Ricetta per una quaglia che vinca il fascino del
cacciatore: “Mescolare l’acqua dolce con il mito di Ercole, sparso per bene
nell’area del Mediterraneo, insieme a incenso, miele e terebinto…”
di Maurizio Feo
Herakles fu il maggiore eroe greco, un eroe tebano
semidivino, venerato come simbolo di forza e di coraggio, ma fu anche divinità
olimpica ed ebbe una lunga fortuna di devozione in molti paesi dell’area
mediterranea. Sotto la superficie del mito, cercando oltre la semplice storia
da focolare, si scopre molto di più di quello che colpisce subito la nostra
fantasia, dopo avere affascinato molte generazioni, prima di noi... Si
percepisce, per esempio, che gli scambi interculturali nell’area del
Mediterraneo antico furono molteplici e frequenti, anche da prima dell’età del
bronzo.
Il mito, in breve.
Ermes ordina a Helios di trattenere i suoi cavalli,
ritardando in tal modo il sorgere dell’alba, cosicché Zeus (sotto le mentite
spoglie del marito reale) possa restare più a lungo con Alcmena, sposa di
Anfitrione, figlio di Alceo e nipote di Perseo. Nella lunga notte che ne
risulta, è concepito Herakles. Dal marito legittimo nascerà poi Ificle, che
diventerà amico di Herakles. Per Hera, invece, Herakles altro non è che la
prova vivente dei tradimenti di Zeus, per cui gli sarà nemica. Quando Zeus
annuncia agli Dei che sta per nascere un discendente di Perseo, destinato a
dominare tutti quelli della sua stirpe, Hera – per vendetta – ritarda il parto
di Alcmena, in modo che poco prima di Herakle nasca Euristeo, figlio di
Steselo, anch’egli nipote di Perseo. In tal modo, Euristeo sarà l’annunziato re
di Micene e potrà imporre la propria volontà ad Herakles.
A soli 8 mesi, Herakles strangola due serpenti inviatigli
nella culla da Hera. Della sua
educazione si occupano Castore, Chirone e Lino. In un accesso d’ira, (voluto da
Hera, ce ne saranno altri) per la critica al suo modo di suonare la lira,
Herakles uccide Lino, rompendogli la lira sul capo. Una delle sue prime imprese
è l’uccisione di Ergino, re di Orcomeno, che pretendeva un tributo di cento
buoi dai tebani. Il re di Tebe premia Herakles dandogli la figlia Megara in
sposa. In un accesso di follia, Herakles uccide moglie e figli. Quando si reca
a Delfi per purificarsi, l’oracolo gli ordina di mettersi al servizio di
Euristeo per 12 anni. Ecco, quindi, le 12 fatiche:
1)
Uccisione del leone
di Nemea, valle presso Micene. Il leone, nato dall’unione di
Echidna con Tifone (oppure con Ortro, il cane a due teste di Gerione[1])
possiede una pelle invulnerabile, di cui Herakles si fregerà dopo averlo soffocato.
2)
Uccisione dell’Idra
di Lerna, posto a sud di Micene. Le teste (in numero di 7, o 9, o 50), se
mozzate ricrescevano, per cui Herakles , subito dopo averle tagliate, brucia i
monconi dei colli. Quindi intinge le sue frecce nel sangue velenoso del mostro.
3)
Cattura del cinghiale
del monte Erimanto: lo spinge fino ad un mucchio di neve, quindi
lo cattura cingendolo con le braccia, senza ucciderlo.
4)
Cattura della cerva
di Cerinea, in Arcadia. L’inseguimento dell’animale, che possiede
zoccoli di bronzo e corna d’oro, dura un anno intero.
5)
Caccia, con l’arco, degli uccelli della palude di Stinfalo, sita ad ovest di
Micene. Gli uccelli hanno becco, artigli e penne di bronzo ed usano queste
ultime come frecce.
6)
Conquista del cinto
d’Ippolita, regina delle Amazzoni. A questa impresa partecipano
anche altri eroi, tra cui Teseo, che forse sposerà Ippolita.
7)
Pulizia delle stalle
di Augia, re dell’Elide, sulle coste occidentali del Peloponneso.
Herakles devia il corso di due fiumi, Alfeo e Peneo. Vince una contesa con Augia
per il compenso del lavoro svolto, e con il ricavato fonda i Giochi Olimpici.
8)
Cattura del Toro
di Creta, che vomita fuoco. Per farlo, Herakles usa una grande
rete.
9)
Cattura delle cavalle
di Diomede, re della Tracia, che si nutrono di carne umana. Herakles
le doma e dà loro in pasto lo stesso re.
10)
Cattura dei buoi
di Gerione, mostro con tre corpi. Herakles riesce nell’impresa
dopo avere ucciso Ortro. Nel corso di questa fatica soffoca Anteo (figlio di
Gea e di Posidone), che uccideva
tutti i viandanti per erigere un tempio di teschi umani al padre.
11)
Conquista dei frutti
d’oro delle Esperidi. Il giardino dove crescono i pomi (che forse
rendono immortali) si trova oltre i confini del mondo ed è custodito dal drago
Ladone.
12)
Cattura di Cerbero,
il cane a tre teste di Ade. Herakles libera Teseo, che si trova incatenato
nell’Ade per aver tentato di liberare Persefone.
Come si può notare, fino alla settima fatica si resta molto
vicino a Micene, nel Peloponneso. Poi ci si allontana progressivamente, invece,
fino ai confini del mondo degli uomini ed oltre ancora, fino all’Ade, con
Ogigia fiammeggiante. Così, accade che molti templi di Herakles sorgessero
vicino ad acque termali calde, cioè “infernali”. Tra molte altre cose[2],
Herakles partecipa al viaggio degli Argonauti[3],
con Ila, un ragazzo che ama. Questi è rapito ed annegato dalle ninfe, presso
una fonte alla foce del fiume Cio. Herakles allora abbandona l’impresa. In
Etolia lotta con il dio del fiume Acheloo e conquista Deianira, da cui ha un
figlio, Illo. Per attraversare il fiume Eveno, che è in piena, chiede al
centauro Nesso di traghettare Deianira. Nesso la insidia, Herakles lo uccide
con una delle sue frecce avvelenate del sangue di Idra. Nesso, morente, si
finge pentito del suo gesto e consiglia a Deianira di raccogliere il suo sangue
per usarlo come filtro d’amore. Deianira, temendo di perdere Herakles, che ha
incontrato Iole, gli confeziona una veste intrisa del sangue del centauro e
gliela fa portare dallo schiavo Lica. La veste avvelenata divora subito le
carni dell’eroe, che, folle dal dolore, scaglia Lica nel mare. Quindi impone al
figlio Illo di sposare Iole, infine si getta in un’enorme pira che ha costruito
ed acceso sul monte Eta, in Tessaglia.
Allora viene accolto nell’Olimpo, dove Hera, finalmente,
lo abbraccia. Hebe, ex coppiera degli dei, figlia di Hera, sarà la sua sposa.
Origine del mito. Somiglianza o identità con altri eroi
divini.
Si tratta di un mito stratificato, complesso ed
antichissimo: W. Burkert ne
rintraccia notizie fino a 15.000 – 20.000 anni fa, in veste di cacciatore che uccide animali poderosi e anche di sciamano, che osa entrare nel mondo dei morti per poi uscirne
illeso. Si tratta di figure semplici, che scaturiscono dall’immaginazione delle
popolazioni primitive del Paleolitico Superiore. Sigilli accadici e sumeri
ritraggono una figura munita di pelle di leone, arco e clava, nell’atto di
abbattere leoni, draghi, uccelli da preda e altro[4].
Viene subito in mente l’eroe sumero Gilgamesh. Vi fu davvero
un governante di Uruk[5]
con questo nome, circa nel 2600 a.C. e
subito dopo la sua morte cominciò a prendere forma il mito. I primi
testi scritti al riguardo appaiono nel 2100: l’epopea di Gilgamesh, che è giunta per caso fino a noi e che, prima della
scoperta, era del tutto dimenticata e quindi ignota, appartiene alla prima metà
del II millennio[6]. Ma non è
certamente strano che il primo grande racconto eroico mai scritto ci venga dal
paese che produsse la prima ruota, la prima barca, la prima scrittura
(cuneiforme), il primo calendario, il primo aratro, la prima fusione “a cera
perduta”, ed il primo concetto aritmetico di zero…
Gilgamesh è descritto come un principe guerriero che rinuncia alle
gioie sedentarie del matrimonio per vivere una vita erratica con il proprio
migliore amico, il selvaggio Enkidu, combattendo contro il mostro Humbaba
(Huwawa) e contro il Grande Toro del cielo (incarnazione della siccità, mandato per vendetta dalla dea Ishtar, perché
Gilgamesh non si era lasciato sedurre). Morto Enkidu, Gilgamesh decide di
riportarlo indietro dalla morte e va a cercare Utnapishtim, l’unico uomo
sopravvissuto al Diluvio. La dea Siduri gli indica l’Occidente ed il pilota dell’Arca, Urshanabi, lo traghetta fino
ad un’isola[7]. Qui Utnapishtim gli racconta del Diluvio e di come
il Dio Enlil gli abbia concesso l’immortalità. Quindi gli spiega come trovare
una piantina che rende immortali, ma disgraziatamente un serpente la ruba a
Gilgamesh, mentre questi si disseta ad una fonte. L’eroe incontrerà Enkidu, ma
dovrà arrendersi di fronte all’ineluttabilità ed alla miseria della morte[8].
