eshmun Merre e in greco come Asclepio Merre)[1].
In età storica Sardus era effettivamente venerato in Sardegna con l'attributo di Pater, in quanto era considerato il primo ad aver guidato per mare una schiera di colonizzatori giunti dall'Africa e per aver dato il nome all'isola[2], in precedenza denominata e argurófleps nésos ('l'isola dalle vene d'argento'), con riferimento alla ricchezza delle sue miniere di piombo argentifero[3], a ridosso dell’isola circumsarda che Tolomeo conosce come Molilbòdes, Sant’Antioco[4]. A questo eroe-dio, identificato con il Sid Babi punico[5] e con Iolao patér greco, il condottiero dei Tespiadi[6], fu dedicato un tempio presso Metalla, restaurato all'inizio del III d.C.; d’altra parte la sua immagine ritorna propagandisticamente sulle enigmatiche monete di M. Atius Balbus[7].
Risulta singolare il fatto che la dedica epigrafica in dativo, la quale collega il tempio del dio nazionale dei Sardi (con suo padre Eracle-Maceride)[8] al nome dell’imperatore Caracalla negli anni della “ripresa cosmocratica”[9], sia stata effettuata una ventina d'anni dopo la prima vicenda a noi nota: si tratta dei cristiani esiliati secondo Ippolito[10] eis metallon Sardonias. Tra essi era anche il futuro papa Callisto dopo il fallimento della banca di Carpoforo. Vicenda localizzata nelle vicine miniere sulcitane rette da un procuratore imperiale, un epitropeuon tes choras nell'età di Commodo[11], personaggio apparentemente analogo al proc(urator) metallorum et praediorum di età severiana[12], forse a Metalla e in quella stessa valle di Antas attraversata dalla strada a Tibula Sulcos in Comune di Fluminimaggiore[13]. Il distretto minerario appare fortemente presidiato dall’esercito romano e in particolare dalla cohors I Sardorum nei primi secoli dell’impero, in relazione proprio alla sorveglianza sui deportati e sugli schiavi impiegati nell’estrazione dei minerali (in particolare piombo argentifero)[14]. Il nome in dativo dell’imperatore sembrerebbe farci escludere che l’iniziativa del restauro del tempio sia stata assunta da Caracalla, ma probabilmente da un funzionario imperiale presente in Sardegna o nell’area mineraria.
Qui in onore di Caracalla ammalato, fervente ammiratore di Ercole e Libero (dii patrii di Leptis Magna, città natale proprio dell’imperatore)[15] fu restaurato il tempio di Sardus Pater e di suo padre Eracle-Maceride-Melkart: la loro immagine emerge ora sorprendentemente dalle terrecotte architettoniche conservate al Museo di Fluminimaggiore[16]. Il santuario credo abbia rappresentato nell'antichità preistorica, poi in quella punica e soprattutto in età romana, il luogo alto dove era ricapitolata tutta la storia del popolo sardo, nelle sue chiusure e resistenze, ma anche nella sua capacità di adattarsi e di confrontarsi con le culture mediterranee.
Luogo minerario antichissimo, vantava origini preistoriche analoghe a quelle del santuario di Mont’e Prama di Cabras e della necropoli di Su Bardoni, come testimoniano gli scavi delle arcaiche sepolture a pozzetto, per quanto ad Antas l’arrivo dei Cartaginesi e dei Romani non sembra aver mai interrotto l’antico culto locale, determinando soluzioni di continuità[17].
Dietro le insistenze del maestro e amico Mario Torelli, in vista della pubblicazione di un volume dei “Monumenti antichi dei Lincei” dedicato a Il Santuario del Sardus Pater ad Antas (Fluminimaggiore), siamo tornati ad Antas nel luglio 2013 per realizzare una serie di rilievi fotogrammetrici del tempio e dell'iscrizione con restituzione in modelli tridimensionali partendo dalle immagini digitali raccolte dalla fotocamera Canon 550D disposta in un drone multirotore telecomandato della Società Oben srl (Spin off dell'Università di Sassari). Nella stessa occasione si è adottato un nuovo sistema di telerilevamento ad altissima definizione su pertica, messo a punto dal disegnatore Salvatore Ganga. Il rilevamento è stato possibile grazie all’autorizzazione concessa l'11 giugno 2013 dal Soprintendente per i beni archeologici di Cagliari e Oristano Marco Edoardo Minoja rilasciata l'11 giugno 2013, grazie anche all'interessamento dell'ispettore di zona Massimo Casagrande. Negli stessi giorni nel Museo Villa Sulcis di Carbonia sperimentavamo per la prima volta il laser scanner, applicato all'indagine epigrafica[18]. Hanno partecipato ai nostri lavori numerosi specialisti, colleghi ed amici: Piero Bartoloni, Raimondo Zucca, Maria Grazia Melis, Maria Bastiana Cocco, Alberto Gavini, Marilena Sechi, Francesco La Spisa; ad essi si sono aggiunti alcuni nostri studenti (Ernesto Insinna e Stefano Cherchi).
L'obiettivo principale era quello di sottoporre a verifica il restauro effettuato cinquanta anni fa dalla Soprintendenza alle antichità di Cagliari e dall'Istituto di Studi per il Vicino Oriente dell'Università di Roma, a conclusione delle campagne di scavo del settembre 1967 e del settembre 1968[19], con la relativa ricomposizione dei dieci frammenti epigrafici secondo la proposta poi definita nel 1971 da Giovanna Sotgiu nel XXI volume della Rivista di “Studi Sardi”[20].
Come è noto fin dal 1957 Ferruccio Barreca aveva richiesto i finanziamenti necessari al deputato dell’allora Partito Monarchico Popolare Achille Lauro, mentre dopo l’anastilosi e la ricostruzione del 1967-68; una seconda fase si svolse nel 1976, quando furono ricostruiti i lati lunghi del tempio con il finanziamento del Comune di Fluminimaggiore[21].
Confermata la sostanziale validità del restauro (per quanto la lacuna tra i frammenti 1-2 e 3 sia stata calcolata in eccesso in fase di ricollocazione), è stato possibile riordinare il materiale epigrafico e fare un deciso passo in avanti sul piano dell'interpretazione storica del “tempio grande”, articolato in pronao, cella e penetrale bipartito; in sostanza risulta una struttura che sembra ereditare una tradizione pre-romana, sia pure con una ricostruzione dalle fondamenta[22]. Il mito di Sardus figlio di Makeris, protagonista della colonizzazione della Sardegna, negli ultimi anni è stato ampiamente studiato, nell’ambito di una radicale revisione delle tradizioni mitografiche[23].
1.Il templum Sardi Patris Bab[i..]
Il tempio di Antas (Fluminimaggiore), noto dal secolo XIX, e sottoposto a scavi e ad un restauro fra il 1966-67 e il 1976[24], presenta il titulus dell’epistilio, quasi integralmente ricomposto, suddiviso su due linee, che ora possiamo così ricostituire, con una piccola lacuna sulla destra:
Imp(eratori) [Caes(ari) M(arco)] Aurelio Antonino Aug(usto) P(io) f(elici). Temp[l(um) D]ei [Sa]rdi Patris Bab[i ..], / ve[tustate c]on[lapsum] vel c]on[l(apsum) a solo] restitue[nd(um)] cur[avit] Q(uintus) Co[cce]ius Proculus [p(raefectus) p(rovinciae) S(ardiniae) ?].
In traduzione italiana:
All’imperatore Cesare Marco Aurelio Antonino Augusto, Pio, Felice. Il [prefetto della provincia Sardinia ?] Quinto Cocceio Proculo ha curato che venisse restaurato (dalle fondamenta ?) il tempio del dio Sardus Pater Bab[i ..], rovinato dal tempo.
Nota
Linea 1: La Marmora (disegno): M. Antonino Augu[sto]; [M(arco)] Aurelio [----] Antonino; Schmidt in CIL X: [L(ucio) ?] Aurelio [Commod]o [divi] M(arci) Antonini f(ilio); Sotgiu: Bab[..]; PETRAE: Bab[ai---].
Linea 2: Schmidt in CIL X: [re]stituer[unt]; Sotgiu: [vet(ustate) c]on[l(apsum)], [vet(ustate) c]on[s(umptum) re]stituer[unt], restitue[ndum] cur[avit]. Per il dedicante: Sotgiu Q. Co[cce]ius Proculus vel Q. Co[el]ius Proculus.
La lacuna di almeno tre lettere a fine della linea 2 non era stata fin qui segnalata.
Tra le proposte da abbandonare (sintetizzate dalla Sotgiu): [a fundamentis] a l. 2, [votum solvit, voto soluto], [merito], ecc.
La dedica si data per l'adozione da parte di Lucio Settimio Bassiano (alias Marco Aurelio Antonino alias Caracalla) degli attributi Pius Felix Augustus, secondo una seriazione che appare sporadicamente attestata dopo il 200 d.C., ma diviene diffusissima soprattutto dopo la morte di Settimio Severo[25]: di conseguenza non appare prudente adottare il terminus post quem del 213, data della prima comparsa di Felix sulle monete[26], dovendosi preferire il 212. L’assenza di Geta ci conduce più precisamente al periodo tra il 16 febbraio 212 d.C. (morte di Publio-Lucio Settimio Geta)[27] e l’8 aprile 217 (uccisione di Caracalla a Carre) [28]. Tutti elementi che non contrastano con la forma Aurelius del gentilizio, a fronte della forma più aulica e ufficiale Aurellius, con la L geminata, non sempre adottata in ambito provinciale[29].
La dedica col nome di Caracalla in dativo all’inizio dell’iscrizione deve interpretarsi come una vera e propria associazione tra il culto di una divinità indigena e il culto imperiale, favorita a livello ufficiale, apparentemente non per impulso della popolazione locale ma nell’ambito di una decisione adottata per tutto l’impero (trasferita attraverso il governatore provinciale, i suoi soldati e i suoi funzionari), nel quadro di un programma di rinnovamento e consolidamento del potere dei Severi. L’occasione va collegata da un lato alla promulgazione, avvenuta 1800 anni fa, della constitutio Antoniniana de civitate, certamente salutata con entusiasmo tra i peregrini della Sardegna[30]; dall'altro con la malattia contratta nel 213 durante la guerra germanica contro gli Alamanni, che ha portato Bassiano a visitare molti santuari locali lungo l'itinerario orientale percorso sulle orme di Alessandro Magno; al di là del viaggio, l’imperatore doveva essere in contatto con molti altri santuari attraverso i funzionari provinciali o i sacerdoti che presiedevano i concilia responsabili del culto imperiale[31]. Proprio una rinnovata attenzione per i culti più radicati nelle diverse province potrebbe avrebbe determinato da parte dell'imperatore la dedica di una serie di iscrizioni con l'espressione dis deabusque secundum interpretationem oraculi Clari Apollinis, all'indomani della visita al tempio di Apollo a Claros presso Colofone in Ionia. Così si legge su una lastra calcarea rinvenuta presso Nora in Sardegna[32]; iscrizioni con testo pressoché simile sono state rinvenute in Italia (a Marruvium ed a Gabii)[33], in Britannia (a Borrovicium)[34] e in Dalmazia (a Corinium)[35]; soprattutto in Africa: a Banasa[36] ed a Volubilis, nella Mauretania Tingitana[37] ed a Cuicul in Numidia[38]. Del resto si è già osservato che Caracalla apparteneva ad una famiglia originaria di Leptis Magna in Tripolitania particolarmente devota ad Ercole e Libero, che doveva però coltivare anche i culti di Apollo e Cirene e del loro figlio Aristeo mitico colonizzatore della Sardegna più arcaica. Del resto non può escludersi che accanto alla cella del Sardus Pater, l’adyton bipartito del tempio contenesse nell’altra cella l’immagine di Caracalla-Ercole.
Quanto al personaggio che curò il restauro integrale del templum, Q(uintus) Co[..]ius Proculus, da integrarsi Q(uintus) Co[cce]ius Proculus, (in alternativa secondo Giovanna Sotgiu, Q. Co[el]ius Proculus), finora non si è ritenuto che fosse indicata espressamente la sua carica sull’epigrafe incisa sull’epistilio: se si accettasse l’integrazione p(raefectus) p(rovinciae) S(ardiniae), assolutamente plausibile sul piano tecnico[39], potrebbe trattarsi di un governatore equestre della Sardinia, che nella logica della piramide delle responsabilità ebbe la cura della restitutio del templum affidata a terzi, non indicati. Nel Catalogo PETRAE del resto, già tredici anni fa, si era precisato che <<non si è in grado per il momento di stabilire la carica rivestita dal cittadino, di provenienza ignota, che ordinò il restauro del tempio, un Q. Co[el]ius vel Co[cce]ius Proculus>>[40]. In questa sede, correggendo l’impaginazione del testo (che in fase di restauro, dopo l’anastilosi, è stato spostato troppo a destra) proporremo sia pur dubitativamente il titolo di governatore provinciale per il dedicante, p(raefectus) o più difficilmente p(raeses) o p(rocurator) p(rovinciae) S(ardiniae). Proprio a proposito della possibile indicazione della funzione del dedicante (nella lacuna di due o tre lettere sulla destra dell’epistilio), Raimondo Zucca ha osservato che potrebbe essere <<anche ipotizzabile una ulteriore iscrizione all’interno o all’esterno del templum, posta dallo stesso personaggio con la menzione della propria carica>>[41].
Per il carattere sovralocale (provinciale e non cittadino) del tempio è difficile immaginare una restitutio con la pecunia di una comunità locale come Sulci, Neapolis, Karales, città peraltro non indicate nel testo, mentre potrebbe ammettersi un intervento finanziario o del concilium provinciae attraverso il sacerdos provinciae responsabile del culto imperiale ovvero una evergesia privata del nostro Q(uintus) Co[cce]ius Proculus, un personaggio che sembra portare un raro gentilizio imperiale.
Seguiremmo perciò Raimondo Zucca che ha proposto di riconoscere in Q. Co[..]ius Proculus il procurator et praefectus provinciae Sardiniae[42], così come Davide Faoro che restringe la sua presunta prefettura in Sardinia fra il 215 e il 217[43], non escludendo la sua identificazione con il Cocc(eius) Proc(u)lus, beneficiarius consularis tra la fine del II e gli inizi del III sec. d.C., documentato in un’iscrizione di Iuvanum, oggi Salisburgo nel Noricum[44].
Secondo Mario Torelli[45] non potrebbe escludersi l’identificazione del personaggio con un membro dell’ordo senatorio, connesso per interessi alla Sardinia, autore di una evergesia a favore di un celebre tempio della divinità dei Sardi. In tale ipotesi ha proposto di considerarlo un discendente di un senatore dell’età di Adriano, Q. Laberius Iustus Cocceius Lepidus Proculus[46].
La struttura complessiva della dedica non è inusuale: nome dell’imperatore Caracalla in dativo, oggetto del restauro (temp[l(um)]) con il nome della divinità locale ([Sa]rdus Pater Bab[i ..]), tipo di lavori (restauro [a s(olo)] ?), nome del dedicante, funzione svolta ([p(raefectrus) p(rovinciae) S(ardiniae)]); manca l’indicazione di chi ha pagato i lavori di restauro[47].
L’editio princeps dell’iscrizione si data al 1840 e si deve al generale Alberto La Marmora con la proposta di attribuzione ad Antonino Pio oppure a Marco Aurelio: due anni prima nel 1838, La Marmora nei suoi viaggi attraverso l’isola, intento ad acquisire notizie che poi sono confluite nella sua nota opera Voyage en Sardaigne, giunse in una <<foresta verde cupo di quercie assai pittoresca; alcuni di quegli alberi, crescendo in mezzo allo stesso tempio, ne hanno accelerato la distruzione; al primo sguardo, non si vede altro che un ammasso di frammenti di colonne accatastate con i resti di cornici e capitelli; ma esaminando questi resti con un po’ di cura, si riconosce che il basamento dell’edificio è, per così dire, completamente intatto>>[48]. Naturalmente l’impressione principale che colpisce il lettore attuale del Voyage è oggi quella della scomparsa quasi totale delle querce[49] e dell’aspetto quasi desertico della vallata, che pure mantiene il “sapore” di un luogo speciale, dove per secoli si è concentrato il culto popolare di un Genius loci, il dio nuragico, il dio punico Sid e infine il Sardus Pater libico venerato nel tempio fatto costruire da Ottaviano (in alternativa qualche decennio prima) e poi restaurato da Caracalla (difficilmente su un progetto già dell’ultimo Commodo-Ercole). Il Generale La Marmora non riuscì ad identificare la divinità alla quale il tempio era dedicato e si rammaricò che in quel sito disabitato non potesse trovare un gruppo di persone che sarebbero state indispensabili per spostare i pesanti blocchi, onde rintracciare, in particolare, i frammenti dell’iscrizione dell’architrave, solo in parte visibili, che probabilmente avrebbero restituito la titolatura del tempio.
L’anno successivo, sempre lo stesso Generale incaricò il celebre architetto di Cagliari, Gaetano Cima, di recarsi nella valle di Antas per rilevare il tempio e per sovraintendere alle operazioni di ricerca dei frammenti mancanti all’epigrafe del frontone. La fatica del Cima non fu coronata dal successo, ma nel 1840, nel secondo volume del suo Voyage en Sardaigne, il La Marmora poté pubblicare, insieme ai rilievi ed alle proposte di ricostruzione del tempio redatti dal Cima, una assai parziale lettura dell’epigrafe, attribuita ad Antonino Pio (138-161 d.C.) oppure a Marco Aurelio (161-180 d.C.)[50].
