giovedì 4 luglio 2013

Ricetta


Ricetta per una quaglia che vinca il fascino del cacciatore: Mescolare l’acqua dolce con il mito di Ercole, sparso per bene nell’area del Mediterraneo, insieme a incenso, miele e terebinto…

di Maurizio Feo

Herakles fu il maggiore eroe greco, un eroe tebano semidivino, venerato come simbolo di forza e di coraggio, ma fu anche divinità olimpica ed ebbe una lunga fortuna di devozione in molti paesi dell’area mediterranea. Sotto la superficie del mito, cercando oltre la semplice storia da focolare, si scopre molto di più di quello che colpisce subito la nostra fantasia, dopo avere affascinato molte generazioni, prima di noi... Si percepisce, per esempio, che gli scambi interculturali nell’area del Mediterraneo antico furono molteplici e frequenti, anche da prima dell’età del bronzo.

Il mito, in breve.
Ermes ordina a Helios di trattenere i suoi cavalli, ritardando in tal modo il sorgere dell’alba, cosicché Zeus (sotto le mentite spoglie del marito reale) possa restare più a lungo con Alcmena, sposa di Anfitrione, figlio di Alceo e nipote di Perseo. Nella lunga notte che ne risulta, è concepito Herakles. Dal marito legittimo nascerà poi Ificle, che diventerà amico di Herakles. Per Hera, invece, Herakles altro non è che la prova vivente dei tradimenti di Zeus, per cui gli sarà nemica. Quando Zeus annuncia agli Dei che sta per nascere un discendente di Perseo, destinato a dominare tutti quelli della sua stirpe, Hera – per vendetta – ritarda il parto di Alcmena, in modo che poco prima di Herakle nasca Euristeo, figlio di Steselo, anch’egli nipote di Perseo. In tal modo, Euristeo sarà l’annunziato re di Micene e potrà imporre la propria volontà ad Herakles.
A soli 8 mesi, Herakles strangola due serpenti inviatigli nella culla da Hera.  Della sua educazione si occupano Castore, Chirone e Lino. In un accesso d’ira, (voluto da Hera, ce ne saranno altri) per la critica al suo modo di suonare la lira, Herakles uccide Lino, rompendogli la lira sul capo. Una delle sue prime imprese è l’uccisione di Ergino, re di Orcomeno, che pretendeva un tributo di cento buoi dai tebani. Il re di Tebe premia Herakles dandogli la figlia Megara in sposa. In un accesso di follia, Herakles uccide moglie e figli. Quando si reca a Delfi per purificarsi, l’oracolo gli ordina di mettersi al servizio di Euristeo per 12 anni. Ecco, quindi, le 12 fatiche:

1)    Uccisione del leone di Nemea, valle presso Micene. Il leone, nato dall’unione di Echidna con Tifone (oppure con Ortro, il cane a due teste di Gerione[1]) possiede una pelle invulnerabile, di cui Herakles si fregerà dopo averlo soffocato.
2)    Uccisione dell’Idra di Lerna, posto a sud di Micene. Le teste (in numero di 7, o 9, o 50), se mozzate ricrescevano, per cui Herakles , subito dopo averle tagliate, brucia i monconi dei colli. Quindi intinge le sue frecce nel sangue velenoso del mostro.
3)    Cattura del cinghiale del monte Erimanto: lo spinge fino ad un mucchio di neve, quindi lo cattura cingendolo con le braccia, senza ucciderlo.
4)    Cattura della cerva di Cerinea, in Arcadia. L’inseguimento dell’animale, che possiede zoccoli di bronzo e corna d’oro, dura un anno intero.
5)    Caccia, con l’arco, degli uccelli della palude di Stinfalo, sita ad ovest di Micene. Gli uccelli hanno becco, artigli e penne di bronzo ed usano queste ultime come frecce.
6)    Conquista del cinto d’Ippolita, regina delle Amazzoni. A questa impresa partecipano anche altri eroi, tra cui Teseo, che forse sposerà Ippolita.
7)    Pulizia delle stalle di Augia, re dell’Elide, sulle coste occidentali del Peloponneso. Herakles devia il corso di due fiumi, Alfeo e Peneo. Vince una contesa con Augia per il compenso del lavoro svolto, e con il ricavato fonda i Giochi Olimpici.
8)    Cattura del Toro di Creta, che vomita fuoco. Per farlo, Herakles usa una grande rete.
9)    Cattura delle cavalle di Diomede, re della Tracia, che si nutrono di carne umana. Herakles le doma e dà loro in pasto lo stesso re.
10) Cattura dei buoi di Gerione, mostro con tre corpi. Herakles riesce nell’impresa dopo avere ucciso Ortro. Nel corso di questa fatica soffoca Anteo (figlio di Gea e di Posidone),  che uccideva tutti i viandanti per erigere un tempio di teschi umani al padre.
11) Conquista dei frutti d’oro delle Esperidi. Il giardino dove crescono i pomi (che forse rendono immortali) si trova oltre i confini del mondo ed è custodito dal drago Ladone.
12) Cattura di Cerbero, il cane a tre teste di Ade. Herakles libera Teseo, che si trova incatenato nell’Ade per aver tentato di liberare Persefone.

Come si può notare, fino alla settima fatica si resta molto vicino a Micene, nel Peloponneso. Poi ci si allontana progressivamente, invece, fino ai confini del mondo degli uomini ed oltre ancora, fino all’Ade, con Ogigia fiammeggiante. Così, accade che molti templi di Herakles sorgessero vicino ad acque termali calde, cioè “infernali”. Tra molte altre cose[2], Herakles partecipa al viaggio degli Argonauti[3], con Ila, un ragazzo che ama. Questi è rapito ed annegato dalle ninfe, presso una fonte alla foce del fiume Cio. Herakles allora abbandona l’impresa. In Etolia lotta con il dio del fiume Acheloo e conquista Deianira, da cui ha un figlio, Illo. Per attraversare il fiume Eveno, che è in piena, chiede al centauro Nesso di traghettare Deianira. Nesso la insidia, Herakles lo uccide con una delle sue frecce avvelenate del sangue di Idra. Nesso, morente, si finge pentito del suo gesto e consiglia a Deianira di raccogliere il suo sangue per usarlo come filtro d’amore. Deianira, temendo di perdere Herakles, che ha incontrato Iole, gli confeziona una veste intrisa del sangue del centauro e gliela fa portare dallo schiavo Lica. La veste avvelenata divora subito le carni dell’eroe, che, folle dal dolore, scaglia Lica nel mare. Quindi impone al figlio Illo di sposare Iole, infine si getta in un’enorme pira che ha costruito ed acceso sul monte Eta, in Tessaglia.
Allora viene accolto nell’Olimpo, dove Hera, finalmente, lo abbraccia. Hebe, ex coppiera degli dei, figlia di Hera, sarà la sua sposa.

Origine del mito. Somiglianza o identità con altri eroi divini.