Anche questo primo, stupendo mito è immensamente complicato, in quanto si
compone dei fatti reali dell’antico regnante d’Uruk, di spunti folkloristici
raccolti nel mondo di allora e di alcuni temi letterari di significato
astronomico e filosofico.
La filiazione di Herakles da Gilgamesh è accettata
comunemente, in quanto ambedue camminano,
invece di usare un carro; portano una clava, invece che una spada e compiono le loro imprese da
soli, oppure accompagnati dalla figura minore di un amico, la cui morte li
disturba grandemente. Ambedue si adornano di una pelle di leone. Ambedue sono
semidivini. La coppia Ercole/Gilgamesh appare possedere un percorso di
conquista da oriente ad occidente, diversamente da quello di Osiride/Dioniso,
che sembra orientata da occidente ad oriente. In questo, si può riconoscere
un’identificazione solare del mito di Ercole. Il
fatto che carro e spada siano comparsi, nel Mediterraneo, solo dopo il 1750
a.C. fa pensare che il mito greco di Herakles greco si sia sviluppato
precedentemente a quella data.
Ninurta.
È una figura che proviene da una delle più antiche mitologie strutturate a noi
note, quella sumera. Ninurta è la
forma più tarda di Ningirsu, guerriero e
dio della guerra, nunzio, vento del sud, dio dei pozzi e dell’irrigazione. Secondo un poema che canta di lui, aveva eretto
uno sbarramento contro le acque amare degli
inferi. Era figlio di Enlil (dio
della terra, del vento e dell’aria, in seguito Signore degli dei), il suo
curriculum vantava la vittoria su diversi mostri: Asag, principe dei demoni, il
muflone a sei teste, il drago eroico, il Magilum (una creatura con il corpo a
forma di nave), il bisonte, la libellula, il gesso, il rame, l’aquila a testa
di leone Anzu ed il serpente a sette teste. Aveva anche dei punti deboli: era
superbo, ambizioso, rancoroso. Secondo molti, si può considerarlo a buon
diritto uno dei precursori di Herakles. A quanto pare, la simbologia e la mitologia mesopotamiche hanno
molto influenzato, con la loro potenza primitiva, la letteratura ed il pensiero
occidentale, tanto che Perseo e Gorgone assomigliano a Gilgamesh e Huwawa,
quanto le dodici fatiche di Herakles alle dieci fatiche di Ninurta, insieme a
molti altri elementi occidentali che parrebbero originali, sono invece ispirati
a quei modelli antichi[9].
Melqart, (o Mlk qrt,
“re della città”) era un’importante divinità fenicia, patrono della città di
Tiro[10]:
potrebbe essere uno dei tratti d’unione tra Gilgamesh ed Herakles. A Tiro era
visibile un grande tempio eretto in onore a Melqart, famoso per le sue due
colonne, una d’oro ed una di
smeraldo, che brillavano mirabilmente di
notte[11].
Evidentemente, le Colonne di Melqart
erano originariamente più rinomate per la loro unicità e preziosità, che non
per la loro localizzazione ai confini del mondo conosciuto. Persino Re Salomone[12],
ammirato dalla grandiosità delle colonne e del tempio di Melqart, volle
copiarle per realizzare il suo ben più famoso tempio, alla cui costruzione si
lavorò per sette anni: si abbatterono i cedri del Libano e si fusero colonne di
bronzo alte 18 cubiti, con 12 cubiti di circonferenza[13].
Un dettagliato passaggio di Erodoto[14]
e l’evidenza archeologica di numerose iscrizioni[15]
permettono di considerare corrispondenti, senza dibattito, le figure di
Herakles e Melqart. Si discute invece sull’antichità del culto di Melqart, che
potrebbe essere del 2.700 a.C. se ci si basa su Erodoto, oppure molto più
recente, secondo altri attorno al 1000 a.C.: quello che è certo è che si tratta
di un sincretismo di diverse divinità a partire dal più antico Ba’al (Hadad)
fino ad includere il mesopotamico Nergal ed il dio semita della pestilenza Reshef[16]. E’ curioso notare che, da una parte,
tutte le divinità correlate con Ercole siano, già in epoca antica, costruzioni
complesse, figure mitiche contenenti numerosi elementi provenienti da altre
tradizioni religiose disparate. D’altro canto, invece, è sopravvissuto, più
isolato e non in rapporto con Ercole, un mito più semplice che descrive il
Grande Cacciatore in modo più scarno e diretto: un esempio è dato da Orione[17].
Un altro esempio di mito più periferico e più simile a quello primitivo di
grande cacciatore è Cefalo, bellissimo ed abile, figlio di Erse (“goccia di
rugiada”), anch’egli amato da Eos e destinato a ritorsioni per gelosia,
punizioni divine e disgrazie personali… Un fattore che i Grandi Cacciatori
hanno in comune da epoca antichissima è, indiscutibilmente, il loro grande
fascino, che permette loro grandi conquiste amorose e la loro fine tragica e
cruenta.
Sansone. Figlio di
una donna sterile della tribù di Dan. Il suo accostamento con il mito di Ercole
è giustificato, oltre che dalla forza fisica che lo accomuna ad Herakles, anche
dall’identificazione dei due personaggi con il Sole: il nome Sansone deriva dal
semitico Sms (“del sole”). Inoltre, ambedue vanno soggetti a
violente crisi di rabbia e a perdita passeggera dei loro poteri. Ambedue
uccidono leoni e ne vestono le pelli. Sansone usa una mascella d’asino come una
clava. Anche nelle vicende inerenti Sansone ci si imbatte in un quesito: “Dal
divoratore è venuto nutrimento; dal forte, dolcezza”. È riferito all’episodio dell’uccisione del leone e al fatto che
nella sua carcassa le api avevano, poi, costruito un alveare, del cui miele
Sansone fa uso. In accordo con il topos del grande cacciatore, Sansone va incontro a numerose sventure, tutte
correlate in qualche modo alle sue donne, che lo costringono ad uccidere – come
strumento di Dio – numerosi Filistei. Dopo una delle stragi, egli ha tanta sete
che crede ne morirà, ma Dio gli procura l’acqua di cui egli ha bisogno[18].
Infine viene privato della sua forza, catturato ed accecato, ridotto in
schiavitù, infine esposto nel tempio di Dagon[19],
durante la festa. Qui, in un atto catartico finale, conoscendo la struttura del
Tempio e sapendo che sul tetto erano più di 3000 Filistei in festa, egli
abbatte le due enormi colonne principali dell’edificio, facendolo crollare e morendo insieme ai suoi
oppressori, dopo avere invocato il perdono e l’aiuto di Dio. Anche questo episodio
costituisce un parallelo di rilievo con il mito di Ercole, non soltanto per la
comparsa delle Colonne di Sansone,
punto di contatto tra uomo e divinità, tra vita e morte[20].
Potrebbe darsi che – in questo caso – il mito sia stato portato dall’Egeo in Palestina
dai Popoli del Mare, (provvedendo ad uno scambio etnico dell’origine dell’eroe,
avvenuto contemporaneamente all’atto dell’appropriarsi della storia).
Numinis Nomen.
Il termine Herakles
suggerisce un’origine medio orientale dell’eroe. Era comune nozione
nell’antichità, che il nome Herakles significasse “gloria (per, di, da) Era”. Ma una contraddizione concettuale[21]
e l’identificazione della sillaba terminale “kleos” (famoso), hanno condotto alcuni etimologisti a
ricercare nella prima “hera”
anche il significato di “eroe”. Questo significato e quanto segue è
naturalmente molto discusso.
Secondo M. Bernal[22],
esistono tre radici etimologiche semitiche (æHrr, con
vocalizzazione a mezzo di “o” ed “u”) da
prendersi in considerazione:
- La prima sembra molto compatibile con Hera, con Herakles e
con eroe, ha il significato di nobile, libero, nato libero. (hor è un antico vocabolo ebraico, hrr compare
nell’ugaritico, con il medesimo significato. In epoca attuale abbiamo il
vocabolo Arabo e Swahili whuru,
che significa libertà).
- La seconda ha il significato di ustionare, bruciare e da essa deriva il nome di una divinità accadica Erra (l’ustore), che fu in seguito identificato con il
dio della pestilenza Nergal. Il poema di Erra, del I millennio, recita: “Il
dio Erra in cielo è un toro selvaggio, in terra un leone, nel paese è il re”[23].
