Da dove provengono
i bronzetti sardi
Introduzione. Alcuni perché.
Oggetti e reperti di rame e bronzo rinvenuti in Sardegna,
sono spesso al centro di discussioni. Pareri difformi – talvolta suffragati da
“prove” dell’archeologia scientifica –
aprono la strada a tesi non proprio ortodosse e a confusione. Si ha talvolta
l’impressione che persino alcuni autori non possiedano l’esperienza diretta
“sul campo” di che cosa realmente comporti la ricerca, l’estrazione e la
fusione dei metalli[1]. Alcuni
restano stupiti dell’aspetto simile all’oro che possiede il bronzo “nuovo”,
conoscendo soltanto quello ossidato dei reperti. Altri non conoscono i tempi
diversi di raffreddamento, necessari ai metalli diversi, dopo la fusione[2].
A prescindere da ciò, di fatto molte domande restano ancora senza una
definitiva risposta. Per citarne solo alcune: quale fosse la provenienza degli
oggetti di bronzo; quale il tipo di vita delle popolazioni che li producevano;
chi organizzava la composizione abbastanza standardizzata e la distribuzione,
degli ox-hide ingots[3] attraverso il Mediterraneo e fino alle coste del Mar
Nero; in che modo fosse organizzato il commercio parallelo degli oggetti di
lusso; quali fossero i navigli…
Non è possibile parlare dei metalli, senza fare un
riferimento alle prime attività minerarie dell’uomo e senza formulare almeno un
paio di considerazioni di base.
La prima considerazione obbligatoria è che lo scavo
minerario è sempre stata un’attività dura e pericolosa: nessuno ci si
dedicherebbe se non dietro costrizione, oppure grandi vantaggi economici,
materiali o morali[4]. Tito Lucrezio Caro (De Natura Rerum, I sec. a.C.) scrive: “Pensa che là alcuni uomini
scendono e scrutano il ferro nascosto, l’oro, le vene d’argento e di piombo;
scavano, in abissi chiusi la roccia compatta, nell’ombra umida e respirano aria
maligna, il fiato malvagio dell’oro nel suolo, nelle putrescenti miniere. Non
si può guardare nel viso questi uomini senza dolore, quando salgono per poco
alla luce: se ancora non li hai veduti, n’avrai sentito parlare, come presto
periscano e quanta parte della loro vita essi perdano ogni giorno, dentro la
terra, in quella fatica sepolta verso cui la miseria li spinge”.
Probabilmente, i primi scavi mai effettuati furono volti a
trovare quella vena ferrosa scura che si chiama ematite, con strumenti di osso, frantumandola fino a
polverizzarla e trasformarla in ocra rossa[5].
Il premio, qui, consisteva forse nell’enorme valore religioso sacrale che –
proprio in tutto il mondo – l’antropologia è riuscita a ricostruire per l’ocra,
dall’uso rituale che l’uomo antico ha fatto ovunque di questo pigmento…
La seconda considerazione è d’ordine morale: come spesso
succede, l’uomo (anche se alcuni negano l’essenza umana a creature pre Homo
Sapiens) si sottopone ad un’attività durissima e pericolosa, non per ciò che è
strettamente necessario alla propria vita, bensì per un bene astrattamente
prezioso, di lusso, se non voluttuario. Ancora
oggi, sembra non avere appreso granché dai propri errori.
In ordine cronologico, due tipi di pietra hanno affascinato
l’uomo, in seguito: l’ossidiana (vetro
vulcanico) e la selce (pietra
sedimentaria ricca in silicio). Siamo ormai a circa 10.000 - 8.000 anni fa,
l’uomo si è abituato a riconoscere l’aspetto naturale di queste pietre e di
altre ancora: è diventato un cercatore, è un geologo arcaico. Apre strade
nuove, anche per mare, che percorrerà per lungo tempo… Ma fa anche commercio,
sia dei suoi beni di lusso che di strumenti di lavoro, tanto che questi si
ritrovati anche a molto più di 200 chilometri dai siti di produzione,
attraverso il mare[6]…
Che l’uomo abbia effettuato un bel po’ di sperimentazione,
con il fuoco, questo è certo: la pirotecnologia è così progredita attraverso un’enorme quantità di tentativi ed
errori. Anche la selce può essere meglio lavorata dopo esposizione al fuoco
(100-400°C): questo trattamento produce fili ed utensili meno resistenti, ma
riduce lo scarto di lavorazione...