Si tratta di un mito stratificato, complesso ed antichissimo:  W. Burkert ne rintraccia notizie fino a 15.000 – 20.000 anni fa, in veste di cacciatore che uccide animali poderosi e anche di sciamano, che osa entrare nel mondo dei morti per poi uscirne illeso. Si tratta di figure semplici, che scaturiscono dall’immaginazione delle popolazioni primitive del Paleolitico Superiore. Sigilli accadici e sumeri ritraggono una figura munita di pelle di leone, arco e clava, nell’atto di abbattere leoni, draghi, uccelli da preda e altro[4].
Viene subito in mente l’eroe sumero Gilgamesh. Vi fu davvero un governante di Uruk[5] con questo nome, circa nel 2600 a.C. e  subito dopo la sua morte cominciò a prendere forma il mito. I primi testi scritti al riguardo appaiono nel 2100: l’epopea di Gilgamesh, che è giunta per caso fino a noi e che, prima della scoperta, era del tutto dimenticata e quindi ignota, appartiene alla prima metà del II millennio[6]. Ma non è certamente strano che il primo grande racconto eroico mai scritto ci venga dal paese che produsse la prima ruota, la prima barca, la prima scrittura (cuneiforme), il primo calendario, il primo aratro, la prima fusione “a cera perduta”, ed il primo concetto aritmetico di zero…
Gilgamesh è descritto come un principe guerriero che rinuncia alle gioie sedentarie del matrimonio per vivere una vita erratica con il proprio migliore amico, il selvaggio Enkidu, combattendo contro il mostro Humbaba (Huwawa) e contro il Grande Toro del cielo (incarnazione della siccità, mandato per vendetta dalla dea Ishtar, perché Gilgamesh non si era lasciato sedurre). Morto Enkidu, Gilgamesh decide di riportarlo indietro dalla morte e va a cercare Utnapishtim, l’unico uomo sopravvissuto al Diluvio. La dea Siduri gli indica l’Occidente ed il pilota dell’Arca, Urshanabi, lo traghetta fino ad un’isola[7]. Qui Utnapishtim gli racconta del Diluvio e di come il Dio Enlil gli abbia concesso l’immortalità. Quindi gli spiega come trovare una piantina che rende immortali, ma disgraziatamente un serpente la ruba a Gilgamesh, mentre questi si disseta ad una fonte. L’eroe incontrerà Enkidu, ma dovrà arrendersi di fronte all’ineluttabilità ed alla miseria della morte[8]. Anche questo primo, stupendo mito è immensamente complicato, in quanto si compone dei fatti reali dell’antico regnante d’Uruk, di spunti folkloristici raccolti nel mondo di allora e di alcuni temi letterari di significato astronomico e filosofico.
La filiazione di Herakles da Gilgamesh è accettata comunemente, in quanto ambedue camminano, invece di usare un carro; portano una clava, invece che una spada e compiono le loro imprese da soli, oppure accompagnati dalla figura minore di un amico, la cui morte li disturba grandemente. Ambedue si adornano di una pelle di leone. Ambedue sono semidivini. La coppia Ercole/Gilgamesh appare possedere un percorso di conquista da oriente ad occidente, diversamente da quello di Osiride/Dioniso, che sembra orientata da occidente ad oriente. In questo, si può riconoscere un’identificazione solare del mito di Ercole.  Il fatto che carro e spada siano comparsi, nel Mediterraneo, solo dopo il 1750 a.C. fa pensare che il mito greco di Herakles greco si sia sviluppato precedentemente a quella data.
Ninurta. È una figura che proviene da una delle più antiche mitologie strutturate a noi note, quella sumera.  Ninurta è la forma più tarda di Ningirsu, guerriero e dio della guerra, nunzio, vento del sud, dio dei pozzi e dell’irrigazione. Secondo un poema che canta di lui, aveva eretto uno sbarramento contro le acque amare degli inferi.  Era figlio di Enlil (dio della terra, del vento e dell’aria, in seguito Signore degli dei), il suo curriculum vantava la vittoria su diversi mostri: Asag, principe dei demoni, il muflone a sei teste, il drago eroico, il Magilum (una creatura con il corpo a forma di nave), il bisonte, la libellula, il gesso, il rame, l’aquila a testa di leone Anzu ed il serpente a sette teste. Aveva anche dei punti deboli: era superbo, ambizioso, rancoroso. Secondo molti, si può considerarlo a buon diritto uno dei precursori di Herakles. A quanto pare, la simbologia  e la mitologia mesopotamiche hanno molto influenzato, con la loro potenza primitiva, la letteratura ed il pensiero occidentale, tanto che Perseo e Gorgone assomigliano a Gilgamesh e Huwawa, quanto le dodici fatiche di Herakles alle dieci fatiche di Ninurta, insieme a molti altri elementi occidentali che parrebbero originali, sono invece ispirati a quei modelli antichi[9].
Melqart, (o Mlk qrt, “re della città”) era un’importante divinità fenicia, patrono della città di Tiro[10]: potrebbe essere uno dei tratti d’unione tra Gilgamesh ed Herakles. A Tiro era visibile un grande tempio eretto in onore a Melqart, famoso per le sue due colonne, una d’oro ed una di smeraldo, che brillavano mirabilmente di notte[11]. Evidentemente, le Colonne di Melqart erano originariamente più rinomate per la loro unicità e preziosità, che non per la loro localizzazione ai confini del mondo conosciuto. Persino Re Salomone[12], ammirato dalla grandiosità delle colonne e del tempio di Melqart, volle copiarle per realizzare il suo ben più famoso tempio, alla cui costruzione si lavorò per sette anni: si abbatterono i cedri del Libano e si fusero colonne di bronzo alte 18 cubiti, con 12 cubiti di circonferenza[13]. Un dettagliato passaggio di Erodoto[14] e l’evidenza archeologica di numerose iscrizioni[15] permettono di considerare corrispondenti, senza dibattito, le figure di Herakles e Melqart. Si discute invece sull’antichità del culto di Melqart, che potrebbe essere del 2.700 a.C. se ci si basa su Erodoto, oppure molto più recente, secondo altri attorno al 1000 a.C.: quello che è certo è che si tratta di un sincretismo di diverse divinità a partire dal più antico Ba’al (Hadad) fino ad includere il mesopotamico Nergal ed il dio semita della pestilenza Reshef[16]. E’ curioso notare che, da una parte, tutte le divinità correlate con Ercole siano, già in epoca antica, costruzioni complesse, figure mitiche contenenti numerosi elementi provenienti da altre tradizioni religiose disparate. D’altro canto, invece, è sopravvissuto, più isolato e non in rapporto con Ercole, un mito più semplice che descrive il Grande Cacciatore in modo più scarno e diretto: un esempio è dato da Orione[17]. Un altro esempio di mito più periferico e più simile a quello primitivo di grande cacciatore è Cefalo, bellissimo ed abile, figlio di Erse (“goccia di rugiada”), anch’egli amato da Eos e destinato a ritorsioni per gelosia, punizioni divine e disgrazie personali… Un fattore che i Grandi Cacciatori hanno in comune da epoca antichissima è, indiscutibilmente, il loro grande fascino, che permette loro grandi conquiste amorose e la loro fine tragica e cruenta.
Sansone. Figlio di una donna sterile della tribù di Dan. Il suo accostamento con il mito di Ercole è giustificato, oltre che dalla forza fisica che lo accomuna ad Herakles, anche dall’identificazione dei due personaggi con il Sole: il nome Sansone deriva dal semitico Sms (“del sole”). Inoltre, ambedue vanno soggetti a violente crisi di rabbia e a perdita passeggera dei loro poteri. Ambedue uccidono leoni e ne vestono le pelli. Sansone usa una mascella d’asino come una clava. Anche nelle vicende inerenti Sansone ci si imbatte in un quesito: “Dal divoratore è venuto nutrimento; dal forte, dolcezza”. È riferito all’episodio dell’uccisione del leone e al fatto che nella sua carcassa le api avevano, poi, costruito un alveare, del cui miele Sansone fa uso. In accordo con il topos del grande cacciatore, Sansone va incontro a numerose sventure, tutte correlate in qualche modo alle sue donne, che lo costringono ad uccidere – come strumento di Dio – numerosi Filistei. Dopo una delle stragi, egli ha tanta sete che crede ne morirà, ma Dio gli procura l’acqua di cui egli ha bisogno[18]. Infine viene privato della sua forza, catturato ed accecato, ridotto in schiavitù, infine esposto nel tempio di Dagon[19], durante la festa. Qui, in un atto catartico finale, conoscendo la struttura del Tempio e sapendo che sul tetto erano più di 3000 Filistei in festa, egli abbatte le due enormi colonne principali dell’edificio, facendolo crollare e morendo insieme ai suoi oppressori, dopo avere invocato il perdono e l’aiuto di Dio. Anche questo episodio costituisce un parallelo di rilievo con il mito di Ercole, non soltanto per la comparsa delle Colonne di Sansone, punto di contatto tra uomo e divinità, tra vita e morte[20]. Potrebbe darsi che – in questo caso – il mito sia stato portato dall’Egeo in Palestina dai Popoli del Mare, (provvedendo ad uno scambio etnico dell’origine dell’eroe, avvenuto contemporaneamente all’atto dell’appropriarsi della storia).