Questo dio sembra emergere nelle crisi di rabbia distruttiva di Herakles, come
anche nella sua affinità con il fuoco, particolarmente evidente nel suo culto
fenicio. Non c’è dubbio circa la derivazione di Erra dall’etimo æHrr
: l’iniziale H è persa nell’Accadico, viene invece conservata nel
Semitico occidentale, che non tollera la doppia “r” per cui la controparte di Erra diverrebbe, appunto,
Hera.
- La terza etimologia ha il significato di scavare,
perforare: renderebbe conto delle indubbie
qualità di scavatore ed irrigatore dimostrate da Herakles nel suo mito.
Un’ ulteriore derivazione può ipotizzarsi dalla radice
egiziana Hr, Horus, ricostruita come *Haruw.
Quest’ultimo nome era usato sia per il fiero falcone e dio solare, sia come
simbolo del faraone vivente.
Erodoto, infatti, dichiara esplicitamente che il nome di
Herakles viene dall’Egitto[24].
I “riduzionisti” ritengono che, con queste parole, egli intendesse riferirsi al
semplice concetto di personaggio
semidivino, capace di imprese impossibili e via dicendo. Altri, invece,
prendono le sue parole più alla lettera, come in altri campi si è dimostrato corretto fare[25].
Hr k'
(Heka) è una variante scritta attestata solo nel regno di Tolomeo VI (II sec a.
C.), per un nome usualmente scritto HK' (magia).
Nonostante le sue caratteristiche elusive, Heka può definirsi “potenza
misteriosa, forza vitale, creatività umana, energia creativa divina ed altro”.
Queste tanto più che esistono
alcune difficoltà fonetiche, in quanto i due vocaboli venivano probabilmente
pronunciati “Hik”, alla fine del I millennio. Ma vi sono anche alcune ragioni a
favore: HK'
è riportato come il domatore di Apopis, il mostruoso rettile del caos. Esiste
inoltre affinità tra HrK' ed una divinità tarda Tutu, che veniva rappresentato
come un leone che cammina e descritto come “di grande valore, figlio di Neit”.
Ora, la Neit egizia trova corrispondenza proprio in Athena. Herakles era appunto figlio di Alkmena
/ Athena Alalkomena, oltre che
piuttosto leonino e di grande valore. Il culto di Tutu fu in auge nei primi due
secoli dopo Cristo, che coincidono con un periodo di massimo favore anche per
il culto di Herakles. HrK' era visto, nel tempio Tolemaico di Neit e Khnum ad Esna,
come un bambino divino, figlio di Neit: non ci sono dubbi circa l’importanza
della fanciullezza di Herakles nel mito che lo circonda.
Nonostante le incertezze, la mancanza di documentazione e la
confusione già presente nell’antichità (basti pensare ad Eratostene,
bibliotecario d’Alessandria, che si riferisce al faraone Semphukrates
chiamandolo Herakles Harpokrates; Harpokrates, in Egiziano Hr p hrd altri non era che Horus bambino), si può ipotizzare
verosimilmente che Erodoto potesse avere letteralmente ragione, quando asseriva che il nome di Herakles
viene dall’Egitto[26].
Esistono molte similarità, solari ed eroiche, tra Horus/Apollo ed Herakles. In
particolare, esistono somiglianze tra Herakles e gli eroi greci, da un lato,
con i faraoni del Medio Regno, il cui titolo iniziava sempre con Hr ed il nome
di Horus dall’altro. Non
sorprende, pertanto, che i mitografi greci pongano l’infanzia di
Herakles in Egitto, invece che in Siria o
in Mesopotamia. Che poi il mito sia stato influenzato da radici semitiche e gli
sia stato aggiunto il suffisso greco –kles è una possibilità piuttosto plausibile.
In ogni caso, Ercole, Gilgamesh, Melqart, Herakles, Hercules
è sicuramente una figura composita.
Persino gli autori antichi lo vedevano così. Erodoto
distingueva quello divino e l’eroe umano, e tra quello egiziano più antico,
quello fenicio, quello venerato nella colonia fenicia di Thasos e l’Herakles di
Tebe in Grecia. Diodoro siculo, nel I sec
a. C. ne contava tre: il più antico era quello di Tebe in Egitto, che
aveva sottomesso tutto il mondo; il secondo era un cretese, che aveva fondato i
giochi olimpici; il terzo era il figlio di Alcmena e Zeus ed era nato poco
prima della guerra di Troia. Per Cicerone, gli Hercules erano sei e di questi
l’Egiziano era il secondo, il Tirio era il quarto ed il Greco il sesto.
Herakles / Faraone.
A prima vista, sembrerebbe non esserci molta affinità tra un
eroe solitario e sommariamente armato ed i faraoni con i loro enormi eserciti.
All’ undicesima e dodicesima dinastia, però, appartengono faraoni che furono
divinizzati, nel cui elenco di titoli compare – spesso ripetuto – il termine Hr
e che possiedono caratteristiche di mistura umana e divina, proprio come
Herakles. All’apice della dodicesima dinastia divenne costume dei faraoni regnare
contemporaneamente ai propri eredi, il che si accorda con l’associazione di
Herakles in Egitto con la gloriosa progenie reale e dell’Herakles greco con gli
altri eroi greci. Anche la caccia a grandi e pericolosi animali era uno sport
diffuso tra i faraoni egiziani e da loro molto pubblicizzato. Ma vi sono altre
attività, praticate dai faraoni nell’Antico e nel Medio Regno, che si accostano
sorprendentemente ad un’insospettata abilità di Herakles: l’ingegneria
idraulica.
Se si guarda al racconto del mito da questo punto di vista,
si scopre quanto spesso ed abbondantemente l’acqua, in tutte le sue forme e
manifestazioni (lago, mare, fiume, palude), vi compaia come protagonista.
Compiere grandi imprese, uccidendo mostri terribili è routine, per un eroe; molto
meno lo è scavare tunnel e canali. Eppure proprio in questo è spesso impegnato
Herakles!
Spesso, il motivo reale, sottostante, è appena mistificato,
dietro ad un simbolo trasparente. Nella seconda fatica, l’episodio del mostro
Hydra (nome correlato all’acqua)
simboleggia l’imbrigliamento con dighe di sette tributari di un fiume con
lavori d’ingegneria idraulica: le teste che ricrescono magicamente, rendono
bene l’immagine dell’acqua sfuggente, mentre supera gli sbarramenti
insufficienti. La pulizia delle stalle di Augia, nella settima fatica, implica
la deviazione dal proprio alveo di due fiumi, uno dei quali si chiama Peneo,
forse dall’ egiziano P' nw (inondazione). Anche
l’episodio dell’uccisione degli uccelli nella palude di Stinfalo, che emettevano escrementi velenosi, simboleggia
nella quinta fatica il risanamento idraulico di zone malsane. Nella decima
fatica Herakles devia il fiume Strymon[27],
per ricondurre a casa la propria mandria. Nell’ undicesima, uccide il mostro
Ladon, che custodisce il giardino delle Esperidi. In miti ugaritici, che
accostano Ladon a Hydra, Ladon (Ltn) è associato al dio sumerico del fiume Yamm[28].
Nella versione più tarda del mito, pertanto, oltre all’arricchimento con il
tentativo di conquista dei frutti d’oro delle Esperidi, vi sarebbe una
ripetizione dell’episodio con i rettili Hydra/Ladon, che d’altro canto potrebbe
essere diventato un tema ricorrente, caratterizzante l’eroe: si pensi
all’episodio dei due rettili strangolati nell’infanzia. Il nome di Herakles era
anche accostato a lavori idraulici per riempire il lago Kopais, deviando il fiume Kephissos[29].
Erodoto riporta che il re Min aveva eretto dighe di protezione per Menfis,
nella zona del Delta. Asserisce che Sesostris utilizzò prigionieri per grandi
lavori di costruzione e d’irrigazione, come anche Moeris (Amenemnet III),
costruttore del Labirinto. Diodoro conferma quanto detto da Erodoto,
aggiungendo che Moeris drenò il Fayum, usandolo per regolare le piene del Nilo.
Anche i faraoni dell’antico e del medio regno erano
rappresentati con pelli di leone e con clave: la loro apoteosi avveniva già
durante il loro regno, oppure subito dopo. È accettato che i primi lavori di
drenaggio del Fayum avvennero attorno al 3400 a. C. grazie al primo faraone
Menes, anche se la mole maggiore dei lavori avvenne nella dodicesima dinastia.
Esistono prove archeologiche di dighe risalenti al 3000 – 2500 a. C. così come dei lavori di Moeris e
di Senwosre I – III.
