domenica 22 marzo 2015

Il Guerriero di Ofena (sarebbe dovuto essere).




Il Guerriero di Ofena.
Una curiosa serie di fatti e reperti simili.


Ricostruzione ipotetica

Nell’ormai lontano 1934, un contadino abruzzese (Michele Castagna il suo nome) stava impiantando una vigna, in un suo campo presso Ofena (antica Aufinum, 588 abitanti oggi) in provincia dell’Aquila. Un masso gli fu d’ostacolo: andava rimosso. Guardandolo meglio s’avvide che non era un semplice masso, bensì una parte di una ‘statua a tutto tondo’ spezzata, della quale altri resti erano sparsi intorno. Rinvenne pure un grosso ‘cappello’ (scolpito in una pietra differente, ma facente parte della statua), sotto al quale si trovava un frammento di un’altra e più piccola statua. Spostò il tutto di lato, perché la sua vigna era più urgente ed importante.

Passò quasi un mese, prima che ci si accorgesse che quei frammenti ‘potevano avere qualche importanza’.
I resti furono quindi portati a Roma, in un Centro per il Restauro.


Il motivo del nome.
La statua fu chiamata: “Guerriero di Capestrano”, dal nome di un paese allora molto più grande di Ofena, oggi molto spopolato (da quasi 4.000 abitanti del 1921 si è passati ai meno di 900 d’oggi) presso il quale fu rinvenuto. È scolpita in pietra calcarea tenera locale. È una scultura funerea in pietra a tutto tondo. È datata secondo quarto del VI secolo a.C.. è conservata al Museo Archeologico Nazionale di Chieti. È considerata un capolavoro della scultura italica arcaica. La statua femminile (mostra due piccoli seni stilizzati), più piccola ed incompleta fu denominata “Dama di Capestrano”.

Dama di Capestrano


Sul sito un archeologo (Giuseppe Moretti) condusse uno scavo entro l’anno (altre campagne di scavo furono solo sporadiche: 1973[1] e 2003[2]) che mise in luce una necropoli comprendente 32/33 [quante sono le deposizioni di MontePrama?] tombe (21 ad inumazione, 5 ad incinerazione e 6 sconvolte), orientate quasi tutte secondo un asse stradale, per cui si sospettò la presenza di una ‘via Sacra’. Quindici di queste tombe erano visibilmente più antiche, cinque di queste ultime erano orientate in modo differente dalle altre…

Le tombe dal 12 al 15 erano disposte a raggiera intorno alla numero 3, più grande ed accessoriata da una nicchia per il corredo funebre e disposta in senso Nord-Sud. È sembrato lecito agli archeologi ipotizzare che – secondo l’uso funerario ‘italico’ – la tomba fosse indicata da un circolo di pietre e sormontata da un tumulo, sul quale torreggiassero due statue: quella maschile più grande e quella femminile più piccola. In seguito furono persino rinvenuti i due basamenti delle statue, che sfortunatamente sono andati poi perduti.

Veduta anteriore e posteriore del Guerriero


Che cosa rappresenta.
Si tratta di un documento d’eccezionale rilevanza, che rivela numerosi dettagli sull’armamentario bellico del Centro Italia dell’epoca (tra il 700 ed il 600 a.C.), anche se lascia ancora molti dubbi circa i relativi usi e costumi funebri.
Si tratta della statua di un uomo rivestito delle proprie armi. È alta 2.09 metri, senza il plinto.
Il guerriero è rigidamente eretto, con i piedi distanti e paralleli, sostenuto alle spalle da due appoggi di forma rozzamente piramidale, che portano ciascuna incisa nella parte esterna la figura di una lancia (1.36 e 1.29 mt, lama ‘a foglia di salice’ , innesto ‘a cannone’ e ‘amentum’ una correggia per prolungarne il lancio). L’armatura è costituita da due dischi (Kardiophylax, di cui l’Archeologia ha fornito anche reperti reali, che sono in lamina di metallo) uno sul petto e l’altro sul dorso, sostenuti da corregge, una difesa triangolare (Mitra? che doveva essere in cuoio o in lamina metallica) copre l’addome e l’inguine, rafforzata da una linea marginale più spessa decorata a meandro.
Aspetto posteriore del Kardiophylax e della Mitra
Le braccia sono strette sul davanti: sostengono una spada con rilievi d’animali fantastici sull’impugnatura, un pugnale senza elsa posto su questa ed un’esile ascia incrociata (che è stata interpretata come simbolo di rango o forse anche simbolo identitario d’appartenenza, un po’ come il pugnale ad elsa gammata dei bronzetti sardi; ma non se ne può escludere l’uso come arma vera); due armille si stringono intorno al braccio sinistro ed una intorno a quello destro; una doppia collana con breve ornamento sul davanti, cinge il collo (torquis).