Uno dei primi esperimenti deve essere stato effettuato sul
calcare macinato (o su gusci macinati di conchiglie, in sua assenza), ponendone
strati alternati a strati di legna (800°C). Questo fa “calcinare” il calcare,
che, in seguito mescolato con acqua dà la “calce spenta” (idrossido di calcio).
L’idrossido di calcio è un prodotto instabile e, lasciato
riposare, reagisce con il diossido di carbonio e perde vapore acqueo. Ciò che
ne risulta è un intonaco, che può
servire a chiudere le fessure in un muro (mescolato a sabbia) oppure a
realizzare il pavimento di una terrazzatura (mescolato a schegge di calcare).
Siamo in epoca ancora precedente alla terracotta: non si utilizzano ancora le
argille (alluminosilicati), non si usa ancora il forno del vasaio con le sue
elevate temperature, ma i concetti ci sono già tutti, non ci vorrà ancora molta
sperimentazione…
Il rame è un metallo che, allo stato nativo, può essere facilmente reso lucido e di gradevole
aspetto (anche soltanto se trasportato dalla corrente in un fiumiciattolo):
pertanto è facile che il cercatore di pietre lo abbia notato… Purtroppo è
troppo morbido e malleabile, per essere di qualche utilità come strumento: può
però essere indurito – fino a più di due volte, ma diventando anche più
friabile – con la martellatura, anche usando strumenti di pietra o
d’osso. Un antico metallurgo ha scoperto
che un trattamento con il fuoco ed un’ulteriore martellatura elimina questo
difetto di fragilità[7].
Il rame nativo di superficie è stato il primo ad attirare gli osservatori
umani, il primo ad essere impiegato e quindi il primo a scarseggiare. Gli specialisti
dovettero cercare altre fonti[8],
meno pure, di rame, anche scavando, visto che quello superficiale non c’era
più. Queste forme di rame richiedevano l’estrazione per fusione, che non è cosa troppo ovvia da ideare: la tesi
comunemente addotta è quella della scoperta fatta per caso, osservando
l’effetto di un fuoco da campo su pietre contenenti rame. A dimostrare falsa questa tesi è il fatto fisico per cui un fuoco di
tale genere è troppo piccolo, troppo all’aperto e troppo di breve durata:
pertanto produce temperature insufficienti, ed in presenza di troppo
ossigeno.
Non sappiamo con precisione come, né quando si ebbe questa
acquisizione. Sappiamo però, che
la comparsa della terracotta[9]
nell’Asia Occidentale – circa 9.000 a.C. – è stata abbastanza rapidamente
seguita dall’uso dei metalli[10].
Sappiamo anche che le temperature per un forno di vasaio sono alte[11],
sono mantenute per molte ore e che inoltre la presenza d’ossigeno, al suo
interno è al limite della possibilità di combustione, vicina allo spegnimento
per soffocazione.
Naturalmente, altre modalità di scoperta accidentale
potrebbero essere intervenute.
In Oriente, la ceramica decorata a colori, già presente nel
Calcolitico, rende conto dell’abilità tecnica raggiunta nel gestire i forni.
Per esempio, il vasaio sapeva regolare il procedimento di cottura, ottenendo
prima il colore nero (sottraendo ossigeno) e poi il rosso (aggiungendo ossigeno
e quindi ossidando)[12].
Comunque sia avvenuto, i fonditori riuscirono ad estrarre il
rame dalle vene di solfuro, il rame divenne un metallo d’uso pratico molto più
frequente. Avvenne però che i fabbri s’accorsero di un fatto apparentemente
paradossale: al di là del valore della vena di metallo, era quasi più
importante tutta una gamma di
sostanze (dette fondenti), che potremmo
chiamare impurità e che abbassavano il punto di fusione. I primi cercatori, che impiegarono le prime pepite
naturali di rame, raccolte come sassi, e le coloratissime vene superficiali di
malachite e di carbonato d’azzurrite, riuscivano a procurare materiali
discretamente puri ai propri fonditori. Ma in seguito – con l’incremento della
richiesta e l’esaurimento delle fonti di superficie – diedero inizio ad una
obbligatoria attività di scavo, rivolgendosi a vene di solfuro di rame, che era
più difficile da fondere e meno puro.
