Terra dei Mucchi di Pietre, cap. I
1. Una Decisione.
Il sole era già alto. Nella penombra fresca della
capanna tonda il ronzio mutevole e insistente degli insetti giungeva attutito
in un mormorio suadente.
Nessun altro rumore poteva udirsi. Le attività
familiari del villaggio si svolgevano nel silenzio, interrotto da qualche sommesso
mormorio.
La luce solare filtrava attraverso la parte
terminale, piatta, del tetto a tronco di cono: formava sottili raggi animati,
che andavano a stampare uno scintillante disegno sulla calda pavimentazione
di sughero.
L’abituale quiete dei riti quotidiani contrastava
con la tormentata agitazione che, silenziosa e quasi inespressa, albergava nella
capanna...
Dentro di essa il Grande Sacerdote sedeva immobile
sul suo scranno basso. Accigliato, guardava assorto attraverso le particelle di
polvere danzanti nei raggi di sole, pensando.
Reggeva un rotolo di papiro - recante strani disegni
- con una presa ormai inavvertita della sua mano sinistra posata sul bracciolo,
mentre la mano destra tormentava i riccioli grigi della sua folta barba
brillante.
Il tempo era giunto, lo sapeva.
Il tempo di agire. Adesso, subito -
pensava - lisciandosi e ad un tempo torcendosi i baffi con il pollice e
l’indice, con un gesto abituale. Anche se il Grande Sacerdote non aveva ormai
più viaggiato da anni ed anni, ora sapeva di essere costretto ad affrontare un
viaggio forse lungo e certamente insidioso, che avrebbe richiesto molti
accurati preparativi in un tempo molto, troppo breve e - soprattutto - nel
rispetto del segreto più assoluto. Non si poteva più rimandare.
Tutto era perfino troppo chiaro e ne trovava
conferma nelle immagini su quel rotolo: il guerriero di pelle scura nella scura
nave di foggia strana, gli innumerevoli e lunghi remi... e specialmente
l’elmo, quell’elmo i cui tanti componenti sembravano messi insieme in modo
indissolubile.
Il Gran Sacerdote sollevò il rotolo di steli di
papiro e lo distese gentilmente con ambedue le mani per dargli un’ultima occhiata.
Il rotolo era antico e logoro: i disegni e le
scritte - una volta marcati e brillanti - erano adesso sbiaditi e opachi per la
perdurante opera del tempo, anche se la reliquia era sempre stata conservata
con tutte le cure dai suoi tre predecessori nella grande cassa di quercia, con
ogni riguardo per il tempestivo ricambio delle essenze profumate, per tenere
lontano ogni possibile parassita, ogni malefico influsso e - soprattutto -
l’acqua. Nel papiro si vedeva chiaramente la grande, imponente mole della nave,
con lunghe file di remi e più uomini per ciascun remo. Una grande vela
quadrata era gonfia di vento. L’elmo era dipinto di rosso e di verde, descritto
dettagliatamente come composto di molte parti unite assieme come fossero una
soltanto, scuro e incredibilmente robusto per essere anche così leggero e
sottile... La spada vi era soltanto disegnata - in un colore freddo - e non
descritta. Ma questa omissione non importava poi gran che, visto che quella
stessa spada era proprio lì sulla mensola ricoperta di sughero, nello spessore
del muro della capanna, di fronte ai suoi occhi: era la più minacciosa e più
resistente arma che egli avesse mai visto. Pur così antica era più forte e più
pericolosa di qualunque nuova arma il suo popolo potesse forgiare...
Il Gran Sacerdote accuratamente riarrotolò il
papiro sui suoi due supporti di legno, che quindi assicurò tra loro con un laccetto
di cuoio. Poi delicatamente lo ripose nella grande arca di legno, tra le altre
cose sacre ed importanti, con le altre reliquie: i farmaci e i profumi, gli
inchiostri, i preziosi scritti con metodi e formule su fogli di lino, un piccolo
e grazioso vaso tutto nero brillante, ricordo di altri luoghi ed altri tempi.
Sospirò tra sé: “Tutte le ore feriscono e l’ultima uccide... vale forse
anche per i ricordi?”.
Chiuse il pesante coperchio della cassa e lo
sigillò, con rigorosa lentezza rituale, quindi si alzò, deciso a cercare il
suo aiutante, Norax.
Dove poteva essere mai - adesso - quel giovane
scriteriato? Dove doveva essere al momento?
E soprattutto: dove avrebbe invece preferito essere?
Perché - egli lo sapeva molto bene - era proprio là che lo avrebbe
trovato: nel luogo che più gli era gradito.
Si ricordò che Norax a quell’ora avrebbe dovuto
controllare la corretta disposizione e le giuste proporzioni delle fascine di
legna, dei crogioli, dello stagno e del rame nella fornace sacra, perché tutto
fosse pronto per la festa imminente.
