giovedì 18 settembre 2014

LIBRI LETTI: Sa Sedda ‘E Sos Carros






Sa Sedda ‘E Sos Carros
E La Valle Del Lanaitho
Di M.A. Fadda e G. Salis

Serie ‘Guide ed Itinerari’ (46)
Carlo Delfino Editore


Non ci si aspetta certamente un trattato approfondito, bensì un piacevole compagno di visita durante una scampagnata archeologica naturalistica, come spesso la Delfino sa fare, con l’aggiunta d’iconografie in genere sempre accattivanti.

In questo caso, però, sono rimasto deluso da troppi dettagli, così tanti e vari, che non posso citarli tutti: mi limiterò a quelli che considero più importanti per la comprensione dell’argomento, saltando a piè pari gli errori di lingua italiana (‘silos’ al posto di ‘sili’, ‘cultuale e non’ invece di ‘cultuale e no’, etc ) che, pur gravi, non compromettono l’archeologia e la storia.

La prima parte del trattatello è firmata da Gianfranca Salis, che tratta prevalentemente la parte naturalistica ambientale e biologica. Qui, il difetto maggiore mi sembra stia nel chiamare ‘Sisaia’ (scarafaggio, blatta) quella che in realtà dovrebbe essere ‘Bisaia’ (bisavola). È fatto senza neppure citare l’origine di questo spiacevole equivoco, nel quale invece di una traduzione del termine scelto da ricercatori non sardi (Ferrarese Ceruti e Germanà non conoscevano il sardo-nuorese), vi fu un irriverente tradimento vero e proprio da parte d’accompagnatori e guide, che probabilmente consumarono la loro marachella in un momento d’allegrezza alcolica.

La seconda parte è prevalentemente la descrizione archeologica del sito e anche – più malauguratamente – la sua interpretazione, a cura di Maria Ausilia Fadda.
Esistono numerosi motivi di disappunto, qui.
- Per primo: il riferimento al nome del sito “Sedda ‘E Sos Carros” è attribuito a un’antica economia legata alla selvicoltura (che è falso; l’economia era pastorale: il taglio degli alberi fu un ordine preciso impartito dal re piemontese, accompagnato da false promesse che non furono mai esaudite e che alla fine danneggiarono gravemente l’economia e l’ambiente locali). Già l’introduzione d’ambientamento è molto fuori bersaglio, quindi…


Il sito risale al 1300 a.C. La Fadda non dice che il sito è bellissimo. Né che si tratta di un’opera di inaspettata e brillante ingegneria idraulica non necessaria, tanto ben studiata ed interamente artistica quanto certamente del tutto superflua per la sopravvivenza quotidiana della comunità locale.
L’archeologa deduce che il luogo fosse un tempio ad una divinità dell’acqua*, che illustra le capacità progettuali degli architetti nuragici* tra il 1200 ed il 700 a.C.

Se gli archeologi sardi imparassero una buona volta a scrivere comunicando l’entusiasmo (che essi stessi dovrebbero provare, prima, durante e dopo gli scavi) per ciò che è bello e vale ed è significativo, forse anche i lettori s’appassionerebbero e sarebbero più numerosi. Invece essi scrivono come se fossero tecnici annoiati di sala settoria che esaminano un cadavere già freddo, procedendo ad elencare lettere e numeri di ambienti e suppellettili, senza gioia, senza un lampo di luce, senza il sorriso da bambino che la sorpesa sa sempre accendere sul viso di chiunque veda certe cose per la prima volta. Invece l’autrice si sofferma niente, troppo poco sull’eccezionalità del sito, per lanciarsi subito sulla descrizione di come e perché presto (troppo presto) questa meravigliosa struttura sia stata distrutta dalla natura… L'impressione che il lettore ne ricava è quella di un effimero di vita breve.