Quindi, senza inizialmente accorgersene, fondevano nei loro
crogioli rame che non era più puro.
Ogni crogiolo di fusione conteneva, in realtà, ciò che
adesso chiameremmo una lega, cioè non un
composto chimico, bensì una miscela fisica di due (o più) metalli che, insieme,
possono comportarsi come un metallo differente.
Quasi tutte le vene di rame contengono piccole proporzioni
d’arsenico, alluminio, zinco, antimonio, o nichel. Queste si mescolano a
livello molecolare con il rame, durante il processo di fusione. Ciò significa –
in parole povere – che da uno stesso forno fusorio possono uscire, in sequenza,
diverse varietà di leghe di rame, anche
se il materiale di rame è lo stesso ed è stato accuratamente raccolto da un
antico ricercatore esperto di metalli nella parte più ricca di rame della vena
naturale.
Le leghe possiedono comunque sempre un’abbondanza dominante
di rame. In più, una lega di rame possiede un punto di fusione più basso del metallo puro. Il che costituisce un duplice
vantaggio, prima nella fusione, poi nella colatura negli stampi. La fedeltà
agli stampi è maggiore e la lega risulta più dura del rame puro, specialmente
dopo la martellatura.
Il Calcolitico.
Nel periodo Calcolitico[13]
– nel quale coesistono pietra lavorata e rame – la produzione fusoria appare
ancora casuale: la maggiore o minore purezza del rame non è indirizzata all’uso
dello strumento finale. Si rinvengono strumenti da lavoro con una bassa
quantità d’arsenico (troppo molli) e monili con un’elevata quantità d’arsenico
(con una durezza non richiesta). Probabilmente, ciò è dovuto al fatto che
l’arsenico era ancora sfruttato soltanto per l’abbassamento della temperatura
di fusione, mentre non erano ancora noti i risultati sul risultato finale in termini
di durezza.
La città che meglio simboleggia il Calcolitico è Catal
Huyuk. Che essa dovette il suo successo iniziale all’industria dell’ossidiana[14],
lo deduciamo dal clima (studi dendrocronologici) del tempo, che era anche più
asciutto di quello attuale e quindi era inadatto all’agricoltura. Però, la città che abbiamo scavato fin
qui giace su 12 piani, con edifici estremamente elaborati, splendidamente
decorati e dipinti e molto avanzati per una città del 7400 a.C., testimonianza
di uno dei primi “boom economici” nella storia dell’uomo, durato un periodo di
circa 1000 anni! A determinarlo dev’essere stato il commercio: Katal Huyuk era
una ricca città di frontiera (dell’antica Mezzaluna Fertile, ma l’analogia con
il nostro recente Wild West è in parte calzante) tenuta in vita dalla necessità
per l’ossidiana in un’epoca pre metalli, che le permetteva d’importare beni
preziosi e di commerciare in corallo e conchiglie dal Mare Mediterraneo ed in
monili preziosi (perle e pendenti di varia provenienza) ed in selce d’origine
Siriana.
Per mezzo di una serie lunga e paziente di tentativi ed
errori, i primi metallurghi riuscirono probabilmente ad associare alcune
precise misture diverse dei materiali naturali scavati dalle miniere, con
determinati risultati desiderati diversi da ottenere. Insomma, un fabbro
esperto riusciva ad avere un discreto controllo sulla qualità del prodotto
finito, con caratteristiche desiderate di durezza o malleabilità e lucentezza,
a seconda che l’oggetto fosse destinato ad essere un’arma o un attrezzo, oppure
un monile o uno specchio.
Un fabbro esperto era in grado di percepire le qualità
d’ogni singola colata del metallo di fusione che stava lavorando.
