La donna nella storia della medicina
di Corrado Petrocelli
Magnifico Rettore, Università di Bari
Nel settembre del 1812 James Stuart Barry si laureò in medicina
all’Università di Edimburgo. Nel volgere di pochi anni divenne un famoso
chirurgo militare, seguì le truppe britanniche in Africa, nei Caraibi, a Malta
e in Crimea, nel 1857 fu nominato ispettore generale degli ospedali canadesi. Barry si conquistò la fama di medico
capace e brillante, sebbene assai eccentrico ed effeminato. La piccola statura
e la voce dai toni acuti non gli risparmiarono critiche e dileggi, cui
prontamente rispondeva a colpi di fioretto, fino alla corte marziale. Soltanto dopo
la morte la verità fu scoperta: James Stuart Barry era in realtà Miranda Barry,
una timida signora inglese che per tutta la vita si era travestita da uomo pur di
potere esercitare la professione medica. Ma anche dopo la morte Miranda Barry
fu vittima del pregiudizio che negava ad una donna la possibilità di esercitare
la professione di chirurgo, per giunta di chirurgo militare. Le autorità di
polizia chiusero, una volta per tutte, il caso della sua identità dichiarando
che si trattasse di un uomo. Il dossier che la riguardava scomparve
misteriosamente, senza lasciare tracce. La storia di Miranda Barry non è
un’eccezione, ma solo uno degli episodi di un costume inveterato. Racconta
Igino che ad Atene, nel IV sec. a.C., alle donne era interdetto per legge ogni
accesso agli studi medici e alla pratica terapeutica. Questo divieto fu attivo
per molto tempo, durante il quale numerose donne morivano di parto e di
malattie agli organi riproduttivi, perché per pudore impedivano agli uomini di
aiutarle a partorire o di curarle. Una fanciulla, di nome Agnodice, eluse il
divieto, si travestì da uomo ed andò ad Alessandria per studiare ostetricia con
Erofi lo, il noto medico e anatomista. Ritornata ad Atene, esercitò
brillantemente la professione, sempre vestita da uomo. Palesava la sua vera
identità solo al cospetto della donna da curare. I medici ateniesi si
ingelosirono a tal punto del successo del “nuovo collega” da accusarlo di
«corrompere le mogli»: secondo il capo di imputazione le donne avrebbero
simulato la malattia per farsi avvicinare dallo sconosciuto e abile taumaturgo
o, meglio, dall’accorto quanto improbabile seduttore. Quando, poi, i giudici
dell’Areopago si riunirono, il verdetto iniziale fu di colpevolezza; a quel
punto Agnodice si sfi lò la veste e rivelò la sua vera identità. Ancor di più i
medici insistettero nell’opera di diffamazione: era colpevole sia in quanto
donna sia perché aveva esercitato sotto falso nome. Stava per essere condannata
a morte quando una delegazione di aristocratiche si presentò ai giudici, accusandoli
di essere nemici del genere umano: impedivano alle donne di procreare e
perpetuare la specie (Hyg. Fab. 274). La protesta delle matrone funzionò e così
ad Agnodice fu accordato il permesso di esercitare la professione. Anche la
legge fu cambiata: le donne poterono studiare medicina e svolgere attività
terapeutiche, ovviamente solo con pazienti di sesso femminile. Le rimostranze
delle aristocratiche ateniesi non rappresentavano alcuna rivendicazione di
specie. Si trattò soltanto di un accorato appello sulla base di esigenze di natura
biologica. Il pensiero filosofico del tempo, infatti, ripartiva nettamente il
genere umano nei due elementi, maschile e femminile. Tra questi l’elemento femminile
rappresentava una generazione a parte, successiva e degradata. Fu Aristotele e
la sua scuola a definire i caratteri della diversità dell’elemento femminile in
un complesso di carenze: la donna ha un
cervello di dimensioni inferiori, un numero minore di suture craniche –
necessarie alla massa cerebrale per aerare ed adempiere alla sua naturale
funzione – una voce più debole, una massa muscolare meno possente. Carattere
peculiare di questa deficienza è uno stato di debolezza che prende forma in una
creatura imperfetta, inferiore. Come il bambino, la donna ha “un’anima senza
autorità”; a differenza del bambino, che la acquisisce diventando adulto, la
donna ne è priva per sempre. Tra i fenomeni biologici che regolano la
sopravvivenza del genere umano, nascere donna è “teras”, un prodigio mostruoso;
l’organismo femminile è solo un abbozzo, come quello di un bambino, ma
