giovedì 19 dicembre 2013

Chapter One




Terra dei Mucchi di Pietre, cap. I

1. Una Decisione.


Il sole era già alto. Nella penombra fresca della capanna tonda il ronzio mutevole e insistente degli insetti giungeva attutito in un mormorio suadente.
Nessun altro rumore poteva udir­si. Le attività familiari del villaggio si svolgevano nel silenzio, interrotto da qualche sommesso mormorio.
La lu­ce solare filtrava attraverso la parte terminale, piatta, del tetto a tronco di cono: formava sottili raggi animati, che anda­vano a stampare uno scintil­lante disegno sulla calda pavimentazione di sughero.
L’abituale quiete dei riti quotidiani contrastava con la tormentata agitazione che, silenziosa e quasi inespressa, albergava nella capanna...
Dentro di essa il Grande Sacerdote se­deva immobile sul suo scranno basso. Accigliato, guardava assorto attraverso le particelle di polvere danzanti nei raggi di sole, pensando.
Reggeva un rotolo di papiro - recante strani disegni - con una presa ormai inavvertita della sua mano sini­stra posata sul bracciolo, mentre la mano destra tormen­tava i riccioli grigi della sua folta barba brillante.
Il tempo era giunto, lo sapeva.
Il tempo di agire. Adesso, subito - pensava - liscian­dosi e ad un tempo torcendosi i baffi con il pollice e l’indice, con un gesto abituale. Anche se il Grande Sacerdote non aveva ormai più viaggiato da anni ed anni, ora sapeva di essere costretto ad af­frontare un viaggio forse lungo e certamente insidioso, che avrebbe richiesto molti accurati preparativi in un tempo molto, troppo breve e - soprattutto - nel rispetto del segreto più asso­lu­to. Non si poteva più rimanda­re.
Tutto era perfino troppo chiaro e ne trovava conferma nelle immagini su quel rotolo: il guerriero di pelle scura nella scura nave di foggia strana, gli innumere­voli e lunghi remi... e specialmente l’elmo, quell’elmo i cui tanti com­ponenti sembravano messi insieme in modo indissolubile.
Il Gran Sacerdote sollevò il rotolo di steli di papiro e lo di­stese gentilmente con ambedue le mani per dargli un’ulti­ma occhiata.
Il rotolo era antico e logoro: i disegni e le scritte - una volta marcati e brillanti - erano adesso sbiaditi e opachi per la perdurante opera del tempo, anche se la reli­quia era sempre stata conservata con tutte le cure dai suoi tre pre­deces­sori nella grande cassa di quercia, con ogni riguar­do per il tempestivo ricambio delle essenze profumate, per tenere lontano ogni possibile parassita, ogni malefico influsso e - soprattutto - l’acqua. Nel papiro si vedeva chiaramente la grande, imponente mole della na­ve, con lunghe file di remi e più uomini per cia­scun remo. Una grande vela quadrata era gonfia di vento. L’elmo era dipinto di rosso e di verde, descritto dettagliatamente come composto di molte parti unite assieme come fossero una sol­tanto, scuro e in­credibilmente robusto per essere anche così leggero e sottile... La spada vi era soltanto disegnata - in un colore freddo - e non descritta. Ma questa omissione non importava poi gran che, visto che quella stessa spada era proprio lì sulla mensola ricoperta di sughero, nello spes­so­re del muro della capanna, di fronte ai suoi occhi: era la più mi­nacciosa e più re­sistente arma che egli avesse mai visto. Pur così antica era più forte e più pericolosa di qualunque nuova arma il suo popolo potesse forgiare...
Il Gran Sacerdote accuratamente riarroto­lò il papiro sui suoi due supporti di legno, che quindi assicurò tra loro con un laccetto di cuoio. Poi delicatamente lo ripose nella grande arca di legno, tra le altre cose sacre ed importan­ti, con le altre reliquie: i farmaci e i profumi, gli inchiostri, i pre­ziosi scritti con metodi e formule su fogli di lino, un pic­colo e grazioso vaso tutto nero brillante, ricordo di altri luoghi ed al­tri tempi. Sospirò tra sé: “Tutte le ore feriscono e l’ultima uccide... vale forse anche per i ricordi?”.
Chiuse il pesante coperchio della cassa e lo sigillò, con rigorosa lentezza rituale, quindi si al­zò, deciso a cer­care il suo aiu­tante, Norax.
Dove poteva essere mai - adesso - quel gio­vane scriteriato? Dove doveva essere al momento? E soprattutto: dove avrebbe invece preferito essere?  Perché - egli lo sapeva molto bene - era proprio là che lo avrebbe trovato: nel luogo che più gli era gradito.
Si ricordò che Norax a quell’ora avrebbe dovuto controllare la corretta disposi­zione e le giuste propor­zioni delle fascine di legna, dei crogioli, dello stagno e del rame nella fornace sacra, perché tutto fosse pronto per la festa imminen­te.
