Ricevo - e pubblico con vera gioia - questo altro articolo dal Prof. Pittau.
Aggiungo che so - dalle risposte che ricevo in feed-back - che il prof Massimo Pittau è criticato da alcuni che (magari senza alcuna competenza specifica: si può essere 'simpatici' o 'antipatici' anche senza motivi pratici) non lo ritengono un valido specialista. Le critiche principali vertono sulla sua 'intrusione' nell'Archeologia: e allora questo articolo risulterà molto esplicativo.
Colgo qui l'occasione per ri-affermare con una certa forza che almeno in Sardegna - ma certamente anche in campo nazionale - non vi è alcuno che gli arrivi in statura almeno alle ginocchia, con l'eccezione dell'ottimo Wagner, che - per forza di cose - è ormai datato.
Non faccio i nomi di coloro che non possono neppure confrontarsi con lui, visto l'attuale stato di virulenta litigiosità che domina il campo dell'epigrafia sarda.
In campo internazionale, vedremo più in là quale sarà il giudizio definitivo di valore (è tenuto in ottima considerazione ed è spesso citato nei testi nazionali e stranieri): ma so con certezza - ad esempio - che il punto di vista sull'Etrusco del Pittau è condiviso da una folta schiera di linguisti internazionali ed è avversato da un'altrettanto folta schiera, dato che - ancora - non esiste un'identità di vedute definitiva al riguardo.
Epigrafia Etrusca
di Massimo Pittau
Sembra del tutto evidente che l'epigrafia è una disciplina
che ha come due manici: con uno di questi essa si connette strettamente
all'archeologia, con l'altro si connette alla linguistica storica o glottologia.
La connessione dell'epigrafia con l'archeologia trova il
suo fondamento essenziale nel fatto che – come mi ha insegnato la prima volta
Giacomo Devoto nell'Università di Firenze – il primo fattore che una iscrizione
offre a un suo interprete è il “supporto fisico” in cui essa risulta scritta.
Nella generalità dei casi avviene che sulle tombe e sulle lapidi sepolcrali le
iscrizioni abbiano un carattere funerario, con l'indicazione delle generalità
dei defunti, della loro età ed eventualmente del loro curriculum; sui gioieli avviene che presentino il nome del donatore
e/o quello del donatario ed eventualmente qualche frase di omaggio; nei
monumenti pubblici presentino il nome di magistrati o di personaggi pubblici
e/o il ricordo di importanti eventi storici; negli oggetti di uso comune
presentino il nome del proprietario, ecc. Ne consegue che l'epigrafista, già
dal supporto fisico in cui è tracciata un'iscrizione, è in grado di intravedere
a grandi linee che cosa essa probabilmente indichi e dica.
Oltre a ciò l'archeologia, in virtù dei contesti archeologici
trovati e interpretati, spesso riesce ad offrire all'epigrafista la datazione
almeno generica di una iscrizione rinvenuta e studiata. Ed avviene anche il
fatto opposto: spesso sono proprio le iscrizioni, ossia è l'epigrafia quella
che dà all'archeologo la più o meno esatta datazione di un monumento o di un
reperto archeologico.
La questione invece della connessione o dei rapporti
dell'epigrafia con la linguistica storica è di più facile evidenza: dopo aver
letto o ricostruito più o meno esattamente una iscrizione antica, l'epigrafista
deve anche affrontare il problema del suo significato generale e dopo quello
del suo significato specifico; deve cioè tentare di prospettare la sua “traduzione”
effettiva.
È evidente e logico che l'intervento preliminare dell'epigrafia
costituisce una condizione sine qua non
per l'intervento successivo della linguistica: un linguista non può affrontare
il problema della traduzione effettiva di un'antica iscrizione se non a patto
che abbia fra le mani il testo, più o meno esatto, quale è stato ricostruito e
letto dall'epigrafista.
Ed anche qui avviene pure il fatto opposto: l'intervento
preliminare del linguista può offrire un valido e anche indispensabile aiuto
all'epigrafista perché legga bene e ricostruisca esattamente il testo
originario di una iscrizione.
* * *
Di certo per il motivo che la sua casa editrice non risulta
molto conosciuta, mi era sfuggita del tutto un'opera di epigrafia etrusca,
pubblicata nel 2007. Quando qualche mese fa di quest'anno 2014 ne ebbi
finalmente sentore, non riuscii a trovarla più in commercio, neppure in quello
antiquario. Solamente da qualche settimana ho avuto modo di averla in prestito
da un mio collega di Università. Si tratta dell'opera dell'archeologo Enrico
Benelli, Iscrizioni Etrusche – leggerle e capirle (SACI edizioni di Ancona, pgg. 302).