contrariamente a questo non ha alcuna speranza di raggiungere la perfezione. Nella
generazione della specie il corpo femminile è un’anomalia che reca impresso il
marchio dell’impotenza, in quanto incapace di generare da sola perché materia
sorda e senza forma. È come una tavoletta, che non ha significato fino a quando
lo stilo non vi traccia, incidendoli, dei segni, parole e frasi, ma è anche un
campo, sterile se non arato, o un forno, utile solo a cuocere un cibo
introdotto e preparato da altri. Nell’immaginario metaforico degli antichi la
donna assume i caratteri del passivo o dell’incompiuto, rappresentando così un’anomalia,
ma un’anomalia finalizzata, che rientra nei piani della natura per perpetuare la
distinzione tra maschi e femmine funzionale alla trasmissione della specie. Ebbene,
a dispetto della sopravvivenza plurimillenaria di concezioni misogine, nelle
quali sono gli uomini a scrivere di scienza, anche le donne hanno fatto, come
continuano a fare, scienza. Ne scopriamo l’esistere e l’agire attraverso gli
sparuti lasciti che la tradizione – una tradizione originata da uomini e
governata da uomini – quasi per errore serba, attraverso poco più che nomi, riferimenti
impliciti, memorie che assumono sovente il tono della condanna, se
impossibilitate a chiudersi nel silenzio. A cominciare dagli albori del
pensiero occidentale, che prende forma nell’opera di Omero. Nell’“Iliade” incontriamo
Agamede, figlia del re degli Epei, che assiste i feriti sul campo di battaglia
nella piana di Troia e non è un’infermiera improvvisata, ma un vero e proprio
medico «che conosceva tutti i rimedi, quanti la terra vasta produce» (Il.
XI,740-741). E la stessa Elena, nota per essere la sciagurata causa della
guerra di Troia, è in realtà anche una guaritrice provetta: ha studiato
medicina in Egitto con Polidamna, il cui nome signifi ca «colei che sottomette
molti mali». La notizia non desta stupore, perché l’Egitto, spiega Omero,
«produce moltissimi rimedi, molti buoni e molti cattivi; lì ognuno è medico, esperto
al di sopra di tutti gli uomini, perché discendono tutti da Pèone, il medico
degli dèi» (Od. IV,227-232). In Egitto anche le donne praticavano la
professione medica. Studentesse e docenti da ogni parte del Mediterraneo
frequentavano le scuole di medicina a Sais ed Eliopoli. Nel tempio di Sais si legge
questa iscrizione: «Sono venuta dalla scuola di medicina di Eliopoli e ho
studiato alla scuola delle donne di Sais, dove le divine madri mi hanno
insegnato a curare le malattie». Ad Eliopoli studiarono anche Mosé e la moglie
Zipporah nel 1.500 a.C., epoca in cui la regina medico della XVIII dinastia, Hatshepsut,
condusse una spedizione alla ricerca di piante offi cinali. Alcuni papiri medici
egizi riportano questioni di ginecologia, che anche nel bacino del Nilo era la
specialità più praticata dalle donne. Nel papiro di Kahun sono descritte
diagnosi di gravidanza, ipotesi sul sesso del nascituro, condotte osservando
attentamente il volto della madre (se verde, sarebbe stato un maschio…), studi
sulla sterilità. Le chirurghe, poi, effettuavano parti cesarei, operavano
tumori e curavano fratture.Da fonti epigrafiche e documentarie sappiamo che
anche le città greche ospitavano donne medico e chirurgo. Ad Ippocrate si
attribuisce la fondazione di una scuola di ostetricia e ginecologia nell’isola
di Kos, alla quale però non erano ammesse studentesse; queste, invece, frequentavano
la scuola concorrente, quella di Cnido, sulla costa dell’Asia minore. Ma anche
ad Ippocrate era noto il valore dei rimedi botanici scoperti dalle antiche
guaritrici. Tra queste prime donne medico esperte in erboristeria v’era
Artemisia, potente regina di Caria, che, si diceva, conosceva le proprietà
terapeutiche di tutte le piante offi cinali. La medicina fu l’unica scienza costantemente
coltivata nell’Impero romano e quella medica fu forse l’unica professione
aperta anche alle donne, che mai, è opportuno ricordare, raggiunsero uno
statuto professionale lontanamente paragonabile a quello rivestito nella
società romana, almeno fi no al XIX secolo. A Roma le donne medico, pur occupandosi
prevalentemente di gravidanze, parti e malattie ginecologiche, andarono ben
oltre il campo dell’ostetricia e studiarono rimedi anche per altre malattie.