Numinis Nomen.
Il termine Herakles  suggerisce un’origine medio orientale dell’eroe. Era comune nozione nell’antichità, che il nome Herakles significasse “gloria (per, di, da) Era”. Ma una contraddizione concettuale[21] e l’identificazione della sillaba terminale “kleos” (famoso), hanno condotto alcuni etimologisti a ricercare nella prima “hera” anche il significato di “eroe”. Questo significato e quanto segue è naturalmente molto discusso.
Secondo M. Bernal[22], esistono tre radici etimologiche semitiche (æHrr, con vocalizzazione a mezzo di “o” ed “u”) da prendersi in considerazione:
- La prima sembra molto compatibile con Hera, con Herakles e con eroe, ha il significato di nobile, libero, nato libero. (hor è un antico vocabolo ebraico, hrr compare nell’ugaritico, con il medesimo significato. In epoca attuale abbiamo il vocabolo Arabo e Swahili whuru, che significa libertà).
- La seconda  ha il significato di ustionare, bruciare e da essa deriva il nome di una divinità accadica Erra (l’ustore), che fu in seguito identificato con il dio della pestilenza Nergal. Il poema di Erra, del I millennio, recita: “Il dio Erra in cielo è un toro selvaggio, in terra un leone, nel paese è il re[23]. Questo dio sembra emergere nelle crisi di rabbia distruttiva di Herakles, come anche nella sua affinità con il fuoco, particolarmente evidente nel suo culto fenicio. Non c’è dubbio circa la derivazione di Erra dall’etimo æHrr : l’iniziale H è persa nell’Accadico, viene invece conservata nel Semitico occidentale, che non tollera la doppia “r” per cui la controparte di Erra diverrebbe, appunto, Hera.
- La terza etimologia ha il significato di scavare, perforare: renderebbe conto delle indubbie qualità di scavatore ed irrigatore dimostrate da Herakles nel suo mito.
Un’ ulteriore derivazione può ipotizzarsi dalla radice egiziana Hr, Horus, ricostruita come *Haruw. Quest’ultimo nome era usato sia per il fiero falcone e dio solare, sia come simbolo del faraone vivente.
Erodoto, infatti, dichiara esplicitamente che il nome di Herakles viene dall’Egitto[24]. I “riduzionisti” ritengono che, con queste parole, egli intendesse riferirsi al semplice concetto di personaggio semidivino, capace di imprese impossibili e via dicendo. Altri, invece, prendono le sue parole più alla lettera, come in altri campi si è dimostrato corretto fare[25].
Hr  k' (Heka) è una variante scritta attestata solo nel regno di Tolomeo VI (II sec a. C.), per un nome usualmente scritto HK' (magia). Nonostante le sue caratteristiche elusive, Heka può definirsi “potenza misteriosa, forza vitale, creatività umana, energia creativa divina ed altro”. Queste  tanto più che esistono alcune difficoltà fonetiche, in quanto i due vocaboli venivano probabilmente pronunciati “Hik”, alla fine del I millennio. Ma vi sono anche alcune ragioni a favore: HK' è riportato come il domatore di Apopis, il mostruoso rettile del caos. Esiste inoltre affinità tra HrK' ed una divinità tarda Tutu, che veniva rappresentato come un leone che cammina e descritto come “di grande valore, figlio di Neit”. Ora, la Neit egizia trova corrispondenza proprio in Athena.  Herakles era appunto figlio di Alkmena / Athena  Alalkomena, oltre che piuttosto leonino e di grande valore. Il culto di Tutu fu in auge nei primi due secoli dopo Cristo, che coincidono con un periodo di massimo favore anche per il culto di Herakles. HrK' era visto, nel tempio Tolemaico di Neit e Khnum ad Esna, come un bambino divino, figlio di Neit: non ci sono dubbi circa l’importanza della fanciullezza di Herakles nel mito che lo circonda.
Nonostante le incertezze, la mancanza di documentazione e la confusione già presente nell’antichità (basti pensare ad Eratostene, bibliotecario d’Alessandria, che si riferisce al faraone Semphukrates chiamandolo Herakles Harpokrates; Harpokrates, in Egiziano Hr p hrd altri non era che Horus bambino), si può ipotizzare verosimilmente che Erodoto potesse avere letteralmente ragione, quando asseriva che il nome di Herakles viene dall’Egitto[26]. Esistono molte similarità, solari ed eroiche, tra Horus/Apollo ed Herakles. In particolare, esistono somiglianze tra Herakles e gli eroi greci, da un lato, con i faraoni del Medio Regno, il cui titolo iniziava sempre con Hr ed il nome di Horus dall’altro.  Non sorprende, pertanto, che i mitografi greci pongano l’infanzia di Herakles in Egitto, invece che in Siria o in Mesopotamia. Che poi il mito sia stato influenzato da radici semitiche e gli sia stato aggiunto il suffisso greco –kles è una possibilità piuttosto plausibile.
In ogni caso, Ercole, Gilgamesh, Melqart, Herakles, Hercules è sicuramente una figura composita.
Persino gli autori antichi lo vedevano così. Erodoto distingueva quello divino e l’eroe umano, e tra quello egiziano più antico, quello fenicio, quello venerato nella colonia fenicia di Thasos e l’Herakles di Tebe in Grecia. Diodoro siculo, nel I sec  a. C. ne contava tre: il più antico era quello di Tebe in Egitto, che aveva sottomesso tutto il mondo; il secondo era un cretese, che aveva fondato i giochi olimpici; il terzo era il figlio di Alcmena e Zeus ed era nato poco prima della guerra di Troia. Per Cicerone, gli Hercules erano sei e di questi l’Egiziano era il secondo, il Tirio era il quarto ed il Greco il sesto.

Herakles / Faraone.
A prima vista, sembrerebbe non esserci molta affinità tra un eroe solitario e sommariamente armato ed i faraoni con i loro enormi eserciti. All’ undicesima e dodicesima dinastia, però, appartengono faraoni che furono divinizzati, nel cui elenco di titoli compare – spesso ripetuto – il termine Hr e che possiedono caratteristiche di mistura umana e divina, proprio come Herakles. All’apice della dodicesima dinastia divenne costume dei faraoni regnare contemporaneamente ai propri eredi, il che si accorda con l’associazione di Herakles in Egitto con la gloriosa progenie reale e dell’Herakles greco con gli altri eroi greci. Anche la caccia a grandi e pericolosi animali era uno sport diffuso tra i faraoni egiziani e da loro molto pubblicizzato. Ma vi sono altre attività, praticate dai faraoni nell’Antico e nel Medio Regno, che si accostano sorprendentemente ad un’insospettata abilità di Herakles: l’ingegneria idraulica.
Se si guarda al racconto del mito da questo punto di vista, si scopre quanto spesso ed abbondantemente l’acqua, in tutte le sue forme e manifestazioni (lago, mare, fiume, palude), vi compaia come protagonista. Compiere grandi imprese, uccidendo mostri terribili è routine, per un eroe; molto meno lo è scavare tunnel e canali. Eppure proprio in questo è spesso impegnato Herakles!
Spesso, il motivo reale, sottostante, è appena mistificato, dietro ad un simbolo trasparente. Nella seconda fatica, l’episodio del mostro Hydra (nome correlato all’acqua) simboleggia l’imbrigliamento con dighe di sette tributari di un fiume con lavori d’ingegneria idraulica: le teste che ricrescono magicamente, rendono bene l’immagine dell’acqua sfuggente, mentre supera gli sbarramenti insufficienti. La pulizia delle stalle di Augia, nella settima fatica, implica la deviazione dal proprio alveo di due fiumi, uno dei quali si chiama Peneo, forse dall’ egiziano P' nw (inondazione). Anche l’episodio dell’uccisione degli uccelli nella palude  di Stinfalo, che emettevano escrementi velenosi, simboleggia nella quinta fatica il risanamento idraulico di zone malsane. Nella decima fatica Herakles devia il fiume Strymon[27], per ricondurre a casa la propria mandria. Nell’ undicesima, uccide il mostro Ladon, che custodisce il giardino delle Esperidi. In miti ugaritici, che accostano Ladon a Hydra, Ladon (Ltn) è associato al dio sumerico del fiume Yamm[28]. Nella versione più tarda del mito, pertanto, oltre all’arricchimento con il tentativo di conquista dei frutti d’oro delle Esperidi, vi sarebbe una ripetizione dell’episodio con i rettili Hydra/Ladon, che d’altro canto potrebbe essere diventato un tema ricorrente, caratterizzante l’eroe: si pensi all’episodio dei due rettili strangolati nell’infanzia. Il nome di Herakles era anche accostato a lavori idraulici per riempire il lago Kopais,  deviando il fiume Kephissos[29]. Erodoto riporta che il re Min aveva eretto dighe di protezione per Menfis, nella zona del Delta. Asserisce che Sesostris utilizzò prigionieri per grandi lavori di costruzione e d’irrigazione, come anche Moeris (Amenemnet III), costruttore del Labirinto. Diodoro conferma quanto detto da Erodoto, aggiungendo che Moeris drenò il Fayum, usandolo per regolare le piene del Nilo.
Anche i faraoni dell’antico e del medio regno erano rappresentati con pelli di leone e con clave: la loro apoteosi avveniva già durante il loro regno, oppure subito dopo. È accettato che i primi lavori di drenaggio del Fayum avvennero attorno al 3400 a. C. grazie al primo faraone Menes, anche se la mole maggiore dei lavori avvenne nella dodicesima dinastia. Esistono prove archeologiche di dighe risalenti al 3000 – 2500  a. C. così come dei lavori di Moeris e di Senwosre I – III.
Insomma, al di là degli stereotipi letterari del mito (i nemici combattuti da Herakles appaiono subito antipatici e malvagi, colpevoli di qualche cosa e quindi meritevoli di punizione e di morte), l’acqua sembra essere sempre presente negli episodi salienti, di vita e di morte, che caratterizzano la storia dell’eroe Herakles. L’ipotesi che le grandi realizzazioni di alcuni faraoni abbiano contribuito alla formazione del mito va considerata seriamente.
Il fatto che la moglie divina definitiva sia Hebe (ex coppiera degli dei, sostituita da Ganimede dopo che si era ritirata da tale funzione, per servire soltanto la madre Hera) merita qualche attenzione. Come sempre, nel mito, sono possibili letture differenti: Hebe non significherebbe semplicemente “giovinezza”, come si è sempre detto. Il nome è stato messo in relazione con Hipta (che si ritrova in due inni Orfici) ed è stato dimostrato che deriva dal nome della moglie Hebat del dio della tempesta Tessub. Ambedue sono divinità Urrite, pertanto ciò costituisce un indizio che punta verso l’Anatolia ed il Caucaso. A corroborare questa tesi concorrono altri fatti: il nome di due città della Beozia, Thespiai e Thisbe, dove erano presenti in modo particolare i culti di Herakles, deriva presumibilmente proprio da Tessub. Nella Beozia dell’età del bronzo è credibile un’influenza Urrita, perché gli Hyksos, che colonizzarono l’Egeo, comprendevano anche elementi urriti (oltre che semiti, come molti toponimi ed idronimi greci dimostrano) e perché alla fine dell’età del bronzo è dimostrata un’effettiva influenza Anatolica. Essendo la Beozia una pianura alluvionale, non è necessario spiegare l’importanza dei lavori idraulici nella zona.
Tutto ciò non allontana la figura del nostro eroe dall’Egitto; semplicemente ci rende meglio l’intricata complessità della costruzione  del mito che lo caratterizza. Si cita soltanto di passaggio l’elenco delle somiglianze tra i lavori ingegneristici idraulici in Beozia e quelli Egiziani e la presenza della piramide greca di Anfione e Zeto, che hanno permesso ad alcuni di ipotizzare una qualche forma di sovranità o forte influenza egizia nella Grecia più antica.
Alcuni elementi sono indicativi: l’arrivo degli Hyksos nell’area Greca data intorno al 1800 a. C. . La citazione omerica ed esiodea dei miti correlati, di Posidone e delle Erinni come cavalli, fornisce la data del 1700 a. C., perché il cavallo – pur non essendo completamente sconosciuto prima, nell’area mediorientale ed Egea, fu introdotto in quel periodo. I miti di Ogigia, isola sommersa fiammeggiante sono più probabilmente stati ispirati dall’eruzione di Thera Santorini nel 1628 avanti Cristo…
Si può quindi affermare, circa l’arrivo in Grecia del mito di Herakles e dei miti correlati, che esso  risale, più o meno, alla svolta del secondo millennio, a differenza di altri, come quelli di Atena e Posidone, che possono essere anche più antichi.