Tuttavia, l’imponenza dei ruderi suggerì al La Marmora l’ipotesi che il tempio fosse un santuario extraurbano del territorio della città mineraria di Metalla (“Le miniere”), menzionata nell’Itinerarium Antonini, tra Neapolis e Sulci, lungo la strada costiera settentrionale e occidentale detta “a Tibulas Sulcis”[51].
Pur non potendosi ricostruire puntualmente il tracciato della strada, le trenta miglia (circa 45 km) assegnate dall’Itinerarium sia al tratto Neapolis-Metalla sia a quello fra Metalla e Sulci inducevano a localizzare Metalla presso Fluminimaggiore, nei dintorni di Antas[52]. A confermare questa ubicazione venne il rinvenimento in alcune località dell’isola di una moneta romana, della seconda metà del I secolo a.C., che recava sul rovescio un tempio tetrastilo (identificato con quello di Antas) e la lettera M, ritenuta l’abbreviazione di M(etalla)[53].
Allo stesso tempio di Antas si riferì qualche tempo dopo Vittorio Angius nella voce Flumini-Majori (Fluminimaggiore) del Dizionario di Goffredo Casalis[54]. L’Angius ammise cavallerescamente che il merito della scoperta del tempio doveva tributarsi al La Marmora, pur dichiarando di aver visitato qualche tempo dopo nello stesso anno 1838, in <<quella selvosa regione>> di Antas, l’edificio monumentale, attribuito al principato di Antonino Pio; l’Angius annotava che <<la sua lunghezza era di metri 18, la larghezza di 8, con sei colonne al pronao, quattro delle quali sostenevano il frontone. Il diametro di esse era di metri 0,95. Ascendevasi al pronao per una gradinata larga metri 4, standovi tra questa e quello interposto un piano della stessa larghezza e lungo metri 10>>. Inoltre egli riportò l’impressione che il tempio fosse stato distrutto in epoca imprecisabile <<e non caduto da sé>>[55].
Giovanni Spano non si occupò in dettaglio del tempio di Antas, ma accennò ad esso in vari suoi lavori a proposito della probabile localizzazione di Metalla, cui veniva attribuito lo stesso luogo di culto[56].
Il tempio, di difficilissimo accesso, fu in conseguenza trascurato dagli studiosi: Carlo Baudi Di Vesme il 9 aprile 1874 annunciava il suo viaggio in Sardegna e il progetto di «far eseguire ricerche in un luogo dove sono grandiose rovine, che io credo essere dell’antica città di Metalla»; si trattava evidentemente di indagini presso il tempio del Sardus Pater di Antas, dove qualche anno dopo lo Schmidt avrebbe letto l'iscrizione dedicatoria, attribuendola erroneamente a Commodo e non a Caracalla[57], senza peraltro identificarne la divinità e in più collocando il tempio del Sardus Pater presso Neapolis. Inoltre aggiungeva scrivendo a Theodor Mommsen: «Non mancherò di darvi notizia del risultato delle mie ricerche»[58].
Nel penultimo decennio del secolo XIX, in quella indagine, la valle di Antas fu raggiunta faticosamente sabato 9 aprile 1881 anche da Johannes Schimdt, il giovane epigrafista tedesco cui proprio Theodor Mommsen aveva commissionato l’incarico della revisione diretta delle iscrizioni latine della Sardegna: non tutti i frammenti dell’epistilio riconosciuti dal La Marmora erano allora in vista. Pertanto l’esame approfondito dei frammenti evidenti al suolo suggerirono di riferire l’iscrizione all’imperatore Commodo (180-192 d.C.)[59]. Il giorno 11 aprile 1881, in una lettera inviata al Mommsen e datata al lunedì di Pasqua[60], lo Schmidt stendeva la sua relazione sulle sue indagini in Sardegna, ricordando di esser stato a Sant’Antioco il sabato santo 9 aprile, quindi di essersi recato ad Antas, poi il giorno di Pasqua ad Iglesias; domenica sera e lunedì 11 aprile mattina aveva visitato San Sperate, in qualche modo sempre ostacolato dai riti della Settimana Santa[61]. Theodor Mommsen avrebbe pubblicato il testo due anni dopo, nel 1883, in Corpus Inscriptionum Latinarum X, 7539.
Ettore Pais, scrivendo nel 1923 la monumentale “Storia della Sardegna e Corsica durante il dominio romano” illustrò l’epigrafe di Antas attribuendola con probabilità a Commodo; inoltre presentò l’immagine ottocentesca del tempio ancora ricoperto dal fittissimo bosco di querce tratto dall’Atlante del La Marmora. Lo stato dei luoghi, dopo un secolo, era immutato: solamente in occasione delle due Guerre Mondiali veniva raccolto il piombo delle grappe di piombo che univano i blocchi del tempio per fonderlo e realizzare pallini da caccia. Gli incendi, la ricerca del legname, l’apertura dei cantieri minerari e la frenetica ricerca di tesori archeologici fecero lentamente scomparire le ultime tracce del lussureggiante manto boschivo presente nel sito[62].
Nel 1954 una studentessa dell’Ateneo cagliaritano, L. Caboni, nell’ambito delle ricerche per la tesi di laurea sui Culti e templi punici e romani in Sardegna (relatori Piero Meloni e Giovanna Sotgiu), fece una serie si sopralluoghi ad Antas e nel coacervo dei blocchi e delle membrature architettoniche del tempio scoprì un frammento dell’epistilio, il nostro frg 7 (recante alla prima linea EI), fino ad allora sfuggito alle precedenti ricerche; questo frammento, completato con un ulteriore blocco rinvenuto nel 1967 (frg 8), consentì successivamente a Giovanna Sotgiu di restituire nel 1970 la lezione integrale della iscrizione dell’epistilio[63].
Fino alla metà degli anni ‘60 il tempio pareva destinato a restare anonimo, ma nel 1966, nel corso dei lavori preliminari di sistemazione dell’area, nel coacervo di materiali accumulati, si era recuperata una tabella in bronzo, recante una dedica Sardo Patri. La scoperta fu presentata subito da Piero Meloni nel V Congresso Internazionale di Epigrafia Greca e Latina svoltosi a Cambridge nel 1967[64]. La tabella (largh. cm 9,6, alt. cm. 5, spess. cm 0,2, alt. lettere cm 0,6-0,7), un tempo affissa ad una base che sosteneva un dono votivo, reca la dedica dell’ex voto, disposta su 5 linee: Sardo Patri / Alexander / Aug(usti) ser(vus) / regionarius / d(ono) d(edit)[65].
L’importantissimo reperto costituiva la prima testimonianza del culto di Sardus praticato nel santuario di Antas. Il donatore Alexander è un Aug(usti) ser(vus), regionarius, ovvero adibito alla cura delle regiones in cui era suddiviso il patrimonium Caesaris fondiario in Sardinia. L’epitafio di un secondo regionarius (Axiochus Neroni Claudi ser(vus)) è venuto recentemente in luce nell’ager sulcitanus[66] a riprova dell’esistenza di questo sistema di suddivisione dei praedia imperiali, sottoposti ad un procurator, di cui è noto esclusivamente Servatus, Augg(ustorum duorum) lib(ertus), procurator metallorum et praediorum, al tempo di Caracalla e Geta Augusti, autore di una dedica alle ninfe delle Aquae Ypsitanae (Forum Traiani) pro salute di Q. Baebius Modestus, procurator et praefectus della provincia Sardinia[67].
Nell’anno successivo (nel 1967), gli scavi archeologici restituirono in luce un nuovo frammento della iscrizione dell’epistilio (RDI, il nostro frg 8); questo si ricomponeva con quello scoperto nel 1954 (il nostro frg 7), dando l’integrale titolatura del tempio: temp[l(um) D]ei [Sa]rdi Patris Bab[i..] (Tempio del Dio Sardus Pater Babi). La vocalizzazione Babi di quello che, più che un epiteto appare come il nome di una divinità parallela locale, sembra obbligata sulla base dell’epigrafia semitica relativa al Sid di Antas[68], anche se alcuni studiosi, sulla base della lacuna di due lettere proposta da Giovanna Sotgiu, hanno proposto l’integrazione Bab[ai]. Per contro, come si vedrà, la lacuna sulla destra è decisamente più ampia e al momento preferiremmo non proporre integrazioni che pure sembrerebbero possibili.
Si deve infine ricordare come in una tomba tardo romana di un villaggio prossimo al tempio di Antas lo scheletro del defunto recasse nell’anulare sinistro un anello in argento e stagno decorato da un serpente e dotato di una iscrizione latina, interpretata da R. Du Mesnil du Buisson come dedica a Sid: Sida (vel Sidia) Babi dedi don (vel donum) denarios XCIV (ho dato in dono a Sid Babi 94 denarii) [69].
L’attribuzione all’età di Caracalla del restauro del tempio risulta sicura; più incerta rimane l’originaria costruzione nel corso della seconda metà II secolo a.C. nell’età dei Gracchi (come supposto da Paolo Bernardini e Antonio Ibba)[70] oppure triumvirale o augustea. A questo riguardo recentemente Paola Ruggeri ha osservato che fu Ottaviano-Augusto, <<in linea con una grande operazione generale di recupero dei riti e delle divinità tradizionali, volta a costituire un elemento di stabilità dopo la sanguinosa stagione delle guerre civili, a costruire presso l’antico tempio di Babi e di Sid[71], un nuovo tempio di modello romano italico, intitolato al Sardus Pater: del resto è noto, come testimoniato dalle Res Gestae, che a partire dal 27 a.C. Augusto fece restaurare ottantadue templi nella città di Roma ed ebbe una particolare attenzione verso i santuari ritenuti fondanti per la religione nazionale, ad esempio il tempio di Quirino>>[72].
Il culto del Sardus Pater, <<deus patrius>> capace di sostituire <<all’idea di tribù l’idea di nazione>>, <<il demiurgo benefattore>>, sostanzialmente riconosce l’apporto di popolazioni libiche in Sardegna: non solo può essere collegato col Sid punico ma è in rapporto con l’arrivo di colonizzatori numidi in Sardegna, alle origini della vicenda di Hampsicora narrata da Silo Italico nei Punica. Il mito appare rifunzionalizzato nell’età di Ottaviano e innalzato sul piano religioso ad Antas, attorno ad un’area sepolcrale (si ricordino le tombe a cista della prima età del ferro): per Pettazzoni egli avrebbe <<i tratti dell’essere supremo, padre della nazione, guaritore delle malattie, difensore della lealtà, punitore dello spergiuro>>, anche se il tempio nascerebbe da una tomba per <<quel processo storico che dal culto dell’avo attraverso al culto dell’eroe assurge al culto del dio>>[73].
Fuori della Sardegna, il culto del Sardus Pater poté forse essere praticato dai militari in particolare dagli ausiliari arruolati nell’isola e trasferiti in altre province (in particolare in Africa Proconsolare e in Mauretania Cesariense)[74]. Eppure non si conservano attestazioni sicure, per quanto il culto fosse originariamente connesso proprio con il Nord Africa. Un'iscrizione rinvenuta in Tunisia in località Henchir el-Ksar (presso l'antica Thignica) conterrebbe, secondo un'improbabile ipotesi di A. Dupont Sommer, una dedica Sar(do Patri) Aug(usto)[75]; in realtà per quanto suggestiva, questa proposta andrà abbandonata e, se non si può pensare a Serapide per gli attributi e la simbologia presenti sulla stele, dovrà ipotizzarsi una dedica a Saturno, che intendermo Sa(tu)r(no) Aug(usto), piuttosto che supporre l'esistenza di una divinità africana sconosciuta[76].
2. I dieci frammenti
I dieci frammenti che appartenevano all'epistilio romano del tempio sono in calcare, legati tra loro in sede di restauro con calcestruzzo, sormontati da una cornice aggettante alta una decina di centimetri[77]. Le dimensioni complessive sono sicure: la larghezza dell'epistilio in origine pari a 30 piedi romani (m 8,89) – oggi m 8,75 - è leggermente inferiore alla larghezza del basamento messo in luce durante gli scavi negli anni ‘60; i blocchi erano di norma alti due piedi (comunque oggi tra i 49 e i 59 cm), molto diversificati in larghezza: i frammenti 4 e 5 erano certamente uniti in origine in un unico blocco largo 186 cm, cioè poco più di 6 piedi romani; risulta più difficile stabilire le dimensioni originarie degli altri blocchi, fino a 122 cm (frammenti 1-2); i singoli frammenti (in origine uniti ad altri) vanno da 107 cm (frg 4) fino a 40 (frg 2). Lo spessore dei blocchi è molto ampio, fino a tre piedi (tra gli 80 e i 99 cm). La dimensione totale dell'epistilio doveva essere di m 8,75, la larghezza delle cornici laterali calcolata all’aggetto è di cm 7, l’altezza della cornice superiore è di cm 18, il campo inscritto di m 7,69.
Il testo corre su due linee distanziate tra loro da uno spazio di 4 cm.
Punti di separazione tra le parole di forma triangolare. La paleografia è pienamente coerente con l’epoca severiana: si noti almeno la coda allungata della R e la forma quadrata di alcune lettere (D e G, B con l’occhiello inferiore dilatato).
Punti di separazione tra le parole di forma triangolare. La paleografia è pienamente coerente con l’epoca severiana: si noti almeno la coda allungata della R e la forma quadrata di alcune lettere (D e G, B con l’occhiello inferiore dilatato).
L’altezza delle lettere è di cm 15 a l.1, cm 14 a l. 2.
- Frammento 1 = Sotgiu Frammento a (da cui riprendiamo in sintesi la descrizione tecnica, rettificando alcune misure): alt. totale cm. 54; senza cornice cm 31; largh. cm 82; con la cornice laterale cm 83; lo spazio che precede l'inizio dell'iscrizione è di cm 59; tra la cornice e l'inizio dell'iscrizione si hanno circa 4 cm. Il frammento costituisce l'estremità sinistra dell'epistilio. Campo inscritto: larghezza 80 cm, altezza 31 cm. Vi si leggono solo una I e la prima metà di una M, che occupano cm 20 circa. Presente già in La Marmora come frg a (1840) e Schmidt senza indicazione (1883).
Grazie all’accurato telerilevamento, nella linea 2 è ora possibile leggere le prime due lettere di VE[TUSTATE].
- Frammento 2 = Sotgiu Frammento b: alt. cm 46, senza cornice cm 24; largh. cm. 40, solo il campo inscritto cm 27; spessore cm. 54,5; alt. lettere cm. 15. È un frammento piccolo staccatosi dal blocco principale immediatamente precedente. Vi si leggono infatti la seconda metà della M e una P seguita dal segno di interpunzione che indica la fine della parola, che è quindi IMP, per Imp(erator). Visto dal La Marmora nel 1838 (frg b), fu smarrito e in seguito (omesso apparentemente dallo Schmidt nel 1881 e dalla Caboni nel 1955), ritrovato nel corso degli scavi degli anni 1967-68.
- Frammento 3 = Sotgiu Frammento c: alt. cm. 58, senza cornice cm. 41,5; largh. cm 1.02, campo inscritto cm 99; alt. lettere l. 1 cm 15; spessore cm 94. La pietra è molto rovinata e con un po' di fatica nella l. 1 si legge il gentilizio AVRELIO in dativo, preceduto dal segno di interpunzione e non completamente sopravvissuto per quanto riguarda la seconda metà della O. Per la Sotgiu <<nella l. 2 di ancor meno facile lettura, all'inizio si può vedere la seconda metà di una lettera rotonda, una O piuttosto che una Q, subito dopo la prima parte di una N o, meno probabilmente, di una M e poi, sotto la E della l. 1, una O (?) e, sotto parte della E e della L, un'A>>. Dunque ON OA. Già presente in La Marmora frg c (1840) e in CIL X, su lettura di Schmidt (1883).
- Frammento 4 = Sotgiu Frammento d : alt. totale cm 59, senza cornice cm 41; largh. cm 107; spessore cm 96. <<Nella l. 1, il primo segno, solo parte di una lettera, non è chiaro, segue il segno di interpunzione e la parola, quasi illeggibile dalla fotografia ANTONIN. Della l. 2 si leggono, alla fine, due lettere, anche se con non poca difficoltà, RE. Tra un rigo e l'altro si hanno circa 4 cm.>>. Già in La Marmora (1840), frg d. Lo Schmidt in CIL X (1883) lo colloca in posizione errata, considerando la titolatura come se citasse non l’imperatore ma solo un ascendente di Commodo.
- Frammento 5 = Sotgiu Frammento e: alt. totale cm 57, senza cornice cm 40; largh. cm 82; spessore cm 99; alt. lettere l. 1 cm 15 e l. 2 cm 14: Segue immediatamente il frammento precedente; al tempo del La Marmora si poteva notare l'unione perfetta dei due frammenti[78]. Nella l. 1 abbiamo la O finale della parola ANTONIN (v. frammento precedente), seguita da un segno di interpunzione triangolare; segue AVG a sua volta completata da eguale segno. Nella l. 2 le lettere STITVE e tracce di una lettera successiva: la Sotgiu pensava ad una R, come sempre si era inteso fino a lei, proponendo la lettura RESTITVER[VNT]. Preferiamo invece intendere RESTITVEND(VM) CVRAVIT. Già in La Marmora (1840) frg. e ed in CIL X da Schmidt (1883), male integrato. Il frammento fu fotografato per la prima volta da Thomas Ashby nel 1907[79].