Insomma, al di là degli stereotipi letterari del mito (i
nemici combattuti da Herakles appaiono subito antipatici e malvagi, colpevoli
di qualche cosa e quindi meritevoli di punizione e di morte), l’acqua sembra
essere sempre presente negli episodi salienti, di vita e di morte, che
caratterizzano la storia dell’eroe Herakles. L’ipotesi che le grandi
realizzazioni di alcuni faraoni abbiano contribuito alla formazione del mito va
considerata seriamente.
Il fatto che la moglie divina definitiva sia Hebe (ex
coppiera degli dei, sostituita da Ganimede dopo che si era ritirata da tale funzione,
per servire soltanto la madre Hera) merita qualche attenzione. Come sempre, nel
mito, sono possibili letture differenti: Hebe non significherebbe semplicemente
“giovinezza”, come si è sempre detto. Il
nome è stato messo in relazione con Hipta (che si ritrova in due inni Orfici) ed è stato dimostrato che deriva
dal nome della moglie Hebat del
dio della tempesta Tessub. Ambedue sono divinità Urrite, pertanto ciò
costituisce un indizio che punta verso l’Anatolia ed il Caucaso. A corroborare
questa tesi concorrono altri fatti: il nome di due città della Beozia, Thespiai
e Thisbe, dove erano presenti in modo particolare i culti di Herakles, deriva
presumibilmente proprio da Tessub. Nella Beozia dell’età del bronzo è credibile
un’influenza Urrita, perché gli Hyksos, che colonizzarono l’Egeo, comprendevano
anche elementi urriti (oltre che semiti, come molti toponimi ed idronimi greci
dimostrano) e perché alla fine dell’età del bronzo è dimostrata un’effettiva
influenza Anatolica. Essendo la Beozia una pianura alluvionale, non è
necessario spiegare l’importanza dei lavori idraulici nella zona.
Tutto ciò non allontana la figura del nostro eroe
dall’Egitto; semplicemente ci rende meglio l’intricata complessità della
costruzione del mito che lo
caratterizza. Si cita soltanto di passaggio l’elenco delle somiglianze tra i
lavori ingegneristici idraulici in Beozia e quelli Egiziani e la presenza della
piramide greca di Anfione e Zeto, che
hanno permesso ad alcuni di ipotizzare una qualche forma di sovranità o forte influenza
egizia nella Grecia più antica.
Alcuni elementi sono indicativi: l’arrivo degli Hyksos
nell’area Greca data intorno al 1800 a. C. . La citazione omerica ed esiodea
dei miti correlati, di Posidone e delle Erinni come cavalli, fornisce la data
del 1700 a. C., perché il cavallo – pur non essendo completamente sconosciuto
prima, nell’area mediorientale ed Egea, fu introdotto in quel periodo. I miti
di Ogigia, isola sommersa fiammeggiante sono più probabilmente stati ispirati
dall’eruzione di Thera Santorini nel 1628 avanti Cristo…
Si può quindi affermare, circa l’arrivo in Grecia del mito
di Herakles e dei miti correlati, che esso risale, più o meno, alla svolta del secondo millennio, a
differenza di altri, come quelli di Atena e Posidone, che possono essere anche
più antichi.
Herakles e la Sardegna.
Ora, data l’età ragguardevole del mito, focalizzata la sua
origine più verosimile ed identificato qualche momento fondamentale della sua
formazione, non è, forse, possibile metterlo in rapporto con la Sardegna, vista
l’antica data delle frequentazioni orientali dell’isola?
La risposta non può che essere affermativa, specialmente se
si considerano i fattori che sicuramente parlano a favore.
La frequentazione
fenicia del Mediterraneo occidentale ha lasciato tracce evidenti, in
tutta l’antica Tirrenia. Si pensi al passaggio dalla cremazione all’inumazione: questa ultima costumanza era fenicia. L’aruspicina etrusca era di
provenienza babilonese, ma mediata
dai fenici. La porpora del laticlavio latino, la sedia curule, le collane
d’avorio, erano tutti oggetti di potere trasmessi al mondo Romano attraverso
gli etruschi dai fenici. C’è persino chi ha ipotizzato una controversa origine
fenicia per il più antico tempio di Hercules, a Roma. Per brevità, si tralasciano le parole latine che
possiedono un’etimologia semitica (diretta, oppure mediata dall’etrusco o dal
greco).
Circa la precedenza temporale della civiltà nuragica su
quelle più storiche appena citate, non vale aggiungere altro a quanto già detto
altrove. Il difficile è scoprire quali caratteristiche possedesse un eventuale
mito di Ercole, in un periodo coevo, se non addirittura precedente, alla sua introduzione in Grecia…
Per quanto concerne le possibili relazioni dell’isola con
l’Egitto, sono abbastanza probanti i numerosissimi oggettini egizi (scarabei,
amuleti, monili) rinvenuti, per esempio, a Tharros. Il museo di Cagliari
possiede alcuni cartigli di Menes, di
Tutmosis III e IV, di Amenophis III, Seti I e Ramses. Se a questi fosse
riconosciuta ufficialmente una validità di datazione cronologica, (come reclama
il Carta Raspi) questi reperti ci porterebbero ad una data precedente
alla svolta del quarto – terzo millennio
avanti Cristo (tanto per intenderci, al Gilgamesh realmente esistito, prima
della formazione del suo mito). Ma ci testimonierebbe anche un periodo di due
millenni circa di contatti culturali stretti con l’Egitto e potrebbe farci
propendere per un Ercole sardo con caratteristiche inizialmente egizie.
In conclusione, nell’affermazione che il mito di Ercole fu
sicuramente presente anche in Sardegna, non è insito alcunché di sorprendente o
di particolarmente rivoluzionario: ma quale
Ercole questi fosse, è questione molto più ardua a risolversi.
Ercole / Sardus.
R. Carta Raspi nel 1971 identificava Sardus (Pater) con Ercole, contro la
tesi popolare[30], che invece
voleva Sardus come colonizzatore dell’isola, figlio o successore di Herakles,
tanto che i greci ed i romani ne fecero un semplice eroe eponimo sardo. Per Raspi, Sardus fu invece un dio agrario
della vegetazione, che i sardi avevano condotto con sé nella migrazione
dall’oriente. In questi caratteri non vediamo grandi contraddizioni con alcuni
dei tratti fondamentali di Herakles fecondatore dei campi con l’acqua. Raspi
cita anche una dinastia di regnanti della Lidia, detta dei Sandonidi (gli
Eraclidi) dal capostipite Sandan. Per la mutazione della n in r si avrebbe
Sardan, Sardanos, Sardonidi, etc. Anche qui si ripeterebbe il tema della
divinizzazione di una casa regnante: poco importa che sia posteriore all’arrivo
dei Sardi in Sardegna. Quindi,
tutti i numerosi toponimi isolani che ne derivano, da Santadi a Capo Sandalo
allo stesso Sandaliotin, antico nome dell’isola, deriverebbero da Herakles. Ci
assicura che Sandalion era il nome di una delle isole di fronte alle coste
della Caria, in Turchia e che l’equivoco tra il nome e la calzatura (sandalon)
nacque probabilmente dal fatto che il sandalo era anche il simbolo
identificativo del dio Sandan. Malgrado l’assenza di prove documentali, Raspi conclude
che Sardus fosse una divinità preesistente, almeno in Sardegna, ad Herakles e
Melqart e che da questi fu sostituito con il decadere del potere economico e
militare dei sardi.
Alcune considerazioni possono, almeno in parte, confermare
quanto sostenuto da Raspi.
Sandon, Sandan, Santas, Santa, era una divinità adorata sia
in Cilicia, sia in Lidia, non lontano dal fiume sacro Xanthos, nella Troade. In
Cilicia, a Tarsos, ogni anno veniva bruciata un’effigie del dio su una grande
pira. Il culto, pur conservando caratteristiche asiane, era chiaramente
correlato al Melqart di Tiro. Quest’ultimo veniva bruciato annualmente in una
festività d’inizio primavera, correlata con la resurrezione, che in Grecia era
definita il “risveglio di Herakles”. Ora, questo tipo di cerimonia può
correlarsi ad un’ampia gamma di feste religiose diffuse dalla Mesopotamia alla
Spagna: è coerente con divinità del ciclo agrario e con il ricordo del
sacrificio di Herakles sul monte Eta[31].
In Macedonia una festa analoga era chiamata Xanthicà ed il mese d’inizio
primavera, in cui si teneva, Xandicòs.
Xanthos, quindi, non si riferiva soltanto al colore giallo[32].
In realtà, significava giallo, bruno e sacro, consacrato attraverso il fuoco. Possiede una connotazione di fragranza, specialmente delle carni cotte. Xanthos, “nel
linguaggio degli dei” era il fiume Scamandro. Era considerato il figlio sacro
di Zeus. Era associato con fuoco e
fiamme, cosa poco adatta ad un semplice fiume. Insomma, il vocabolo xanthos
possedeva qualità, tutte desiderabili, di divinità e magia, associate a quelle
della luce e del fuoco, della cottura[33]
e degli aromi. Il vocabolo viene usato per descrivere i capelli di Achille, di
Demetra e di Menelao. Se, almeno per
il primo, si può pensare che il colore chiaro renda bene l’immagine
leonina del guerriero, per gli altri due è forse la natura divina che si vuole
intendere.