Herakles e la Sardegna.
Ora, data l’età ragguardevole del mito, focalizzata la sua origine più verosimile ed identificato qualche momento fondamentale della sua formazione, non è, forse, possibile metterlo in rapporto con la Sardegna, vista l’antica data delle frequentazioni orientali dell’isola?
La risposta non può che essere affermativa, specialmente se si considerano i fattori che sicuramente parlano a favore.
La frequentazione  fenicia del Mediterraneo occidentale ha lasciato tracce evidenti, in tutta l’antica Tirrenia. Si pensi al passaggio dalla cremazione all’inumazione: questa ultima costumanza era fenicia. L’aruspicina etrusca era di provenienza  babilonese, ma mediata dai fenici. La porpora del laticlavio latino, la sedia curule, le collane d’avorio, erano tutti oggetti di potere trasmessi al mondo Romano attraverso gli etruschi dai fenici. C’è persino chi ha ipotizzato una controversa origine fenicia per il più antico tempio di Hercules, a Roma. Per brevità,  si tralasciano le parole latine che possiedono un’etimologia semitica (diretta, oppure mediata dall’etrusco o dal greco).
Circa la precedenza temporale della civiltà nuragica su quelle più storiche appena citate, non vale aggiungere altro a quanto già detto altrove. Il difficile è scoprire quali caratteristiche possedesse un eventuale mito di Ercole, in un periodo coevo, se non addirittura precedente, alla sua introduzione in Grecia…
Per quanto concerne le possibili relazioni dell’isola con l’Egitto, sono abbastanza probanti i numerosissimi oggettini egizi (scarabei, amuleti, monili) rinvenuti, per esempio, a Tharros. Il museo di Cagliari possiede alcuni cartigli di Menes, di Tutmosis III e IV, di Amenophis III, Seti I e Ramses. Se a questi fosse riconosciuta ufficialmente una validità di datazione cronologica, (come reclama il Carta Raspi) questi reperti ci porterebbero ad una data precedente alla svolta del quarto – terzo millennio avanti Cristo (tanto per intenderci, al Gilgamesh realmente esistito, prima della formazione del suo mito). Ma ci testimonierebbe anche un periodo di due millenni circa di contatti culturali stretti con l’Egitto e potrebbe farci propendere per un Ercole sardo con caratteristiche inizialmente egizie.
In conclusione, nell’affermazione che il mito di Ercole fu sicuramente presente anche in Sardegna, non è insito alcunché di sorprendente o di particolarmente rivoluzionario: ma quale Ercole questi fosse, è questione molto più ardua a risolversi.