- Frammento 6 = Sotgiu Frammento f: alt. cm 54, senza cornice cm 36; largh. cm 89, campo inscritto cm 69, spessore cm 85. Il frammento, a parere della Sotgiu, segue immediatamente il precedente: <<nella l. 1 infatti risulta chiarissima la parte rotonda di una P, mai prima notata, e d'altronde mi pare non debbano esservi dubbi sulla lettura della F successiva. Tra P e F tracce leggerissime d'un segno d'interpunzione>>, Seguono le lettere TEMP della parola TEMP[L(VM)]. Soltanto nell'ultima parte della l. 2 è ancora vagamente visibile quanto già osservato dai precedenti editori, CVR. Già in La Marmora (1840) frg. h e in CIL X da Schmidt (1883).
- Frammento 7 = Sotgiu Frammento g: alt. cm 45, senza la piccola parte della cornice cm 35; largh. massima cm 48, campo inscritto cm 36; spessore cm 80; alt. lettere l. 1 cm 15, l. 2 cm 14. Il frammento è molto piccolo, corrisponde al frammento i del La Marmora (1840), non è stato visto dallo Schmidt nel 1881, omesso dalla Caboni nel 1955. Nella l. 1, così come aveva notato La Marmora, si hanno le lettere EI, seguite dal segno di interpunzione, per cui, tenuto conto del testo dei frammenti, la Sotgiu ha proposto per prima l'integrazione – oggi sicurissima - [D]EI. Nella l. 2 la seconda parte di una lettera tonda, O o Q, una C e ancora una lettera tonda incompleta.
- Frammento 8 = Sotgiu Frammento h: alt. cm 51, senza cornice cm 44; largh. cm 59, campo inscritto cm 54; spessore cm 86; alt. lettere l. 1 cm 15, l. 2 cm 14. E' il frammento venuto alla luce per la prima volta durante gli scavi del 1967 e quello che insieme al successivo (frg 9) permette di stabilire a quale divinità il tempio era dedicato. La cosa era ignorata fino all'articolo della Sotgiu del 1971. Nella l. 1 si notano le tracce di una R e chiare le lettere D e I seguite dal punto indicante la fine della parola, che si può completare [SA]RDI; seguono le lettere PA della parola PATRIS, completata nel frammento successivo. Nella l. 2 si hanno la parte superiore di una I e di una V e, competa, una S; segue il solito punto e una P (completa).
- Frammento 9 = Sotgiu Frammento i: frammento ritrovato dalla Caboni nel 1954. Alt. cm 58, senza cornice cm 44; largh. cm 99, campo inscritto cm 98; alt. lettere l. 1 cm 15, l. 2 cm 14. Nella l. 1 la seconda parte della parola PATRIS, cioè TRIS, segno di interpunzione e le lettere BAB, con almeno tre lettere mancanti, BAB[I..]. Nella l. 2 intere le lettere ROC e mancanti della parte inferiore le lettere VLVS, che unite alla P del frammento precedente danno la parola PROCVLVS.
- Frammento 10: anepigrafe, alt. cm 58, largh. cm 65; è probabile che originariamente costituisse un unico blocco col frammento precedente.
3. Dov’era il Sardopatoros ieron?
Le iscrizioni latine di Antas propongono numerose problematiche: abbiamo dunque un templum Sardi Patris Bab[i..] che va identificato, con ogni probabilità. con il Sardopátoros ierón della Geografia di Tolomeo (circa 170 d.C.), che sulla costa centro occidentale della Sardegna segna Tárrai polis, le foci del Thyrsos potamós (fiume Tirso), le foci dell’Ieròs potamós (fiume Sacro), Othaia polis (Othoca-S. Giusta), il Sardopátoros ierón (tempio di Sardus Pater) e Neapolis (localizzata a sud del Golfo di Oristano, sulle sponde meridionali della laguna di Marceddì)[80]. Suscita perplessità la collocazione molto occidentale del Sardopatoris fanum (longitudine di 30° e 30’), mentre è sicuramente accettabile la posizione in latitudine di 36° e 20’[81].
Nel secolo XVI, all’avvio degli studi sulle fonti classiche relative alla Sardegna, si avevano due sole certezze: Tharros, sul promontorio di San Marco, e le foci del Tirso. Quanto al tempio di Sardus Pater si brancolava nel buio. Due scrittori medievali, l’Anonimo di Ravenna nel VII secolo e Guidone nel XII, citavano ancora il tempio di Sardus nelle proprie opere geografiche, redatte utilizzando largamente le fonti dell’antichità[82].
L’Anonimo Ravennate indicava Sartiparias (intendi Sardipatris templum = tempio di Sardus Pater) lungo un percorso tra Sulci (S. Antioco) e Neapolis (Guspini - S. Maria de Nabui). Guidone, menzionando orientativamente il medesimo itinerario tra Sulci e Neapolis, ricordava Sardiparias, una forma cioè più prossima a quella genuina di Sardipatris templum[83].
Il primo studioso ad occuparsi dell’ubicazione del tempio di Sardus Pater fu il vescovo Gian Francesco Fara, che scriveva intorno al 1580. Il Fara fissava il tempio sul caput Neapolis, l’alto promontorio sul mare attualmente chiamato Capo Pecora[84]. Sulla base degli stessi dati di Tolomeo, un trentennio dopo il grande geografo olandese, Filippo Clüver sistemava il Sardopatoros ieròn sul promontorio della Frasca, che chiude a mezzogiorno il Golfo di Oristano. Il Clüver, non riuscendo ad documentare i ruderi del tempio sull’altopiano basaltico della Frasca, pensò ad una seconda soluzione: il geografo egiziano non avrebbe parlato di un tempio (ierón) ma di un promontorio (akron) denominato, in onore di una divinità, del “Sardus Pater’’[85]. La bizzarra ipotesi venne ben presto abbandonata. Nel Seicento si sprecarono le proposte di localizzazione del tempio sulla base di false etimologie, in omaggio al gusto acritico dell’epoca. La storiografia sarda diviene riflessione critica sulle vicende del passato isolano con la “Storia di Sardegna” di Giuseppe Manno, la cui prima edizione risale al 1825[86]. Questo autore è incerto sulla ubicazione del tempio tra il Capo Pecora, come voleva il Fara nel Cinquecento, ed il Capo Frasca.
Vittorio Angius esitava fra la tradizionale localizzazione del tempio sul promontorio della Frasca e la sua proposta di ubicarlo alla sommità del monte Arcuentu, nel Guspinese, a 785 metri di quota[87]. Anche Alberto La Marmora si mostrava favorevole a collocare il tempio a nord del Capo Pecora, sulla costa occidentale, in località Acqua Bella, dove aveva intravvisto alcuni ruderi[88]. Nel 1859 lo stesso La Marmora avrebbe mutato idea e si sarebbe riferito al promontorio della Frasca in quanto in un frammento di colonna miliaria, rinvenuto a Neapolis[89], ad oriente di quel promontorio, si menziona una via che conduce fino ad un sito, il cui nome, parzialmente conservato, termina in [---]ellum. Il La Marmora, anzichè [Us]ellum, proponeva allora di integrare [sac]ellum, tempietto (di Sardus Pater) [90].
Nel maggio del 1858, in quell’altopiano della Frasca, ricerche ulteriori condussero Giovanni Spano e il suo allievo Vincenzo Crespi, fortemente condizionati dalle Carte d’Arborea. Scriveva lo Spano: <<Io sono d’opinione che questo tempio fosse collocato alla falda orientale del monte (della Frasca) in faccia a Neapolis e al fiume sacro nel sito detto S. Giorgio, dove esistono ruderi di edificio, massi squadrati, frammenti di marmo e di stoviglie>>[91].
Di quell’edificio Crespi curò la planimetria, senza che sorgesse il minimo dubbio sulla effettiva natura del complesso edilizio, nonostante che absidi, vasche, bocche di forno ed altre particolarità indicassero chiaramente la natura termale della struttura. Purtroppo la localizzazione del tempio era ormai definita erroneamente: storici del calibro di Ettore Pais[92] e di Camillo Bellieni[93], archeologi della statura di Antonio Taramelli[94] e di Gennaro Pesce[95] si riferirono sempre al promontorio della Frasca quale sede del Sardopátoros ierón. Nel XX secolo dubbi sull’ubicazione del tempio sul Capo Frasca furono espressi da quattro studiosi: Carlo Albizzati, che in uno studio sul Sardus Pater proponeva di identificare il tempio nel Sinis, nel territorio dei Tharrenses[96]; Carlo Tronchetti[97] e Massimo Pittau[98], i quali lo connettono al santuario di Mont’e Prama; infine Giovanni Lilliu. Quest’ultimo nel 1951 diresse, per conto della Soprintendenza alle antichità, una campagna di scavi nella località di S’Angiarxia, sulla spiaggia orientale del promontorio della Frasca. Tale località corrisponde al sito di San Giorgio nel quale lo Spano aveva segnalato i ruderi del presunto tempio di Sardus Pater. Lo scavo, condotto fra il maggio ed il luglio di quell’anno, rivelò una differente realtà: le imponenti rovine di S’Angiarxia si riferivano non già al tempio di Sardus Pater, bensì ad una prestigiosa villa marittima romana[99]. Accennando a questi scavi in una nota del lavoro sui “Bronzetti nuragici di Terralba”, Lilliu, dissentendo dalla consueta localizzazione del tempio sul promontorio della Frasca, esprimeva l’opinione che il santuario andasse ricercato nelle immediate vicinanze della città di Neapolis, presso le foci del Fiume Sacro, forse il Riu Sitzerri o il Flumini Mannu che sboccano all’altezza di quella città[100]. A sciogliere il quesito sulla ubicazione del tempio fu una straordinaria scoperta nel cuore delle montagne iglesienti. Nel quadro delle missioni congiunte, effettuate dalla Soprintendenza alle antichità di Cagliari e dall’Istituto di Studi del Vicino Oriente dell’Università di Roma, Gennaro Pesce e Sabatino Moscati decisero di promuovere un vasto intervento di scavo nella località di Antas, presso Fluminimaggiore, nella Sardegna sudoccidentale, affidandone la direzione a Ferruccio Barreca[101]. L’équipe di Barreca risolse il problema topografico dell’ubicazione del tempio tolemaico, dimostrando che il Sardopátoros ierón era stato edificato nell’area di un precedente tempio, dedicato al dio fenicio Sid[102], una divinità guerriera e cacciatrice, della quale i fedeli apprezzavano le funzioni salutifere e la forte personalità[103].
4. Il mito di Sardos e del padre Herakles-Makeris
Le epigrafi latine di Antas dimostrano, insieme ai dati letterari, l’effettiva esistenza in età imperiale romana di un culto in Sardegna del dio nazionale Sardus Pater, i cui caratteri mitici (ben più antichi) sono documentati dalle fonti letterarie, recentemente studiate da Raimondo Zucca[104].
Il complesso di fonti greche e latine, non anteriori al I secolo a.C., attesta che Sardos - Sardus fu figlio di Herakles - Hercules, e che partito dalla Libye - Libya giunse in Sardegna a capo di una colonia e dal suo nome denominò l'isola[105]. Pausania nella sua Periegesi è l'unico autore classico a soffermarsi sulla figura di Herakles-Makeris, padre di Sardos: <<Dei barbari dell'Occidente quelli che abitano la Sardegna inviarono a Delfi la statua in bronzo di colui che diede il nome all'isola ...Si dice che primi a passare per navi nell'isola (di Sardegna) fossero i Libyes; il capo dei Libyes era Sardos figlio di Makeris, ossia di Herakles, così chiamato dagli Aigyptioi e dai Libyes. Da un lato Makeris compì un viaggio molto celebre a Delfi, dall'altro Sardos, comandante dei Libyes, li condusse verso l'isola di Ichnoussa, e l'isola cambiò il nome traendolo da quello di Sardos>>[106].
Pausania è estremamente preciso e arriva a collocare l’eikòn, la statua in bronzo di Sardos, con lo scopo di consentire ai visitatori che dopo di lui raggiungeranno il santuario panellenico di Delfi di ritrovare la statua: questa era sistemata alla metà del II secolo d.C. in età Antonina tra il piccolo Apollo consacrato da Echecratides di Larissa e il cavallo offerto dall'ateniese Callias, figlio di Lysimachides, nella terrazza superiore del muro poligonale del santuario, presso il tempio di Apollo[107]. La descrizione della statua costituisce l’occasione per una lunga digressione sulla storia e sui miti della Sardegna ad opera di Pausania. Egli non colloca nel tempo la dedica della statua da parte dei bàrbaroi della Sardegna ed è per questo che l'individuazione degli autori del donario ha suscitato numerosi interventi. Sembra preferibile individuare in quei barbari d'Occidente che abitano la Sardegna proprio i Sardi, eventualmente alleati con alcune comunità fenicie, che poterono celebrare con il donario delfico una loro vittoria sui Cartaginesi, al tempo di Malco, verso il principio della seconda metà del VI sec. a.C.[108], benché altri pensino ai Sardi-Cartaginesi o addirittura ai Sardi dalle molte identità di età ellenistica[109]. Si è pensato anche ai Sardi in rivolta contro i Romani, dieci anni dopo la nascita della provincia, nell’età di Annibale; a questo riguardo va però richiamato il ruolo dell’oracolo di Delfi nel corso della prima guerra macedonica (che si svolse in contemporanea con il Bellum Sardum e con la seconda guerra punica), sotto il controllo degli Etoli in funzione antimacedone: a Delfi giunge Fabio Pittore dopo Canne nel 216 a guida dell’ambasceria inviata per raccogliere il parere della Pizia[110]. Si tratta di elementi che richiamano il ruolo del santuario greco di Delfi nell'espansione verso l'occidente barbarico, in un quadro in cui allora veniva considerato il rapporto antropologico tra natura e cultura, dove la natura è la realtà sociale da civilizzare con la conquista. Se si può concordare con Tronchetti che la dedica della statua non sia avvenuta – come sostiene gran parte della dottrina – in epoca arcaica, tenderemmo ad escludere che dietro i barbari della Sardegna si celino i Cartaginesi. Pausania dichiara di aver visto lui stesso a Delfi la statua, e ciò alla metà del II secolo d.C.[111]. A questo punto è opportuno il quesito: da quanto tempo la statua si trovava esposta sulla terrazza del tempio greco ? Se davvero la statua era stata donata dai principes sardi nel corso del Bellum Sardum dell’età di Hampsicora (215 a.C.), erano comunque trascorsi tre secoli e mezzo. Non va nascosta una difficoltà: il suggestivo richiamo alla religione apollinea della luce si manifesta nella battaglia finale vinta da Tito Manlio Torquato con l'intervento miracoloso del dio delfico a danno di Hostus in difesa del poeta Ennio (dunque in funzione antisarda, visto che i Sardi sul Tirso, il fiume che mantiene il nome del bastone rituale in ferula, sembrano sostenuti da Dioniso)[112]. Occorre del resto osservare la posizione del santuario delfico nel corso della guerra annibalica: l’arcaico santuario di Dodona in Epiro, vicino a Filippo V, era stato devastato da Dorimaco e dagli Etoli nel 219 a.C., apparentemente per rafforzare l’oracolo delfico[113]. Gli Etoli nel 215 controllavano il santuario di Delfi in funzione antimacedone e filo romana, perché la Macedonia sembra aver perso il controllo sull’anfizionia delfica, almeno fino alla spedizione di Perseo del 178 a.C. Ma ovviamente si tratta forse solo di schemi moderni, dato che Delfi mantenne costantemente il carattere di santuario panellenico aperto sul Mediterraneo. In ogni caso la statua di Sardos sarebbe stata comunque esposta alla venerazione dei fedeli dai sette ai quattro secoli all’aperto nel santuario di Delfi, un periodo lunghissimo che ci dice anche qualcosa sui tabù che proteggevano nel tempo i donari del dio Apollo.
Una celebre vicenda è quella che riguarda il viaggio proprio a Delfi di Herakles-Makeris (ossia dell'antico Herakles tirio o egizio-canopico, anche se talora le fonti distinguono due diversi personaggi): il testo genealogico di Pausania su Sardos e su suo padre (chiamato Makeris da Aigyptìoi e Libyes, forse dai Fenici), ci mostra come sussistesse in seno alla mitografia eraclea un filone che valorizzava il parallelo semitico dell'Herakles greco, il Melqart degli emporoi Tirii che navigavano sulle navi insieme agli Eubei verso le rotte occidentali. È un capitolo straordinario che ci collega con la serie degli altri Herakles, distinti dal figlio di Zeus e Alcmena.[114] Gli ultimi studi hanno enormemente ampliato questa prospettiva orientale ed egizia, anche in rapporto ai Shardana[115].