Probabilmente, quindi, sistemava nella sua fucina i diversi lingotti in ordine
di durezza e qualità. Presumibilmente, pur privo di un laboratorio chimico,
riusciva a mantenere un’approssimazione discreta di bronzo con stagno/arsenico
al 5-10%. La durezza ottenuta era più verosimilmente verificata durante la
faticosa fase di martellatura del lingotto
ancora rovente, quindi dopo la fusione,
ma non troppo tardi. Il passo conseguente, per rimediare agli errori, doveva
essere quello di ri-fondere insieme i lingotti posti alle due estremità, il più
tenero ed il più duro, per tornare ad avere le desiderate qualità. Un fabbro di
vera esperienza e di grande sensibilità era quello che riusciva a trasferire
queste sue già sofisticate osservazioni anche al materiale naturale di vene
diverse ancora da fondere, per ottenere fin dai primi momenti la ricetta giusta
e risparmiare – così facendo – combustibile e fatica. Con il tempo, qualcuno
scoprì che alcune sostanze (dette scorificanti) aiutavano il processo d’estrazione del metallo
ricercato dal minerale grezzo, forzando le impurità indesiderate a separarsi dal
rame fuso più denso, per galleggiare verso l’alto in uno strato fuso di scorie.
Per questo, i fonditori aprivano degli appositi scarichi di terracotta siti ad una certa altezza della fornace, per
scremare via le scorie ancora fuse in vasche separate di raccolta. Una delle
sostanze scorificanti migliori è ancora oggi la Fayalite (Silicato di ferro, Fe2SiO4),
una sostanza molto rara, ma che si reperisce in combinazioni equalitarie (1:1)
con l’ematite (ocra, Fe2O3) e con il quarzo (diossido di
silicio, SiO2). Dato che il quarzo e l’ossido di ferro sono molto
comuni, gli antichi fonditori scoprirono presto che alcune vene contenevano
impurità che erano auto scorificanti. Il passo logico successivo è l’aggiunta
di quarzo o sabbia a materiali ferrosi e d’ocra a materiali ricchi di silice,
per avere una rapida e completa scorificazione alla temperatura di circa 1120°C
[15].
Il bronzo.
L’età del bronzo[16]
inizia in quel preciso momento evolutivo
della società umana in cui ci si accorge della superiorità definitiva del
metallo rispetto alla pietra: il rame ed il bronzo sono belli, luccicano come
l’oro. Il bronzo possiede caratteristiche abbastanza simili a quelle delle
pietre migliori, anche se non proprio all’altezza. Può essere rifuso e
riutilizzato per sempre. Ma – soprattutto – permette di costruire il pugnale e
la spada, oggetti impensabili, prima, con la pietra. Le tecniche di guerra ne
saranno modificate per sempre. Il fabbro – sporco di fuliggine, che tossisce ed
ha un cattivo udito, che ha numerose cicatrici chiare sugli arti e spesso
zoppica – diviene metallurgo, acquista dalla propria faticosa arte un enorme e
quasi magico potere, è riconosciuto dalla comunità come ben più che necessario,
indispensabile, assurge allo status d’eroe e diviene addirittura divino. I
fabbri dell’età del bronzo erano spesso seppelliti con gli arnesi della propria
rumorosa e pericolosa professione: incudine, martello, pinze e stampi.
È così che nasce il mito divino di Efesto[17].
Il bronzo è una lega, composta di rame per il 95 - 85% e per
il rimanente 5 -15% di stagno o arsenico, benché altri metalli possano essere
presenti in piccole quantità[18].
La sua caratteristica è quella di fondere ad una temperatura più bassa del rame puro, pur essendo più duro
dello stesso. Il bronzo di stagno
è facile da lavorare e fonde a 950°C, piuttosto che ai 1084°C che sono
necessari per il rame. Ambedue i tipi di bronzo (stagno e arsenico) producono
armi e strumenti robusti, che conservano il filo altrettanto bene o meglio
della pietra (selce) una volta che siano stati rinforzati a mezzo martellatura[19].
Le vene di rame arsenicale sono più comuni di quelle di
stagno e permettono di ottenere un bronzo d’elevata qualità.
