domenica 5 ottobre 2014

EPIGRAFIA ETRUSCA


Ricevo - e pubblico con vera gioia - questo altro articolo dal Prof. Pittau.

Aggiungo che so - dalle risposte che ricevo in feed-back - che il prof Massimo Pittau è criticato da alcuni che (magari senza alcuna competenza specifica: si può essere 'simpatici' o 'antipatici' anche senza motivi pratici) non lo ritengono un valido specialista. Le critiche principali vertono sulla sua 'intrusione' nell'Archeologia: e allora questo articolo risulterà molto esplicativo.
Colgo qui l'occasione per ri-affermare con una certa forza che almeno in Sardegna - ma certamente anche in campo nazionale - non vi è alcuno che gli arrivi in statura almeno alle ginocchia, con l'eccezione dell'ottimo Wagner, che - per forza di cose - è ormai datato.
Non faccio i nomi di coloro che non possono neppure confrontarsi con lui, visto l'attuale stato di virulenta litigiosità che domina il campo dell'epigrafia sarda.

In campo internazionale, vedremo  più in là quale sarà il giudizio definitivo di valore (è tenuto in ottima considerazione ed è spesso citato nei testi nazionali e stranieri): ma so con certezza - ad esempio - che il punto di vista sull'Etrusco del Pittau è condiviso da una folta schiera di linguisti internazionali ed è avversato da un'altrettanto folta schiera, dato che - ancora - non esiste un'identità di vedute definitiva al riguardo.

Epigrafia Etrusca
di Massimo Pittau


Sembra del tutto evidente che l'epigrafia è una disciplina che ha come due manici: con uno di questi essa si connette strettamente all'archeologia, con l'altro si connette alla linguistica storica o glottologia.
La connessione dell'epigrafia con l'archeologia trova il suo fondamento essenziale nel fatto che – come mi ha insegnato la prima volta Giacomo Devoto nell'Università di Firenze – il primo fattore che una iscrizione offre a un suo interprete è il “supporto fisico” in cui essa risulta scritta. Nella generalità dei casi avviene che sulle tombe e sulle lapidi sepolcrali le iscrizioni abbiano un carattere funerario, con l'indicazione delle generalità dei defunti, della loro età ed eventualmente del loro curriculum; sui gioieli avviene che presentino il nome del donatore e/o quello del donatario ed eventualmente qualche frase di omaggio; nei monumenti pubblici presentino il nome di magistrati o di personaggi pubblici e/o il ricordo di importanti eventi storici; negli oggetti di uso comune presentino il nome del proprietario, ecc. Ne consegue che l'epigrafista, già dal supporto fisico in cui è tracciata un'iscrizione, è in grado di intravedere a grandi linee che cosa essa probabilmente indichi e dica.
Oltre a ciò l'archeologia, in virtù dei contesti archeologici trovati e interpretati, spesso riesce ad offrire all'epigrafista la datazione almeno generica di una iscrizione rinvenuta e studiata. Ed avviene anche il fatto opposto: spesso sono proprio le iscrizioni, ossia è l'epigrafia quella che dà all'archeologo la più o meno esatta datazione di un monumento o di un reperto archeologico.
La questione invece della connessione o dei rapporti dell'epigrafia con la linguistica storica è di più facile evidenza: dopo aver letto o ricostruito più o meno esattamente una iscrizione antica, l'epigrafista deve anche affrontare il problema del suo significato generale e dopo quello del suo significato specifico; deve cioè tentare di prospettare la sua “traduzione” effettiva.
È evidente e logico che l'intervento preliminare dell'epigrafia costituisce una condizione sine qua non per l'intervento successivo della linguistica: un linguista non può affrontare il problema della traduzione effettiva di un'antica iscrizione se non a patto che abbia fra le mani il testo, più o meno esatto, quale è stato ricostruito e letto dall'epigrafista.
Ed anche qui avviene pure il fatto opposto: l'intervento preliminare del linguista può offrire un valido e anche indispensabile aiuto all'epigrafista perché legga bene e ricostruisca esattamente il testo originario di una iscrizione.