Eudosso[34]
spiega un aneddoto in cui l’Herakles fenicio, ucciso in Libia da Tifone, viene
risvegliato dal profumo di una quaglia arrosto, che il fedele Iolao gli fa
annusare: simboleggerebbe il risveglio della divinità in seguito allo spargersi
del profumo dell’offerta e dell’incenso. Ma
spiega anche il quesito umoristico/iniziatico dell’epoca: perché una quaglia
è più forte di Herakles?[35]
Sappiamo, dai resti del naufragio di Ulu Burun, del
quattordicesimo secolo avanti Cristo, che sntr veniva importato in grandi quantità in Grecia nell’Età del Bronzo[36].
Sntr era la resina del terebinto siriano, di colore giallastro bruno, usata come incenso. Il verbo semitico sta
per “consacrare attraverso il fuoco e l’incenso”, intendendo forse che i fumi
speziati, ascendendo al cielo, possono comporre felicemente le suppliche umane
con i capricci divini[37].
Per alcuni xantho (e quindi anche Sandon, col significato di Ercole) deriverebbe
da sntr, con grande accuratezza
semantica, seppure con qualche difficoltà fonetica.
In conclusione, l’origine della parola stessa sarebbe
semitica, siriana ed i concetti che per traslato essa finirà per descrivere,
anatolici.
Le prove documentarie sono abbastanza ridotte, in Sardegna,
ma significative.
Le tracce sporadiche e dubbie di presenza umana in età
paleolitica (450.000 – 150.000 a.C.) non possono essere messe razionalmente in
relazione con la formulazione di miti. I resti preneolitici (come ad esempio
quelli della grotta Corbeddu) possono rinforzare ipotesi di contatti trans
tirrenici e suggerire forse la prima formulazione di miti semplici, come quello
del Grande Cacciatore e dello
Sciamano, che più probabilmente, però, appartengono ai periodi successivi.
La Sardegna del Neolitico Anteriore (circa il VI millennio,
con gli insediamenti in grotta, l’economia già basata su allevamento, caccia e
pesca, il commercio dell’ossidiana e della selce), ci mostrano una società più
evoluta, con capacità e contatti multipli, con la possibilità, quindi, di
mediare dall’esterno e di rielaborare temi filosofici e schemi di pensiero più complessi. La dipendenza da
fattori astronomici ed atmosferici, ciclici e prevedibili, deve avere stimolato
la ricerca di un accordo con entità divine, presso le quali garantirsi un buon
raccolto, un fiume non in magra né troppo in piena. Questo è in perfetto accordo con la creazione di potenti divinità
agrarie. Il processo deve essersi perfezionato, e sicuramente completato, con
il Neolitico Medio (Bonu Ighinu, comparsa di stanziamenti all’aperto,
ampliamento della commercializzazione a Corsica e Francia, presenza di
ceramiche raffinate), in cui è ormai documentata l’evoluzione nel settore
artistico e religioso. Con il Neolitico Recente compaiono villaggi con capanne
del tutto simili a quelle nuragiche, necropoli, (domos de janas), in numero
tale da suggerire un aumento demografico di rilievo. La ceramica richiama
motivi egeo orientali (Creta, Cicladi), compare la protome bovina, anch’essa
correlata a culti orientali (Egitto, Creta). Quando il III millennio volge al
termine, ecco comparire il Megalitismo, (altare di Monte d’Accoddi), i circoli
tombali (Arzachena, Li Muri) le tombe a circolo (Goni), i menhir. Dalla metà
circa del III millennio, fino al II millennio, l’Eneolitico vede comparire
(Cultura di Monte Claro e Campaniforme), oltre al metallo, corredi funebri in domus riutilizzate ed ampliate,
menhir figurati, con attributi più spesso maschili ed un doppio pugnale, riferimenti
figurati al mondo dell’aldilà. L’Età del Bronzo sardo, quindi, vede una società
articolata e complessa, in possesso di tradizioni che sono già antiche allora: la manciata di neve che costituisce il cuore
del mito arcaico, è stata fatta rotolare per qualche millennio, arricchendosi
così di strati nuovi e di differente provenienza, fino a che quel piccolo cuore
iniziale è diventato insospettabile ed ormai irreperibile. Il processo
d’arricchimento del mito non si arresta certo nel 2000 a.C, con la costruzione
dei Nuraghi e delle tombe dei giganti.
E’ questa la vera Civiltà Nuragica, di cui, in fondo, sappiamo assai
poco, tanto da non potere neanche affermare con certezza se essa abbia prodotto
un Ercole nuragico. Probabilmente, però, la brillantezza della divinità che
rappresenta l’eroe viene lentamente ad offuscarsi anche altrove, fino ad essere
quasi sostituita, con la comparsa del ferro. L’influenza di una gente
che combatte con la spada, invece che con la clava, e che procede a cavallo e
sul carro, invece che a piedi, è troppo forte per non farsi sentire anche nei
luoghi della mente. È la discendenza che
creerà il mito di Teseo, più recente e appunto meglio armato, di Herakles. Il
mito di Teseo non entrerà in Sardegna, ma al suo posto s’introdurrà una nuova
divinità dell’acqua (che resta sempre di primaria importanza, nell’isola, come
altrove), onorata con riti diversi dai precedenti, presso le fonti ed i pozzi
sacri edificati all’uopo: qualcuno lo identifica con Baki, Dioniso[38].
Resta sempre forte il contatto col mondo orientale, dal Miceneo in poi, anche
se il Megalitismo ha costituito un fenomeno culturale e religioso d’importanza
ed estensione pan mediterranea. Restano mille domande. Chi ha distrutto i
nuraghi, che portano tracce archeologiche evidenti di distruzione voluta
dall’uomo? Chi ha costruito i “villaggi nuragici” sopra i nuraghi stessi,
usandone senza rispetto né devozione le parti costitutive? Chi ha costruito i
pozzi sacri e le successive capanne per riti lustrali[39]?
Qualcuno sostiene che si tratti di una popolazione differente dai Nuragici: gli
Shardana[40].
La Sardegna esce, infine, dalla preistoria: ma le strade del
mito restano misteriose e costellate di enigmi e indovinelli.
Si può sempre tentare di risolverli, mai avere davvero la certezza
della soluzione.
Perché mai una quaglia è più forte di Herakles?
Alcuni punti fermi si possono tentare: il mito è sicuramente
presente in Sardegna nella sua forma fenicia, greca e romana. Resta da fare
chiarezza intorno a Sardus.
Il massimo studioso italiano di storia delle religioni,
Raffaele Pettazzoni[41]
concludeva che “Sardus Pater appare in sommo grado penetrato di elementi
animistici, anzi sepolcrali. Capo di quegli eroi che non sono altra cosa dagli
spiriti degli avi, il dio sardo è un dio mortale: dalla sua tomba nasce il suo
tempio (sepulchro eius templum addiderunt);
e come presso le tombe degli avi (le tombe dei giganti), così nell’atrio del
suo santuario si sarà praticata l’incubazione… E domina egli solo: non è primum inter pares. Non ha altri dei
accanto. E in realtà la religione sarda non fu davvero, a quanto sembra, un
politeismo… Un dio sommo, che accoglie in sé i tratti dell’essere supremo,
padre della nazione, guaritore delle malattie, difensore della lealtà, punitore
dello spergiuro, emanante da sé una figura di demiurgo benefattore. Ma accanto
a lui esiste, nella coscienza religiosa dei Sardi, una collettività di figure
inferiori. E questi sono gli avi eroizzati”. Conseguentemente, la religione
primitiva Sarda sarebbe la dimostrazione di come si avvera quel processo, che –
dal culto dell’avo, attraverso il culto dell’eroe – assurge infine al culto del
dio[42].
Non tutto ciò che e stato proposto da Pettazzoni, tanti anni fa, può essere
accettato in modo acritico oggi[43].
Altri sostengono che Sardus fosse identificabile con la divinità Filistea Dagon, che è più simile allo Zeus Kretagenes, il quale,
per quanto molto differente dallo Zeus della mitologia classica (sede dei riti
in una caverna di monte Ida, tomba di un dio mortale), certamente non è un
Herakles. In più, lo stesso Pettazzoni sovrapponeva le qualità e le
attribuzioni di Sardus, Iolao ed Ercole.