Il bronzo arsenicale non si stampa altrettanto bene come
quello di stagno, ma ne possiede la durezza. Presumibilmente, la scelta fra i
due tipi di bronzo non deve essere stata facile, neppure quando tale scelta si
è resa disponibile ed è stata riconosciuta come una possibilità reale.
Inizialmente è stata la facile disponibilità locale a dettare la scelta.
Dopo il 3000 a.C. i bronzi Cretesi e del Mediterraneo
Occidentale sono prevalentemente
arsenicali, quelli Egiziani lo sono quasi esclusivamente, mentre quelli Anatolici sono fatti con
ambedue i tipi.
È possibile che queste differenze siano casuali. Va notato
che la stannite (Cu2FeSnS4), ad elevato contenuto di
stagno, non è facilmente riconoscibile ad occhio nudo dai minerali a contenuto
arsenicale (arsenopirite, FeAsS ed enargite, Cu3AsS4). È
anzi possibile che il primo uso di vene di stagno sia stato dovuto ad un errore di cercatori di metalli in cerca di vene arsenicali…
Uno dei più ricorrenti temi – ogni volta che si parli di
bronzo – è quello dell’estrema rarità dello stagno, necessario per comporre la
lega. Ma, visto che bronzo più che soddisfacente può ottenersi anche senza lo
stagno, perché mai – ad un certo punto – ci si è rivolti soltanto ad una
lega che richiedeva un metallo pressoché introvabile?
Il motivo è – con ogni probabilità – di tipo medico. I
cercatori di metallo saggiano il suolo con lo sguardo ed i loro strumenti. Gli
scavatori lavorano a freddo, rompendo la roccia con mazze di pietra non
immanicate, legate con lacci di cuoio o di fibra (seppure dopo avere causato
uno shock termico alla roccia). I fonditori lavorano all’esterno ed i fumi
della fusione sono dispersi dal vento. Ma il fabbro lavora al chiuso, chino sul
suo artefatto bianco di calore, sprizzante scintille e soprattutto fumante di
vapori arsenicali, che non può evitare di respirare, durante la battitura e la
colata nello stampo…
Non sono i sintomi d’intossicazione acuta da arsenico quelli che ci riguardano qui[20].
Respirando la polvere arsenicale contenuta nei fumi, i primi sintomi più
probabili e comuni sono costituiti da disturbi respiratori superiori,
perforazione ischemica del setto nasale, seguiti da cancro polmonare.
Probabilmente sintomi non molto notati a quei tempi. Esiste però un’altra serie
di sintomi, che probabilmente non passava inosservata neanche allora, malgrado
il fatto che la sua comparsa richieda un certo numero di anni d’esposizione.
Alcuni segni sono cutanei: consistono innanzitutto in un’iperpigmentazione al tronco ed agli arti, con distribuzione simmetrica
bilaterale, spesso “a goccia di pioggia” (macchie scure con un centro chiaro),
spesso riguardante anche la mucosa buccale e specialmente le pieghe cutanee.
Nei punti di pressione cutanea si forma poi un’ipercheratosi delle piante dei piedi e dei palmi delle mani, di
tipo nodulare e qualche volta “a corno”, delle dimensioni fino ad un
centimetro, talvolta con fissurazioni dolorose delle piante dei piedi.
Un corteo sintomatologico impressionante, fatto di debolezza
e facile stancabilità, epatomegalia, malattia polmonare cronica, congiuntivite,
rinite, disuria, perdita dell’udito, edema duro degli arti, diabete e
nefropatia, poteva sicuramente preoccupare gli interessati.
Ma quello che deve essere stato messo, prima o poi, in
diretta connessione con l’arsenico è il danno di conduzione nervosa[21]
aggiunto al danno vascolare obliterante, risultanti in claudicazio
intermittens (zoppia ciclica, dopo alcuni
passi, risolta dal riposo) e – talvolta – persino in gangrena secca con
amputazioni spontanee di parte degli arti.
Ci si era sempre chiesti per quale strano capriccio della
creatività mistico-religiosa degli antichi Efesto fosse un dio deforme e zoppo:
ecco la ragione, che ci offre anche la prova della connessione che già gli
antichi avevano correttamente fatto fra il mestiere di fabbro e la sua malattia
professionale.