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Di certo per il motivo che la sua casa editrice non risulta molto conosciuta, mi era sfuggita del tutto un'opera di epigrafia etrusca, pubblicata nel 2007. Quando qualche mese fa di quest'anno 2014 ne ebbi finalmente sentore, non riuscii a trovarla più in commercio, neppure in quello antiquario. Solamente da qualche settimana ho avuto modo di averla in prestito da un mio collega di Università. Si tratta dell'opera dell'archeologo Enrico Benelli, Iscrizioni Etrusche – leggerle e capirle (SACI edizioni di Ancona, pgg. 302).
Dopo averla letta con interesse e con attenzione, da linguista quale sono, ritengo di poterne formulare questo giudizio generale: l'opera è rivolta quasi del tutto nella sola direzione dell'archeologia (e infatti il Benelli è fondamentalmente un archeologo), mentre - a mio giudizio - si dimostra grandemente difettosa nell'altra direzione rivolta alla linguistica.

Si presti attenzione a questi fatti facilmente controllabili nell'opera: 

I) Il Benelli prende in considerazione per la sua disanima solamente le iscrizioni brevi e brevissime, mentre trascura quasi del tutto le iscrizioni lunghe appena due o tre righe. 
II) Dei testi lunghi della lingua etrusca egli addirittura si limita a ripetere le brevi notazioni generali che si trovano in tutti i manuali. 
III) Egli in generale procede a dare la “interpretazione generica” di ciascuna delle iscrizioni esaminate, mentre solamente di poche osa prospettare una “traduzione” puntuale od effettiva.
IV) In alcune traduzioni egli tralascia di esaminare e di tradurre vocaboli da lui non compresi. 
V) Per alcune iscrizioni egli cade in errori di carattere linguistico, qualcuno vistoso. Ecco alcuni esempi di questi errori:

Nell'iscrizione ET, AT 1.30 – 4s3i (su base di tufo) eca śuϑi Nevtnas Arnϑal neś «questa tomba (è) del defunto Arunte *Neutinio» (TLE 198) non è necessario prevedere un originario neśl perché è intervenuta la “declinazione di gruppo” (traduco gli antroponimi etruschi facendo riferimento a quelli corrispondenti latini).
Sembrebbe strano che il Benelli non abbia intravisto il significato del vocabolo che ricorre in alcune tombe di Tarquinia e del suo territorio manim come uguale a «monumento», corrispondendo chiaramente al lat. monumentum = monum-entum. Ragion per cui manim arce significa esattamente «fece il monumento (sepolcrale)». E inoltre che egli non abbia intravisto che il monosillabo ma, che compare in numerosi cippi o lapidi o stele significa appunto «cippo o lapide o stele funerari» e che probabilmente è l'abbreviazione, lessicale oppure grafica, del già visto manim «monumento funerario». Però si comprende bene che il Benelli paga il suo tributo all'ancora ricorrente ma del tutto infondato pseudoconcetto, secondo cui «la lingua etrusca non è confrontabile con nessun'altra».
  
In alcune iscrizioni in cui compare il numerale huϑ il Benelli lo traduce «sei» anziché «quattro», ma è contraddetto sia dalla iscrizione ET, Ta 7.81 – 3/2 (su parete di sepolcro che presenta l'immagine di quattro Caronti) Xarun huϑs «(immagine) del quarto Caronte» (LEGL 96, 136), sia dalla sua evidente corrispondenza col lat. quattuor, sia infine dal nome dell'antica città dell'Attica Hyttēnía, già interpretata come Tetrápolis «quattro città» oppure «città quadrata».
Inversamente il Benelli interpreta e traduce śa «quattro» anziché «sei», che invece corrisponde chiaramente al lat. sex. È evidente che con questa sua decisione il Benelli mira anche lui ad escludere la tesi del carattere indoeuropeo pure della lingua etrusca; senonché gli archeologi e gli epigrafisti non posseggono affatto gli strumenti necessari e la competenza specifica per sostenere o contrastare l'appartenenza di una lingua ad una famiglia linguistica oppure ad un'altra.
  