Veduta posteriore del torquis

Torquis


Il viso si ritiene coperto da una maschera (metallica), la cui linea di confine è nettamente segnata sul volto, e che, secondo la più comune interpretazione, faceva parte dell’armatura; oppure sarebbe stata una maschera funeraria che si metteva addosso ai cadaveri, secondo un uso in voga fin dai tempi micenei e non ignoto ai Romani. Per altri la linea scolpita ai lati del volto si riferirebbe al soggolo dell’elmo.


Dettaglio della presunta maschera del Kardiophylax e dell'accetta simbolica


Anche le orecchie sono forse rappresentate chiuse da una difesa. Sulla testa, il guerriero ha un elmo a tesa larghissima (m 0,65 di diametro) con un cimiero di penne (oggi in massima parte di restauro) fissato ad un rialzo decorato a meandro.
La sproporzione evidente di questo copricapo ha fatto pensare che si trattasse invece di uno scudo e tutta la statua rappresentasse il defunto che assiste ritto (sostenuto dalle due lance) ai suoi funerali, con lo scudo in testa, costume largamente praticato a Roma (Polyb., VI, 53)[3] e presso i popoli italici. Lo scudo sulla testa andrebbe messo in relazione da un lato con la devotio, per cui ci si copriva la testa durante le funzioni religiose, e dall’altro con una tendenza a dare a cippi tombali una copertura a forma di scudo (specialmente in necropoli etrusche: Vetulonia).


dettaglio dei piedi, aspetto posteriore



Ipotesi suggestive.
L’ipotesi di riconoscere nel guerriero di Capestrano un’immagine di consacrazione (devotio) sembra confermata dall’altezza della scultura, corrispondente a sette piedi romani (Liv., VIII, 10, 12).[4] [Si tratta di un rituale per il quale un comandante militare che temesse la sconfitta, invocava terribilmente sopra di sé gli Dei Inferi, stando sopra una lancia, e prometteva loro solennemente di portare con sé nell’Ade schiere di nemici. Fatto ciò, si lanciava forsennatamente contro l’esercito nemico, provocando sicuro scompiglio, perché i suoi avversari temevano di ucciderlo, in quanto – divenuto egli ‘sacer’ – sul suo uccisore sarebbe caduta la maledizione divina]. 
Malgrado l’indubbia suggestione di tale teoria, sembra proprio che la presenza di una statua femminile e i ritrovamenti in numerose località vicine di altre state sicuramente funerarie, gioca contro questa ipotesi.



Le mani, posate in modo non naturale su addome e torace, lasciano credere infatti ad una posa funeraria, di cui esistono esempi mediorientali, relativi a personaggi di rango.
Lo sguardo ‘ieratico’ e sommario del volto delle statue sarde di Monteprama potrebbe – secondo alcuni – avere il medesimo scopo: illustrare la presenza di una maschera, seppure meno dettagliata di quella di  Capestrano. Forse, esisterebbero anche altre similitudini cultuali.

Veduta anteriore del torquis e del Kardiophylax
Kardiophylax
Gli oggetti che si vedono raffigurati indosso al guerriero sono stati identificati con altri rinvenuti in tombe etrusche o italiche delle località relativamente vicine; il luogo infatti in cui era la statua era quello di una popolazione che nelle proprie manifestazioni artistiche e culturali, pur mantenendo una base di elementi indigeni (Piceni o Sabelli), riceveva influssi Etruschi. I due dischi hanno riscontro con altri simili rinvenuti su scheletri in tombe di Alfedena, elemento che poi si svilupperà con la corazza tipicamente sannita formata da tre dischi sul petto e sulla schiena; il triangolo sull’addome è simile ad altri di lamina bronzea scavati in Etruria e nel Piceno; dell’ascia si ha un esemplare simile in ferro, trovato a Chiusi; maschere sono state trovate a Chiusi e nel Piceno, in lamina bronzea; anche elmi simili, però con tesa più ridotta, sono stati scavati nelle vicine regioni adriatiche.


Reperto ancora discusso.
Sul problema artistico di questa statua si sono accese notevoli discussioni; alcuni la vorrebbero ritenere un esemplare della metà del VI sec., tipico della civiltà sabellico-picena, non estraneo quindi ad influssi etruschi e anche greci, mediati o immediati, pur ostentando manifestazioni primitive tipiche di ogni arte periferica; del resto, è facile il confronto delle figure sull’impugnatura della spada con altre dell’arte etrusca orientalizzante.
Un’altra corrente di studiosi, invece, mettendo questa statua a confronto con monumenti dell’arte gallica e iberica, la valuterebbe come concepita sotto un influsso predominante dell’arte celtica.
Su uno dei sostegni è incisa un’iscrizione in caratteri e lingua presabellica o sud-picena, in cui probabilmente si deve leggere il nome, patronimico, ecc., del defunto.