Dopo averla letta con interesse e con attenzione, da
linguista quale sono, ritengo di poterne formulare questo giudizio generale:
l'opera è rivolta quasi del tutto nella sola direzione dell'archeologia (e
infatti il Benelli è fondamentalmente un archeologo), mentre - a mio giudizio -
si dimostra grandemente difettosa nell'altra direzione rivolta alla linguistica.
Si presti attenzione a questi fatti facilmente
controllabili nell'opera:
I) Il Benelli prende in considerazione per la sua
disanima solamente le iscrizioni brevi e brevissime, mentre trascura quasi del
tutto le iscrizioni lunghe appena due o tre righe.
II) Dei testi lunghi della
lingua etrusca egli addirittura si limita a ripetere le brevi notazioni
generali che si trovano in tutti i manuali.
III) Egli in generale procede a
dare la “interpretazione generica” di ciascuna delle iscrizioni esaminate,
mentre solamente di poche osa prospettare una “traduzione” puntuale od
effettiva.
IV) In alcune traduzioni egli tralascia di esaminare e di tradurre
vocaboli da lui non compresi.
V) Per alcune iscrizioni egli cade in errori di
carattere linguistico, qualcuno vistoso. Ecco alcuni esempi di questi errori:
Nell'iscrizione ET, AT 1.30 – 4s3i (su base di tufo) eca
śuϑi Nevtnas Arnϑal neś «questa tomba (è) del defunto Arunte *Neutinio» (TLE 198) non è necessario prevedere un originario neśl perché è intervenuta la “declinazione di gruppo” (traduco
gli antroponimi etruschi facendo riferimento a quelli corrispondenti latini).
Sembrebbe strano che il Benelli non abbia intravisto il
significato del vocabolo che ricorre in alcune tombe di Tarquinia e del suo
territorio manim come uguale a «monumento»,
corrispondendo chiaramente al lat. monumentum = monum-entum.
Ragion per cui manim arce significa
esattamente «fece il monumento (sepolcrale)». E inoltre che egli non abbia
intravisto che il monosillabo ma, che
compare in numerosi cippi o lapidi o stele significa appunto «cippo o lapide o
stele funerari» e che probabilmente è l'abbreviazione, lessicale oppure
grafica, del già visto manim «monumento
funerario». Però si comprende bene che il Benelli paga il suo tributo
all'ancora ricorrente ma del tutto infondato pseudoconcetto, secondo cui «la
lingua etrusca non è confrontabile con nessun'altra».
In alcune iscrizioni in cui compare il numerale huϑ
il Benelli lo traduce «sei» anziché «quattro», ma è contraddetto sia dalla
iscrizione ET, Ta 7.81 – 3/2 (su parete di sepolcro che presenta l'immagine di
quattro Caronti) Xarun huϑs «(immagine) del quarto Caronte» (LEGL 96, 136), sia dalla sua evidente corrispondenza col lat.
quattuor, sia infine dal nome dell'antica
città dell'Attica Hyttēnía, già
interpretata come Tetrápolis «quattro
città» oppure «città quadrata».
Inversamente il Benelli interpreta e traduce śa «quattro» anziché «sei», che invece corrisponde
chiaramente al lat. sex. È evidente che
con questa sua decisione il Benelli mira anche lui ad escludere la tesi del
carattere indoeuropeo pure della lingua etrusca; senonché gli archeologi e gli
epigrafisti non posseggono affatto gli strumenti necessari e la competenza
specifica per sostenere o contrastare l'appartenenza di una lingua ad una
famiglia linguistica oppure ad un'altra.
Nell'iscrizione di Annibale (ET, Ta 1.107) io interpreto il
verbo murce come connesso coi lat.
mora «indugio, ritardo», morari «attardarsi, indugiare, trattenersi, dimorare, soggiornare»
[finora di origine incerta (DELL, DELI, DEI s. v. mora²) e
pertanto probabilmente di origine etrusca] e traduco murce Capue come «dimorò, soggiornò a Capua» (in ablativo di luogo). (È
noto che Capua, in origine probabilmente osca, era divenuta una città etrusca
fin dal secolo V a. C. e fu conquistata da Annibale nel 212-211 a. C.).