Fu già Erodoto a parlare di un antichissimo Ercole Egizio, di cui esisteva un tempio a Tiro, che egli volle visitare nel V secolo a.C., recandosi poi a Tasos dove i Fenici avevano costruito un tempio analogo: <<Navigai fino a Tiro in Fenicia, poiché sapevo che lì c'era un tempio sacro ad Herakles . E lo vidi, riccamente adorno di molti doni votivi, e fra gli altri c'erano in esso due colonne, l'una d'oro, l'altra di smeraldo, che brillava per la sua grandezza nella notte. Venuto a colloquio con i sacerdoti del dio, chiedevo quanto tempo fosse passato da quando sorgeva quel loro tempio. E trovai che neppure essi s'accordavano con i Greci. Risposero infatti che contemporaneamente alla fondazione di Tiro era stato eretto anche il tempio del dio, e, da quando abitano Tiro, erano 2300 anni. Vidi poi a Tiro anche un altro tempio di Herakles, che ha il nome di Tasio. Andai anche a Tasos, dove trovai un tempio di Herakles eretto dai Fenici che navigando alla ricerca di Europa fondarono Tasos; e questi avvenimenti risalgono a cinque generazioni di uomini prima della nascita di Herakles figlio di Anfitrione in Grecia. Queste ricerche dimostrano chiaramente che Herakles è una divinità antica. E a me sembra che la cosa più giusta la facciano quelli dei Greci che hanno elevato due templi ad Herakles, e all'uno sacrificano come a immortale, col nome di Olimpio, all'altro invece rendono onori come a un eroe>>[116]. Proprio ai Tirii, dunque ai Fenici presenti anche a Tasos, si attribuiva la costruzione dell’Herakleion collocato in Egitto, sul braccio canopico del Nilo[117], in onore di un Eracle che andrebbe identificato con il dio di Tiro[118]. La forma documentata in Pausania Makeris (per il padre di Sardos) sembra essere la ricomposizione greca de teonimo semitico (e tirio in particolare) Melqart, secondo un processo comune di ristrutturazione ellenica dei teonimi semitici, teso ad assicurare una apparenza greca ai nomi divini[119]; del resto appaiono inconsistenti i tentativi di riferire alla teonomastica libico-berbera il nome del dio[120].
In realtà è stata sottovalutata l'importanza dell'affermazione pausianea del carattere non greco, ma piuttosto tirio, dell'Herakleion di Thespiae, presso il quale – secondo Raimondo Zucca - <<doveva essere incardinata la "storia sacra" dell'apoikia dei Thespiadi in Sardegna, che secondo l'interpretazione (o la tradizione seguita) di Pausania era raccordata ad un Herakles non greco, che avrebbe imposto una sacerdotessa vergine che ritualizzava la verginità di una delle figlie di Tespio, sottrattasi all'amplesso di quell'Herakles. Nel viaggio dell'Herakles tirio a Delfi si scopre l'itinerario storico che dalla Beozia e da Thespiae in particolare conduceva in Focide a Delfi, con un percorso che ancora l'Itinerarium Antonini conosce. È sintomatico il fatto che la Pizia secondo Zenobio accolse dapprima Herakles-Briareo che si accingeva alla spedizione verso le colonne di Briareo-Herakles, ossia il sincretismo tra l'eroe beota e il centimane euboico, e successivamente l'Herakles tirio, l'archegetes degli impianti Tirii fino all'estremo Occidente di Gadir, oltre le colonne di Herakles>>[121].
In definitiva le fonti di Pausania documentavano per Sardos una genealogia divina essendo egli figlio di Makeris-Melqart, l'Herakles tirio venerato anche, con il teonimo semitico, in Egitto e nella Libye abitata dai Fenici.
Come l’Herakles tebano (il padre dei 50 Tespiadi) ottenne dal dio Apollo delfico la promessa dell’immortalità a patto che, terminate le fatiche impostegli da Euristeo[122], si trasformasse in oikistes inviando una colonia dei suoi figli in Sardegna, guidati dal nipote Iolaos, che sarebbe stato onorato con un tempio e con l'appellativo pater[123], così l’Herakles tirio, Makeris, sarebbe stato riconosciuto da Apollo delfico come il dio fenicio parallelo ad Herakles, ed avrebbe inviato una colonia in Sardegna, guidata dal figlio Sardos che avrebbe ricevuto l’identico epiteto di pater, divenendo il Sardus Pater[124]. Come si è detto, va abbandonata l’ipotesi di collegare Makeris alla teonomastica libico-berbera, in funzione di una interpretazione dei Libyes di Pausania come libici, abitanti indigeni della Libye, dell'Africa settentrionale. Siamo portati, invece, a considerare i Libyes di Pausania, che denominavano Makeris Herakles, come Fenici, secondo un uso attestato altre volte nella letteratura antica anche in rapporto alla presenza fenicia in Sardegna. In definitiva le fonti di Pausania documentavano per Sardos una genealogia divina essendo egli figlio di Makeris-Melqart, l'Herakles tirio venerato anche, con il teonimo semitico, in Egitto e nella Libye abitata dai Fenici.
Dunque la celebre storia del viaggio a Delfi di Makeris, ossia dell'Herakles tirio o egizio (canopico) appare la chiave interpretativa greca del mito di Sardos, primo hegemon di una apoikia in Sardegna e eponimo dell'isola. Pausania connette i due eventi tra loro, usando la medesima costruzione sintattica e le particelle men / de, in quanto nelle sue fonti doveva essere evidente il rapporto tra il viaggio a Delfi del padre e il viaggio in Sardegna del figlio[125]. È indubbio che vadano identificati, per le considerazioni sopra svolte, il viaggio a Delfi dell'Herakles egizio narrato da Pausania e quello dell'Herakles tirio ricordato da Zenobio. Raimondo Zucca ha rilevato una incertezza delle fonti sulla sequenza degli eventi: infatti per Pausania, infatti, la Pizia riconobbe come "l'altro Herakles" l'eroe greco, venuto a Delfi dopo il viaggio dell'Herakles egizio; per Zenobio, invece, "l'altro Herakles" era il dio fenicio, giunto all'oracolo dopo il viaggio di un Herakles greco, detto Briareo, destinato a compiere l'odos Herakleia verso le colonne dette dapprima di Briareo, successivamente di Herakles[126].
L'oracolo relativo alla promessa d'immortalità dovette essere complesso poiché esso non riguardava esclusivamente il compimento delle imprese che gli sarebbero state imposte da Euristeo, ma anche l'invio di una colonia dei suoi figli Tespiadi in Sardegna. Sono sintomatici di questo legame tra il primo vaticinio delfico relativo ad Herakles e l'apoikìa sarda, gli espliciti riferimenti di Diodoro a tale oracolo: <<Concluse le imprese (di Euristeo), (Herakles) aspettava di ottenere l'immortalità, secondo l'oracolo di Apollo>>[127]. Inoltre aggiunge: <<Quando ebbe compiute le imprese, poiché secondo l'oracolo del dio era opportuno che prima di passare fra gli déi inviasse una colonia in Sardegna e ne mettesse a capo i figli che aveva avuto dalle Tespiadi, Herakles decise di spedire con i fanciulli suo nipote Iolao, poiché erano tutti molto giovani>>[128]. In relazione a questa colonia avvenne anche un fatto straordinario e singolare: <<con un oracolo il dio disse loro che tutti quelli che avevano preso parte a questa colonia e i loro discendenti, sarebbero rimasti continuamente liberi per l'eternità: e la realizzazione di questo, conformemente all'oracolo, perdura fino ai nostri giorni>>[129]. E ancora: <<secondo l'oracolo relativo alla colonia, coloro che avessero partecipato alla sua fondazione sarebbero rimasti per sempre liberi: è accaduto che l'oracolo, contro ogni aspettativa, abbia salvaguardato, mantenendola intatta fino ad oggi, la libertà degli abitanti dell'isola>>[130].
Il secondo viaggio che Herakles compì a Delfi per consultare l'oracolo appare quello più importante, in quanto in tale occasione la Pizia avrebbe fatto riferimento al viaggio compiuto da un Herakles differente dall'eroe tebano. Diodoro narra come Herakles avendo ucciso Ifito, precipitandolo dalle mura di Tirinto, cadde malato[131], colpito per Apollodoro da una tremenda malattia[132]. Pausania fa recitare alla Pizia Xenoclea un verso esametro che chiama Herakles «di Tirinto» (per avere ucciso Ifito, precipitandolo dalle mura della città), distinguendolo dall'Herakles canopico, che aveva già compiuto la consultazione dell'oracolo. Il problema fondamentale in questo complesso di narrazioni è quello di definire il valore funzionale del viaggio a Delfi dell'Herakles egizio-fenicio, ossia di Makeris. L'articolato lavoro di Corinne Bonnet su Melqart ci consente di seguire il problematico radicamento del culto dell'Herakles tirio nelle isole greche, in Ionia e nella Grecia continentale[133].
Connesso con la Sardegna è il santuario di Herakles a Tespie: sacerdotessa di questo santuario era una vergine, che doveva custodire la sua purezza per tutta la vita. Scrive Pausania: <<La causa di ciò dicono che sia la seguente: che Herakles si unì con tutte le cinquanta figlie di Tespio, tranne che con una, nella stessa notte e dicono anche che questa fu la sola che non volle unirsi a lui. Ed Herakles ritenendo di doverle fare violenza la costrinse a stare vergine per tutta la sua vita e consacrata a lui. Ma io ho sentito anche un altro racconto secondo il quale Herakles avrebbe avuto rapporti nella stessa notte con tutte le figlie di Tespio e che tutte queste ragazze gli partorissero dei figli maschi e che la più giovane e la più anziana gli generassero dei gemelli. Ma non è possibile che io ritenga veritiero questo racconto, cioè che Herakles giungesse a tal punto di ira nei confronti di una figlia di un uomo amico. Inoltre (Herakles) fin tanto che si trovava ancora fra gli uomini punendo coloro che erano stati insolenti e soprattutto quanti erano stati empi nei confronti degli dei, non avrebbe potuto lui stesso fondare un tempio in suo nome e istituire una sacerdotessa come se lui fosse un dio; questo santuario, infatti, mi è sembrato più antico rispetto all'epoca di Herakles, il figlio di Anfitrione, e io penso che esso debba appartenere piuttosto all'Herakles detto dei Dactili Idaei, quello di cui io ho visto i santuari presso gli Erithrei di Ionia e presso i Tirii. I Beoti stessi non ignorano questo appellativo di Herakles poiché gli abitanti di Mycalessos dicono essi stessi che il santuario di Demetra è consacrato anche all'Herakles Idaeo>>[134].
Insomma, appare dimostrato come tradizione greca e tradizione fenicia tiria si siano incontrate già prima dell’età di Erodoto, con una evidente ripresa in età romana, forse nell’età triumvirale quando Ottaviano – divi filius - consacrò sulle monete (assi in bronzo) l’immagine del dio sardo-africano figlio di Makeris-Melkart[135] affiancandola a quella del nonno Marco Azio Balbo, propretore in Sardegna nel 59 a.C.[136], l’anno cruciale del consolato di Giulio Cesare suo cognato, che a sua volta poteva vantare una ascendenza divina che forse lo collegava ai Sardi Ilienses, fondando una “parentela etnica” con i Sardi della Barbaria[137].
5. L’archeologia dei culti di Antas
Il carattere cultuale romano del complesso archeologico di Antas fu chiarito da Alberto La Marmora nel 1840, ma l’individuazione di una fase pre-romana del luogo di culto è dovuta al pittore Foiso Fois nel 1964. Nell’ambito dello studio della viabilità romana dell’isola, il Fois condusse prospezioni archeologiche ad Antas, compiendo due osservazioni di particolare interresse: nel rilevare ex-novo il tempio, da un lato si rese conto che il Cima aveva omesso nella sua pianta due piccoli ambienti quadrangolari che chiudevano il sacello sul lato breve nord-occidentale, dall’altro comprese che la tecnica edilizia usata per edificare il tempio differiva da quella delle strutture sottostanti la gradinata d’accesso. Quest’ultimo particolare indusse il Fois ad ipotizzare, due anni prima degli scavi ufficiali, una fase punica del luogo di culto di Antas[138].
Tuttavia l’ipotesi di una origine cartaginese del culto di Antas non soddisfaceva i fautori del carattere encorico di Sardus Pater. Inoltre un ricercatore e collezionista dello scorcio del XIX secolo, Vincenzo Dessì, acquisì da Antas una statuetta votiva in bronzo, di artigianato nuragico, ora nel Museo Sanna di Sassari; si trattava di un forte indizio di un luogo di culto nuragico della prima età del ferro che avrebbe preceduto i culti cartaginese e romano di Sardus Pater. La statuina rappresenta un personaggio aristocratico orante, con la bandoliera da cui pende un pugnaletto ad elsa gammata[139].
Negli scavi del 1966-67 si recuperarono vari oggetti nuragici in bronzo, riportabili al IX-VIII secolo a.C., presi in esame da Giovanni Lilliu[140] ed Enrico Acquaro[141]. Si tratta di un arto di statuina, una spada miniaturistica ad antenne, una faretrina, un falcetto, uno spillone a testa modanata.
Ad offrire un probabile contesto a tali oggetti venne la scoperta a cura di Giovanni Ugas di un sepolcreto, localizzato a sud della scalinata del tempio romano, di tombe a pozzetto indigene della prima età del ferro[142], confrontabili con le sepolture di Mont’e Prama[143]. Si tratta di tre tombe a pozzetto circolare, monosome, con deposizione primaria di un inumato, talora con corredo di vaghi di collana in oro, pasta vitrea e cristallo di rocca, ed eccezionalmente di un bronzo figurato (personaggio stante armato di lancia), dotate di copertura a tumuletto con un pilastrino-segnacolo[144], a volte accompagnate da «fossette ... interpretabili come luoghi di offerte votive»[145], costituite da animali sacrificati e da bronzi figurati e d’uso. Alle tre tombe scavate da Giovanni Ugas si sono aggiunte negli scavi diretti da Paolo Bernadini negli anni 2004-05 nuove tombe a pozzetto, con fossette per la deposizione di offerte, fra cui una faretrina miniaturistica, del tardo IX sec. a.C., un cinghialetto e uno spillone[146] inscritto. L’eccezionalità dello spillone in bronzo, di tipo nuragico del IX- VIII sec. a.C., con una iscrizione, di cui si discute l’ascrizione a codice alfabetico fenicio o greco o a codice sillabico cipriota, depone a favore di un luogo funerario di rilevantissima entità[147].
Non possiamo escludere che nell’ambito funerario, di carattere aristocratico, si sia sviluppato il culto di un antenato comune, di statuto eroico o divino, che potrebbe rispondere alla citata figurina enea, rinvenuta da Giovanni Ugas, rappresentante un personaggio ignudo, stante, armato di lancia, l’arma che caratterizza Sardus Pater sul diritto della emissione enea di Ottaviano, commemorante l’avo M. Atius Balbus, forse propretore in Sardinia. Le tombe singole, dal ricco corredo e dalle offerte rituali, denunziano un possibile complesso funerario sacrale indigeno che potrebbe essere alla base della interpretatio cartaginese e romana del dio-antenato dei Sardi, il cui culto poteva svolgersi (si tratta beninteso di una ipotesi) nel sito sacro, del tempio punico e dell’altare romano, in forme architettoniche per noi ignote (megaron ?, rotonda ?, tempio a pozzo ?). La prosecuzione del culto alla divinità-antenato dei Sardi poté svolgersi forse senza soluzione di continuità durante l’età del ferro, in contemporanea con il centro urbano fenicio di Sulci, sino alla conquista cartaginese della Sardegna. Appare indubbio che all’atto della conquista Cartaginese il luogo di culto (indigeno?) di Antas venne fatto oggetto di deposizione di doni votivi punici. Al 500 a.C., infatti, rimonta il frammento di una protome maschile di divinità, di modello o importazione cartaginese, edita da Enrico Acquaro nel 1969 e confrontata con terrecotte figurate coeve sulcitane e tharrensi[148]. Gli studiosi concordano comunque sulla presenza di un tempio punico a partire dal IV secolo a.C.
La politica di acquisto delle miniere sarde (oltreché delle aree a vocazione cerealicola) da parte di Cartagine dovette comportare uno stretto raccordo con il luogo minerario di Antas, fino alla costruzione di un tempio punico, erede della cultualità protosarda. Attualmente si è inclini a datare questa fase costruttiva al IV secolo a.C., con il conseguente abbassamento cronologico dei più antichi votivi, anche inscritti, riportati inizialmente allo scorcio del VI-inizi del V secolo a.C. Indubbiamente una più matura considerazione ha portato Mario Torelli ad ascrivere ad età tardo ellenistica la testa marmorea di Afrodite, inizialmente riportata da Maria Antonietta Minutola al 430 a.C.[149]
Si tende ora a considerare unitaria la fase punica del tempio incentrato su una roccia-altare. Intorno allo scorcio del IV sec. a.C. anche ad Antas si introdussero gli elementi caratteristici dell’ellenismo punico, derivati dall’Egitto tolemaico, quali la trabeazione a gola egizia, unita all’ordine dorico. È presumibile che due colonne con capitelli dorici (in arenaria stuccata), prive di funzione portante, decorassero il prospetto del sacello, terminato superiormente dalla cornice a gola egizia. Questo amalgama greco-egizio di stili architettonici, proprio dell’ecclettismo cartaginese, è bene attestato non solo in area metropolitana ma anche nell’ambito dell’”impero marittimo” di Cartagine e segnatamente in Sardegna, dove lo riscontriamo nel grande tempio delle semicolonne doriche di Tharros e, particolarmente, nei prospetti di sacelli raffigurati nelle stele del tofet. A questo tempio si devono attribuire i numerosissimi votivi, consistenti in statuette ed eccezionalmente nella rappresentazione del tempio di Antas, fissati su piccole basi con iscrizioni puniche, anelli, chiodi con la testa rivestita di lamina aurea, foglie di diadema aureo, lance in ferro (considerate a torto obeloi dall’Esposito[150]).