L’ostinata ricerca del rarissimo (e quindi preziosissimo)
stagno è la dimostrazione che avevano anche trovato il rimedio migliore:
evitare l’esposizione alla sostanza tossica.
Per circa 2000 anni, (con l’eccezione dell’Egitto, che ha
continuato ad usare l’arsenico fino al 2000 a.C.) la lega di scelta della più
avanzata schiera delle civiltà occidentali è divenuta quella rame/stagno:
ottima, facile da lavorare e non dannosa, ma rara, difficilissima a trovarsi e
causa – allora – di grande potenza per chi deteneva l’accesso alle miniere e –
oggi – ancora di molte dotte
discussioni.
Efesto e Vulcano, quindi, sono la trasposizione in campo
mistico della lunga obbligata agonia di molti fabbri dell’età del Bronzo. I
loro successori, nel tardo bronzo e nell’età del ferro, non avranno certamente
più questo problema.
Pare che l’arseniosi cronica abbia mietuto molte vittime
illustri, oltre a quelle ignote che una divinità zoppa onora e simboleggia: tra
questi potrebbero essere Francesco I de’ Medici, Giorgio III d’Inghilterra e
Napoleone. Si pensa anche che la cecità finale di Monet , i gravi disordini
neurologici di Van Gogh e persino il diabete di Cezanne possano essere derivati
dall’arseniosi, per via del continuo contatto cutaneo con colori a base di
arsenico (il verde smeraldo, ad esempio)[22].
È evidente che un’età del bronzo si può avere soltanto là
dove rame e stagno siano disponibili in natura, dove i cercatori di metalli
abbiano suggerito gli scavi e poi i fonditori ed i fabbri abbiano sviluppato le
loro tecniche, per invogliare – infine – i commercianti a rifornirsi di
manufatti o lingotti preziosissimi per l’epoca, creando le vie di comunicazione
marine e terrestri.
Ur ed altre città mesopotamiche, poco dopo il 3000 a.C. già
producono manufatti in bronzo, che in seguito si diffondono in tutto il Medio
Oriente. Molte regioni, però, non hanno tracce di un’età del bronzo, passando
direttamente dal calcolitico all’uso del ferro.
Lo stagno.
Si è molto favoleggiato sull’origine dello stagno per le
fonderie antiche, fino a quando non si sono scoperti più di 40 siti, sedi
d’antiche miniere, sulle montagne del Tauro, in Turchia[23].
Si tratta di zone che offrono anche oro, argento e piombo. Gli scavi di Catal
Huyuk hanno portato alla luce lavori in piombo fuso (tardo III millennio) ed in
argento (tardo IV millennio), a dimostrazione che le tecniche fusorie si
stavano affinando già da molto tempo, prima di dare il proprio nome ad un’era
innovativa dell’evoluzione dell’uomo. Esistevano tre fonti di stagno:
l’Afganistan del nord est, Kestel-Goltepe in Anatolia e le miniere dell’ovest
europeo (Spagna, Bretagna e Cornovaglia).
Il Taurus
produceva probabilmente lo stagno necessario per i primi bronzi di
stagno per il medio oriente. Goltepe produceva solo stagno, Kultepe e Acemhuyuk
erano centri di lavorazione e smercio. Il rame proveniva da altri siti. La
grande ricchezza di Troia II è stata ipotizzata dipendere dalla disponibilità
quasi illimitata di stagno…
La vena dominante di stagno è la cassiterite, cioè l’ossido di stagno (SnO2): si
rinviene sotto forma di granuli bruno nerastri nelle sabbie alluvionali. Ed in
alcune zone è proprio ciò che rimane, come minerale residuo, dopo la
disgregazione finale dei graniti (prevalentemente SiO2 e Al2O3)
in sabbie ed argilla (filosilicati).