Interpreto invece il verbo tleχe come «fu
tolto, fu levato» in quanto connesso con la radice del verbo etrusco tul (Liber II 3, 15;
III 22; IV 12, 13, 16; V 5, 9, 12; IX 4, 16, 18, 20; X 2; XI 19) probabilmente «togli!,
leva!, solleva!» (imperativo forte sing.) da confrontare col lat. tolle (Trombetti, Olzscha): cisum pute tul «e tre volte solleva il calice»; ei(m) tul var «e non togliere affatto». (ET, AV 0.28 – rec, su vaso)
tul «solleva (alla salute)!»; tule probabilmente «solleva!», «prendi!», imperativo debole
sing., da confrontare ancora col lat. tolle. (ET, Ve 3.32 – 6: su ansa di vaso) mini tule «sollevami!» (= alla salute!).
Pertanto la mia traduzione dell'intera iscrizione è questa:
Felsnas La Lethes / svalce avil CVI / murce Capue / tleχe Hanipaluscle «La(ris) Felsinio (figlio) di Letio / visse anni 106 /
soggiornò a Capua / (e ne) fu cacciato dall’esercito di Annibale». A mio
giudizio va respinto il tentativo, che è stato effettuato e che il Benelli ha
approvato, di vedere nella iscrizione il riferimento a qualche episodio bellico
avvenuto nelle vicinanze di Capua: nulla di tutto questo traspare o
semplicemente trapela dall'iscrizione.
La nota iscrizione della gens Claudia, per la quale il Benelli manifesta titubanze e commette
errori, va tradotta esattamente in questo modo: (ET, Cr 5.2 – 4:, su pilastro)
Laris Avle Larisal clenar / sval cn suϑi ceriχunce | apac atic /
saniśva ϑui cesu |
Clavtieϑurasi «Laris (e)
Aulo figli di Laris da vivi questo sepolcro hanno costruito; i genitori, e il
padre e la madre, (sono) qui deposti; per la famiglia Claudia».
Presento adesso e analizzo la traduzione e il commmento che
il Benelli ha fatto della iscrizione della famosa statua di bronzo dell'Arringatore. Ecco il testo esatto dell'iscrizione (CIE 4196; TLE, 651;
ET, Pe 3.3 - III-II sec. a. C., su 3
righe):
AULEŚI METELIŚ VE VESIAL CLENŚI
CEN FLEREŚ TECE SANŚL TENINE
TUΘINEŚ ΧISVLICŚ
«per conto di Aule Metelis figlio di Vel questo al dio Tece padre fu donato dalla tuϑina χisvlicś»
Riporto adesso le parole di commento dell'”archeologo”
traduttore: «Il soggetto grammaticale della dedica (espressa al passivo) è il
dimostrativo cen “questo” (forma
contratta di cehen) e intende
ovviamente la statua; segue il destinatario, regolarmente al genitivo: fler significa “dio, divinità”, mentre tece sanśl deve essere letto come un unico lessema, composto dal
teonimo Tece e dall’appellativo sanś, “padre” (che in ambito divino si alterna al termine apa, esprimente anche il “padre” umano) con la desinenza del
genitivo applicata solo a quest’ultimo. Segue il verbo al passivo tenine (con l’uscita -ne
che esprime un modo finito del passivo, diverso dal perfetto, indicato da -χe) e l’autore della dedica in ablativo. Tuϑina è un termine
che identifica molto probabilmente un qualche tipo di suddivisione
territoriale, forse di carattere amministrativo ecc.».
Ed io commento ed obietto:
1) Perché nella sua traduzione
il Benelli salta del tutto il vocabolo vesial?
2) Che cosa in questa iscrizione lo spinge ed autorizza a
interpretare il dimostrativo cen (accusativo
di ca «questo-a») come forma contratta
di cehen? (che invece è una forma
enfatica di ca, avente il significato
di «questo qui», al nominativo (si veda l'iscrizione di San Manno di Perugia).
In epigrafia è cosa nota che una traduzione di un'iscrizione viene infirmata e
indebolita da qualunque intervento si effettui sul testo effettivo conservato.
3) Fino ad ora gli etruscologi sono riusciti a individuare un solo morfema come
tipico di un verbo passivo (-χe; esempi
ziχuχe «è stato disegnato o scritto»;
farϑnaχe «è stato
generato») ed allora in base a che cosa il Benelli interpreta tenine come un verbo passivo?
4) In etrusco flereś significa sempre «offerta votiva, ex voto, vittima,
statuetta votiva, statua»», mentre non significa mai «dio, divinità», che
invece si dice sempre ais/eis.