Comunque, non è verosimile affermare, come fa Carta Raspi,
che Sardus fosse più antico del vetusto
mito di Ercole, con qualsiasi suo nome. Considerata la migrazione dei Nuragici,
è possibile, invece, che Sardus possa esserne una delle numerosissime
filiazioni e varianti, condotta in Sardegna e fusa con i miti più primitivi e
più spontanei. Si deve anche pensare in quale fase di maturazione fosse il mito
di Ercole, quando i Nuragici giunsero in Sardegna, eventualmente portandolo con
sé. Si deve considerare, infine, da quale regione i Nuragici partirono. A tali
complessi quesiti si è cercato di dare un’ipotesi di risposta nei tre
precedenti articoli apparsi sotto il titolo generico di Orizines[44].
Ma l’etimologia semitica
del nome Sandon e la presenza anatolica della stirpe che lo portava danno indicazioni rilevanti.
Anche Erodoto fa due citazioni al riguardo. Nella prima,
riferisce di un famoso saggio lidio, di nome Sandani, che cerca inutilmente di dissuadere Creso dal
portare guerra contro Ciro ed i Persiani.[45].
Il consiglio, espresso in belle parole convincenti ed articolate, resterà
inascoltato ed il regno di Creso andrà perduto, dopo 14 anni di regno e 14
giorni d’assedio[46]. Nella
seconda, descrive la conquista di Sardi, la capitale del regno e città di
Creso, avvenuta per mezzo della scalata del muro dal lato più scosceso
dell’Acropoli, dove non erano state messe neppure sentinelle. Questo, l’unico
punto del perimetro dell’Arce ritenuto sicuramente imprendibile, era stato
pertanto l’unico dove Meles, antico re di Sardi, non aveva fatto
passare il leone. Una profezia dei Telmessi[47]
sentenziava infatti che la città non sarebbe caduta, se si fosse fatto passare
un leone lungo tutte le mura.
Ora, perché il leone?
Il leone era il simbolo consacrato ad Heracles – Sandon, protettore della
città, tanto che compariva anche sulle monete coniate da Sardi.
Si tratta di due accenni sfumati, come si noterà, ma sono
convincentemente consistenti con luoghi, miti e nomi in molti modi e, pertanto,
costituiscono indizi pertinenti, se non prove.
Erodoto, però, aggiunge chiaramente, citando le parole della
Pizia, che Creso doveva scontare la colpa del suo IV ascendente, Gige, perché
questi aveva ucciso Candaule, discendente degli Heraklidi, prendendogli il regno e la moglie. E spiega anche
come Creso fosse stato ingannato dalle parole oblique di Apollo, quando gli
aveva predetto che “se avesse mosso guerra a Ciro, avrebbe distrutto
un grande regno”. Il grande regno era in
realtà proprio quello di Creso, non quello di Ciro[48].
Inoltre, vi sono le successive possibili sovrapposizioni
culturali.
Il fatto che una presenza “fenicia” sia documentata almeno
dall’VIII secolo a.C., fa presumere che anche le caratteristiche di Melqart
fenicio si siano sovrapposte e mescolate a quelle precedenti eventualmente
presenti dall’epoca preistorica. A prescindere dagli eventuali errori della
“feniciomania”, che ha interpretato entusiasticamente in chiave fenicia anche
ciò che era più realisticamente Sharadana
o Peleset (Filisteo), in Sardegna sono attestati i culti di Baal Hammon,
Tanit, Melqart, Astarte e Baal Shamem[49].
Nella medesima direzione indicherebbero anche la presenza del campo fortificato
di Monte Sirai (VII secolo a.C.), dei templi di Antas (VI sec. A. C.), del
cosiddetto tempio di Bes a Bithia (IV sec.) e del cosiddetto tempio di Eshmun a
Nora, oltre a molti dei simboli religiosi rinvenuti in Sardegna, non ultimo il misterioso“segno di Tanit”[50].
Qual’era il mito preesistente? La presenza ingombrante
d’edifici come quello di Monte d’Accoddi[51],
non dice molto, ma lascia immaginare che da un oriente già molto organizzato
potessero essere giunti anche culti complessi e strutturati, che furono forse
accolti e perpetuati. Non si devono, infatti, sottovalutare le capacità di
sopravvivenza di tradizioni parareligiose, che noi oggi definiremmo semplici
superstizioni: da Arslan Tash, nel Nord della Siria, provengono due iscrizioni
su amuleti redatti in fenicio, diretti a neutralizzare i poteri malefici
d’entità sovrumane chiamate “le Volanti”, “il Succhiatore”, “le
Strangolatrici”, nocive per l’uomo ed in particolar modo per le partorienti.
Fino a qualche tempo fa era viva in Sardegna la credenza dell’esistenza delle
Surbili, personaggi inquietanti con caratteristiche molto simili, se non
identiche…
Riassumendo: possediamo poche intuizioni e molti quesiti
sull’esistenza di un Ercole nuragico, alcuni seri dubbi sul fatto che quello
shardana sia veramente identificabile con Sardus (che però è sicuramente un
personaggio correlato all’etnia) e persino su chi abbia portato Melkart
nell’isola.
Molto meno sono i dubbi circa Herakles greco ed Hercules
latino, in un periodo più tardo e più ricco di documenti.
Sappiamo da Tolomeo che l’isola dell’Asinara si chiamava
Heraclea Insula (forse per un tempio a lui dedicato), come molti altri posti
siti presso il mare, o presso altre acque in tutta l’Europa: un porto d’Ercole
si trovava probabilmente tra Bithia e Nora ed una stazione ad Herculem sulla
strada a Karalibus Turrem (S. Vittoria di Osilo?). Secondo Stefano di Bisanzio
(VI sec d.C.) 23 città costiere erano state battezzate Eraclea, nel Mediterraneo, lungo i percorsi del mito ed una
di esse si trovava in Sardegna. Ercole era probabilmente la divinità
protettrice di almeno due città sarde: Olbia e Padria (Gurulis Vetus), che ospitavano santuari a lui dedicati, come si è
dedotto dalla statuaria votiva minore dedicata che vi si è rinvenuta. Altre località
sarde hanno prodotto reliquie votive relative al mito di Ercole: una bellissima
lucerna è stata reperita a Tharros ed un affresco nell’antichissimo ipogeo di
San Salvatore di Cabras mostra Ercole che strangola il leone nemeo. Il famoso
bronzetto dell’Ercole detto “di Siniscola”, completo di clava[52]
e di Leontea, risalente al IV secolo, fu rinvenuto in una zona che era
consacrata da tempi remoti proprio alla dea delle acque Feronia, come anche
antiche testimonianze (Tolomeo III, 3, 4) e recenti interpretazioni (Della
Marmora, II, 321, 326) fanno pensare, oltre alla natura del luogo stesso, che è
fertile, solcato da numerosi corsi d’acqua ed in passato soggetto ad
inondazioni stagionali.
Inoltre si tratta di un luogo verosimilmente adatto a
servire, precedentemente, da scalo e punto di contatto tra Shardana ed
Etruschi, il che giustificherebbe la presenza isolana del mito peninsulare[53].
Tutto ciò fa pensare che il mito locale tardivo di Ercole fosse ancora in
perfetta sintonia con i caratteri di quello originale orientale[54],
anche se ormai in epoca molto più vicina a noi…
Conclusioni.
Il mito di Ercole è un coacervo di miti primitivi differenti
e di fortunati topos letterari in voga
già da epoche antichissime ed in paesi diversi. Prende verosimilmente le mosse
dalle semplici figure del Grande Cacciatore e dello Sciamano, costantemente
presenti in tutte le culture umane, non solo ai primi stadi. Le coniuga ad
alcuni temi esistenziali fondamentali, da sempre ed ovunque sentiti come più
pressanti dall’Uomo. Vi si sovrappone una serie di qualità di potenza benefica
e protettrice, di forza bruta distruttrice ed incontenibile e di realizzazioni
di grandi imprese impossibili e d’opere utili, generose, mirabili. Il mito
assume caratteristiche sempre più compatibili con la sacralità ed insieme il
timor panico che l’uomo prova di fronte all’acqua, che dà tutta la vita, ma
tutta può toglierla, a buon diritto, senza apparente fatica, in un attimo. Il
senso propagandistico dei regnanti delle antiche Civiltà Idrauliche, ed insieme
la loro vanità, fanno sì che essi s’impossessino delle desiderabili qualità
iniziali del mito e vi aggiungano l’elenco delle proprie realizzazioni sociali
e delle conquiste materiali, magnificandole come opere di un solo uomo
semidivino. La rappresentazione grafica allora diviene identica, per il
regnante e per il mito, le attribuzioni ed i titoli si confondono. La divinità
si configura e si rivela sempre più precisamente come una divinità dell’acqua.
