Altre storie vere di banditi
sardi.
Salvatore Stochino |
Reblogged from 'Rosebud',
blog di
Rina Brundu.
Samuele Stochino: lui era il re! Che nella cucina rosata, quando la nonna raccontava le sue storie, non si sentiva una mosca volare. Che anche “i grandi” spalancavano le orecchie e spingevano la sedia verso il focolare. Che la zia buttava altre frasche sul fuoco e le lingue rossastre si incendiavano come zolfo fuso a contatto con l’aria. Che lo zio si “svegliava” di botto e i suoi occhi azzurri, bellissimi, prendevano a brillare. Strano. Che lui, lo zio, le storie della nonna le aveva sempre ammirate ma quando si trattava di Samuele era tutto un altro paio di maniche: lui, infatti, lo aveva incontrato di persona, milioni di anni fa. Che quella sera d’inverno del 1923, nell’ovile perduto tra le vallate del Gennargentu, era una sera come le altre: pioveva e soffiava il vento. Che quando i cani avevano preso ad abbaiare non si era visto nessuno anche se poi Stochino e Piricu Marongiu, moschetto spianato, si erano materializzati davanti. Che a Samuele gli avevano appena rubato i maiali e voleva sapere chi era stato. Che, disse, li avrebbe messi tutti quanti a sa “giura” e non voleva sentire ragioni. Che dalla sua bisaccia tirò fuori un libro avvolto in un panno bianco e pretese che ciascuno dei pastori presenti vi mettesse la mano destra sopra e giurasse che non gli aveva rubato i maiali e che non avesse “consigliato” ad un altro di farlo. Che il primo pastore assicurò: “Deo giuro ca non apo furau ne consigiau” e Samuele mosse oltre. Che il secondo pastore ripetè: “Deo giuro ca non apo furau ne consigiau” e Samuele mosse oltre. Che quando Samuele si fermò davanti a lui e lo vide bambino lo risparmiò. Che quando sa cerimonia de sa giura terminò Samuele e Piricu si allontanarono nel buio della notte per non tornare mai più. Che, dicevano, Samuele aveva un senso dell’onore tutto suo e rispettava gli onesti. Che quando lo zio terminava di raccontare la sua storia un silenzio pesante cadeva nella cucina rosata e pareva quasi di udire i fiocchi di neve bianca posarsi sul mantello immacolato che, fuori dalla porta, era già diventata la strada. Che non era raro che subito dopo io uscissi in cortile e guardassi verso su Monte ‘e sa Furca e mi domandassi quanti banditi vi stessero bandiando proprio in quel momento. Che mio malgrado io Samuele lo ammiravo: ammiravo il suo coraggio quando aveva difeso la sua donna dai soprusi del reuccio locale, quando aveva risolto che era meglio latitare, quando aveva sepolto l’amata morta in un qualche picco inaccessibile o canyon impenetrabile destinato a restare tomba nascosta. Per sempre. Che Samuele era un mito legato a doppio spago con l’essenza stessa della nostra sardità e quei nodi non si potevano sciogliere a piacimento. Che già quando si parlava di Mesina l’atmosfera cambiava. Che c’erano gli elicotteri dei carabinieri e dei cacciatori-di-Sardegna che ci ronzavano continuamente in testa con le mille storie dei facoltosi continentali rapiti all’affetto delle loro famiglie. Che quelle storie non ci piacevano proprio e non ci rappresentavano. Che le ragioni della latitanza di Samuele erano state altre, o almeno così ci piaceva di credere. Perché anche noi avevamo bisogno di miti e le montagne di Sardegna non ne conoscevano altre che non fossero quelle dei suoi figli più ribelli. Che nelle regioni interne di quell’isola bellissima re e regine, preti e prelati, quando non avevano deciso che sarebbe stato piùprudente fare marcia indietro, c’erano venuti solo per rubare. Depredare. Portare vie decime, balzelli, tasse, imposte, tributi, pedaggi e trattenute varie. Che nel tempo hanno tentato finanche di cancellare il ricordo di quell’altra Sardegna selvaggia e irriverente e per renderlo presentabile hanno creato le proloco e gli uffici del turismo, tutti insieme appassionatamente alla ricerca della nostra sardità perduta. Che la sardità non è un’opzione-trendy: vive con te mentre cammini per strada e ti gusti, o sopporti, a seconda delle circostanze, la vita. Che guardandoti indietro ti rendi conto che in fondo non ti è mai servito altro e, nei casi migliori, è destinata a morire con te.