Negli ospedali erano condotte, come schiave, donne medico provenienti dalla
Grecia, anch’esse depositarie del sapere scientifico greco nella stessa maniera
in cui lo erano i loro colleghi uomini. Aristocratiche romane furono attive nei
luoghi di cura ed esercitarono privatamente la professione, pure con discreto
successo. Plinio il Vecchio ricorda Salpe di Lemno, esperta in oftalmologia, e
Olimpia di Tebe, nota ginecologa. Con Galeno collaborava Antiochis, che si
specializzò nelle artriti e nelle malattie della milza. Forse non è del tutto
infondata la voce che circolava sul loro conto, e cioè che Galeno avesse
copiato da Antiochis non pochi rimedi terapeutici. Ugualmente famose erano
Elefantide di Lemno o Laide. Di costoro apprendiamo qualche notizia dai cenni,
inevitabilmente impietosi e diffamanti, sparsi nelle opere di Galeno, come in quelle
di Sorano di Efeso o nella “Storia Naturale” di Plinio il Vecchio. Elefantide
scrisse trattati di medicina e insegnò a Roma. Si diceva che fosse così bella
da fare lezione nascosta dietro una tenda per non distrarre gli studenti. Pari fama aveva Laide. Plinio non è molto generoso
nei confronti di entrambe, se descrive le loro pratiche terapeutiche in questi
termini: «a quelle notizie contraddittorie che Laide ed Elefantide hanno
tramandato circa il potere abortivo del carbone ottenuto dalla radice del
cavolo o del mirto o della tamerice, se spento in quel sangue, come pure alle
dicerie da loro messe in giro quale quella che le asine non concepiscono per
altrettanti anni quanti sono i chicchi di orzo contaminati da quel sangue che
hanno ingerito, e a quante cose paradossali o in contrasto tra loro le due
autrici hanno pubblicato, l’una garantendo la fecondità con gli stessi
espedienti indicati dall’altra per la sterilità, è meglio proprio non credere»
(Nat. XXVIII,23.81, trad. U. Capitani). Scribonio Largo, medico alla corte di
Claudio, compilò un elenco dei rimedi medici di cui era venuto a conoscenza sia
a Roma che durante i suoi viaggi al seguito dell’imperatore. Tra questi cita le
prescrizioni di donne illustri quali Messalina, la terza moglie di Claudio, o
Livia, moglie di Augusto, o Ottavia, la sorella, o Giulia, la fi glia. Giovanni Ruellio,
che nel 1529 pubblicò il “De compositione medicamentorum” di Scribonio,
sosteneva come queste esponenti della famiglia imperiale fossero ai loro tempi
famose nella pratica medica tanto quanto lo stesso Galeno. Tra le donne che
scrissero di ginecologia, ma anche di dermatologia e cosmesi, considerate branche
della stessa disciplina, la più importante fu sicuramente Cleopatra, vissuta a
Roma nel II sec. d.C. Il suo trattato, il “De Geneticis”, fu ampiamente
utilizzato almeno fi no al VI sec. d.C., quando si confuse con l’opera di un
certo Muscius. Fu poi più volte ricopiato ed attribuito ad altri autori,
ovviamente tutti uomini. Stessa sorte toccò all’opera della contemporanea
Aspasia, specializzata in ostetricia, ginecologia e chirurgia. Il suo scritto
fu attribuito ad un uomo, di nome Aspasio, oppure si credeva che “Aspasia”
fosse il titolo di un testo perduto sulle malattie femminili, ideato forse in
omaggio alla più nota Aspasia di Mileto compagna di Pericle, realizzato,
ovviamente, da un uomo. Quelli di Cleopatra ed Aspasia non furono casi isolati.
Il problema dell’attribuzione, strettamente legato alla possibilità di
ammettere la presenza delle donne in ambito scientifico, si impone per ogni tentativo
di investigare il ruolo femminile nelle diverse branche della scienza. Ne è
emblematico esempio il caso di Trotula, una delle “mulieres Salernitanae” cui
dobbiamo molti dei meriti nella rinascita del sapere medico e nel rinnovato
interesse per la scienza degli antichi Greci. Del trattato più importante a lei
attribuito, il “De passionibus mulierum curandorum”, noto come “Trotula maior”,
anche medici del nostro tempo non mancano di evidenziare i meriti: «Il trattato
conserva in ogni pagina il tocco gentile della donna medico. È ricco di senso
comune e pratico, molto aggiornato per quei tempi: infatti è assai avanzato
rispetto allo standard dell’XI secolo in chirurgia e anestesiologia così come
nella cura della madre e del bambino e nel periodo postpartum. Nessun libro di
tale levatura era mai stato scritto e lo sarebbe stato per secoli» (Kate Hurd-Mead,
Trotula, «Isis» 14, 1930, p. 364). Le prescrizioni del “Trotula maior”
stupiscono per la loro attualità, per esempio nell’enfatizzare l’importanza dell’igiene,
della dieta bilanciata e dell’esercizio fisico, come anche nell’attenzione agli
effetti dello stress. L’ampia diffusione del trattato rende complicato ogni
tentativo di individuarne con precisione i caratteri originari. Come ’opera di
Cleopatra, anche lo scritto di Trotula fu ricopiato diverse volte, altrettante plagiato.