*Faccio notare di passaggio che non ci vuole troppa fantasia a pensare ad un’ignota divinità dell’acqua, ma che altre ipotesi sono possibili. Più grave è invece il riferimento (ripetuto) agli ‘architetti nuragici’ nell’epoca cui le date si riferiscono.
Il ‘Nuragico’ era ormai finito. I Sardi che edificarono i Bagni di Sedda ‘E Sos Carros erano certamente i legittimi eredi lontani dei Costruttori, ma appartenevano ad un’altra Cultura e non costruivano più da secoli i Nuraghi (e la Fadda stessa lo dice: "i cui valori alla fine del bronzo furono messi in crisi dall'apporto fondamentale di culture esterne che si andavano affermando in tutto il Mediterraneo"). 
Ne riproducevano le icone – certamente – come sarebbe possibile comportarsi in altro modo, in un’isola che ti presenta un nuraghe quasi ovunque tu ti possa voltare? Ma definirli ‘nuragici’ equivale a legittimare la medesima definizione per chiunque, ancora oggi, porti una maglietta con un nuraghe sopra: non è scientifico e confonde il lettore.

Peggio ancora con le ipotesi formulate. Ne cito tre solamente.
- A me importa poco immaginare il vero motivo per cui si saldassero alla pietra sottili bronzi a forma di spade, preparati in precedenza dai fanatici (addetti al fanum/tempio) per i fedeli che pagavano certamente un obolo. Mi pare evidente che l’obiettivo fosse l’obolo, per il mantenimento del tempio e che i fedeli l’avrebbero versato per qualunque altra forma in bronzo fuso gli potesse essere proposta. I tripli salti mortali per dimostrare comee perché si legasse simbolicamente la riproduzione votiva di una spada alla possibile divinità ctonia dell’acqua sono – conseguentemente, per me – buffissimi.
- L’archeologa cita altri siti simili a questo (innecessariamente, secondo me: non è una pubblicazione scientifica, si tratta di divulgazione!) e fa riferimento al ‘battesimo del sangue’ immaginato da altri colleghi per gli altri siti. Alla fine dell’inutile divagazione, ella esclude che il sangue animale fosse mai stato usato nel fine meccanismo di scorrimento vascolare di Sedda ‘E sos Carros, perché si sarebbe ostruito… A parte il fatto che non vedo affatto la necessità d’immaginare (senza un valido motivo d’appoggio) riti così cruenti per i Sardi di qualunque epoca, vorrei tranquillizzare la signora Fadda circa il fatto che il sangue non avrebbe ostruito un bel niente e sono disposto a tenerle una lezione privata gratuita circa il fenomeno fisiologico della coagulazione dello stesso, purché mi prometta di non scrivere più simili corbellerie ...
- Infine, l’archeologa trova il modo di stupirsi (non di fronte alla meraviglia struttura) per via della presenza di ‘abbondanti frutti di mare, come telline, patelle ed altre conchiglie, che dimostrano che i nuragici del Lanaitho avevano trovato un rapido sistema di collegamento per raggiungere la costa in tempi brevi e fare ritorno alla valle in tempi brevi per consumare cibi facilmente deperibili’.
Qui siamo, più propriamente, nel mondo di Voyager: il reperimento di gusci di conchiglie in un sito abbastanza lontano dal mare non ci fa pensare alla possibile raccolta per braccialetti, collane ed altri ornamenti, bensì – subito – al consumo alimentare, sottointeso come abituale e giornaliero.
Ammetto sia possibile un uso alimentare.
Ma non posso fare a meno di sottolineare che diversi articoli scientifici hanno dimostrato senza ombra di dubbio che in Sardegna (ma in tutto il Mediterraneo antico) non si consumavano di regola mai (se non proprio eccezionalmente) prodotti di mare. Un articolo riassuntivo/esplicativo di ciò è comparso recentemente sull’ultimo numero della rivista semestrale “Sardegna Antica”, numero 45: “Paleo dieta dei Sardi Preistorici”.


Splendida l’iconografia.
Insoddisfacente il testo.
Splendido il posto.
Merita il viaggio, un po’ scomodo e lungo, a fronte dei numerosi  motivi per affrontare l’escursione: naturalistici e paesaggistici, archeologici, fotografici e altro ancora (se incontrate un muflone, capirete esattamente cosa altro!). Un'altra Sardegna, che resiste per quanto possibile alle antiche mortificazioni e cerca di non subirne più.