Ercole / Sardus.
R. Carta Raspi nel 1971 identificava Sardus (Pater) con Ercole, contro la tesi popolare[30], che invece voleva Sardus come colonizzatore dell’isola, figlio o successore di Herakles, tanto che i greci ed i romani ne fecero un semplice eroe eponimo sardo. Per Raspi, Sardus fu invece un dio agrario della vegetazione, che i sardi avevano condotto con sé nella migrazione dall’oriente. In questi caratteri non vediamo grandi contraddizioni con alcuni dei tratti fondamentali di Herakles fecondatore dei campi con l’acqua. Raspi cita anche una dinastia di regnanti della Lidia, detta dei Sandonidi (gli Eraclidi) dal capostipite Sandan. Per la mutazione della n in r si avrebbe Sardan, Sardanos, Sardonidi, etc. Anche qui si ripeterebbe il tema della divinizzazione di una casa regnante: poco importa che sia posteriore all’arrivo dei Sardi in Sardegna.  Quindi, tutti i numerosi toponimi isolani che ne derivano, da Santadi a Capo Sandalo allo stesso Sandaliotin, antico nome dell’isola, deriverebbero da Herakles. Ci assicura che Sandalion era il nome di una delle isole di fronte alle coste della Caria, in Turchia e che l’equivoco tra il nome e la calzatura (sandalon) nacque probabilmente dal fatto che il sandalo era anche il simbolo identificativo del dio Sandan. Malgrado l’assenza di prove documentali, Raspi conclude che Sardus fosse una divinità preesistente, almeno in Sardegna, ad Herakles e Melqart e che da questi fu sostituito con il decadere del potere economico e militare dei sardi.
Alcune considerazioni possono, almeno in parte, confermare quanto sostenuto da Raspi.
Sandon, Sandan, Santas, Santa, era una divinità adorata sia in Cilicia, sia in Lidia, non lontano dal fiume sacro Xanthos, nella Troade. In Cilicia, a Tarsos, ogni anno veniva bruciata un’effigie del dio su una grande pira. Il culto, pur conservando caratteristiche asiane, era chiaramente correlato al Melqart di Tiro. Quest’ultimo veniva bruciato annualmente in una festività d’inizio primavera, correlata con la resurrezione, che in Grecia era definita il “risveglio di Herakles”. Ora, questo tipo di cerimonia può correlarsi ad un’ampia gamma di feste religiose diffuse dalla Mesopotamia alla Spagna: è coerente con divinità del ciclo agrario e con il ricordo del sacrificio di Herakles sul monte Eta[31]. In Macedonia una festa analoga era chiamata Xanthicà ed il mese d’inizio primavera, in cui si teneva, Xandicòs.
Xanthos, quindi, non si riferiva soltanto al colore giallo[32]. In realtà, significava giallo, bruno e sacro, consacrato attraverso il fuoco. Possiede una connotazione di fragranza, specialmente delle carni cotte. Xanthos, “nel linguaggio degli dei” era il fiume Scamandro. Era considerato il figlio sacro di Zeus.  Era associato con fuoco e fiamme, cosa poco adatta ad un semplice fiume. Insomma, il vocabolo xanthos possedeva qualità, tutte desiderabili, di divinità e magia, associate a quelle della luce e del fuoco, della cottura[33] e degli aromi. Il vocabolo viene usato per descrivere i capelli di Achille, di Demetra e di Menelao. Se, almeno per  il primo, si può pensare che il colore chiaro renda bene l’immagine leonina del guerriero, per gli altri due è forse la natura divina che si vuole intendere.
Eudosso[34] spiega un aneddoto in cui l’Herakles fenicio, ucciso in Libia da Tifone, viene risvegliato dal profumo di una quaglia arrosto, che il fedele Iolao gli fa annusare: simboleggerebbe il risveglio della divinità in seguito allo spargersi del profumo dell’offerta e dell’incenso. Ma spiega anche il quesito umoristico/iniziatico dell’epoca: perché una quaglia è più forte di Herakles?[35]
Sappiamo, dai resti del naufragio di Ulu Burun, del quattordicesimo secolo avanti Cristo, che sntr veniva importato in grandi quantità in Grecia nell’Età del Bronzo[36]. Sntr era la resina del terebinto siriano, di colore giallastro bruno, usata come incenso. Il verbo semitico sta per “consacrare attraverso il fuoco e l’incenso”, intendendo forse che i fumi speziati, ascendendo al cielo, possono comporre felicemente le suppliche umane con i capricci divini[37]. Per alcuni xantho (e quindi anche Sandon, col significato di Ercole) deriverebbe da sntr, con grande accuratezza semantica, seppure con qualche difficoltà fonetica.
In conclusione, l’origine della parola stessa sarebbe semitica, siriana ed i concetti che per traslato essa finirà per descrivere, anatolici.
Le prove documentarie sono abbastanza ridotte, in Sardegna, ma significative.
Le tracce sporadiche e dubbie di presenza umana in età paleolitica (450.000 – 150.000 a.C.) non possono essere messe razionalmente in relazione con la formulazione di miti. I resti preneolitici (come ad esempio quelli della grotta Corbeddu) possono rinforzare ipotesi di contatti trans tirrenici e suggerire forse la prima formulazione di miti semplici, come quello del Grande Cacciatore  e dello Sciamano, che più probabilmente, però, appartengono ai periodi successivi.
La Sardegna del Neolitico Anteriore (circa il VI millennio, con gli insediamenti in grotta, l’economia già basata su allevamento, caccia e pesca, il commercio dell’ossidiana e della selce), ci mostrano una società più evoluta, con capacità e contatti multipli, con la possibilità, quindi, di mediare dall’esterno e di rielaborare temi filosofici e schemi di pensiero  più complessi. La dipendenza da fattori astronomici ed atmosferici, ciclici e prevedibili, deve avere stimolato la ricerca di un accordo con entità divine, presso le quali garantirsi un buon raccolto, un fiume non in magra né troppo in piena. Questo è in perfetto accordo con la creazione di potenti divinità agrarie. Il processo deve essersi perfezionato, e sicuramente completato, con il Neolitico Medio (Bonu Ighinu, comparsa di stanziamenti all’aperto, ampliamento della commercializzazione a Corsica e Francia, presenza di ceramiche raffinate), in cui è ormai documentata l’evoluzione nel settore artistico e religioso. Con il Neolitico Recente compaiono villaggi con capanne del tutto simili a quelle nuragiche, necropoli, (domos de janas), in numero tale da suggerire un aumento demografico di rilievo. La ceramica richiama motivi egeo orientali (Creta, Cicladi), compare la protome bovina, anch’essa correlata a culti orientali (Egitto, Creta). Quando il III millennio volge al termine, ecco comparire il Megalitismo, (altare di Monte d’Accoddi), i circoli tombali (Arzachena, Li Muri) le tombe a circolo (Goni), i menhir. Dalla metà circa del III millennio, fino al II millennio, l’Eneolitico vede comparire (Cultura di Monte Claro e Campaniforme), oltre al metallo, corredi funebri  in domus riutilizzate ed ampliate, menhir figurati, con attributi più spesso maschili ed un doppio pugnale, riferimenti figurati al mondo dell’aldilà. L’Età del Bronzo sardo, quindi, vede una società articolata e complessa, in possesso di tradizioni che sono già antiche allora: la manciata di neve che costituisce il cuore del mito arcaico, è stata fatta rotolare per qualche millennio, arricchendosi così di strati nuovi e di differente provenienza, fino a che quel piccolo cuore iniziale è diventato insospettabile ed ormai irreperibile. Il processo d’arricchimento del mito non si arresta certo nel 2000 a.C, con la costruzione dei Nuraghi e delle tombe dei giganti.  E’ questa la vera Civiltà Nuragica, di cui, in fondo, sappiamo assai poco, tanto da non potere neanche affermare con certezza se essa abbia prodotto un Ercole nuragico. Probabilmente, però, la brillantezza della divinità che rappresenta l’eroe viene lentamente ad offuscarsi anche altrove, fino ad essere quasi sostituita, con la comparsa del ferro. L’influenza di una gente che combatte con la spada, invece che con la clava, e che procede a cavallo e sul carro, invece che a piedi, è troppo forte per non farsi sentire anche nei luoghi della mente. È la discendenza che creerà il mito di Teseo, più recente e appunto meglio armato, di Herakles. Il mito di Teseo non entrerà in Sardegna, ma al suo posto s’introdurrà una nuova divinità dell’acqua (che resta sempre di primaria importanza, nell’isola, come altrove), onorata con riti diversi dai precedenti, presso le fonti ed i pozzi sacri edificati all’uopo: qualcuno lo identifica con Baki, Dioniso[38]. Resta sempre forte il contatto col mondo orientale, dal Miceneo in poi, anche se il Megalitismo ha costituito un fenomeno culturale e religioso d’importanza ed estensione pan mediterranea. Restano mille domande. Chi ha distrutto i nuraghi, che portano tracce archeologiche evidenti di distruzione voluta dall’uomo? Chi ha costruito i “villaggi nuragici” sopra i nuraghi stessi, usandone senza rispetto né devozione le parti costitutive? Chi ha costruito i pozzi sacri e le successive capanne per riti lustrali[39]? Qualcuno sostiene che si tratti di una popolazione differente dai Nuragici: gli Shardana[40].
La Sardegna esce, infine, dalla preistoria: ma le strade del mito restano misteriose e costellate di enigmi e indovinelli.
Si può sempre tentare di risolverli, mai avere davvero la certezza della soluzione.
Perché mai una quaglia è più forte di Herakles?
Alcuni punti fermi si possono tentare: il mito è sicuramente presente in Sardegna nella sua forma fenicia, greca e romana. Resta da fare chiarezza intorno a Sardus.
Il massimo studioso italiano di storia delle religioni, Raffaele Pettazzoni[41] concludeva che “Sardus Pater appare in sommo grado penetrato di elementi animistici, anzi sepolcrali. Capo di quegli eroi che non sono altra cosa dagli spiriti degli avi, il dio sardo è un dio mortale: dalla sua tomba nasce il suo tempio (sepulchro eius templum addiderunt); e come presso le tombe degli avi (le tombe dei giganti), così nell’atrio del suo santuario si sarà praticata l’incubazione… E domina egli solo: non è primum inter pares. Non ha altri dei accanto. E in realtà la religione sarda non fu davvero, a quanto sembra, un politeismo… Un dio sommo, che accoglie in sé i tratti dell’essere supremo, padre della nazione, guaritore delle malattie, difensore della lealtà, punitore dello spergiuro, emanante da sé una figura di demiurgo benefattore. Ma accanto a lui esiste, nella coscienza religiosa dei Sardi, una collettività di figure inferiori. E questi sono gli avi eroizzati”. Conseguentemente, la religione primitiva Sarda sarebbe la dimostrazione di come si avvera quel processo, che – dal culto dell’avo, attraverso il culto dell’eroe – assurge infine al culto del dio[42]. Non tutto ciò che e stato proposto da Pettazzoni, tanti anni fa, può essere accettato in modo acritico oggi[43]. Altri sostengono che Sardus fosse identificabile con la divinità Filistea Dagon, che è più simile allo Zeus Kretagenes, il quale, per quanto molto differente dallo Zeus della mitologia classica (sede dei riti in una caverna di monte Ida, tomba di un dio mortale), certamente non è un Herakles. In più, lo stesso Pettazzoni sovrapponeva le qualità e le attribuzioni di Sardus, Iolao ed Ercole.
Comunque, non è verosimile affermare, come fa Carta Raspi, che Sardus fosse più antico del vetusto mito di Ercole, con qualsiasi suo nome. Considerata la migrazione dei Nuragici, è possibile, invece, che Sardus possa esserne una delle numerosissime filiazioni e varianti, condotta in Sardegna e fusa con i miti più primitivi e più spontanei. Si deve anche pensare in quale fase di maturazione fosse il mito di Ercole, quando i Nuragici giunsero in Sardegna, eventualmente portandolo con sé. Si deve considerare, infine, da quale regione i Nuragici partirono. A tali complessi quesiti si è cercato di dare un’ipotesi di risposta nei tre precedenti articoli apparsi sotto il titolo generico di Orizines[44].
Ma l’etimologia semitica del nome Sandon e la presenza anatolica della stirpe che lo portava danno indicazioni rilevanti.
Anche Erodoto fa due citazioni al riguardo. Nella prima, riferisce di un famoso saggio lidio, di nome Sandani, che cerca inutilmente di dissuadere Creso dal portare guerra contro Ciro ed i Persiani.[45]. Il consiglio, espresso in belle parole convincenti ed articolate, resterà inascoltato ed il regno di Creso andrà perduto, dopo 14 anni di regno e 14 giorni d’assedio[46]. Nella seconda, descrive la conquista di Sardi, la capitale del regno e città di Creso, avvenuta per mezzo della scalata del muro dal lato più scosceso dell’Acropoli, dove non erano state messe neppure sentinelle. Questo, l’unico punto del perimetro dell’Arce ritenuto sicuramente imprendibile, era stato pertanto l’unico dove Meles, antico re di Sardi, non aveva fatto passare il leone. Una profezia dei Telmessi[47] sentenziava infatti che la città non sarebbe caduta, se si fosse fatto passare un leone lungo tutte le mura.
Ora, perché il leone? Il leone era il simbolo consacrato ad Heracles – Sandon, protettore della città, tanto che compariva anche sulle monete coniate da Sardi.
Si tratta di due accenni sfumati, come si noterà, ma sono convincentemente consistenti con luoghi, miti e nomi in molti modi e, pertanto, costituiscono indizi pertinenti, se non prove.
Erodoto, però, aggiunge chiaramente, citando le parole della Pizia, che Creso doveva scontare la colpa del suo IV ascendente, Gige, perché questi aveva ucciso Candaule, discendente degli Heraklidi, prendendogli il regno e la moglie. E spiega anche come Creso fosse stato ingannato dalle parole oblique di Apollo, quando gli aveva predetto che “se avesse mosso guerra a Ciro, avrebbe distrutto un grande regno”. Il grande regno era in realtà proprio quello di Creso, non quello di Ciro[48].