Raramente il nome dell’autrice compare, sia nei manoscritti che nelle prime
edizioni a stampa, sovente è trasformato nell’equivalente maschile Trottus,
talvolta in altri nomi, come Eros o Erotiano. Eros era il medico di Giulia, fi
glia di Augusto, che aveva scritto un trattato di ginecologia e di cosmesi,
Erotiano il medico di Nerone o di Marco Aurelio, autore di un commentario alla
ginecologia ippocratica. La confusione fu probabilmente originata dal fatto che
le opere di entrambi furono stampate all’incirca negli stessi anni del “Trotula
maior”. Chiaramente l’attribuzione era priva di fondamento: sia Eros che
Erotiano erano vissuti secoli prima di molte delle fonti citate da Trotula,
eppure gli storici sfruttarono queste incongruenze per attribuire la
composizione dell’opera a un uomo, un medico salernitano. Ma fu solo nel XIX
secolo che uno storico della medicina, Karl Sudhoff, tentò di sbarazzarsi, e
una volta per tutte, di Trotula e delle “mulieres Salernitanae”. Secondo Sudhoff
quelle donne non erano affatto esperte in medicina, bensì solo levatrici ed
infermiere; per questo mai sarebbero state in possesso di quelle cognizioni di
chirurgia così evidenti esposte nel trattato. Il nome? Trotula era nome molto
comune a Salerno all’epoca in cui risale l’opera. Nessuna meraviglia destava
l’associazione di un nome comune femminile con un trattato avente per argomento
principale l’ostetricia. Sull’equanime giudizio degli storici dell’Ottocento
gravava ancora il retaggio della facile ironia con cui gli uomini dell’Età dei
Lumi mettevano alla berlina le “medichesse” da salotto. Scrivono i fratelli de
Goncourt: «La passione per la medicina è quasi universale in questa società,
frequente è la pazzia per la chirurgia. Pure molte donne imparano a maneggiare
il bisturi. Altre sono invidiose della contessa De Voisenon. Costei aveva
appreso dai medici che frequentavano il salotto della nonna qualcosa dell’arte
della guarigione e praticava le sue cure tra gli amici, cioè su tutti quelli su
cui oteva mettere le mani. Ma anche l’anatomia è tra le maggiori passioni
femminili. Infatti una giovane signorina, la contessa di Coigny, era talmente
appassionata di questo orribile studio che non viaggiava mai senza portare con
sé sul sedile della carrozza un corpo da dissezionare».E sottintendono: con la
stessa frivola civetteria con cui avrebbe portato un libro da leggere o un
ricamo da ultimare. Ma i de Goncourt non avevano conosciuto Mary Wortley
Montagu, l’elegante e coraggiosa lady inglese che, nella prima metà del
Settecento, condusse esperimenti importanti sul vaiolo, la malattia che aveva
ucciso più di 60 milioni di persone in tutto il mondo, più di 45.000 nelle
isole britanniche. Lady Mary non fu soltanto una brillante cultrice di scienza,
fu anche una delle donne più affascinanti del tempo, fi n da giovane nota per la
sua erudizione, per lo spirito arguto e per la forza d’animo, ma soprattutto per
le battaglie condotte in nome dell’emancipazione femminile, «con una lingua da
vipera e una penna affilata come un rasoio», precisano le cronache del tempo. Nel
gennaio del 1753 scriveva alla figlia, a proposito dell’educazione da impartire
alla nipote, che la bambina avrebbe dovuto «nascondere qualunque cultura con la
stessa sollecitudine con cui avrebbe celato di essere storpia o zoppa; far mostra
di scienza serve soltanto ad attirare su di lei l’invidia, e di conseguenza l’acredine
più inveterata, di tutti gli sciocchi e le sciocche, che rappresenteranno
certamente almeno un terzo delle sue conoscenze». Era la consapevolezza di
vivere in una società misogina a dettarle, parola per parola, quelle
considerazioni. Cominciava a diffondersi per tutta Europa, e fi n oltre il XIX
secolo, un movimento di pensiero teso a dimostrare, sulla base di pretese verità
scientifi che, l’inferiorità cognitiva delle donne, in particolare che le donne
fossero biologicamente e intellettualmente inadatte all’attività scientifica. Era