Il compito
gli era stato dato più perché egli imparasse, piuttosto che non per
lasciargli effettuare un reale controllo, che non era proprio necessario in
realtà. Quel compito era gradito a Norax, perché gli permetteva di guardare il
villaggio dall’alto e di darsi una certa importanza, per di più senza
faticare. Il dovere ed il gradimento, dedusse il Sacerdote, convergevano nel
medesimo luogo: quindi lo avrebbe certamente trovato lì.
Il Sacerdote sorrise benevolmente tra sé, pensando
al suo scapestrato ma sveglio apprendista che non apparteneva per nascita al
sangue della Vera Gente,
ma che aveva saputo farsi accettare come se tale fosse stato...
Come pochi altri prima di lui...
Lentamente, il sorriso lasciò spazio ad una
espressione accigliata, mentre l’urgenza dei problemi nuovamente si impadroniva
dei suoi pensieri.
Si scosse, e si accorse di un fastidioso senso di
secchezza della bocca e della gola. I suoi occhi seguirono una mensola ricavata
nella spessa parete di pietra, fino all’ampolla del suo succo di mirto.
Ne versò una tazza scarsa e si bagnò le labbra due
volte prima di decidersi ed uscire, accigliato e pensoso, dalla sua capanna
ravviandosi i folti baffi grigi col pollice e l’indice, con un gesto assente,
la mente altrove...
Subito il fastidioso ronzio degli insetti lo salutò
più forte, mentre la luce diretta del sole rese incerti i suoi primi passi soltanto...
La fornace sacra si ergeva poco discosta, tozza ed
annerita, in familiare contrasto con il tempio, enorme ma snello, pulito,
anch’esso racchiuso nell’ampio cerchio dell’area sacra, già animata dal trambusto
delle prime offerte e dei primi offerenti... Il Sacerdote diede lentamente uno
sguardo tutto intorno, scrutando con attenzione... Attraverso l’andirivieni di
alcune figure affaccendate nei lavori quotidiani, vide che nessuno era in vista
intorno alla capanna dei raduni - al momento deserta - nessuno era presso il pozzo sacro...
Alcune donne qua e là erano ancora intente nei loro
lavori: in grossi pentoloni fumanti estraevano tannini da cortecce, foglie e
galle diverse. Le essenze rare e preziose così ricavate sarebbero servite per
poi tingere il lino, la lana, e per conciare le pelli... Altre preparavano
insieme, con fare complice, varie ghiottonerie per la festa...
I vecchi erano già appostati a gruppetti nelle loro
chiazze d’ombra preferite. Queste erano state guadagnate in tanti anni di
doverosa milizia quotidiana sotto il sole, la pioggia, il vento. Ciascuno aveva
fatto la propria parte in uno dei vari compiti, tutti in qualche modo
egualmente duri e faticosi, che spettano all’uomo da quando ha perso il suo
posto alla tavola dorata degli dei...
Alcuni bimbi giocavano rincorrendosi garruli tra le
capanne più vicine alla maestosa Porta Grande - dove la cerchia di mura si
sdoppiava - e se ne intravedevano a tratti le figurette nude che saettavano
qua e là nei giochi di sempre...
Presto - tra qualche giorno appena - avrebbero
imitato gli adulti, nel giorno delle brocche: avrebbero assaggiato il loro primo sorso di vino e sarebbero stati
consacrati ed iniziati alla vita; avrebbero pronunciato con le loro voci
squillanti versi e formule che solo molti anni più tardi avrebbero compreso
appieno: “La palla purpurea mi lancia Eros dai riccioli d’oro, e con
la fanciulla dai sandali variopinti mi invita a giocare”. Un canto simbolico di vita da vivere, di amore da
godere e di morte da accettare, per ciascuno e per tutti, nell’equa
distribuzione della millenaria voracità del tempo.
A tutto questo pensava il Sacerdote, guardando
quella scena spontanea, piena di attività solerte e di aspettazione per la festa,
serena e trepidante insieme.
Alzò la mano destra davanti a sé e pregò sottovoce,
quasi proseguendo un quotidiano dialogo, mai veramente interrotto per un solo
istante: “Anche per loro dammi il
tuo aiuto Grande Madre
Ennin - perché essi possano
conservare il sorriso felice del gioco e perché le loro grida siano sempre,
come ora, soltanto di gioia... E per
noi, Tuoi indegni ma fedeli figli, sparsi nella Tua terra generosa”.
Quindi volse, per caso, lo sguardo verso sinistra e
scorse un’agile sagoma conosciuta. Era appena apparsa sulla fornace sacra, tra
due figure più massicce intente al lavoro: “Norax!” - gridò il sacerdote al suo
indirizzo - “Ohi, Norax!”.