Inoltre, vi sono le successive possibili sovrapposizioni culturali.
Il fatto che una presenza “fenicia” sia documentata almeno dall’VIII secolo a.C., fa presumere che anche le caratteristiche di Melqart fenicio si siano sovrapposte e mescolate a quelle precedenti eventualmente presenti dall’epoca preistorica. A prescindere dagli eventuali errori della “feniciomania”, che ha interpretato entusiasticamente in chiave fenicia anche ciò che era più realisticamente Sharadana  o Peleset (Filisteo), in Sardegna sono attestati i culti di Baal Hammon, Tanit, Melqart, Astarte e Baal Shamem[49]. Nella medesima direzione indicherebbero anche la presenza del campo fortificato di Monte Sirai (VII secolo a.C.), dei templi di Antas (VI sec. A. C.), del cosiddetto tempio di Bes a Bithia (IV sec.) e del cosiddetto tempio di Eshmun a Nora, oltre a molti dei simboli religiosi rinvenuti in Sardegna, non ultimo il  misterioso“segno di Tanit”[50]. 

Qual’era il mito preesistente? La presenza ingombrante d’edifici come quello di Monte d’Accoddi[51], non dice molto, ma lascia immaginare che da un oriente già molto organizzato potessero essere giunti anche culti complessi e strutturati, che furono forse accolti e perpetuati. Non si devono, infatti, sottovalutare le capacità di sopravvivenza di tradizioni parareligiose, che noi oggi definiremmo semplici superstizioni: da Arslan Tash, nel Nord della Siria, provengono due iscrizioni su amuleti redatti in fenicio, diretti a neutralizzare i poteri malefici d’entità sovrumane chiamate “le Volanti”, “il Succhiatore”, “le Strangolatrici”, nocive per l’uomo ed in particolar modo per le partorienti. Fino a qualche tempo fa era viva in Sardegna la credenza dell’esistenza delle Surbili, personaggi inquietanti con caratteristiche molto simili, se non identiche…

Riassumendo: possediamo poche intuizioni e molti quesiti sull’esistenza di un Ercole nuragico, alcuni seri dubbi sul fatto che quello shardana sia veramente identificabile con Sardus (che però è sicuramente un personaggio correlato all’etnia) e persino su chi abbia portato Melkart nell’isola.
Molto meno sono i dubbi circa Herakles greco ed Hercules latino, in un periodo più tardo e più ricco di documenti.
Sappiamo da Tolomeo che l’isola dell’Asinara si chiamava Heraclea Insula (forse per un tempio a lui dedicato), come molti altri posti siti presso il mare, o presso altre acque in tutta l’Europa: un porto d’Ercole si trovava probabilmente tra Bithia e Nora ed una stazione ad Herculem sulla strada  a Karalibus Turrem (S. Vittoria di Osilo?). Secondo Stefano di Bisanzio (VI sec d.C.) 23 città costiere erano state battezzate Eraclea, nel Mediterraneo, lungo i percorsi del mito ed una di esse si trovava in Sardegna. Ercole era probabilmente la divinità protettrice di almeno due città sarde: Olbia e Padria (Gurulis Vetus), che ospitavano santuari a lui dedicati, come si è dedotto dalla statuaria votiva minore dedicata che vi si è rinvenuta. Altre località sarde hanno prodotto reliquie votive relative al mito di Ercole: una bellissima lucerna è stata reperita a Tharros ed un affresco nell’antichissimo ipogeo di San Salvatore di Cabras mostra Ercole che strangola il leone nemeo. Il famoso bronzetto dell’Ercole detto “di Siniscola”, completo di clava[52] e di Leontea, risalente al IV secolo, fu rinvenuto in una zona che era consacrata da tempi remoti proprio alla dea delle acque Feronia, come anche antiche testimonianze (Tolomeo III, 3, 4) e recenti interpretazioni (Della Marmora, II, 321, 326) fanno pensare, oltre alla natura del luogo stesso, che è fertile, solcato da numerosi corsi d’acqua ed in passato soggetto ad inondazioni stagionali.
Inoltre si tratta di un luogo verosimilmente adatto a servire, precedentemente, da scalo e punto di contatto tra Shardana ed Etruschi, il che giustificherebbe la presenza isolana del mito peninsulare[53]. Tutto ciò fa pensare che il mito locale tardivo di Ercole fosse ancora in perfetta sintonia con i caratteri di quello originale orientale[54], anche se ormai in epoca molto più vicina a noi…