Nell'iscrizione di Annibale (ET, Ta 1.107) io interpreto il verbo murce come connesso coi lat. mora «indugio, ritardo», morari «attardarsi, indugiare, trattenersi, dimorare, soggiornare» [finora di origine incerta (DELL, DELI, DEI s. v. mora²) e pertanto probabilmente di origine etrusca] e traduco murce Capue come «dimorò, soggiornò a Capua» (in ablativo di luogo). (È noto che Capua, in origine probabilmente osca, era divenuta una città etrusca fin dal secolo V a. C. e fu conquistata da Annibale nel 212-211 a. C.). Interpreto invece il verbo tleχe come «fu tolto, fu levato» in quanto connesso con la radice del verbo etrusco tul (Liber II 3, 15; III 22; IV 12, 13, 16; V 5, 9, 12; IX 4, 16, 18, 20; X 2; XI 19) probabilmente «togli!, leva!, solleva!» (imperativo forte sing.) da confrontare col lat. tolle (Trombetti, Olzscha): cisum pute tul «e tre volte solleva il calice»; ei(m) tul var «e non togliere affatto». (ET, AV 0.28 – rec, su vaso) tul «solleva (alla salute)!»; tule probabilmente «solleva!», «prendi!», imperativo debole sing., da confrontare ancora col lat. tolle. (ET, Ve 3.32 – 6: su ansa di vaso) mini tule «sollevami!» (= alla salute!).
Pertanto la mia traduzione dell'intera iscrizione è questa: Felsnas La Lethes / svalce avil CVI / murce Capue / tleχe Hanipaluscle «La(ris) Felsinio (figlio) di Letio / visse anni 106 / soggiornò a Capua / (e ne) fu cacciato dall’esercito di Annibale». A mio giudizio va respinto il tentativo, che è stato effettuato e che il Benelli ha approvato, di vedere nella iscrizione il riferimento a qualche episodio bellico avvenuto nelle vicinanze di Capua: nulla di tutto questo traspare o semplicemente trapela dall'iscrizione.

La nota iscrizione della gens Claudia, per la quale il Benelli manifesta titubanze e commette errori, va tradotta esattamente in questo modo: (ET, Cr 5.2 – 4:, su pilastro) Laris Avle Larisal clenar / sval cn suϑi ceriχunce | apac atic / saniśva ϑui cesu | Clavtieϑurasi «Laris (e) Aulo figli di Laris da vivi questo sepolcro hanno costruito; i genitori, e il padre e la madre, (sono) qui deposti; per la famiglia Claudia».

Presento adesso e analizzo la traduzione e il commmento che il Benelli ha fatto della iscrizione della famosa statua di bronzo dell'Arringatore. Ecco il testo esatto dell'iscrizione (CIE 4196; TLE, 651; ET, Pe 3.3 - III-II sec. a. C., su 3 righe):


AULEŚI METELIŚ VE VESIAL CLENŚI
CEN FLEREŚ TECE SANŚL TENINE
TUΘINEŚ ΧISVLICŚ

«per conto di Aule Metelis figlio di Vel questo al dio Tece padre fu donato dalla tuϑina χisvlicś»
Riporto adesso le parole di commento dell'”archeologo” traduttore: «Il soggetto grammaticale della dedica (espressa al passivo) è il dimostrativo cen “questo” (forma contratta di cehen) e intende ovviamente la statua; segue il destinatario, regolarmente al genitivo: fler significa “dio, divinità”, mentre tece sanśl deve essere letto come un unico lessema, composto dal teonimo Tece e dall’appellativo sanś, “padre” (che in ambito divino si alterna al termine apa, esprimente anche il “padre” umano) con la desinenza del genitivo applicata solo a quest’ultimo. Segue il verbo al passivo tenine (con l’uscita -ne che esprime un modo finito del passivo, diverso dal perfetto, indicato da -χe) e l’autore della dedica in ablativo. Tuϑina è un termine che identifica molto probabilmente un qualche tipo di suddivisione territoriale, forse di carattere amministrativo ecc.».
Ed io commento ed obietto: 
1) Perché nella sua traduzione il Benelli salta del tutto il vocabolo vesial
2) Che cosa in questa iscrizione lo spinge ed autorizza a interpretare il dimostrativo cen (accusativo di ca «questo-a») come forma contratta di cehen? (che invece è una forma enfatica di ca, avente il significato di «questo qui», al nominativo (si veda l'iscrizione di San Manno di Perugia). In epigrafia è cosa nota che una traduzione di un'iscrizione viene infirmata e indebolita da qualunque intervento si effettui sul testo effettivo conservato. 
3) Fino ad ora gli etruscologi sono riusciti a individuare un solo morfema come tipico di un verbo passivo (-χe; esempi ziχuχe «è stato disegnato o scritto»; farϑnaχe «è stato generato») ed allora in base a che cosa il Benelli interpreta tenine come un verbo passivo? 
4) In etrusco flereś significa sempre «offerta votiva, ex voto, vittima, statuetta votiva, statua»», mentre non significa mai «dio, divinità», che invece si dice sempre ais/eis
5) Nella nostra iscrizione i vocaboli tece sanśl risultano chiaramente separati ed allora che cosa spinge e autorizza il Benelli ad effettuare la loro connessione, creando un nesso che non ha alcun altro riscontro nel materiale lessicale etrusco conservato? 
6) Egli erra vistosamente a interpretare tece come un nome di divinità, per il fatto che questa è chiamata in sicuri passi di altre iscrizioni Tecum e Tecvm. E questa differenza non è cosa di poco conto, dato che investe i rispettivi fonemi finali dei vocaboli. 
7) Io ho già avuto modo di scrivere che “Chi propone di tradurre tece sanśl «del (dio) Tecum Padre» non si accorge di far entrare illegittimamente una notazione "sacrale" in un'opera statuaria, che invece è evidentemente, totalmente ed esclusivamente "profana", nella quale non c'è nessun elemento, neppure minimo, che faccia riferimento al “sacro” o al “religioso” (richiamo il riferimento già fatto a Giacomo Devoto). 
8) Del vocabolo tuϑina il Benelli dice solamente qualcosa di molto generico e soprattutto per nulla motivato; del secondo χisvlicś non dice assolutamente nulla. 
9) L'“archeologo” Benelli non ha mai citato, neppure una sola volta, nessuno dei miei scritti relativi alla lingua etrusca (13 libri e un centinaio di saggi), evidentemente perché sapeva già, per “ispirazione divina”, che non vi avrebbe trovato nulla di scientificamente valido. Ed invece, se avesse consultato almeno il mio libro Tabula Cortonensis - Lamine di Pirgi e altri testi etruschi tradotti e commentati (Sassari 2000; con qualche lieve correzione odierna), vi avrebbe trovato la traduzione e commento seguenti dell'iscrizione dell'Arringatore, di certo assai più consistente della sua, anche perché ne rispetta totalmente il testo:


AULEŚI METELIŚ VE VESIAL CLENŚI
ad Aulo Metello figlio di Vel (e) di Vesia
CEN FLEREŚ TECE SANŚL TENINE
pone questa statua di Padre il (suo) servizio  
TUΘINEŚ ΧISVLICŚ
di patrocinio pubblico


E commento brevemente questa mia traduzione: tece significato quasi certo «pone», indicativo presente 3ª pers. sing.; da confrontare con l'iscrizione (ET, Co 3.8 – rec, su statuina bronzea di bambino) flereś tec sanśl cver «poni (= accetta) l'ex voto come dono del padre (del bambino)» (supplica alla divinità alla quale era stata offerta la statuina) (TLE 624). tenine probabilmente significa «tenuta, esercizio, svolgimento, servizio» (è il soggetto del verbo tece) [vedi tence, tenϑas(a), tenϑur, teniχunce, tenu]. tuϑineś «del patrocinio», genitivo di tuϑina (REE 55,128; ThLE² 399) «tutela, protezione, patrocinio», da confrontare coi lat. tutela, tueri, che sono di origine incerta e pertanto potrebbero derivare proprio dall’etrusco (DELL, DELI, DICLE). χisvlicś (χisvli-cś) probabilmente «(del) comunitario, generale, pubblico», aggettivo in genitivo articolato, da derivare da χiś «di ogni, di tutto».
Si nota abbastanza facilmente che l’iscrizione ha uno stile ricercato e pure alquanto ampolloso.
Molto probabilmente il personaggio raffigurato nella statua aveva esercitato il suo patrocinio a favore di una comunità cittadina – nella zona di Perugia o, più probabilmente, del Trasimeno - e questa lo ha ricompensato con la grande statua di bronzo. La statua, a grandezza naturale, rappresenta un uomo maturo, con i capelli pettinati a ciocche, vestito di una corta toga e di una tunica bordata da una stretta banda; porta dei calzari. Il suo rango è dimostrato dall'anello che ha alla mano sinistra. Sul bordo della toga si trova l'iscrizione incisa su tre righe; la grafia è ben curata. Il tipo di alfabeto adoperato è quello presente in epoca tardo-etrusca, nell'area di Chiusi e Cortona. Sia la denominazione sia l’abbigliamento rendono molto probabile che in realtà si trattasse di un cittadino romano, che si era assunto il compito di fare da patrono, nelle alte sfere di Roma, di una comunità cittadina etrusca, la quale lo aveva ricompensato con la splendida statua di bronzo.


Massimo Pittau