Il dio principale del tempio, attestato dalle iscrizioni[151], è Sid, l’eponimo di Sidone[152]. Il Dio è qualificato normalmente come Adon Sid Addir Baby, ossia Signore Sid Potente Baby, ma in una epigrafe rinvenuta una ventina d’anni addietro è definito probabilmente ’b ossia “Padre” in semitico, un titolo che farebbe confluire tre diverse tradizioni. L’epiteto di pater dato a Sid consente un agevole parallelo, finora non tentato[153], fra Iolaos Pater e Sardus pater, consentendoci di accreditare l’ipotesi che Giovanna Sotgiu, Giulio Paulis, Giovanni Garbini e Ferruccio Barreca formularono a proposito dell’epiteto B’by di Sid, inteso come teonimo paleosardo, acquisito nella titolatura del dio semitico Sid e del dio romano Sardus Pater, qualificato Babi (?) nella prima linea del titulus dell’epistilio, con il significato di “padre venerabile”, “antenato”, “datore di vita” et similia[154].
Bisogna osservare che questa proposta è stata avversata da vari studiosi: in particolare F. Mazza ha visto in B’by nient’altro che l’omonimo genio egiziano (B3By) che sarebbe stato un qualificativo di Sid[155]. Lo stesso Sid è stato considerato un imprestito egiziano al mondo punico: a parte le genealogie biblica e classica che mettono in rapporto Sid sia con Sidone, sia con Aigyptos, per i fautori della origine egiziana di Sid hanno rilievo le dediche ad Antas di due statuette, una di Shadrafa, l’altra di Horon, due divinità egizie, allo stesso Sid. Inoltre Eduard Lipinski ha elaborato una teoria secondo la quale Sid non sarebbe altro che la resa semitica (fenicia) dell’egiziano dd, il pilastro identificato con Osiride, padre di Horo[156].
Queste interpretazioni, se hanno il merito di evidenziare, in filigrana, gli apporti culturali di matrice egiziana che si sovrappongono a Sid B’by di Antas, qualificandone i caratteri di taumaturgo[157], non riescono, d’altro canto, a negare le peculiarità di Sid, archegetes di Sidone e dei Sidoni-fenici, il cui culto a Cartagine e a Gaulos (Gozo, nell’arcipelago maltese) è documentato da templi, noti dalla documentazione epigrafica nelle forme composte di Sidmelqart (forse figlio di Melqart-Herakles) e di SidTanit[158].
Importante è la constatazione, acquisita negli scavi nel 1995-97, di una distruzione volontaria dei doni votivi del tempio di Sid-B’by, riportata alla rivolta dei mercenari del 240-238 a.C. (Enrico Acquaro[159], seguito da Paolo Bernardini[160]) o ai cristiani (Giovanni Garbini) [161]. La prima interpretazione è di gran lunga la più verosimile, sia per il quadro storico generale sulla rivolta dei mercenari filoromana e antipunica, che portò all’eccidio dei cartaginesi residenti in Sardegna, sia perché così può spiegarsi la presenza di votivi, anche di valore elevato, nel riempimento della gradinata del tempio romano.
La distruzione effettuata dai mercenari non significò in ogni caso la fine del culto che proseguì pienamente in età romana, in particolare durante il secondo triumvirato e poi in età severiana.
Il simulacro di culto potrebbe essere caratterizzato da una figura stante, ammantata, barbuta, coronata da una tiara di penne, come documenta sia la testina enea di Decimoputzu, di artigianato sardo della prima età del ferro, sia la figurina in bronzo di Gesturi, da taluno riportata ancora ad età tardo punica, e considerata simile all’iconografia di Ba’al Hammon di Thinissut[162], sia, infine, il diritto del citato asse di Sard(us) Pater, battuto da Ottaviano in memoria del nonno M. Atius Balbus[163]. La iconografia del copricapo di penne, analogo a quello dei Nasamoni africani[164], rimanda a quella che Pettazzoni chiamava la <<connessione etnica sardo-africana>>[165]: tutti elementi che confermano l’ipotesi di Ignazio Didu che ritiene che il mito derivi certamente da fonti pre-sallustiane[166].
In età tardo repubblicana, forse già nel corso del tardo II secolo a.C. (Giuseppina Manca di Mores) o in un periodo più tardo, eventualmente sotto Ottaviano (per il quale si dovrebbe comunque pensare ad una fase di restauri), fu ricostruito il santuario in forme romano-italiche, con lunga scalinata, dotata al centro dell’altare, e tempio tetrastilo di ordine ionico, con pronao, cella e adyton (il sancta sanctorum) bipartito[167].
L’adyton bipartito si presenta preceduto in ciascun ambiente da una vaschetta dotata di gradini, già attribuita a funzioni lustrali, oggi considerata tardo antica e ricondotta alla rifunzionalizzazione del monumento a scopo produttivo[168]. Enrico Acquaro aveva potuto notare le interferenze culturali puniche nel tempio romano, ad esempio nell’uso del cubito punico di m 0,46 per i blocchi in calcare della costruzione, benché non possa escludersi l’utilizzo del sesquipes romano di m 0,45. Più rilevante per le scelte architettoniche del tempio romano è l’adyton bipartito, per il quale recentemente Dolores Tomei ha richiamato esempi di Solunto e Oumm el ‘Amed (Hammon, presso Tiro)[169]. L’adyton probabilmente era dedicato alle statue di Sardus e di Hercules, collocate nella rispettiva cella, anche se gli ultimi studi di Giuseppina Manca di Mores confermano l’associazione con altre divinità (una femminile) rappresentate nelle terrecotte figurate collocate nel timpano[170]. Naturalmente sullo sfondo rimane l’ipotesi che dietro le fattezze di Ercole possa nascondersi Caracalla, secondo una “moda” avviata da Commodo negli ultimi anni di vita, che proprio nelle miniere di Metalla era intervenuto nel 192 (poco prima di essere ucciso per iniziativa della concubina Marcia). Sarebbe suggestivo pensare che il progetto della ricostruzione del tempio del Sardus Pater figlio di Eracle si debba attribuire inizialmente proprio a Commodo-Eracle. Ma nessun elemento confermerebbe questa ipotesi, così come è da escludere la rappresentazione di Giulia Domna (magari assimilata a Caelestis o alla Ninfa Cirene madre di Aristeo) tra le terrecotte architettoniche figurate del timpano, che si sono rivelate ben più antiche.
Il pronao, profondo m 6,60 (22 piedi) ha quattro colonne sul prospetto e due sui lati. Le colonne centrali hanno un intercolumnio di m 3 (10 piedi), mentre le colonne laterali presentano in rapporto a quelle centrali un intercolumnio di m 2,4 (8 piedi). Il diametro della colonna è alla base di m 0,95 (circa 3 piedi e 2 unciae). Le colonne, in calcare locale, composte da rocchi a fusto liscio per una altezza ricostruita di m 8, hanno basi attiche [diametro m 0,95, altezza m 0,45 (= piedi 1,5)] e capitelli ionici. Questi ultimi, dovuti a maestranze che lavoravano in loco, si distaccano dalla forma canonica per la mancanza dell’abaco e del canale delle volute; inoltre insolita importanza viene attribuita alle frecce del kyma ionico, grandi quanto gli ovoli; mentre il sommoscapo, lavorato in pezzo unico col capitello, presenta un profilo “concavo”[171].
In questa prima fase romana (II metà II sec. a.C. o età di Ottaviano) il tempio venne rivestito di lastre fittili con grifi retrospicienti e Arpia, con il frontone decorato dalla storia di Hercules e Sardus: come desumiamo dalla ricostruzione proposta dalla Manca di Mores, il coronamento fu dato da figure maschili e femminili nascenti da cespo di acanto, mentre le sime laterali sono dotate di gocciolatoi a protome leonina[172].
L’antico tempio, frequentato da tutte le comunità della Sardinia unite nella devozione verso il padre Hercules e il figlio Sardus, fu restaurato sotto Caracalla tra il 213 e il 217 d.C., pienamente frequentato e utilizzato ben oltre la pace costantiniana, fino al trionfo del cristianesimo nel IV secolo: i contenuti del culto continuano ad apparire ancora legati alla sfera medica, salutifera e soteriologica[173], che nel passaggio dal paganesimo al cristianesimo finiscono per sovrapporsi nell’isola con culti di tipo magico-religioso e la divinazione mantica (un aspetto questo che sembra originariamente connesso con il culto di Herakles-Sardus)[174].
Una problematica prosecuzione in parallelo del culto di Sid presente ancora in età medio e tardo imperiale è stata sostenuta in base a due elementi: nel centro di Sulci di origine fenicia, Giovanna Sotgiu ha infatti proposto di riconoscere nel signum Sidon(ius) di un magistrato cittadino del III secolo d.C., C. Caelius C. f(ilius) Magnus, la probabile testimonianza di una devozione personale a Sid[175]. Infine, tra le ultime attestazioni si deve ricordare l’enigmatico anello di Antas, con l’invocazione a Sid, che Paolo Benito Serra interpreta in realtà come di realizzazione cristiana[176].
Infine, in conclusione, si deve rilevare che le ultime monete gettate nel tesoro del tempio sono piccoli spiccioli in bronzo che la pietà della religiosità popolare del tempo legò al santuario al termine del IV secolo. Da allora in poi Hercules e il figlio Sardus si ritirarono nell'empireo della mitologia, fino alla riscoperta degli archeologi.
* Ringrazio Giuseppina Manca di Mores, Paola Ruggeri e Raimondo Zucca per l'ampia collaborazione. Ringrazio inoltre Mario Atzori, Maria Bastiana Cocco, Alberto Gavini, Antonio Ibba, Pier Giorgio Floris, Claudio Lo Curto, Giuseppina Manca di Mores, Maria Grazia Melis, Tonino Oppes, Marilena Sechi. Massimo Casagrande ha raccolto per noi la documentazione archivistica presso la Soprintendenza archeologica di Cagliari. I risultati preliminari della ricerca sono stati presentati al Workshop Archeologia, bioarcheologia e beni culturali: rapporto tra ricerca e sviluppo del territorio, Stintino 13 settembre 2013, promosso da Salvatore Rubino ed Esmeralda Ughi che ringrazio. Un grazie anche agli amici della Società cooperativa Start-Uno che cura il sito di Antas.
[1] CIL I,22 2226 e a.1986 add. III = X 7856 = ILS 1874 = ILLRP I, 41= IG XIV 608 = IGR I 511 = CIS I,1 143 = ICO Neop. 9.
[3] Cfr. lo scolio al Timeo platonico, 25 b, ed. Greene, p. 287.
[4] Ptol., Geogr. III, 3, 4.
[6] Il titolo di patér compare attribuito ad Iolao in DIOD. IV, 30, 3 e V, 15,6; questa divinità, citata nel giuramento di Annibale dopo Canne (POL. VII, 9, 2), è forse connessa con la denominazione della capitale della Mauretania Iol, che Giuba II ribatezzò Caesarea in onore di Augusto.
[8] Moltissime le dediche Herculi Augusto pro salute di Caracalla in area pannonica, nel corso della spedizione contro gli Alamanni, vd. solo a titolo esemplificativo CIL III 10333 = RIU 1492 = AE 2009, 1086 a Székesfehérvár, in Pannonia inferiore. Le dediche proseguono negli anni successivi, vd. ad esempio AE 2008, 1146 = AE 1990, 805, Aquincum-Budapest, una dedica He[rculi Augusto] effettuata per la salvezza e l’incolumità di Caracalla (che compare col cognomen Severus) e di sua madre Giulia Domna: templum Herculis [vetust(ate) conlaps(um) restituit] a fundamentis adie[cto – 22 c. ] Cattio Sabino I[I et Cornelio Anullino coss.] (anno 216).
[9] . Vd. A. Mastino, Antonino Magno, la cittadinanza e l'impero universale, in La nozione di "Romano" tra cittadinanza e universalità (Da Roma alla terza Roma, Studi, 2), ESI, Roma 1984, pp. 559-563; Id., Orbis, kosmos,, oikoumene: aspetti spaziali dell'idea di impero universale da Augusto a Teodosio, in Popoli e spazio romano tra diritto e profezia (Da Roma alla terza Roma, Studi, 3), ESI, Roma 1984, pp. 91 ss.; Id., Magnus nella titolatura degli imperatori romani, “Archivio giuridico Filippo Serafini”, CCXXVII, III, 2007, pp. 397 ss., anche in Il titolo di “Magno” dalla Repubblica all’Impero al Papato, Giovanni Paolo Magno, I Quaderni dell’”Archivio Giuridico”, 2, a cura di M. Baccari e A. Mastino, Mucchi editore Modena 2010, pp. 16 ss.
[10] Refutat. omn. Haeres., IX,12 (ed. P. Wendland, p. 248); vd. R. Turtas, Storia della Chiesa in Sardegna dalle origini al Duemila, Roma 1999, pp. 31 ss.
[11] Penserei al procuratore imperiale responsabile delle miniere e non all’anonimo governatore provinciale come proposto da D. Faoro, Praefectus, procurator, praeses. Genesi delle cariche presidiali equestri nell’alto Impero Romano, Firenze 2011, p. 309 nr. 12, anche se l’autorità del prefetto provinciale sembra esercitarsi sull’area mineraria, come testimonia proprio la dedica relativa ai restauri del tempio nell’età di Caracalla.
[12] AE 1998, 671 = 2001, 1112 = 2002, 265 = 2007, 685 = 2019, 618 (Fordongianus).
[13] Vd. Y. Le Bohec, Notes sur les mines de Sardaigne à l’époque romaine, in Sardinia antiqua, Studi in onore di Piero Meloni in occasione del suo settantesimo compleanno, Cagliari 1992, pp. 255 ss.
[14] Id., La Sardaigne et l’armée romaine sous le Haut-Empire, Sassari 1990, pp. 97 ss.
[15] Vd. A. Mastino (con la collaborazione di N. Benseddik, A. Beschaouch, G. Di Vita-Evrard, M. Khanoussi, R. Rebuffat), I Severi nel Nord Africa, in Atti XI Congresso Internazionale di Epigrafia Greca e Latina, Roma, 18-24 settembre 1997, Roma 1999, pp. 359 ss.
[16] Vd. ora le osservazioni di G. Manca Di Mores in questo volume e già in A. Sanna, Archeologia, Dai resti di Antas riemerge l’immagine del Sardus Pater, “La Nuova Sardegna”, 31 luglio 2013. Vd. anche G. Manca di Mores, Il paesaggio come identità del potere: la valle di Antas e la decorazione architettonica fittile del tempio. Osservazioni preliminari, in “L’Africa romana”, XIX, Carocci, Roma 2012, pp. 1727-1738; Ead., in Meixis: dinamiche di stratificazione culturale nella periferia greca e romana: atti del convegno internazionale di studi Il sacro e il profano, Cagliari, Cittadella dei musei, 5-7 maggio 2011, Cagliari 2012.
[17] Vd. G. Ugas, G. Lucia, Primi scavi nel sepolcreto nuragico di Antas, in Atti Convegno La Sardegna nel Mediterraneo fra il secondo e il primo millennio a.C., Selargius-Cagliari 1986, Cagliari 1987, pp. 255 ss. Un commento è in P. Bernardini, Necropoli della Prima età del ferro in Sardegna. Una riflessione su alcuni secoli perduti o, meglio, perduti di vista, Tharros Felix 4, Roma 2011, pp. 354 ss. (sulle necropoli nuragiche con tombe a pozzetto). Vd. ora O. Fonzo, E. Pacciani, Gli inumati nella necropoli di Mont’e Prama, in Le sculture di Mont’e Prama, Contesto, scavi e materiali, a cura di M. Minoja e A. Usai, Gangemi, Roma 2014, pp. 175 ss.
[18] Progetto di ricerca di base dal titolo “Nuove tecnologie applicate alla ricerca epigrafica: rilievo e restituzione grafica, analisi testuale e prosopografica di una selezione delle iscrizioni della Sardegna antica” avviato dal Dipartimento di Storia, Scienze dell'Uomo e della Formazione grazie ai fondi della Regione Autonoma della Sardegna (L. R. 7/2007): si è avviato l’utilizzo di un laser scanner brandeggiabile di precisione, il modello “HandyScan Revscan” della società canadese Creaform, per la creazione di modelli tridimensionali delle iscrizioni. Si tratta di uno strumento definito convenzionalmente di “terza generazione”, non vincolato stabilmente durante la scansione e utilizzabile quindi a mano libera, Il sistema è composto da una parte hardware, che trasmette i dati effettivi ad una potente workstation e da una parte software che utilizza le informazioni per calcolare la forma dell'oggetto sottoposto a scansione. Nel corso del progetto sono state rilevate 100 iscrizioni della Sardegna romana, privilegiando le testimonianze di complessa lettura e quelle di grande rilevanza per la storia dell'isola, conservate sia nei depositi della Soprintendenza per i Beni Archeologici sia nei musei statali. L'attenta osservazione della copia virtuale, spesso già nella fase di acquisizione dei dati, ha consentito in molti casi di integrare la lettura dei testi, di correggere alcune trascrizioni proposte in passato, di cogliere dettagli non visibili o difficilmente apprezzabili ad occhio nudo e di raccogliere una serie di informazioni sui supporti e sulle fasi di reimpiego, agevolando notevolmente l'analisi, l'interpretazione e la catalogazione delle iscrizioni. La scansione laser restituisce una rappresentazione tridimensionale oggettiva e completa, durevole nel tempo e sottoponibile in qualsiasi momento a nuove interrogazioni, ruotabile e osservabile da diverse prospettive nello spazio 3D, facilmente trasferibile, duplicabile all'infinito e interrogabile in qualsiasi momento anche da utenti diversi. Vd. S. Ganga, A. Gavini, M. Sechi, in c.d.s.