Conclusioni.
Il mito di Ercole è un coacervo di miti primitivi differenti e di fortunati topos letterari in voga già da epoche antichissime ed in paesi diversi. Prende verosimilmente le mosse dalle semplici figure del Grande Cacciatore e dello Sciamano, costantemente presenti in tutte le culture umane, non solo ai primi stadi. Le coniuga ad alcuni temi esistenziali fondamentali, da sempre ed ovunque sentiti come più pressanti dall’Uomo. Vi si sovrappone una serie di qualità di potenza benefica e protettrice, di forza bruta distruttrice ed incontenibile e di realizzazioni di grandi imprese impossibili e d’opere utili, generose, mirabili. Il mito assume caratteristiche sempre più compatibili con la sacralità ed insieme il timor panico che l’uomo prova di fronte all’acqua, che dà tutta la vita, ma tutta può toglierla, a buon diritto, senza apparente fatica, in un attimo. Il senso propagandistico dei regnanti delle antiche Civiltà Idrauliche, ed insieme la loro vanità, fanno sì che essi s’impossessino delle desiderabili qualità iniziali del mito e vi aggiungano l’elenco delle proprie realizzazioni sociali e delle conquiste materiali, magnificandole come opere di un solo uomo semidivino. La rappresentazione grafica allora diviene identica, per il regnante e per il mito, le attribuzioni ed i titoli si confondono. La divinità si configura e si rivela sempre più precisamente come una divinità dell’acqua. Il nome del mito compiuto viene allora tradotto in diverse lingue, dato che il fascino della sua fama e fortuna travalica i confini dei semplici stati: si creano così sinonimi e sosia, che ricevono un lungo tributo di culto e devozione, tramandati con modi e simboli anche molto differenti, di alcuni dei quali possediamo, fortunosamente, più notizie. Per ciò che riguarda la Sardegna, una disarmante scarsità d’indizi, peraltro inquietanti, si può riassumere nel passaggio repentino e violento tra clava e spada, tra nuraghe e pozzo sacro, supportato da prove archeologiche certe, e che nella trasposizione del mito ellenico vede arrestarsi lo sviluppo della figura di Ercole e nascere prepotente il mito di Teseo. Uno dei tanti nomi del mito, infine, risulta essere correlato ad una dinastia regnante anatolica, e sembra appartenere alla serie di termini da cui è derivato proprio all’isola sarda uno dei suoi appellativi più antichi (Sandaliotin), oltre a quello attuale di Sardegna.
In quest’ultimo fatto, possiamo volentieri riconoscere a Sardus, sia esso davvero Ercole, oppure una divinità locale, o un semplice mitico eponimo sardo, ciò che davvero costituisce uno dei tratti più tipici del mito umanissimo ed antico del grande eroe, da Gilgamesh a Melqart, fino ad Herakles: la capacità sovrumana di resistere nel tempo, oltre la morte delle cose e delle aspirazioni degli uomini. E di arrivare sino a noi, anche se soltanto per lasciarci nel dubbio di tante domande senza risposta e di un quesito arguto ed ammiccante, irriverente e ghiotto: perché una quaglia è più forte di Ercole?


P.S. Questo articolo possiede uno scopo meno vago del semplice divulgare un enigma divertente. Ercole non è mai esistito, ma il suo mito costruito dagli uomini sì: e ci aiuta a ricercare tra i resti confusi del nostro comune passato, forse per riuscire a mettervi un poco d’ordine, forse per comprendere un po’ meglio perché siamo oggi quello che siamo. Forse, anche, per aiutare i più saggi tra noi, ad evitare gli stessi numerosi sbagli di cui siamo stati stupidamente responsabili, se è vero che chi non conosce il passato è destinato a ripeterne gli errori.

Le “Colonne d’Ercole” sono certamente anch’esse un mito, un luogo della mente e rappresentano il concetto dell’ignoto. Qualsiasi altra definizione fisica reale è destinata ad essere superata e contraddetta, prima o poi. 
Inizialmente erano, forse, solo le colonne del tempio di Melqart (prima a Tiro, poi a Malta ed  in Libia), la separazione tra ciò che è umano, profano e mortale e ciò che è divino, sacro ed immortale. Poi, con il tempo, ovviamente si sono spostate con i confini esplorati, segnando il limite tra noto ed ignoto, oltre che tra immanente e trascendente. 
Per ora, almeno, le nuove colonne si trovano entro il Sistema Solare…
Chi vorrebbe dimostrare che Atlantide sia realmente esistita, dovrebbe provare anche a cimentarsi con altri luoghi leggendari simili, come l’isola sottomarina fiammeggiante di Ogigia. 
E probabilmente lo farà, almeno finché la credulità dei lettori alimenterà una molto remunerativa attività commerciale…




