Il termine ‘Juke box’ è una parola inglese composta,
che entrò in uso negli Stati Uniti attorno al 1940 e che è derivata dall’uso
ormai familiare del termine ‘Juke joint’, che a sua volta deriva dal ‘Gullah’ “juke” o “joog”
e che significa ‘sregolato’,’scapigliato’, o addirittura ‘malvagio’.
Aspetto esteriore di un Juke Joint a Belle Glade, Florida, (1944) |
Gli avventori, all'interno di un Jug Joint, Clarksdale, Mississippi 1939 |
Un juke joint era un locale d’aspetto anonimo,
spesso sito ad un incrocio di strade di campagna, in cui si suonava, si
ballava, si giocava d’azzardo e si beveva. Si poteva anche mangiare. Erano locali gestiti
interamente da negri nel Sud Est degli Stati Uniti e si rivolgevano ad una
clientela di negri, lavoratori delle piantagioni e agricoltori, che alla fine
della settimana sentivano il bisogno di socializzare e di rilassarsi e che non
avevano il permesso di entrare nei locali dei bianchi, per le “Jim Crow laws”.
I proprietari aumentavano i propri introiti offrendo anche stanze in affitto e mezza pensione. I juke
joints cominciarono a diventare più numerosi dopo la cosiddetta ‘emancipazione’.
La musica era suonata prevalentemente dal violino
(che era di gran lunga lo strumento più in voga sia tra i suonatori bianchi sia
tra i neri), poi inziò ad essere usato il banjo, infine dal 1890 la chitarra
prese il sopravvento.
Si ballavano ‘jigs’ e ‘reels’, termini che allora si
riferivano preferibilmente a balli che i benpensanti definivano come scatenati
e selvaggi, (sia che si trattasse di musica africana o irlandese): oggi li
definiremmo ‘Old timers’ o anche ‘Hillbillies’.
La Juke joint music iniziò con i ‘black folk rags’,
poi continuò con i ‘boogie woogies’ del 1880/1890 e poi divenne i ‘blues’ e
infine la musica lenta detta ‘drag dance’.
In genere, era ovunque sufficiente un musicista per
potere dare il via alle danze in un locale qualunque: ma nei juke joints i
suonatori impiegati erano regolarmente più numerosi, fino anche a tre o quattro
per volta. L’effetto sul pubblico e
sulla scena è facilmente immaginabile.
I Gullah
sono i discendenti di schiavi africani che vivono nella Lowcountry degli stati Uniti (Georgia e South Carolina), che
include anche le pianure costiere e le isole. I Gullah sono anche chiamati Geechee
(che forse deriva dal nome del fiume Ogeechee, presso Savannah)e in
quel caso sono distinti in Freshwater Geechee e Saltwater Geechee a seconda
della loro prossimità col mare.
Si comprende che questi termini possono avere un
significato dispregiativo, a seconda di chi li usi.
In ogni modo, i Gullah hanno conservato molti del
loro bagaglio linguistico e culturale. Parlano un linguaggio creolo basato sull’inglese,
che contiene numerosi prestiti africani in termini di vocaboli e struttura
della frase. Si tratta di un linguaggio
che possiede parentele con il Patois Giamaicano, il dialetto delle Barbados,
delle Bahamas, il Creolo del Belize, e il Krio della sierra Leone.
Ed ecco, quindi, il Juke-box del 1940: una scatola
misteriosa e sospetta, di musica chiassosa, che riesce da sola a creare un’atmosfera
adatta per ballare e a suscitare disagi non dissimili da quelli che provavano i
benpensanti al solo pensiero dei poco affidabili e per loro infrequentabili
Juke joints.
Il loro iniziale successo fu anche dovuto al fatto
che gli ultimi successi arrivavano per primi proprio al juke box, che quindi li
diffondeva in esclusiva.