[19] AA.VV., Ricerche puniche ad Antas. Rapporto preliminare delle campagne di scavi 1967 e 1968, Università di Roma, Roma 1969.
[20] G. Sotgiu, Le iscrizioni latine del tempio del Sardus Pater ad Antas, in “Studi Sardi”, XXI, 1968-70, pp. 7-20 = AE 1971, 119 = Ead., L'epigrafia latina in Sardegna dopo il CIL X e l'EE VIII, ANRW, Berlin-New York, 2, 11, 1, 1988, (= ELSard.), p. 583 B13= AE 1992, 867. Vd. già CIL X 7539.
[21] ASAC. Ringrazio Massimo Casagrande e Marilena Sechi per le preziose informazioni (viva voce).
[22] D. Tomei, Gli edifici sacri della Sardegna romana: problemi di lettura e di interpretazione, Ortacesus 2008, pp. 35 ss.
[23] Per tutti: P. Meloni, La Sardegna romana, Ilisso, Nuoro 2012, pp. 362 ss.; A. Mastino, I miti classici e l’isola felice, in Logos peri tes Sardous, Le fonti classiche e la Sardegna, a cura di Raimondo Zucca, Carocci, Roma 2004, pp. 11-26.
[24] R. Zucca, Il tempio di Antas (Sardegna archeologica, Guide e Itinerari, 11), Sassari 1989.
[25] A. Mastino, Le titolature di Caracalla e Geta attraverso le iscrizioni (Indici), Studi di storia antica 5, CLUEB, Bologna 1981, pp. 38 s. e specialmente pp. 95 s.
[26] Così quasi tutti gli autori, sulla base di H. Mattingly, E.A. Sydenham, The Roman Imperial Coinage, IV, 1, Londra 1962, p. 84; Ph. V. Hill, The Coinage of Septimius Severus and his Family of the Mint of Rome, A.D. 193-217, Londra 1964, p. 7.
[27] Sulla data, vd. A. Mastino, L’erasione del nome di Geta dalle iscrizioni nel quadro della propaganda politica alla corte di Caracalla, "Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia, Univ. Cagliari", II = XXXIX, 1978-79 (1981), pp. 47 ss.
[28] A. Mastino, Le titolature cit., pp. 78 s.
[29] A. Degrassi, Aurellius, “Athenaeum”, IX, 1921, pp. 292-299, con le osservazioni di Mastino, Le titolature cit., pp. 33 s.
[30] V. Marotta, La cittadinanza romana in età imperiale (secoli I-III d.C.). Una sintesi, Roma
2011, passim. Vd. ora A. Mastino Consitutio Antoniniana: la politica della cittadinanza di un imperatore africano, “Bullettino dell’Istituto di Diritto romano Vittorio Scialoja”, CVII, 2013, pp. 37 ss.
[31] Sulla malattia di Caracalla, cfr. DIO CASS. 77, 15, 6-7. In proposito, vd. M. Euzennat, Une dédicace volubilitaine à l'Apollon de Claros, «AntAfr», X, 1976, pp. 63-68, che sposterebbe al 213 l'emanazione dell'editto di Caracalla. Vd. anche M. Le Glay, Les religions de l'Afrique romaine au IIe siècle d'après Apulée et les inscriptions, in “L'Africa Romana”, I, Sassari 1984, p. 51.
[32] AE 1929, 156 = ILSard. I 42.
[33] Cfr. M.G. Granino Cecere, Apollo in due iscrizioni di Gabii, 2, Ancora una dedica a tutte le divinità «secundum interpretationem Clarii Apollinis», in Decima miscellanea greca e romana, Roma 1986, pp. 281 ss.
[34] CIL VII 633 = ILS 3250 = RIB I 1579; vd. E. Birley, Cohors I Tungrorum and the Oracle of the Clarian Apollo, «Chiron», IV, 1974, pp. 511-513.
[35] CIL III 2880 = ILS 3250 a.
[36] IAMar., lat. 84, cfr. A. Mastino, La ricerca epigrafica in Marocco (1973-1986), in "L'Africa Romana”, IV, Torchietto, Sassari 1987, p. 369.
[37] R. Thouvenot, Un oracle de l'Apollon Claros à Volubilis, «Bulletin d'archéologie marocaine», VIII, 1968-72, pp. 221-227 = AE 1976, 782 = IAMar., lat. 344.
[38] CIL VIII 8351.
[39] Per l’integrazione cfr. AE 1991, 909 da Forum Traiani relativa a M(arcus) Mat(---) Romulus v(ir) p(erfectissimus) p(rocurator?) S(ardiniae), dove potremmo ammettere anche la soluzione p(raefectus).
[40] Catalogo PETRAE delle iscrizioni latine della Sardegna, Versione preliminare, a cura di F. Porrà, con la collaborazione di C. Cazzona, P.G. Floris, D. Sanna, R. Sanna, E. Ughi, Cagliari 2002, p. 1075 nr. 892.
[41] Vd. R. Zucca, Additamenta epigraphica all’Amministrazione della Sardegna da Augusto all’invasione vandalica, in Varia epigraphica. Atti del Colloquio Internazionale di Epigrafia, Bertinoro, 8-10 giugno 2000, a cura di A. Angeli Bertinelli e A. Donati (Epigrafia e antichità, 17), Faenza 2001,p. 531 nr. 32 e n. 72.
[42] R. Zucca, Additamenta epigraphica cit., p. 531 nr. 32.
[43] D. Faoro, Praefectus, procurator, praeses cit., p. 316, nr. 24.
[44] Ibid., p. 316, n. 381, AE 1982, 758.
[45]M. Torelli, viva voce (Oristano 2013). Sul personaggio: M. Gaggotti, L. Sensi, Ascesa al senato e rapporti con i territori d’origine. Italia: Regio VI (Umbria), in Epigrafia e ordine senatorio II, Tituli, 5, 1982, p. 249 e n. 22. Sulla diffusione dei Coccei, vd. H. Zabehlicky, S. Zabehlicky, “Acta Musei Napocensis”, 39-40, 2002-3, pp. 19-23 (in particolare a proposito di AE 1999, 1251, terr. di Carnuntum).
[46] CIL VI 1440; PIR2 L 7; AE 1975, 835. Cfr. G. Seelentag, “Dem Staate zum Nutzen, Dem Herrscher zur Ehre” Senats gesandtschaften im Principat, “Hermes” 137, 2009, p. 360, n. 7.
[47] I confronti sono numerosi, vd. ad es. CIL III 10109, Brattia in Dalmatia (anno 211). Per la ricostruzione del tempio di Serapide e Iside Regina a Carnuntum, effettuata dopo il 213 dal governatore di Pannonia Superiore e per il ruolo dei militari, vd. ad es. AE 2000 1209: [templum vetustate conlapsum restituit P. Cornelius Anu]llinus leg(atus) leg(ionis) X[IIII G(eminae) M(artiae) V(ictrici) Antoninianae].
[48] A. Della Marmora, Voyage en Sardaigne de 1819 à 1825, Paris-Turin 1840, II, p. 522 ss. (= pp. 433 sg. e 478 nr. 31 bis della traduzione italiana di V. Martelli, Cagliari 1927).
[49] Elci nella traduzione italiana del La Marmora, p. 431.
[50] Della Marmora, Voyage en Sardaigne, Atlas tav. XXXVI, fig. 4; Sotgiu, Le iscrizioni cit., Tav. I, 1.
[51] Itinerario Antoniniano, p. 12 ed. Cuntz, vd. I. Didu, I centri abitati della Sardegna romana nell’Anonimo Ravennate e nella Tabula Peutingeriana, “Annali Facoltà Lettere Cagliari”, XL, 1980-81, pp. 203 ss. Per la strada si rimanda ad A. Mastino, Storia della Sardegna antica, Nuoro 2009 (2° ed.), pp. 379 ss., salvo le rrecenti rettifiche di R. Zucca, di cui alla nota successiva.
[52] Il quadro è ora notevolmente murato, perché Raimondo Zucca in questo volume può ora ricostruire un diverso tracciato per la strada, localizzando a Grugua in comune cdi Buggerru (le mitiche “Rovine di Gessa”) il centro di Metalla, Il Sardopatoros ieron, Metalla e le miniere dell’Iglesiente in Sardegna.
[53] M. Grant, From imperium to auctoritas cit., pp. 105 s.; M. Sollai, Le monete della Sardegna romana, cit., p. 64; A. M. Burnett, Roman Provincial Coinage, London 1992, n. 623. Vd. già G. Spano, Moneta coloniale di Metalla, “BAS”, IX, 1863, pp. 17 ss.
[54] V. Angius, in G. Casalis, Dizionario geografico storico-statistico-commerciale degli Stati di S.M. il Re di Sardegna, VII, Torino 1839, pp. 696 s. s.v. Flumini-Majori.
[55] Ibid., p. 697.
[56] Ad es. G. Spano, Strade antiche della Sardegna, via Occidentale, “BAS”, II, 1856, pp. 17 ss.
[57] CIL X 7539.
[58] Deutsche Staatsbibliothek, Berlin, Nachlass Mommsen, Baudi Di Vesme, 9 aprile 1874.
[59] CIL X 7539 (a. 1883), vd. A. Mastino, Il viaggio di Theodor Mommsen e dei suoi collaboratori in Sardegna per il Corpus Inscriptionum Latinarum, in Theodor Mommsen e l’Italia, Atti dei Convegni Lincei, 207, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 2004, pp. 227-344
[60] DSB, Nl. Mommsen, Schmidt, Johannes, Bl. 28/29, zweiter Osterfeiertag 1881.
[61] Vd. CIL X 1382* e 1383* e 7653.
[62] E. Pais, Storia della Sardegna e della Corsica durante il dominio romano, riediz. a cura di A. Mastino, Ilisso, Nuoro 1999, II, p. 263 fig. 44.
[63] G. Sotgiu, Le iscrizioni latine del tempio del Sardus Pater ad Antas, in “Studi Sardi”, XXI, 1968-1970, pp. 8-15 = AE 1971, 119 =ELSard, p. 583, B 13.
[64] P. Meloni, Stato attuale dell’epigrafia latina in Sardegna e nuove acquisizioni, in Acta of the Fifth Epigraphic Congress Cambridge 1967, Oxford 1971, p. 244.
[65] Sotgiu, Le iscrizioni latine del tempio del Sardus Pater ad Antas, cit., pp. 15-20, 2, fotografia tav. 8; AE 1971, 120 e 1972, 227; ELSard. p. 583 B14; G. Sotgiu, La civiltà romana, l'epigrafia, in Il Museo Archeologico Nazionale di Cagliari, Sassari 1989, p. 223 foto fig. 4; Catalogo PETRAE delle iscrizioni latine della Sardegna, versione preliminare, cit., pp. 1075 s. nr. 893.
[66] F. Cenerini, Un nuovo servus regionarius da Sulci, in: Colons et colonies dans le monde romain, Études réunies par S. Demougin e J. Scheid, Coll. École française de Rome 456, Roma 2012, pp. 337 – 346.
[67] C. Bruun, Adlectus amicus consiliarius and a Freedman proc. metallorum et praediorum: news on Roman imperial Administration, «Phoenix», 55, 2001, pp. 343 ss., cfr. AE 1998, 671 = 2001, 1112 = 2002, 265 = 2007, 685 = 2019, 618. Vd. Anche W. Eck, Der Kaiser und seine Ratgeber. Überlegungen zum inneren Zusammenhang von amici, comites und consiliarii am römischen Kaiserhof, in Herrschaftsstrukturen und Herrschaftspraxis: Konzepte, Prinzipien und Strategien der Administration in römischen Kaiserreich: Akten der Tagung an der Universität Zürich, a cura di A. Kolb, Berlino 2006, pp. 67 ss.; D. Faoro, Praefectus, procurator, praeses, cit., p. 315 nr. 22, con bibliografia precedente.
[68] Vd. F. O. Hvidberg - Hansen, Osservazioni su Sardus Pater in Sardegna, Analecta Romana Instituti Danici, XX, 1992, pp. 7 ss. e infra n. 95.
[69] Sull’anello con possibile dedica a Sid cfr. R. Du Mesnil Du Buisson, Babi sur un bracelet d'Antas, in Nouvelles études sur les dieux et les mythes de Canaan (EPRO, 33), Leiden 1973, p. 229-240 fig. 140, p. 228; G. Sotgiu, Nuovi contributi dell’epigrafia latina alla conoscenza della Sardegna romana, AA VV, Stato attuale della ricerca storica in Sardegna, in “Archivio Storico Sardo” 32, 1982, pp. 103-104; ELSard. p. 606 sg. B 104 i. Per una interpretazione cristiana dell’anello cfr. P. B. Serra, Reperti tardoantichi e altomedievali della Nurra, Sassari 1986, pp. 19 ss., nota 41. Vd. anche S. Ribichini, P. Xella, La religione fenicia e punica in Italia, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 1994, p. 89. Per una lettura differente, ISIDA, vd. E. Melis, Miti (antichi e moderni) sulla Sardegna: Sardus Pater, “Theologica & Historica, XXII, 2013, p. 317 n. 50.
[70] P. Bernardini, A. Ibba, comunicazione in Sacrum Nexum: alianza entre el poder politíco y la religión en el mundo romano, UNED Madrid, 11-12 dicembre 2014, in preparazione (non vidi).
[71] Vd. G. Tore, Religiosità semitica in Sardegna attraverso la documentazione archeologica: inventario preliminare, in Religiosità telogia e arte. La religiosità sarda attraverso l’arte dalla preistoria ad oggi, a cura di P. Marras, Cittàà Nuova editrice, Roma 1989, pp. 45 ss.
[72] P. Ruggeri, in A. Mastino, Storia della Sardegna antica cit., p. 408; A. Sanna, in La Grande enciclopedia della Sardegna, a cura di F. Floris, VIII, Sassari 2007, p. 374 s.,v. Sardo; P: Ruggeri, ibid., pp. 377 ss., s.v. Sardus Pater.
[73] R. Pettazzoni La religione primitiva di Sardegna, Piacenza 1912, pp. 204 ss.
[74] Vd. la II cohors II Sardorum, la cohors I Nurritanorum e la cohors VII Lusitanorum arrivata da Austis.
[75] A. Dupont Sommer, in A. Beschaouch, Saturne ou plutot une divinité afrieail1e
inconnue? A propos d'une stèle de la region de Thigniea (A in- Tounga) en Tunisie, in "AntAfr», XV m(1980), p. 132 (= AE 1980, 948); vd. anche A. Beschaouch H, (Une inscription latine inédite d'Ain Djemaln), in ((BCTH», n.s., XII-XIV, B (1976-78), pp. 232-233.
[76] Si tratta di una dedica effettuata in seguito ad un voto dal liberto (sidin) Iunius Primus.
Per le differenti ipotesi su questa divinità, cfr. A. Beschaouch, Saturne cit., pp. 125-134. Vd. A. Mastino, Le relazioni tra Africa e Sardegna in età romana, "Archivio Storico Sardo", XXXVIII, 1995, pp. 67 ss.
[77] A. Della Marmora, Voyage en Sardaigne, II, cit., p.433, p. 478 n.31 bis, nella traduzione italiana di V. Martelli, Cagliari 1927. CIL X 7539, facsimile di H. Schmidt; L. Caboni, Culti e templi punici e romani in Sardegna, a.a. 1955-56, tesi di laurea discussa nell'Università dui Cagliari (AE 1971, 119); G. Sotgiu, Le iscrizioni latine del tempio del Sardus Pater ad Antas, “Studi Sardi”, 21, 1968-70, pp. 8-15, fotografie tavole 1-7; Ead., L'epigrafia latina in Sardegna cit., p. 583 B 13.
[78] Voyage cit., p. 526.
[79] Vd. A. Mastino, Fluminimaggiore, Tempio di Antas: iscrizione, in La Sardegna di Thomas Ashby. Paesaggi, Archeologia, Comunità, Fotografie 1906-1912, a cura di G. Manca di Mores, Carlo Delfino editore, Sassari 2014, pp. 272 s.nr. 147.
[80] Tolomeo III, 3, 2.
[81] Vd. P. Meloni, La Geografia della Sardegna in Tolomeo, in philías chárin, Miscellanea in onore di Eugenio Manni, Roma 1979, pp. 1542 e fig. 2; Id., La geografia della Sardegna in Tolomeo, “Nuovo Bullettino Archeologico Sardo”, III, pp. 207 ss.
[82] Anonimo Ravennate, Cosmographia, V, 26, p. 411, 6 PP, ed. J. Schnetz p. 102; Guidone, Geographica, 64, p. 499, 12-15 e 22 PP.
[83] Vd. I. Didu, I centri abitati della Sardegna romana cit., pp. 203 ss.
[84] I. F. Farae Opera, I, In chorographiam Sardiniae, Sassari 1992, pp. 92-93.
[85] Ph. Cluverius, Sardiniae antiquae tabula chorographica illustrata, Torino 1785, p. 21.
[86] G. Manno, Storia di Sardegna, I, Torino 1825, p. 296; vd. A. Mastino, La Sardegna dalle origini all’età vandalica nell’opera di Giuseppe Manno, “Studi Sardi”, XXXIV, 2009, pp. 271 ss.