Per questo motivo, in realtà è possibile che le prime
osservazioni sulle proprietà dello stagno siano state fatte dai vasai: depositi
di caolinite (idrosilicato d’alluminio) si rinvengono spesso presso le
concentrazioni granitiche ed alcuni granuli di cassiterite potevano quindi
restare intrappolati nella creta dei vasai. Dato che la cassiterite fonde a
soli 600 gradi, è possibile formulare l’ipotesi che il vasaio può essere
stato lo scopritore accidentale della fusione dello stagno. La pirotecnologia del vasaio, estesa ai materiali
terrosi e metallici, in forni sempre più caldi e perfezionati, condotta con
esperimenti svariati e non scoraggiati dai sicuramente numerosi insuccessi, può
avere condotto alla scoperta accidentale dell’estrazione con il calore.
Azzurrite e malachite (di colore blu ed azzurro: forse messi nel forno alla
ricerca di pigmenti per i vasi) sono sostanzialmente minerali di carbonato di
rame. Il carbonato si scinde al calore e liberando vapore si trasforma in ossido
di rame (di colore dal rosso al nero). Se
si procede con l’esposizione a temperature ancora più alte, in scarsità
d’ossigeno, il carbone brucia fino al monossido, piuttosto che al biossido di
carbonio: il monossido di carbonio porta via un atomo d’ossigeno all’ossido di
rame, lasciando rame in forma metallica.
Da qui, il processo, le tecniche ed i forni, tutto si è
specializzato in funzione della produzione del metallo: è nato un mestiere
totalmente differente. Naturalmente, le
cose possono essere andate anche diversamente, ma quella sopra descritta sembra
una sequenza logica, verosimile ed affascinante d’avvenimenti.
Alcune date. Stato d’avanzamento dell’arte.
Nel 3500 a.C. vari metalli venivano usati in Mesopotamia,
non solo rame e piombo. Il tutto è il risultato del periodo Sumerico, che ha creato
le condizioni per attirare nella zona anche quelle materie che non vi si
trovavano naturalmente: la Mesopotamia è prevalentemente di natura alluvionale,
quindi non si può parlare di miniere. Oro e argento erano già in uso. L’argento
fu dapprima un prodotto collaterale del piombo, poi fu utilizzato per se
stesso. Il bronzo apparve nel 3000 a.C. grazie anche all’accessibilità di
depositi di stagno non lontani da abbondanti depositi di rame. Nell’iconografia
si distinguono le divinità per la presenza di un copricapo munito di corna.
Nel 3200 a.C. Otzi – l’uomo di Similaun, nelle Alpi – aveva un’ascia di rame nativo, ed il
resto del suo bagaglio era ancora tecnologia litica.
L’arcere di Amesbury,
(rinvenuto insieme a molte punte di frecce nella propria tomba, forse uno dei
primi fabbri inglesi) nel sud dell’Inghilterra, presso Stonehenge, possedeva
lame di rame proveniente da Francia e Spagna: cioè aveva la stessa
tecnologia di Otzi, ma mille anni dopo di lui,
nel 2300 a.C. Un secolo dopo, però, in Inghilterra si fonde già il bronzo,
senza passare per la fase di rame arsenicale. E’ una curiosa coincidenza che
l’inizio dell’uso del bronzo in Inghilterra si sia avuto parallelamente alla
caduta di Los Millares ed al sorgere di El Argar in Spagna, ambedue collegate
(prima da commercianti Minoici e – dopo Thera – Micenei) alla fornitura dello
stagno all’Oriente Mediterraneo. È invece indicativo che – all’inizio dell’Età
del Bronzo – non si difendessero le miniere di metallo, come invece si era
evidentemente costretti a fare in quella tarda.
I lavori in metallo rinvenuti nelle tombe reali Sumere (2650
a.C.), forse originali d’altri luoghi, sono già di grande bellezza. Nel 2500
a.C. compaiono rivetti e saldature, nelle quali viene bene impiegato lo stagno.
La tecnica di fusione in stampi è così ben conosciuta che permette di eseguire
statue in dimensioni naturali e statuette con la tecnica della “cera persa”. I
Sumeri ci hanno lasciato cataloghi con descrizioni di150 minerali differenti.
Nei testi cuneiformi lo stagno è detto Annaku, ma le sue fonti d’origine sono (volutamente?) descritte in modo
ambiguo.