Il compito  gli era stato dato più perché egli imparasse, piuttosto che non per lasciargli effettuare un reale controllo, che non era proprio necessario in realtà. Quel compito era gradito a Norax, perché gli permetteva di guardare il villaggio dall’alto e di darsi una certa importan­za, per di più senza faticare. Il dovere ed il gradimento, dedusse il Sacerdote, converge­vano nel medesimo luogo: quindi lo avrebbe certamente trovato lì.
Il Sacerdote sorrise benevolmente tra sé, pen­sando al suo scapestrato ma sveglio apprendista che non apparteneva per nascita al sangue della Vera Gente, ma che aveva sa­puto farsi accettare come se tale fosse stato...
Come pochi altri prima di lui...
Lentamente, il sorriso lasciò spazio ad una espressione accigliata, mentre l’urgenza dei problemi nuovamente si impadroniva dei suoi pensieri.
Si scosse, e si accorse di un fasti­dioso senso di secchezza della bocca e della gola. I suoi occhi se­guirono una mensola ricavata nella spessa parete di pietra, fino all’ampolla del suo succo di mirto.
Ne versò una tazza scarsa e si ba­gnò le labbra due volte prima di decidersi ed uscire, accigliato e pensoso, dalla sua capanna ravviandosi i folti baffi grigi col pollice e l’indice, con un gesto assente, la mente altrove...
Subito il fastidioso ronzio degli in­setti lo salutò più forte, mentre la luce diretta del sole rese incerti i suoi primi passi soltanto...
La fornace sacra si er­geva poco discosta, tozza ed annerita, in familiare contra­sto con il tempio, enorme ma snello, pulito, anch’esso rac­chiuso nell’ampio cerchio dell’area sa­cra, già animata dal trambusto delle prime offerte e dei primi offerenti... Il Sacerdote diede lentamente uno sguardo tutto intor­no, scrutando con attenzione... Attraverso l’andirivieni di alcune figure affaccendate nei lavori quotidiani, vide che nessuno era in vista intorno alla capan­na dei raduni - al momento deserta -  nessuno era presso il pozzo sacro...
Alcune donne qua e là erano ancora intente nei loro lavori: in grossi pento­loni fumanti estraevano tannini da cortecce, foglie e galle diverse. Le essenze rare e preziose così ricavate sarebbero servite per poi tingere il lino, la lana, e per conciare le pelli... Altre preparavano insieme, con fare complice, varie ghiottonerie per la festa...
I vecchi erano già appostati a gruppetti nelle loro chiazze d’ombra preferite. Queste erano state guadagnate in tanti anni di doverosa milizia quotidiana sotto il sole, la pioggia, il vento. Ciascuno aveva fatto la propria parte in uno dei vari compiti, tutti in qualche modo egualmente duri e faticosi, che spettano all’uomo da quando ha perso il suo posto alla tavola dorata degli dei...
Alcuni bimbi giocavano rincorrendosi garruli tra le capanne più vicine alla maestosa Porta Grande - dove la cer­chia di mura si sdoppiava - e se ne intravedevano a tratti le figuret­te nude che saettavano qua e là nei giochi di sempre...
Presto - tra qualche giorno appena - avrebbero imitato gli adulti, nel giorno delle brocche: avrebbero assaggiato il loro primo sorso di vino e sarebbero stati consacrati ed iniziati alla vita; avrebbero pronunciato con le loro voci squillanti versi e formule che solo molti anni più tardi avrebbero compreso appieno: “La palla purpurea mi lancia Eros dai riccioli d’oro, e con la fanciulla dai sandali variopinti mi invita a giocare”. Un canto simbolico di vita da vivere, di amore da godere e di morte da accettare, per ciascuno e per tutti, nell’equa distribuzione della millenaria voracità del tempo.
A tutto questo pensava il Sacerdote, guardando quella scena spontanea, piena di attività solerte e di aspettazione per la festa, serena e trepidante insieme.
Alzò la mano destra davanti a sé e pregò sottovoce, quasi proseguendo un quotidiano dialogo, mai veramente inter­rotto per un solo istante:  “Anche per loro dammi il tuo aiuto Grande Madre Ennin - perché essi possano conservare il sorriso felice del gioco e perché le loro grida siano sempre, come ora, soltanto di gioia... E per noi, Tuoi indegni ma fedeli figli, sparsi nella Tua terra generosa”.
Quindi volse, per caso, lo sguardo verso sinistra e scorse un’agile sagoma conosciuta. Era appena ap­parsa sulla fornace sacra, tra due figure più massicce intente al lavoro: “Norax!” - gridò il sacerdote al suo indirizzo - “Ohi, Norax!”.