5) Nella
nostra iscrizione i vocaboli tece sanśl
risultano chiaramente separati ed allora che cosa spinge e autorizza il Benelli
ad effettuare la loro connessione, creando un nesso che non ha alcun altro
riscontro nel materiale lessicale etrusco conservato?
6) Egli erra vistosamente
a interpretare tece come un nome di
divinità, per il fatto che questa è chiamata in sicuri passi di altre iscrizioni
Tecum e Tecvm. E questa differenza non è cosa di poco conto, dato che
investe i rispettivi fonemi finali dei vocaboli.
7) Io ho già avuto modo di
scrivere che “Chi propone di tradurre tece sanśl «del (dio) Tecum Padre» non si accorge di far entrare
illegittimamente una notazione "sacrale" in un'opera statuaria, che
invece è evidentemente, totalmente ed esclusivamente "profana", nella
quale non c'è nessun elemento, neppure minimo, che faccia riferimento al “sacro”
o al “religioso” (richiamo il riferimento già fatto a Giacomo Devoto).
8) Del
vocabolo tuϑina il Benelli dice
solamente qualcosa di molto generico e soprattutto per nulla motivato; del
secondo χisvlicś non dice assolutamente
nulla.
9) L'“archeologo” Benelli non ha mai citato, neppure una sola volta,
nessuno dei miei scritti relativi alla lingua etrusca (13 libri e un centinaio
di saggi), evidentemente perché sapeva già, per “ispirazione divina”, che non
vi avrebbe trovato nulla di scientificamente valido. Ed invece, se avesse
consultato almeno il mio libro Tabula Cortonensis - Lamine di Pirgi e altri
testi etruschi tradotti e commentati
(Sassari 2000; con qualche lieve correzione odierna), vi avrebbe trovato la
traduzione e commento seguenti dell'iscrizione dell'Arringatore, di certo assai più consistente della sua, anche perché ne
rispetta totalmente il testo:
AULEŚI METELIŚ VE VESIAL CLENŚI
ad Aulo Metello figlio di Vel
(e) di Vesia
CEN FLEREŚ TECE SANŚL TENINE
pone questa statua di Padre il
(suo) servizio
TUΘINEŚ ΧISVLICŚ
di patrocinio pubblico
E commento brevemente questa mia traduzione: tece significato quasi certo «pone», indicativo presente 3ª
pers. sing.; da confrontare con l'iscrizione (ET, Co 3.8 – rec, su statuina
bronzea di bambino) flereś tec sanśl cver
«poni (= accetta) l'ex voto come dono del padre (del bambino)» (supplica alla
divinità alla quale era stata offerta la statuina) (TLE 624). tenine
probabilmente significa «tenuta, esercizio, svolgimento, servizio» (è il
soggetto del verbo tece) [vedi
tence, tenϑas(a), tenϑur, teniχunce, tenu]. tuϑineś «del patrocinio», genitivo di tuϑina (REE 55,128; ThLE² 399)
«tutela, protezione, patrocinio», da confrontare coi lat. tutela, tueri, che sono
di origine incerta e pertanto potrebbero derivare proprio dall’etrusco (DELL, DELI, DICLE). χisvlicś (χisvli-cś)
probabilmente «(del) comunitario, generale, pubblico», aggettivo in genitivo
articolato, da derivare da χiś «di
ogni, di tutto».
Si nota abbastanza facilmente che l’iscrizione ha uno stile
ricercato e pure alquanto ampolloso.
Molto probabilmente il personaggio raffigurato nella statua
aveva esercitato il suo patrocinio a favore di una comunità cittadina – nella
zona di Perugia o, più probabilmente, del Trasimeno - e questa lo ha
ricompensato con la grande statua di bronzo. La statua, a grandezza naturale,
rappresenta un uomo maturo, con i capelli pettinati a ciocche, vestito di una
corta toga e di una tunica bordata da una stretta banda; porta dei calzari. Il
suo rango è dimostrato dall'anello che ha alla mano sinistra. Sul bordo della
toga si trova l'iscrizione incisa su tre righe; la grafia è ben curata. Il tipo
di alfabeto adoperato è quello presente in epoca tardo-etrusca, nell'area di
Chiusi e Cortona. Sia la denominazione sia l’abbigliamento rendono molto
probabile che in realtà si trattasse di un cittadino romano, che si era assunto il compito di fare da patrono, nelle
alte sfere di Roma, di una comunità cittadina etrusca, la quale lo aveva
ricompensato con la splendida statua di bronzo.
Massimo Pittau