[87] V. Angius, in G. Casalis, Dizionario cit., XIX bis, 1851, p. 464, s.v. Sardegna
[88] A. Lamarmora, Itinerario dell'isola di Sardegna, tradotto e compendiato dal Canon. G. SPANO, Cagliari 1868, p. 344.
[89] CIL X 8008.
[90] G. Spano, Lettera ad Alberto Della Marmora e sua risposta sopra un frammento di colonna miliaria, “BAS”, V, 1859, pp. 108 ss:, con la successiva risposta di A. Della Marmora, ibid., pp. 111 ss.
[91] G. Spano, Descrizione dell’antica Neapolis, “BAS”, V, 1859, p. 136. Sul sito, vd. G. Spano, Itinerario antico della Sardegna con carta topografica colle indicazioni delle strade, città, oppidi, isole e fiumi, Cagliari 1869, pp. 45 s.; Id., Memoria sopra l’antica cattedrale di Ottana e scoperte archeologiche fattesi nell’isola in tutto l’anno 1870, Cagliari 1870, p. 35.
[92] E. Pais, La Sardegna prima del dominio romano, Roma 1881, p. 335.
[93] C. Bellieni, La Sardegna e i Sardi nella civiltà del mondo antico, I-II, Cagliari 1928-31, vd. A. Mastino, P. Ruggeri, Camillo Bellieni e la Sardegna romana, in Sesuja Vintannos. Antologia della rivista a cura di Antonello Nasone in occasione del Ventennale della fondazione dell’Istituto di studi e ricerche Camillo Bellieni, Quaderni, 5, Sassari 2009, pp. 135 ss.
[94] A. Taramelli, Il tempio nuragico di S. Anastasia in Sardara (Cagliari), Monumenti antichi dei Lincei, XXV, 1918, cc. 16-17, n. 1.
[95] G. Pesce, Neapolis. Capo Frasca near Guspini (Sardinia, Cagliari), in Fasti Archaeologici, VI, 1, 1951 [1953], p. 356 s. nr. 4672.
[96] C. Albizzati, Sardus Pater, in AA.VV., Il convegno archeologico in Sardegna (giugno 1926), Reggio Emilia 1927, pp. 87 ss.
[97] C. Tronchetti, I Sardi. Traffici, relazioni, ideologie nella Sardegna arcaica, Milano 1988, p. 130.
[98] M. Pittau, Il Sardus Pater e i Guerrieri di Monte Prama, Sassari 2008.
[99] Vd. C. Cossu, G. Nieddu, Terme e ville extraurbane della Sardegna romana, S’Alvure, Oristano 1998, pp. 68-69 ; R. Zucca, Neapolis e il suo territorio, Oristano 1987, pp. 119 ss.
[100] G. Lilliu, Bronzetti nuragici di Terralba, in “Annali Fac. Lettere Cagliari”, XXI, 1953, I, pp. 80 ss. nr. 3.
[101] AA.VV., Ricerche puniche ad Antas, cit., Roma 1969; vd. F. Barreca, Il tempio di Antas e il culto del Sardus Pater, Iglesias 1975; S. Moscati, Tra Cartagine e Roma, Milano 1971, pp. 85 ss.; Id., Italia Punica, Milano 1986, pp. 283 ss.
[102] .Per le iscrizioni puniche, vd. M. Fantar, Antas, Les inscriptions, pp. 50 ss., I; p. 77 ss. VII-XIII; p. 87 s., XVIII. Vd. anche M. L. Uberti, A.M. Costa, Una dedica a Sid, “Epigraphica”, XLII, 1980, pp. 195 ss. Sulle iscrizioni puniche di Antas cfr. G. Garbini, Le iscrizioni puniche di Antas (Sardegna), “AION”, 29, 1969, pp. 317-331; Id., La testimonianza delle iscrizioni, in P. Bernardini, L. I. Manfredi, G. Garbini, Il santuario di Antas a Fluminimaggiore: nuovi dati, AA. VV., Phoinikes BSHRDN, Oristano 1997, p., pp. 110-113; 287-289; G. Garbini, Nuove epigrafi fenicie da Antas, “Rivista di studi fenici”, 25, 1997, pp. 59-67; Id., Nuove iscrizioni da Antas, “Rivista di studi punici”, I, 2000, pp. 115-122.
[103] Così già F. Barreca, La civiltà fenicio-punica in Sardegna, Sassari1986, pp. 171 ss. Vd. per tutti F. O. Hvidberg - Hansen, Osservazioni su Sardus Pater in Sardegna cit., pp. 7 ss.
[104] Fonti in R. Zucca, Sardos in Lexicon iconographicum mythologiae classicae, VII, 1, Zürich-München, 1990 [1994], pp. 692 – 694; Id., Sardos, figlio di Makeris, in Logos perì tes Sardous. Le fonti classiche e la Sardegna. Atti del Convegno di studi, Lanusei 29 dicembre 1998, a cura di R. Zucca, Carocci Roma 2004, pp. 86 ss.; vd. anche P. Meloni, La Sardegna romana, Ilisso, cit., pp. 362 ss. e G. Caputa, Il mito di Sardo e i suoi antecedenti, in La Sardegna e i miti classici: tradizioni mitografiche e leggende, Mostra fotografica e multimediale Olbia 13 dicembre 1996-6 gennaio 1997, pp. 14 ss.
[105] Le fonti classiche sono rappresentate da Pausania, X, 17, 1-2; 18, 1; Sallustio, Historiae, Maurenbrecher; Silio Italico, Punicae, XII, 359-60; Solino, Rerum Memoriabilium Collectanea, IV, 1 ed. Mommsen; Marziano Cappella, De nuptiis Philologiae et Mercurii, VI, 645; Isidoro, Origines, XIV, 6, 39; Eustazio, Parekbolari, ad v. 458, in Müller, GGM, II, p. 304; Scholia a Dionisio Periegeta 458, in Müller, GGM, II, p. 304; Paolo Diacono, Historia Langobardorumn, II, 22; Stefano di Bisanzio, Ethnika 556; Procopio, aed. 6,7; Goth. 4, 24, 38.
[106] Paus. X, 17, 1-2.
[107] Paus. X, 17, 1 e 18,1; vd. Zucca, Lexicon cit., p. 693 nr. 3.
[108] G. Colonna, Nuove prospettive sulla storia etrusca tra Alalia e Cuma, Atti del Secondo Congresso Internazionale Etrusco, Roma 1989, p. 370; Id., Doni di Etruschi e di altri barbari occidentali nei santuari panellenici, AA.VV., I grandi santuari della Grecia e l'Occidente, a cura di A. Mastrocinque, Trento 1993, pp. 59-60.
[109] M. Torelli, in questo volume.
[111] G. Daux, Pausanias à Delphes, Paris 1936, pp. 20 ss. Vd. C. Tronchetti, Sulla statua del Sardus Pater a Delfi, in I rapporti fra il mondo greco e la Sardegna: note sulle fonti, “Egitto e Vicino Oriente”, 9, 1986, pp. 121 ss.
[112] Silio Italico, Punica, XII, vv. 342 ss., vd. A. Mastino, Cornus e il Bellum Sardum di Hampsicora e Hostus, storia o mito ? Processo a Tito Livio, in Convegno internazionale di studi Il processo di romanizzazione della provincia Sardinia et Corsica, Cuglieri, 26 marzo 2015, in c.d.s.
[113] Polibio 1,4, 4, 67; Strabone 322; Dione Cassio 36,101.
[114] Paus. X, 13, 8. Fonti in C. Bonnet, Melqart, Cultes et mythes d’Héraklès Tyrien en Méditerranée, in Studia Phoenicia, VIII, Leuven 1988, p. 160, n. 87. Il viaggio dell'Herakles tirio a Delfi è narrato dal paremiografo Zenobio, sulla base di Clearco, forse il comico del IV sec. Clearco spiegando il proverbio << Questo è l'altro Herakles>> afferma che Herakles chiamato Briareo andò a Delfi, e prendendo qualcosa di prezioso che stava colà, secondo l'antico costume, si mosse verso le stele chiamate di Herakles ed ebbe il sopravvento sulle genti di quei luoghi. Tempo dopo si recò a Delfi anche l'Herakles tirio per interrogare l'oracolo: e il dio lo chiamò l'altro Herakles : e così si affermò il proverbio (Zenob. V, 48). Su Briareo-Herakles fino all'estremo Occidente cfr. M. Gras, La mémoire de Lixus. De la fondation de Lixus aux premiers rapports entre Grecs et Phéniciens en Afrique du Nord, AA.VV., Lixus. Actes du colloque organisé par l'Institut des sciences de l'archéologie et du patrimoine de Rabat avec le concours de l'École française de Rome, Roma 1992, pp. 27-43 passim
[115] I. Didu, I Greci e la Sardegna, il mito e la storia, Cagliari 2003, pp. 41 ss. Vd. anche G. Ugas, L’alba dei nuraghi, Fabula, Cagliari 2005. pp. 205 ss.
[116] Hdt. II, 43-44. Cfr. C. Grottanelli, Melqart e Sid fra Egitto, Libia e Sardegna, «Rivista di Studi Fenici», I, 1973, pp. 11-158; C. Bonnet, Melqart, cit., pp. 157-163, in particolare p. 161.
[117] Hdt. II, 112. Cfr. C. Bonnet, Melqart, cit., pp. 157-160. Cfr. Grottanelli, Melqart e Sid cit., pp. 11-158; C. Bonnet, Melqart, cit., pp. 157-163, in particolare p. 161 (fonti in C. Bonnet, Melqart, cit., p. 159, n. 83 ss.). L'Herakleion canopico deve, con grande probabilità, identificarsi con un tempio di Melqart eretto dai Fenici di Tiro, presenti a Menfi nella località detta "campo dei Tirii", che accoglieva santuari fenici noti ad Erodoto (Hdt. II, 112). Cfr. C. Bonnet, Melqart, cit., pp. 157-160. Ne ricaviamo la probabile identità, seppure non ammessa esplicitamente da Erodoto (C. Bonnet, Melqart, cit., p. 160: «Hérodote ne le confonde pas avec l'Héraclès tyrien»), tra l'Herakles canopico o egizio e l'Herakles tirio. Tale identità è esplicitamente affermata da vari autori classici (C. Bonnet, Melqart, cit., p. 160) ed era presente comunque nella fonte di Pausania che è l'unico autore antico a darci il nome di questo dio egizio-libico, denominato appunto Makeris.
[118] C. Bonnet, Melqart, cit., p. 160.
[119]M. Guarducci, Gli alfabeti della Sicilia arcaica, «Kokalos», 10-11, 1964-65, pp. 481-4; C. Bonnet, Melqart, cit., p. 252, n. 30. D'altro canto la forma Bmqr per Bdmlqrt "il servo di Melqart" è attestata nell'antroponomastica punica di Sardegna (F. Barreca, La civiltà fenicia e punica in Sardegna, Sassari 1986, p. 198 (Sulci); C. Bonnet, Melqart, cit., p. 262, n. 69).
[120] *MKR o *MGR, attestata in Kabilia sotto la forma Maqqur, con il significato "Egli è grande", negli antroponimi Makkur, (M)accurasan, Maccurasen (cfr. C. Bonnet, Melqart, cit., p. 252).
[121] Così Zucca, Sardos, figlio di Makeris cit., p. 94. Vd. D. Van Berchem, Sanctuaires d'Hercule-Melqart, contribution à l'étude de l'expansion phénicienne en Méditerranée, «Syria», 44, 1967, pp. 73-109; 307-338.
[122] Diod. IV, 29.
[123] Pettazzoni La religione primitiva di Sardegna cit.; C. Albizzati, Sardus Pater, cit.; U. Bianchi, Sardus Pater, AA VV, Atti del Convegno di studi religiosi sardi, Padova 1963, pp. 33-51; Id., Sardus Pater, “Rendiconti Lincei”, XVIII, 1963, pp. 97-112; Hvidberg - Hansen, Osservazioni su Sardus Pater in Sardegna, cit., pp. 7-30; Zucca, Sardos figlio di Makeris cit., pp. 86 ss.
[124] L'Herakles, padre di Sardos, appartiene alla serie degli altri Herakles, distinti dal figlio di Zeus e Alcmena; anch’egli avrebbe compiuto un viaggio a Delfi. Sugli altri Herakles fonti in C. Bonnet, Melqart, cit., p. 160, n. 87. Come si è detto Pausania denomina questo Herakles, Makeris, soggiungendo che si tratta della denominazione di Herakles secondo gli Aigyptìoi e i Libyes. Un Herakles egizio, considerato di natura divina e più antico dell'Herakles greco, di natura eroica, è documentato nel celebre passo delle Storie di Erodoto, che riferisce il suo viaggio a Tiro ed a Taso, Hdt. II, 43-4.
[125] In un altro passo della Periegesi Pausania tratta dettagliatamente del viaggio dell'Herakles egizio a Delfi, avvenuto in un tempo precedente la consultazione dell'oracolo da parte dell'Herakles tebano: <<Dicono i Delfi che ad Herakles, il figlio di Anfitrione, giunto per interrogare l'oracolo la Pizia Xenoclea non volesse dare il vaticinio, poiché Herakles aveva ucciso Ifito. Avendo Herakles sollevato il tripode lo scagliò fuori del tempio e allora la profetessa disse: «Dunque c'è un altro Herakles, quello di Tirinto, non quello di Canopo». Infatti, in precedenza l'Herakles egizio era giunto a Delfi. E allora il figlio di Anfitrione restituì il tripode ad Apollo e fu istruito da Xenoclea su quanto aveva bisogno di sapere. I poeti accogliendo questo racconto hanno cantato la battaglia di Herakles contro Apollo per il tripode>> (Paus. X, 13, 8). Si è già ricordato il viaggio dell'Herakles tirio a Delfi narrato dal paremiografo Zenobio, sulla base di Clearco (Zenob. V, 48).
[126] R. Zucca, Sardos, figlio di Maceride cit., pp. 90 ss. La mitografia greca conosceva due pellegrinaggi distinti a Delfi dell'Herakles egizio-fenicio e dell'Herakles tebano, nel corso dei quali il dio si pronunziò sull'esistenza di due Herakles. Nell'ambito della vita dell'Herakles tebano sono noti, tuttavia, tre episodi di consultazione dell'oracolo di Delfi, benché solo nelle prime due occasioni Herakles compì il viaggio sino a Delfi per ottenere il responso del dio, mentre nell'ultima occasione, essendo oppresso dal chitone intriso del sangue di Nesso, mandò a Delfi Licimnio e Iolao per chiedere ad Apollo che cosa si doveva fare per la malattia (Diod. IV, 38). Il primo rapporto tra l'eroe e Delfi avvenne nell'occasione in cui la Pizia lo chiamò per la prima volta Herakles, imponendogli le dodici fatiche agli ordini di Euristeo per diventare immortale (Diod. IV, 10). Nella Biblioteca di Apollodoro il viaggio a Delfi segue e non precede la follia ispiratagli da Era (Ps. Apoll. II, 4, 12).
[127] Diod. IV, 26.
[128] Diod. IV, 29.
[129] Diod. IV, 30, vd. A. Mastino, I miti classici e l’isola felice cit., pp. 11 ss.
[130] Diod. V, 15.
[131] Diod. IV, 32,
[132] Ps. Apoll. II, 6, 2 (130-131).
[133] Lasciando da parte la documentazione archeologica che attesta una cospicua presenza di athyrmata fenici o comunque orientali a Creta, Rodi, Cos, nell'isola di Eubea e in Attica, a partire dal X secolo a.C. (J. N. Coldstream, Greeks and Phoenicians in the Aegean, AA.VV., Phönizier im Westen, Mainz am Rhein 1982; A.M. Bisi, Ateliers phéniciens dans le monde égéen, Studia Phoenicia V, Leuven 1987, pp. 225-238; M. F. Baslez, Le rôle et la place des Phéniciens dans la vie économique des ports de l'Égée, Studia Phoenicia V, cit., pp. 265-285; J.W. Shaw, M.C. Shaw, Excavations at Kommos (Crete) during 1986-1992, “Hesperia”, 62, 1993, pp. 129-190, passim; A. Johnston, Pottery from Archaic Building Q at Kommos, “Hesperia”, 62, 1993, pp. 370 ss.) sono significative le tradizioni letterarie relative all'impianto di Fenici nel mondo greco. La più importante è quella relativa a Thasos, l'isola del mare Thracicum dirimpetto alla costa del Mons Pangaeus, ricchissimo di miniere, sfruttate dal fenicio Cadmo, che aveva fatto tappa in precedenza a Samotracia (Omero conosce Lemnos come scalo fenicio (Il. XXIII, 745). Cfr. C. Bonnet, Melqart, cit., p. 351, n. 745). I Fenici avrebbero impiantato a Tasos un Herakleion, il cui culto era rivolto all'Herakles Thasios, venerato anche a Tiro. In Ionia ad Erythrae, dirimpetto all'isola di Chios, vi era un Herakleion, consacrato non all'Herakles tebano, bensì all'Herakles dei Dactili Idaei, ugualmente adorato a Tiro, che conservava una statua egizia e la zattera del dio di Tiro, evidentemente Melqart (C. Bonnet, Melqart, cit., p. 383). Il medesimo culto all'Herakles dei Dactili Idaei, esplicitamente dichiarato il medesimo di Erythrae e di Tiro, era prestato, teste Pausania, nell'Herakleion di Thespiae, in Beozia (R. Martin, Introduction à l'étude du culte d'Hérakles en Sicile, Recherches sur les cultes grecs et l'Occident,1, Cahiers du Centre Jean Bérard, V, Naples 1979, p. 14).