Il nome del mito compiuto viene allora tradotto in diverse lingue, dato che il
fascino della sua fama e fortuna travalica i confini dei semplici stati: si
creano così sinonimi e sosia, che ricevono un lungo tributo di culto e
devozione, tramandati con modi e simboli anche molto differenti, di alcuni dei
quali possediamo, fortunosamente, più notizie. Per ciò che riguarda la
Sardegna, una disarmante scarsità d’indizi, peraltro inquietanti, si può
riassumere nel passaggio repentino e violento tra clava e spada, tra nuraghe e
pozzo sacro, supportato da prove archeologiche certe, e che nella trasposizione
del mito ellenico vede arrestarsi lo sviluppo della figura di Ercole e nascere
prepotente il mito di Teseo. Uno dei tanti nomi del mito, infine, risulta
essere correlato ad una dinastia regnante anatolica, e sembra appartenere alla serie di termini da cui è
derivato proprio all’isola sarda uno dei suoi appellativi più antichi
(Sandaliotin), oltre a quello attuale di Sardegna.
In quest’ultimo fatto, possiamo volentieri riconoscere a
Sardus, sia esso davvero Ercole, oppure una divinità locale, o un semplice
mitico eponimo sardo, ciò che davvero costituisce uno dei tratti più tipici del
mito umanissimo ed antico del grande eroe, da Gilgamesh a Melqart, fino ad
Herakles: la capacità sovrumana di resistere nel tempo, oltre la morte delle
cose e delle aspirazioni degli uomini. E di arrivare sino a noi, anche se
soltanto per lasciarci nel dubbio di tante domande senza risposta e di un
quesito arguto ed ammiccante, irriverente e ghiotto: perché una quaglia è
più forte di Ercole?
P.S. Questo articolo possiede uno scopo meno vago del
semplice divulgare un enigma divertente. Ercole non è mai esistito, ma il suo
mito costruito dagli uomini sì: e ci aiuta a ricercare tra i resti confusi del
nostro comune passato, forse per riuscire a mettervi un poco d’ordine, forse
per comprendere un po’ meglio perché siamo oggi quello che siamo. Forse, anche,
per aiutare i più saggi tra noi, ad evitare gli stessi numerosi sbagli di cui
siamo stati stupidamente responsabili, se è vero che chi non conosce il passato
è destinato a ripeterne gli errori.
Le “Colonne d’Ercole” sono certamente anch’esse un
mito, un luogo della mente e rappresentano il concetto dell’ignoto. Qualsiasi
altra definizione fisica reale è destinata ad essere superata e contraddetta,
prima o poi.
Inizialmente erano, forse, solo le colonne del tempio di Melqart (prima a Tiro, poi a Malta ed in Libia), la separazione tra ciò che è umano, profano e mortale e ciò che è divino, sacro ed immortale. Poi, con il tempo, ovviamente si sono spostate con i confini esplorati, segnando il limite tra noto ed ignoto, oltre che tra immanente e trascendente.
Per ora, almeno, le nuove colonne si trovano entro il Sistema Solare…
Chi vorrebbe dimostrare che Atlantide sia realmente esistita, dovrebbe provare anche a cimentarsi con altri luoghi leggendari simili, come l’isola sottomarina fiammeggiante di Ogigia.
E probabilmente lo farà, almeno finché la credulità dei lettori alimenterà una molto remunerativa attività commerciale…
Inizialmente erano, forse, solo le colonne del tempio di Melqart (prima a Tiro, poi a Malta ed in Libia), la separazione tra ciò che è umano, profano e mortale e ciò che è divino, sacro ed immortale. Poi, con il tempo, ovviamente si sono spostate con i confini esplorati, segnando il limite tra noto ed ignoto, oltre che tra immanente e trascendente.
Per ora, almeno, le nuove colonne si trovano entro il Sistema Solare…
Chi vorrebbe dimostrare che Atlantide sia realmente esistita, dovrebbe provare anche a cimentarsi con altri luoghi leggendari simili, come l’isola sottomarina fiammeggiante di Ogigia.
E probabilmente lo farà, almeno finché la credulità dei lettori alimenterà una molto remunerativa attività commerciale…
[1] Secondo
altri, un mostro a nove teste, di cui sette serpentiformi, custode delle
mandrie di Gerione.
[2] E’ rimasta
una voluminosa aneddotica “minore”, da una mole originaria presumibilmente
molto vasta e disomogenea, di carattere vario: ora umoristica e popolare, ora
iniziatica, o simbolica. Tutto il
mito, poi è stato lungamente rielaborato.
[3] Herakles
diventa così l’uomo eroico che ha viaggiato agli estremi limiti del mondo,
dalla Colchide alle Esperidi, pur con grandi sofferenze e limitazioni, che gli
vengono dalla sua natura non completamente divina.
[4] Walter
Burkert. 1985, pag 209. Anche gli
Egiziani stessi calcolavano, al tempo di Erodoto, che fossero trascorsi 17000
anni da Ercole al regno di Amasi, ultimo nelle dinastie egiziane (Erodoto,
Storie II 43).
[5] Odierna
Warka, la biblica Erek, nel sud del paese, presso l’incrocio dei due fiumi: un
Gilgamesh ne fu il quinto regnante documentato.
[6] Le notizie
qui riportate sono tratte dalla traduzione a cura di N.K. Sandars, del 1986. Ma
il lavoro di traduzione e riordinamento del racconto, scritto su tavolette
d’argilla, largamente incompleto e forse destinato a restare tale, continua
ancor oggi, dal 1928, quando Campbell Thompson ne pubblicò per la prima volta
il testo.
[7] C’è chi
penserebbe ad un’Atlantide ante litteram.
È evidente, invece, che ci troviamo ai confini del mondo conosciuto ai tempi
del racconto e stiamo per andare anche oltre i confini dell’umano. Si tratta
soltanto di un topos che avrà
lunga fortuna di gradimento presso il pubblico. Anche oggi, qualunque
pubblicazione, che citi temi d’affezione fantastica, come le Colonne d’Ercole o
Atlantide, è destinata ad immediato successo economico. Un tempo era di moda,
per persone di grande notorietà e valore, l’essere stati abbandonati neonati in
una cesta di vimini su di un fiume ed essere sopravvissuti: si tramanda che
accadde a Sargon, a Mosè e a Romolo!
[8] Un
pessimismo proprio anche degli Etruschi, che molto devono alla Mesopotamia, e
che è invece assente in altre popolazioni, ad esempio gli Egizi.
[9] S. Seminara,
“L’immortalià dei simboli da Babilonia ad oggi”, Ed Bompiani, 2006. Ninurta sembra un’edizione in bianco e nero,
senza sonoro, di un film, i cui remake successivi acquisiscono sempre più numerosi effetti speciali, fino a
quelli più sofisticati delle ultime versioni del mito.
[10] Come
Melqart era il Baal di Tiro, Adonis era
il Baal di Biblo, Eshmun quello
di Sidone: ambedue avevano culti di risurrezione e furono spesso confusi ed
identificati con Melqart/Herakles dai mitografi contemporanei occidentali. Hiram I, nel X sec a.C. celebrò per
primo il rito di Melqart che risorge, secondo Giuseppe Flavio.
[11] Erodoto,
II, 44. Il tema delle due
mastodontiche colonne ricorreva anche in altri templi: quelli di Biblos, Paphos
e Telloh. Secondo alcuni, le due colonne del tempio di Salomone, Iachin e
Boaz, erano isolate, e non addossate al
tempio. La Jewish Encyclopedia
(1901-1906) ritiene che tutte queste
colonne fossero simboli fallici.
[12] La Bibbia, I
Re,
2.1 – 7.12. Salomone ingaggiò settantamila
portatori, ottantamila scalpellini e tremilaseicento sorveglianti, cui vanno
aggiunti coloro che lavoravano al servizio di Chiram di Tiro, a partire da
coloro che tagliarono il legno di cedro del Libano, quelli che lo
trasportarono, fino agli artigiani ed all’esperto “capocantiere”
Curam-Abi. Una splendida
descrizione d’imponenza. Ispirate al tempio di Tiro erano anche le decorazioni:
le palme e i cherubini; l’altare di bronzo era di sicura influenza Fenicia,
perché gli altari israelitici erano di terra o di pietra grezza.
[13] Nove metri
e dieci d’altezza, circa, (capitello escluso) e cinque metri e quaranta, di
circonferenza. In realtà, nel mondo Siro Mesopotamico erano, allora, molto in voga le grandiose fusioni di
bronzo, destinate ad edifici pubblici e religiosi.
[14] Erodoto,
II, 44.
[15] Levy, 1934,
p 48.
[16] Seyrig,
1944 – 5; Dussaud, 1946 – 8; Brundage, 1958.
[17] Abilissimo,
capace di camminare sulle acque, fece innamorare di sé Eos (l’Aurora), fu fatto
uccidere con un inganno di Apollo, proprio dalla sorella Artemide, anch’essa
grande cacciatrice, che non potè più salvarlo in altro modo, se non
trasformandolo nella costellazione omonima.
[18] Giudici
15:9-20. È conservata, quindi, una relazione dell’eroe con l’acqua. Ricorda
l’episodio in cui il fiume Dire sgorga dalla terra, per soccorrere Heracle in
preda alle fiamme (Erodoto, Storie, VII 198).