troppo tardi: da più parti le istanze di una scienza al femminile rivendicarono
il loro ruolo nella società, e non già unicamente nell’esercizio della
professione, quanto piuttosto nel più ampio campo dell’istruzione e della
ricerca. Eppure, nella più patriarcale delle culture antiche anche le donne
studiavano medicina. Frequentavano regolarmente, accanto ai loro colleghi
uomini, la Scuola di Baghdad. Parliamo delle donne medico nell’Islam. Non sono
ricordate nelle cronache occidentali, ma sappiamo della loro esistenza grazie
ai racconti de “Le mille e una notte”. Per narrare la storia di Tawaddud Shaharazad
impiega 26 notti. Tawaddud era schiava di Ab alHusn, signore di Baghdad. Per salvare
se stessa e il suo padrone dalla destituzione, Tawaddud offrì il suo talento di
medico in cambio di un’enorme somma di denaro. Alla corte del califfo furono
così convocati scienziati e medici da ogni parte del paese, tali e tanti da
poter mettere alla prova le virtù della fanciulla. A un medico che la
interrogava su questioni di fisiologia, la schiava descrisse l’apparato
circolatorio e osseo, gli organi interni, le relazioni dei quattro elementi con
i quattro umori. Parlò dei sintomi delle malattie enfatizzando l’importanza di
una dieta equilibrata e disquisendo con padronanza contro l’usuale pratica del
salasso. Citò Galeno a memoria e rispose a tutte le domande che le furono
poste, passando poi lei stessa ad interrogare il medico, che replicò frustrato:
«O Signore dei Fedeli, ti chiamo a testimone: questa fanciulla è più istruita
di me in medicina, non posso misurarmi con lei». Il califfo pagò ad Abu al-Husn
una somma di denaro di gran lunga superiore a quella richiesta e offrì alla
schiava la possibilità di soddisfare qualunque desiderio. Tawaddud chiese
soltanto di poter coltivare gli studi di medicina accanto al suo signore, alla
corte del califfo. Fu accontentata. A dispetto di ogni orgogliosa e legittima
rivendicazione, che affiora ora prepotente ora dimessa nell’evoluzione del
pensiero scientifico, la storia della segregazione della medicina al femminile
resta pur sempre lunga, ancora tutta da scrivere. Proprio quando moriva Miranda
Barry, il dottor James con il quale abbiamo inaugurato le nostre riflessioni,
Elizabeth Garret Anderson, già infermiera al Middlesex Teaching Hospital,
completava i suoi studi di anatomia e chirurgia. Ma ogni qual volta superava
con successo i suoi esami, le veniva consigliato di non comunicare a nessuno i
brillanti risultati ottenuti. E quando, nel giugno del 1861, un illustre docente
pose agli studenti delle domande cui solo Elizabeth seppe rispondere, gli
uomini presenti le chiesero di abbandonare l’aula. Fu quindi bandita dalle
altre lezioni ed espulsa dall’Ospedale di Londra. Riuscì ugualmente ad
intraprendere la carriera di chirurgo e fu a fianco di Sophia Blake nella
“battaglia di Edimburgo”, un episodio tanto significativo quanto isolato nella
storia delle donne e della medicina. E che merita la nostra attenzione. Un gruppo
di donne tentò l’ammissione alla Scuola di medicina di Edimburgo,
organizzandosi in un percorso formativo appositamente studiato per loro.
Sfortunatamente furono più brave degli uomini e così i loro colleghi,
considerandole una minaccia, le denunciarono per frode. In tribunale, e poi in
appello, in Parlamento, le donne persero. La maggior parte del gruppo si trasferì
in Svizzera per laurearsi a Berna e tornò qualche anno dopo in Irlanda, dove
fondò una propria Università, la “London School of Medicine for Women”. Finalmente
l’ordine dei medici irlandese si arrese e decise di ammetterle all’esame di
abilitazione. Alla fine l’obiettivo fu raggiunto, la vittoria strappata. Ma fu
solo una tappa di un cammino duro e difficile, una battaglia di una guerra
lunghissima, combattuta a prezzo di sacrifici e lotte. Per secoli, ancora ai
nostri giorni.
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