[134] Paus. IX, 27, 6. Per i gemelli, vd. A. Mastino, Nota su Olbia arcaica: i gemelli dimenticati, in Ministero peri Beni e le attività culturali, Bollettino di archeologia online, volume speciale, XVII, www.beniculturali.it/bao, pp. 1-7. Corinne Bonnet nel commentare questo brano ha osservato che «l'idée d'une implantation de Melqart en Béotie ne pourrait trouver un écho que dans la connexion établie entre Cadmos et Thébes» (C. Bonnet, Melqart, cit., p. 381). L'osservazione è di grande valore tenuto conto che Cadmos appare legato almeno a Thasos all'impianto del culto di Melqart. Raimondo Zucca ha osservato che <<la Beozia ci appare sin da fase geometrica estremamente dinamica in correlazione con la vicina isola Eubea, così da non farci rifiutare aprioristicamente la notizia erodotea relativa all'introduzione dell'alfabeto fenicio proprio in questa regione>>, cfr. Hdt. V, 58. Osserviamo in filigrana nei racconti mitografici relativi all'Herakles tirio in Beozia e al suo viaggio a Delfi la connessione tra i Phoinikes e gli Eubei storicamente documentata in Oriente e in Occidente tra IX e VIII secolo a.C. Questa liaison è stata autorevolmente affermata da Laura Breglia Pulci Doria in riferimento all'apoikia dei Tespiadi, figli di Herakles, in Sardegna (L. Breglia Pulci Doria, La Sardegna arcaica tra tradizioni euboiche ed attiche, cit., pp. 61 ss.).
[135] Vd. Mastino, Le relazioni tra Africa e Sardegna cit., pp. 13 ss.
[136] Didu, La cronologia della moneta di M. Azio Balbo, cit., pp. 107 ss. Vd. P. Bernardini, Il culto del Sardus Pater ad Antas e i culti a divinità salutari e soteriologiche, in Insulae Christi, Il Cristianesimo primitivo in Sardegna, Corsica e Baleari, a cura di P.G. Spanu, Oristano 2002, p. 24.
[137] Vd. Mastino, Cornus e il Bellum Sardum di Hampsicora e Hostus cit, in c.d.s. Eccessiva però appare la posizione di E. Melis, Miti (antichi e moderni) cit., pp. 309 ss., per il quale la figura del Sardus Pater potrebbe esser stata <<“inventata” nel I secolo a.C., sulla base probabilmente dei racconti su Iolao, da cui Sardus eredita l’epiteto cultuale. Il motivo della sua nascita è da ricercare nei rapporti tra Cesare e la Sardegna – il “predio di Cesare”, come la definisce Cicerone – e all’interno di un processo di riforma religiosa finalizzata al recupero dei culti epicori di cui Cesare e la sua cerchia si fecero promotori>>. Per il ruolo di Cesare, colpito dalla orazione Pro Sardis pronunciata alla fine del II secolo dallo zio Cesare Strabone, vd. B.R. Motzo, Cesare e la Sardegna, in Sardegna Romana, I, Roma 1936, pp. 23 ss.
[138] F. Fois, I ponti romani in Sardegna, Sassari 1964, pp. 117 ss. tavv. 120 s., con rettifica della pianta del La Marmora.
[139] G. Lilliu, Sculture della Sardegna nuragica, Cagliari 1966, pp. 175-176, nr. 50: <<Statuetta di devoto, alt. res. 16 cm, Museo Archeologico Nazionale di Sassari, già Collezione Dessì (Cat. Taramelli, 133; Cat. Lilliu, 254/1901). Provenienza: Fluminimaggiore (Cagliari), loc. Antas. La figurina sta frontalmente in atto di devozione. La mano destra è alzata a pregare, la sinistra protesa a reggere un’offerta che non si può precisare, in quanto il braccio è rotto sotto il gomito. Sul capo una papalina della foggia portata dai nn. 4-10, 24-25. Avvolge il corpo una doppia tunica con maniche corte a mezzo braccio, scendente sino alle cosce che restano nude come le gambe; l’elemento superiore della veste mostra una breve frangia a taccheggiature verticali sul contorno. Di traverso al petto, aderisce il solito pugnale ad elsa a “gamma”, sospeso alla larga bandoliera a tracolla sull’omero destro e legato ad una sottile striscia che gira sulla spalla sinistra e ricade sul dorso. Costruzione, modellato, espressione della testa e del collo, di accentuata stilizzazione longilinea, ripetono, da vicino, le caratteristiche del n. 4; ma i lineamenti sono più morbidi e sfumati; la superficie ancora più tersa. Spezzati il braccio sinistro e le gambe alle caviglie>>. Vedi G. Lilliu, “Studi Sardi”, VIII, 1948, p. 17, nota 47; G. Stacul, Arte della Sardegna nuragica, Milano 1961, p. 106, fig. 68.
[140] G. Lilliu, Antichità paleocristiane del Sulcis, in “Nuovo Bullettino Archeologico Sardo”, I, 1984, pp. 283-300.
[141] E. Acquaro, Una faretrina votiva da Antas, «Oriens Antiquus», 8, 1969, pp. 127 -129.
[142] F. Barreca, Recenti scoperte in Sardegna, “Rivista di studi fenici”, XIII, 1985, pp. 266-267; Idem, Sardegna nuragica e mondo fenicio-punico: Sardegna preistorica. Nuraghi a Milano, Milano, 1985, p. 134; G. Ugas, Le tombe a pozzetto T1-T3: Primi scavi nel sepolcreto nuragico di Antas, AA. VV., La Sardegna nel Mediterraneo tra il secondo e il primo millennio a.C., Cagliari 1987, pp. 255-61, 276, tav. V; P. Bernardini in P. Bernardini, M. Botto, I bronzi “fenici” della Penisola Italiana e della Sardegna, cit., pp. 40, 44, 46-47).
[143] A. Bedini, C. Tronchetti, L’heroon di Monte Prama, in A. Bedini, C. Tronchetti, G. Ugas, R. Zucca, I giganti di pietra. Monte Prama. L’Heroon che cambia la storia della Sardegna e del Mediterraneo, Cagliari 2012, p. 19; G. Ugas, I reperti ceramici dello scavo Bedini, ibid., p. 265.
[144] G. Ugas, I reperti ceramici dello scavo Bedini, cit., p. 267.
[145] P. Bernardini, Necropoli della Prima età del ferro in Sardegna, cit., Roma 2011, p. 355.
[146] Spillone a capocchia fusa con il gambo; capocchia corta ad estremità emisferica allungata e collo sottolineato da doppia modanatura, appartenente ad una tipologia diffusa in ambito sardo (tipo A2 di M. Milletti, Cimeli d’identità, tra Etruria e Sardegna nella prima età del ferro, Officina Etruscologia-6, Roma 2012, p. 56, tav. XV, 4).
[147] P. Bernardini, Segni potenti: la scrittura nella Sardegna protostorica, in E. Solinas et Alii, Verba Latina. L’epigrafe di Bau Tellas, Senorbì 2010, pp. 32-5; P. Bernardini in P. Bernardini, M. Botto, I bronzi “fenici” della Penisola Italiana e della Sardegna, Rivista di Studi Fenici, XXXVIII, 1, 2010, pp. 57, 60, fig. 25; P. Bernardini, Necropoli della Prima età del ferro in Sardegna, cit., pp. 351-386; P. Bernardini, Elementi di scrittura nella Sardegna protostorica, AA. VV., L’epigrafe di Marcus Arrecinus Helius. Esegesi di un reperto: i plurali di una singolare iscrizione, a cura di A. Forci, Senorbì 2011, pp. 19-20, fig. 4 (iscrizione probabilmente sarda in alfabeto fenicio); G. Ugas, I reperti ceramici dello scavo Bedini, cit., p. 268 (iscrizione sarda in alfabeto euboico); P. Bartoloni, In margine a uno spillone con iscrizione da Antas, Sardinia, Corsica et Baleares antiquae, 9, 2011, pp. 27-29 (esclude il codice scrittorio fenicio); R. Zucca, La rotta fra la Sardegna, la Corsica e Populonia, La Corsica e Populonia. Atti del XXVIII Convegno di Studi Etruschi ed Italici (Bastia - Aléria - Piombino - Populonia, 25-29 ottobre 2011), Roma 2014, p. 345 (codice scrittorio probabilmente cipro sillabico). Ulteriori tombe a pozzetto con deposizione di bronzi fra cui una «faretrina» sono state individuate negli scavi di Paolo Bernardini nel 2004-2005 (P. Bernardini, Necropoli della Prima età del ferro in Sardegna, cit., p. 370; L. Deriu, Le “faretrine” nuragiche. Contributo allo studio delle rotte fra Sardegna ed Etruria, AA. VV., Naves plenis velis euntes (Tharros Felix-3), Roma 2009, pp. 157-8, nr. 27). Problematica è l’ascrizione a corredo tombale piuttosto che ad un santuario-heroon degli altri bronzi nuragici individuati ad Antas (un orante, un arto di statuina, una spada miniaturistica ad antenne ed una ulteriore faretrina). Cfr. G. Lilliu, Sculture della Sardegna nuragica, cit., nr. 50; E. Acquaro, Una faretrina votiva da Antas, cit., pp. 127 -129; G. Lilliu, La grande statuaria nella Sardegna nuragica, cit., p. 315, n. 145; L. Deriu, Le “faretrine” nuragiche, cit., p. 156, nr. 26.
[148] Acquaro, Una faretrina votiva da Antas, cit., pp. 127 ss.
[149] M. A. Minutola, Originali greci provenienti dal tempio di Antas, in “Dialoghi di Archeologia”, IX-X, 1976-1977, pp.399-438.
[150] R. Esposito, Il tempio punico-romano di Antas: qualche considerazione, “Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Cagliari”, XVII, 1999, pp. 111-120.
[151] M. Fantar, Les inscriptions, AA VV, Ricerche puniche ad Antas, Roma 1969, cit., pp. 47 -93; G. Garbini, Le iscrizioni puniche di Antas (Sardegna), “Annali dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli,” 29, 1969, pp. 317-331; M. L. Uberti, Horon ad Antas e Astarte a Mozia, “Annali dell'Istituto Universitario Orientale di Napoli”, 38, 1978, pp. 315-319; M. L. Uberti, A. M. Costa, Una dedica a Sid, “Epigraphica”, 42, 1980, pp. 195 ss.; G. Garbini, Il santuario di Antas a Fluminimaggiore: nuovi dati. Le testimonianze delle iscrizioni, AA. VV., Phoinikes B SHRDN , Cagliari 1997, pp. 112-113; Id. Nuove epigrafí fenicie da Antas, cit., pp. 59-67.
[152] M. G. Guzzo Amadasi, Note sul dio Sid, in AA VV, Ricerche puniche ad Antas, cit., pp. 95ss.; M. Sznycer, Note sur le dieu Sid et le dieu Horon d’après les nouvelles inscriptions puniques d’Antas (Sardaigne), “Karthago” 15, 1969, pp. 67 ss.; J. Ferron, Le dieu des inscriptions d’Antas (Sardaigne), “Studi Sardi”, 22, 1973, pp. 269-289; C. Grottanelli, Melqart e Sid fra Egitto, Libia e Sardegna, Rivista di Studi Fenici, 1, 1973, pp. 153 ss.; F. Barreca, Il tempio di Antas e il culto di Sardus Pater, s.l. 1975; J. Ferron, Sid : état actuel des connaissances, Le Muséon, 89, fasc. 3-4, 1976, p. 425-440 (= Scripta varia, p. 219-225).
[153] Poco convincenti le osservazioni in proposito di E. Melis, Miti (antichi e moderni) cit., pp. 309 ss., che ritiene che <<la figura del Sardus Pater>> sia stata <<”inventata” nel I sec. a.C., sulla base probabilmente dei racconti su Iolao, da cui Sardus>> avrebbe ereditato l’epiteto.
[154] Tutto in G. Sotgiu, Le iscrizioni latine cit., pp. 7 ss. In realtà il titolo di Pater non sembra esser mai attribuito al Sardos delle fonti greche, vd. Melis, Miti (antichi e moderni) sulla Sardegna cit., pp. 309-324.
[155] F. Mazza, B’BY nelle iscrizioni di. Antas, cit., pp. 47-56.
[156] E. Lipiński, Le pilier Djed et le dieu Sid (Orientis Antiqui miscellanea 1), Roma 1994, pp. 61-74; Id., Dieux et déesses de l'univers phénicien et punique, Orientalia Lovaniensia, Leuven 1995, p. 324.
[157] M. Sznycer, Note sur le dieu Sid cit., pp. 67 ss.; G. Garbati, Sid ‘guaritore’ ad Antas: la mediazione di Horon e Shadrapha, Quaderni della Soprintendenza Archeologica per le Province di Cagliari e Oristano, 17, 2000, pp. 115-121.
[158] G. Garbati, Note sulle coppie divine Sid-Melqart e Sid-Tanit, Egitto e Vicino Oriente, 22-23,1999-2000, pp. 167-177; Id., Sid e Melqart tra Antas e Olbia, “Rivista di Studi Fenici”, 27, 1999, pp. 151-166; G. Minunno, Considerazioni sul culto ad Antas, “Egitto e Vicino Oriente”, 28, 2005, pp. 269-285.
[159]E. Acquaro, Cartagine nel Mediterraneo Occidentale: “Sardi” mercenari e Cartaginesi in Sardegna, in La colonización fenicia en el sur de la Península Ibérica. 100 años de investigación. Actas del Seminario, Almería 1992, pp. 143-150; Id., Prolegomeni punici, “AnnOrNap”, 53, 1993, pp. 96-101; Id., Note di archeologia punica: per una rilettura del mercenariato a Cartagine, M. A. Querol, T. Chapa (edd.), Homenaje al Professor Manuel Fernández Miranda (= Complutum Extra, 6), Madrid 1996, pp. 385-388.
[160] P. Bernardini, Le indagini sul sito, in Bernardini, Manfredi, Garbini, Il santuario di Antas a Fluminimaggiore, cit., p. 106.
[161] G. Garbini, La testimonianza delle iscrizioni, in Bernardini, Manfredi, Garbini, Il santuario di Antas, cit., p. 111.
[162] A. Roobaert, Sardus pater ou Baal Hammon? Á propos d’un bronze de Genoni (Sardaigne): C. Bonnet, E. Lipinski, P. Marchetti (eds.), Religio Phoenicia. Acta Colloquii Namurcensis habiti diebus 14 et 15 mensis Decembris anni 1984 (= Studia Phoenicia, 4), Namur 1986, pp. 333-45.
[163] Didu, La cronologia della moneta di M. Azio Balbo cit., pp. 107 ss.
[164] Dione Crisostomo, Orat. 72 Dindorf, II, p. 247, vd. Pettazzoni, La religione primitiva in Sardegna, cit., p. 164. .
[165] R. Pettazzoni La religione primitiva cit., p. 168.
[166] I. Didu, I Greci e la Sardegna, il mito e la storia, Cagliari 2003, pp. 66 ss.
[167] Vd. già R. Zucca, Il Sardopátoros ierón e la sua decorazione fittile, in Carbonia e il Sulcis. Archeologia e territorio, Oristano 1995, pp. 315 ss., vd. A, Mastino, Presentazione del volume: Carbonia e il Sulcis. archeologia e territorio, Oristano 1995, Cagliari, 6 giugno 1996, in Quaderni Soprintendenza archeologica per le province di Cagliari e Oristano, 14, 1997, pp. 189 ss.
[168] G. Rocco, M. Livadiotti, in questo volume.
[169] D. Tomei, Gli edifici sacri della Sardegna romana cit., pp. 35-41.
[170] Manca di Mores, La valle di Antas e la decorazione architettonica fittile del tempio, cit., pp. 1727-1738.
[171] S. Angiolillo, Bronzi votivi di età romana provenienti da Antas, in Carbonia e il Sulcis cit., pp. 327 ss.
[172] R. Zucca, Il Sardopátoros ieron e la sua decorazione fittile, in Carbonia e il Sulcis cit., pp. 315 ss.; Esposito, Il tempio punico-romano di Antas cit., pp. 111-120; Manca di Mores, La valle di Antas e la decorazione architettonica fittile del tempio, cit., pp. 1727-1738.
[173] Vd. D. Rigato, Gli dei che guariscono: Asclepio e gli altri, Pàtron, Bologna 2013.
[174] Vd. A. Mastino, T. Pinna, Negromanzia, divinazione, malefici nel passaggio tra paganesimo e cristianesimo in Sardegna: gli strani amici del preside Flavio Massimino, in Epigrafia romana in Sardegna. Atti del I Convegno di studio, Sant’Antioco, 14-15 luglio 2007 (Incontri insulari, I), a cura di F. Cenerini e P. Ruggeri, Carocci Roma 2008, pp. 41 ss.
[175] G. Sotgiu, Un devoto di Sid nella Sulci romana imperiale ? (Rilettura di un’iscrizione: ILSard 3), “Epigraphica” 44, 1982, pp. 17 ss. Vd. già M. Bonello, Nuove proposte di lettura di alcune iscrizioni latine della Sardegna, “Annali Facoltà Lettere Cagliari”, XL, 1980-81, pp. 179 ss.
[176] ELSard. p. 606 sg. B 104 i. Per una interpretazione cristiana dell’anello cfr. P. B. Serra, Reperti tardoantichi e altomedievali della Nurra, Sassari 1986, pp. 19, 41.