Dettaglio di parte dell'iscrizione in Piceno
L’iscrizione.
È redatta in un alfabeto definito convenzionalmente sud-piceno nell’arcaica lingua italica. Il testo consiste di una sola riga, dal basso verso l’alto, lungo la faccia anteriore del piastrino di sinistra ed è possibile leggerla quasi interamente, malgrado i danni e le interruzioni determinati dalle fratture.

ma kuprì koram opsùt aninis rakine – ì – pomp [-----]-[5]

Si ritiene possibile che  il committente (forse Aninis) fece fare (opsùt) la statua in onore di Pomponio, in veste di suo erede (forse suo figlio) a capo della comunità locale.

Si tratterebbe in definitiva di un’espressione artistica interessantissima, forse legata al solido precedente protostorico della Daunia del Nord (Puglia), recepito a sua volta dalla precedente tradizione statuaria monumentale orientale, che giunse anche in Etruria nella prima età orientalizzante, senza attecchirvi in modo evidente. La progressiva trasformazione delle prime statue-stele, aniconiche  o con figura umana abbozzata, in vere e proprie statue ha seguito un suo percorso ‘interno’ a questa regione, attestato da reperti quali la stele di Guardiagrele, il torso di Atessa, la Testa di Numana.


Testa di Numana
Stele di Gauardiagrele

Le cosiddette "gambe del diavolo".

Torso di Rapino

La statua funebre si fratturò in più punti per la fragilità intrinseca del materiale, aumentata dalla realizzazione di punti sottili (ginocchia e caviglie), in corrispondenza dei quali il cedimento non è stato evitato dal rinforzo offerto dai due sostegni laterali.



Bibliografia.
G. Moretti, Il guerriero di C., con appendice epigrafico-linguistica di F. Ribezzo (Ist. Naz. Arch. St. Arte - Opere d'arte, IV, Roma 1936);
S. Ferri, Osservazioni intorno al guerriero di C., in Boll. d'Arte, 1949, pp. 1-9; M. Pallottino, Capestranezze, in Archeologia classica, I, 1949, pp. 208-210;
A. Boëthius, Sulle origini della scultura italo-etrusca, in Studî Etruschi, XXI, 1950, pp. 14-16; (cfr. anche A. Minto, I clipei funerarî etruschi ed il problema delle origini dell'imago clipeata funeraria, in Studî Etruschi, XXI, 1950, pp. 25-57;
F. Ribezzo, Popolo e lingua degli antichi piceni, ibidem;
E. Polomé, À propos du guerrier de C., in La nouv. Klio, IV, 1952, pp. 261-270;
L. Adams Holland, in Am. Journ. Arch., LX, 1956, p. 243 ss.;
A. Boëthius, in Eranos, LIV, 1956, p. 202 ss.;
G. Radke, Pauly-Wissowa, VIII A, c. 1779 ss.
A. Chierici, Armi e società nel Piceno, con una premessa di metodo ed una nota sul Guerriero di Capestrano, in Piceni e l’Italia medio-adriatica (Atti del XXII Convegno di Studi Etruschi e Italici, 2000);
M. Ruggeri, Guerrieri e re dell’Abruzzo antico, Carsa Edizioni, Ascoli Piceno 2007;
M. Buonocore, L. Franchi Dell’Orto, A. La Regina, Pinna Vestinorum e il popolo dei Vestini, I, “L’Erma” di Bretschneider, Roma 2011.



[1] Università di Pisa e Soprintendenza Archeologica dell’Abruzzo.
[2] Vincenzo d’Ercole, Soprint, Archeol. Abruzzo.
[3] Polibio racconta di funerali romani di uomini illustri, nei quali si provvedeva ad un’esposizione ‘eroica’ del defunto nelle sue armi, ritto in piedi. Riferisce anche che fera uso comune conservare in casa immagini sacre (imagines majorum) delle fattezze del defunto, da esibirsi in occasione dei funerali solenni, montata su di un busto e rivestita come se fosse una persona viva.
[4] Livio racconta il rituale in relazione alla battaglia di Sentino (295 a.C., III Guerra Sannitica o Guerra delle Nazioni) nel quale P. Decio Mure si immolò. Riferisce anche che  la Legge Sacra prevedeva – nel caso in cui il comandante sopravvivesse – che si dovesse seppellire una statua di sette piedi o più (2 metri e sette, coincidenti con la statua del guerriero!) e che sul luogo nessun magistrato romano potesse lecitamente recarsi.
[5] A. La Regina interpreta come raki nevìi (per il Re Nevio), mentre A. Calderini e S. Neri concordano per rakinelìs (un nome gentilizio, ancora non attestato).