[1] Secondo altri, un mostro a nove teste, di cui sette serpentiformi, custode delle mandrie di Gerione.
[2] E’ rimasta una voluminosa aneddotica “minore”, da una mole originaria presumibilmente molto vasta e disomogenea, di carattere vario: ora umoristica e popolare, ora iniziatica, o simbolica.  Tutto il mito, poi è stato lungamente rielaborato.
[3] Herakles diventa così l’uomo eroico che ha viaggiato agli estremi limiti del mondo, dalla Colchide alle Esperidi, pur con grandi sofferenze e limitazioni, che gli vengono dalla sua natura non completamente divina.
[4] Walter Burkert.  1985, pag 209. Anche gli Egiziani stessi calcolavano, al tempo di Erodoto, che fossero trascorsi 17000 anni da Ercole al regno di Amasi, ultimo nelle dinastie egiziane (Erodoto, Storie II 43).
[5] Odierna Warka, la biblica Erek, nel sud del paese, presso l’incrocio dei due fiumi: un Gilgamesh ne fu il quinto regnante documentato.
[6] Le notizie qui riportate sono tratte dalla traduzione a cura di N.K. Sandars, del 1986. Ma il lavoro di traduzione e riordinamento del racconto, scritto su tavolette d’argilla, largamente incompleto e forse destinato a restare tale, continua ancor oggi, dal 1928, quando Campbell Thompson ne pubblicò per la prima volta il testo.
[7] C’è chi penserebbe ad un’Atlantide ante litteram. È evidente, invece, che ci troviamo ai confini del mondo conosciuto ai tempi del racconto e stiamo per andare anche oltre i confini dell’umano. Si tratta soltanto di un topos che avrà lunga fortuna di gradimento presso il pubblico. Anche oggi, qualunque pubblicazione, che citi temi d’affezione fantastica, come le Colonne d’Ercole o Atlantide, è destinata ad immediato successo economico. Un tempo era di moda, per persone di grande notorietà e valore, l’essere stati abbandonati neonati in una cesta di vimini su di un fiume ed essere sopravvissuti: si tramanda che accadde a Sargon, a Mosè e a Romolo! 
[8] Un pessimismo proprio anche degli Etruschi, che molto devono alla Mesopotamia, e che è invece assente in altre popolazioni, ad esempio gli Egizi.
[9] S. Seminara, “L’immortalià dei simboli da Babilonia ad oggi”, Ed Bompiani, 2006. Ninurta sembra un’edizione in bianco e nero, senza sonoro, di un film, i cui remake successivi acquisiscono sempre più numerosi effetti speciali, fino a quelli più sofisticati delle ultime versioni del mito.
[10] Come Melqart era il Baal di Tiro, Adonis era il Baal di Biblo, Eshmun quello di Sidone: ambedue avevano culti di risurrezione e furono spesso confusi ed identificati con Melqart/Herakles dai mitografi contemporanei occidentali.  Hiram I, nel X sec a.C. celebrò per primo il rito di Melqart che risorge, secondo Giuseppe Flavio.
[11] Erodoto, II, 44.  Il tema delle due mastodontiche colonne ricorreva anche in altri templi: quelli di Biblos, Paphos e Telloh. Secondo alcuni, le due colonne del tempio di Salomone, Iachin e Boaz, erano isolate, e non addossate al tempio. La Jewish Encyclopedia (1901-1906) ritiene che tutte queste colonne fossero simboli fallici.
[12] La Bibbia, I Re,  2.1    7.12. Salomone ingaggiò settantamila portatori, ottantamila scalpellini e tremilaseicento sorveglianti, cui vanno aggiunti coloro che lavoravano al servizio di Chiram di Tiro, a partire da coloro che tagliarono il legno di cedro del Libano, quelli che lo trasportarono, fino agli artigiani ed all’esperto “capocantiere” Curam-Abi.  Una splendida descrizione d’imponenza. Ispirate al tempio di Tiro erano anche le decorazioni: le palme e i cherubini; l’altare di bronzo era di sicura influenza Fenicia, perché gli altari israelitici erano di terra o di pietra grezza.
[13] Nove metri e dieci d’altezza, circa, (capitello escluso) e cinque metri e quaranta, di circonferenza. In realtà, nel mondo Siro Mesopotamico erano, allora,  molto in voga le grandiose fusioni di bronzo, destinate ad edifici pubblici e religiosi.
[14] Erodoto, II, 44.
[15] Levy, 1934, p 48.
[16] Seyrig, 1944 – 5; Dussaud, 1946 – 8; Brundage, 1958.
[17] Abilissimo, capace di camminare sulle acque, fece innamorare di sé Eos (l’Aurora), fu fatto uccidere con un inganno di Apollo, proprio dalla sorella Artemide, anch’essa grande cacciatrice, che non potè più salvarlo in altro modo, se non trasformandolo nella costellazione omonima.
[18] Giudici 15:9-20. È conservata, quindi, una relazione dell’eroe con l’acqua. Ricorda l’episodio in cui il fiume Dire sgorga dalla terra, per soccorrere Heracle in preda alle fiamme (Erodoto, Storie, VII 198).
[19] Dio semitico, relativo al grano ed all’agricoltura, venerato dagli Amoriti (Mari, 2600 a.C.) e dai Filistei biblici.
[20] Erodoto cita anche un episodio della vita di Ercole in cui questi viene catturato dagli Egiziani e per liberarsi ne uccide un gran numero.
[21] “Rabbia di Hera”, oppure “Offesa di Hera”sarebbero stati termini più adatti. A meno che non si consideri che Era, in origine, era venerata come divinità dell’acqua (rapportabile all’Accadico Haarru, “corso d’acqua”) ed in questo caso il nome di Herakles, inteso come divinità dell’acqua, acquista un senso compiuto.
[22] M. Bernal, Black Athena. Vol II, Cap II, “ The Sumerian and Semitic origins of Herakles” -Rutger’s University Press  - 1987.
[23] Il Poema di Erra, I, 109 - 110. La complessa simbologia sumera richiederebbe una lunga trattazione.
[24] Erodoto, II 43. 
[25] Ad esempio, nel caso dell’origine orientale degli Etruschi; vedi S. A. N° 31.
[26] Era anche convinto che Alkmena ed Anfitrione fossero egiziani.
[27] Il fiume Struma scorreva nell’antica Tracia, oggi segue quasi il confine tra la Bulgaria e la Macedonia di Skopije, sfociando nel nord dell’Egeo, presso il monte Pangeo e non lontano dalle isole di Taso e di Lemno. La valle dello Struma, come la Sardegna è un’area gozzigena: da lì deriva il vocabolo medico per gozzo, “struma”, (sostantivo femminile, anche se la maggior parte dei medici lo ignora). D. Mitova Dzonova vi ha scavato e descritto il pozzo sacro di Garlo, presso Sofia, antica Sardica. Nella zona esistono costumi simili ai “Mamuthones”, canti simili al “canto a tenores”.
[28] Rachel Levy, 1934 – Rendsburg 1984, Interpretazione dei sigilli  mesopotamici di Tell Asmar, III millennio
[29] Pausania, I, 38, 7 e Strabone, II 4, 11.
[30] Pausania ne fa un figlio di Maceride, quest’ultimo identificato con Herakles. I più lo identificano proprio con Iolao.
[31] Nelle monete coniate da Azio Balbo, infatti, Sardus Pater sarebbe rappresentato con una corona di spighe e – talvolta – sul retro è rappresentato un aratro. Secondo altri, invece, si tratterebbe di una corona piumata, come quella che caratterizzava i popoli del mare rappresentati sui bassorilievi di Medinet Habu in Egitto.
[32] Platone, quando ormai la parola definiva soltanto un colore, descriveva “un misto di fiamma rossa e di brillantezza bianca”. Timeo, 68 B.
[33] Aristofane, negli Acarnesi, 1106,  descrive un piccione arrosto come “bellissimo e xanthos”, in un contesto che suggerisce una fragranza, più che un colore.
[34] Citato da Ateneo, 9: 4 -7 e Zenobio 5: 15. Zenobio, in 4: 79, cita anche il proverbio: “Una quaglia salvò il forte Ercole”, perché Iolao lo avrebbe fatto resuscitare dalle sue ceneri dopo morto, arrostendogli una quaglia, (che ad Ercole piaceva moltissimo).
[35] Tifone traduce la divinità egizia Seth, collegata ad un’altra divinità che risorge dopo la morte, nel culto d’Iside – Osiride.
[36] Bass, 1991; 1997, 87. Descrizione di un relitto presso le coste meridionali della Turchia.
[37] Utnapishtim, per ringraziare della fine del Diluvio, brucia “legno e canna e cedro e mirto. Quando gli dei fiutarono il dolce profumo, accorsero come mosche sopra al sacrificio”.
[38] Non a caso, si tratta di un altro dio che muore e che risorge. Altri lo identificano con il dio sumerico delle acque sotterranee Enki (Dimitrina Mitova – Dzonova, origine e natura dei pozzi sacri protosardi; IVRAI. 2006).
[39] G. Manca, “Protomi, bacili e riti lustrali a Sedda sos Carros (Oliena); “Il tempio a pozzo di  Sa Linnarta (Orosei)”; “Il mito dei giganti e il Nuragico”. Sard. Antica.
[40] M. Rassu, “Sardana e Filistei in Italia”  2003, Ed Grafica del Parteolla. Due possibilità soltanto sono compatibili con i dati di genetica delle popolazioni: a) Nuragici e Shardana erano popolazioni geneticamente affini, oppure, più credibilmente, seppure molto orribilmente, b) si è verificato un vero genocidio dei Nuragici propriamente detti, da parte degli Shardana. Probabilmente, si dovranno riscrivere alcuni capitoli della storia presunta della Sardegna, accorciando il periodo Nuragico, dando spazio a Shardana e Peleset, riducendo quello accordato ai Fenici. Si otterrà forse così più luce e chiarezza per le popolazioni citate, ma presumibilmente i Nuragici usciranno da questo processo più misteriosi e sconosciuti di quanto non fossero già. Molto resta oscuro.
[41] 1883 – 1959. Cattedratico a Bologna e poi a Roma, presidente dell’Associazione Nazionale di Storia delle Religioni, Ispettore del museo Etnografico Pigorini di Roma, Direttore della rivista internazionale “Numen” e di varie collane di studi analoghi, autore e curatore di numerosissime opere, tra cui quella citata: “La religione primitiva in Sardegna”. Ristampa anastatica – Ed. C. Delfino.
[42] Qui sono presenti, in nuce, i motivi controversi della teoria sulla destinazione dei Nuraghes, dei pozzi sacri, delle funtanas cubertas, dei riti dell’ordalia, dell’incubazione, oltre a molti altri numerosi spunti interessanti e ancora irrisolti sulla civiltà nuragica, con cui si sono in qualche modo confrontati tutti gli autori, che hanno in seguito scritto sulla Sardegna.
[43] La maggioranza attribuisce ai Sardi antichi un politeismo, più che un monoteismo.
[44] Vedi Sardegna Antica N°18, 19, 31.
[45] Erodoto, Storie, I, 71. “O re, tu ti prepari a muovere guerra contro uomini che vestono di cuoio; che mangiano non ciò che vogliono, ma ciò che hanno, perché il loro paese è pietroso. Uomini che non devono vino, ma acqua, che non hanno fichi, né alcun’altra cosa buona. Orbene, se tu vincerai, che cosa toglierai a gente che non ha niente? Pensa invece a quello che perderai se sarai sconfitto: non sarà più possibile allontanarli, quando avranno gustato i nostri beni. Io, per conto mio, sono grato agli dei che non mettono nell’animo dei Persiani l’idea di muoverci guerra per primi”.
[46] Erodoto, Storie, I, 86.
[47] Città lidia, allora famosa per i suoi indovini.
[48] Erodoto, Storie, I, 91
[49] M. G. Amadasi Guzzo et al.:  “Dizionario della Civiltà Fenicia”. Ed Gremese, 1992.
[50] Non esistono esplicite prove che connettano il segno grafico alla dea Tanit.
[51] Una piramide a gradoni, l’unica sarda, antica, enigmatica, discussa,  “scomoda”. Fu distrutta e ricostruita: buon terreno per la fantarcheologia. Probabilmente, un “luogo alto”, per un culto d’origine orientale.
[52] In realtà il braccio destro è atteggiato come a tenere una clava, che però è andata perduta. Pare  che la statuetta, di stile campano, sia stata portata da plebei romani in fuga perché debitori insolventi.
[53] Feronia è una dea italico – etrusca (i Romani la credevano sabina, il nome, secondo M. Pittau è etrusco) della fertilità, protettrice dei boschi e delle messi, celebrata dai malati e dagli schiavi fuggiaschi che hanno ottenuto la libertà. S’ipotizza che il luogo sacro isolano fosse presso l’attuale Posada, in una delle numerose località sicuramente usate come fondaci, di cui si ha ancora notizia, senza poterne trovare tracce archeologiche: Feronia, Arischion, Loquilla, Stellaya.
[54]Sulla spiaggia, c’era e c’è tuttora il tempio di Herakles: chi vi si rifugia, di qualunque uomo sia schiavo, purché si faccia imprimere i sacri segni consacrandosi al dio, non può essere toccato da alcuno. È questa una consuetudine che si è conservata tale e quale dagli inizi sino a noi” Erodoto, Storie, II 113 – Mentre descrive il vero epilogo, alle foci del Nilo, della fuga di Alessandro (Paride) ed Elena, diverso da quello tramandato da Omero.