[19] Dio
semitico, relativo al grano ed all’agricoltura, venerato dagli Amoriti (Mari,
2600 a.C.) e dai Filistei biblici.
[20] Erodoto
cita anche un episodio della vita di Ercole in cui questi viene catturato dagli
Egiziani e per liberarsi ne uccide un gran numero.
[21] “Rabbia di
Hera”, oppure “Offesa di Hera”sarebbero stati termini più adatti. A meno che
non si consideri che Era, in origine, era venerata come divinità dell’acqua
(rapportabile all’Accadico Haarru, “corso d’acqua”) ed in questo caso il nome di Herakles, inteso come divinità
dell’acqua, acquista un senso compiuto.
[22] M. Bernal,
Black Athena. Vol II, Cap II, “ The Sumerian and Semitic origins of Herakles” -Rutger’s University Press - 1987.
[23] Il Poema di
Erra, I, 109 - 110. La complessa simbologia sumera richiederebbe una lunga
trattazione.
[24] Erodoto, II
43.
[25] Ad esempio,
nel caso dell’origine orientale degli Etruschi; vedi S. A. N° 31.
[26] Era anche
convinto che Alkmena ed Anfitrione fossero egiziani.
[27] Il fiume
Struma scorreva nell’antica Tracia, oggi segue quasi il confine tra la Bulgaria
e la Macedonia di Skopije, sfociando nel nord dell’Egeo, presso il monte Pangeo
e non lontano dalle isole di Taso e di Lemno. La valle dello Struma, come la Sardegna
è un’area gozzigena: da lì deriva il vocabolo medico per gozzo, “struma”, (sostantivo femminile, anche se la
maggior parte dei medici lo ignora). D.
Mitova Dzonova vi ha scavato e descritto il pozzo sacro di Garlo, presso Sofia,
antica Sardica. Nella zona
esistono costumi simili ai “Mamuthones”, canti simili al “canto a tenores”.
[28] Rachel
Levy, 1934 – Rendsburg 1984, Interpretazione dei sigilli mesopotamici di Tell Asmar, III
millennio
[29] Pausania,
I, 38, 7 e Strabone, II 4, 11.
[30] Pausania ne
fa un figlio di Maceride, quest’ultimo identificato con Herakles. I più lo
identificano proprio con Iolao.
[31] Nelle
monete coniate da Azio Balbo, infatti, Sardus Pater sarebbe rappresentato con
una corona di spighe e – talvolta – sul
retro è rappresentato un aratro.
Secondo altri, invece, si tratterebbe di una corona piumata, come quella che caratterizzava i popoli del mare
rappresentati sui bassorilievi di Medinet Habu in Egitto.
[32] Platone,
quando ormai la parola definiva soltanto un colore, descriveva “un misto di
fiamma rossa e di brillantezza bianca”.
Timeo, 68 B.
[33] Aristofane,
negli Acarnesi, 1106, descrive un piccione arrosto come
“bellissimo e xanthos”, in un contesto che suggerisce una fragranza, più che un
colore.
[34] Citato da
Ateneo, 9: 4 -7 e Zenobio 5: 15. Zenobio, in 4: 79, cita anche il proverbio: “Una
quaglia salvò il forte Ercole”, perché
Iolao lo avrebbe fatto resuscitare dalle sue ceneri dopo morto, arrostendogli
una quaglia, (che ad Ercole piaceva moltissimo).
[35] Tifone
traduce la divinità egizia Seth, collegata ad un’altra divinità che risorge
dopo la morte, nel culto d’Iside – Osiride.
[36] Bass, 1991;
1997, 87. Descrizione di un relitto presso le coste meridionali della Turchia.
[37]
Utnapishtim, per ringraziare della fine del Diluvio, brucia “legno e canna e
cedro e mirto. Quando gli dei fiutarono il dolce profumo, accorsero come mosche
sopra al sacrificio”.
[38] Non a caso,
si tratta di un altro dio che muore e che risorge. Altri lo identificano con il
dio sumerico delle acque sotterranee Enki (Dimitrina Mitova – Dzonova, origine
e natura dei pozzi sacri protosardi; IVRAI. 2006).
[39] G. Manca,
“Protomi, bacili e riti lustrali a Sedda sos Carros (Oliena); “Il tempio a
pozzo di Sa Linnarta (Orosei)”;
“Il mito dei giganti e il Nuragico”. Sard. Antica.
[40] M. Rassu,
“Sardana e Filistei in Italia”
2003, Ed Grafica del Parteolla. Due possibilità soltanto sono
compatibili con i dati di genetica delle popolazioni: a) Nuragici e Shardana
erano popolazioni geneticamente affini, oppure, più credibilmente, seppure molto
orribilmente, b) si è verificato un vero genocidio dei Nuragici propriamente
detti, da parte degli Shardana. Probabilmente, si dovranno riscrivere alcuni
capitoli della storia presunta della
Sardegna, accorciando il periodo Nuragico, dando spazio a Shardana e Peleset,
riducendo quello accordato ai Fenici. Si otterrà forse così più luce e
chiarezza per le popolazioni citate, ma presumibilmente i Nuragici usciranno da
questo processo più misteriosi e sconosciuti di quanto non fossero già. Molto
resta oscuro.
[41] 1883 –
1959. Cattedratico a Bologna e poi a Roma, presidente dell’Associazione
Nazionale di Storia delle Religioni, Ispettore del museo Etnografico Pigorini
di Roma, Direttore della rivista internazionale “Numen” e di varie collane di
studi analoghi, autore e curatore di numerosissime opere, tra cui quella
citata: “La religione primitiva in Sardegna”.
Ristampa anastatica – Ed. C. Delfino.
[42] Qui sono
presenti, in nuce, i motivi controversi
della teoria sulla destinazione dei Nuraghes, dei pozzi sacri, delle funtanas cubertas, dei riti dell’ordalia, dell’incubazione, oltre a
molti altri numerosi spunti interessanti e ancora irrisolti sulla civiltà
nuragica, con cui si sono in qualche modo confrontati tutti gli autori, che
hanno in seguito scritto sulla Sardegna.
[43] La
maggioranza attribuisce ai Sardi antichi un politeismo, più che un monoteismo.
[44] Vedi
Sardegna Antica N°18, 19, 31.
[45] Erodoto, Storie, I, 71. “O re, tu ti prepari a muovere
guerra contro uomini che vestono di cuoio; che mangiano non ciò che vogliono,
ma ciò che hanno, perché il loro paese è pietroso. Uomini che non devono vino,
ma acqua, che non hanno fichi, né alcun’altra cosa buona. Orbene, se tu
vincerai, che cosa toglierai a gente che non ha niente? Pensa invece a quello
che perderai se sarai sconfitto: non sarà più possibile allontanarli, quando
avranno gustato i nostri beni. Io, per conto mio, sono grato agli dei che non
mettono nell’animo dei Persiani l’idea di muoverci guerra per primi”.
[46] Erodoto, Storie, I, 86.
[47] Città
lidia, allora famosa per i suoi indovini.
[48] Erodoto, Storie, I, 91
[49] M. G.
Amadasi Guzzo et al.: “Dizionario
della Civiltà Fenicia”. Ed Gremese, 1992.
[50] Non
esistono esplicite prove che connettano il segno grafico alla dea Tanit.
[51] Una
piramide a gradoni, l’unica sarda, antica, enigmatica, discussa, “scomoda”. Fu distrutta e ricostruita:
buon terreno per la fantarcheologia. Probabilmente, un “luogo alto”, per un
culto d’origine orientale.
[52] In realtà
il braccio destro è atteggiato come a tenere una clava, che però è andata
perduta. Pare che la statuetta, di
stile campano, sia stata portata da plebei romani in fuga perché debitori
insolventi.
[53] Feronia è
una dea italico – etrusca (i Romani la credevano sabina, il nome, secondo M.
Pittau è etrusco) della fertilità, protettrice dei boschi e delle messi,
celebrata dai malati e dagli schiavi fuggiaschi che hanno ottenuto la libertà.
S’ipotizza che il luogo sacro isolano fosse presso l’attuale Posada, in una
delle numerose località sicuramente usate come fondaci, di cui si ha ancora
notizia, senza poterne trovare tracce archeologiche: Feronia, Arischion,
Loquilla, Stellaya.
[54] “Sulla
spiaggia, c’era e c’è tuttora il tempio di Herakles: chi vi si rifugia, di
qualunque uomo sia schiavo, purché si faccia imprimere i sacri segni consacrandosi
al dio, non può essere toccato da alcuno. È questa una consuetudine che si è
conservata tale e quale dagli inizi sino a noi”
Erodoto, Storie, II 113 – Mentre descrive il vero epilogo, alle foci del Nilo,
della fuga di Alessandro (Paride) ed Elena, diverso da quello tramandato da
Omero.