Nel 2350 a.C. re Sargon d’Akkad invade l’Anatolia dalle sue
pianure, per garantire percorsi sicuri al commercio del metallo. Vanta che una
singola carovana abbia trasportato 12 tonnellate di stagno, sufficienti a
produrre 125 tonnellate di bronzo e pertanto ad equipaggiare una grande armata.
Si perfeziona la tecnica della “cera perduta”; nascono e si moltiplicano i
sigilli a cilindro. Nel 2200 Akkad è già caduto, in seguito a guerre civili.
Gli Assiri succedono agli Accadici come potere dominante nel
nord dell’Irak. Si continua a portare lo stagno a Kultepe – ad un prezzo molto
elevato – fino al 1950-1850 a.C., con spedizioni a dorso d’asino, dalla
capitale Assur. Probabilmente, questo si fa perché il know how tecnico ed artigianale si trova lì, anche se ormai
le miniere non sono più fruttifere.
Quando la fusione di vene di solfuro di rame divenne
economica – circa nel 1600 a.C. – Cipro diventò un anello vitale nella catena
dei commerci delle culture medio orientali, per un periodo di circa 500 anni:
non solo costituiva un punto d’attracco strategico per molte rotte, ma il suo
sottosuolo produceva enormi quantità di rame. Basti la considerazione che – con
moderne tecniche di ricerca – non sono state trovate vene di rame che non
fossero già state sfruttate anticamente e che i circa 40 depositi di scorie di
scavo minerario antico sono stati valutati in peso circa 4 milioni di
tonnellate[24].
I ciprioti usavano bronzo e rame come moneta[25]. Nel 1470 a.C. Cipro pagò un debito al faraone
Tutmosi III con 108 lingotti di rame, del peso di circa 30 kg ciascuno, colati
in forme che oggi definiamo ox-hide[26].
Dal momento che gli ox-hide ingots sono
stati ritrovati lungo tutti i paesi costieri – per non citare le isole – sparsi
nel Mediterraneo, incluso il Mar Nero, è doveroso trarre due deduzioni: il
commercio avveniva in massima parte per via mare; i lingotti di rame erano
un’accettabile forma di pagamento e pertanto, di fatto, costituivano già una
moneta.
Nel relitto di Ulu Burun, rinvenuto presso Capo Gelidonya in
Turchia (1319 ±
2 a.C.[27])
viaggiavano 10 tonnellate di lingotti di rame (354 oxhide e 120 piano-convessi)
e una tonnellata di lingotti di stagno, strumenti di bronzo nuovi mai usati,
metallo di scarto da ri-fondere, forge e strumenti da fabbro[28].
La nave portava anche oggetti di lusso considerati doni: resina di terebinto (sntr), ebano egiziano, scettri d’avorio, anelli di
conchiglie del Mar Rosso, 175 lingotti di vetro, uova di struzzo, zanne
d’elefante e denti d’ippopotamo. Vista la grande dovizia di beni africani ed
asiatici, rari e preziosi a bordo, forse si dovrebbero riformulare le ipotesi
sui motivi ed obiettivi del viaggio, oltre che su qualità e ruolo dei
personaggi presenti sul vascello e dei committenti: più verosimilmente non si
trattava solo di un comune viaggio commerciale “di linea”.
L’evoluzione della tecnica metallurgica è stata descritta e
studiata – in alcuni siti meglio che in altri – tanto da potersi affermare che
i primi forni fusori erano piccoli, siti presso le zone di scavo, ma in
posizioni alte, in cui il vento potesse forzare il calore della fiamma a valori
più elevati[29]. Erano
fornaci alte circa 80 centimetri con uno strato d’argilla che rivestiva un
fondo d’arenaria. Il combustibile era dato dal legno delle acacie del deserto.
Alcuni esperimenti hanno dimostrato che tali fornaci raggiungevano temperature
comprese tra 1180 e 1350 °C, se aiutate da mantici a pelle d’animale. Forse si
utilizzava anche il carbone (sappiamo che altrove si poteva usare l’olio
d’oliva). Il metallo prodotto in questo modo richiedeva ulteriore lavorazione
con martellamento a freddo oppure una seconda fusione.
Quando gli Egizi entrarono in possesso di queste zone di
produzione spostarono i forni a valle, munendoli tutti di grandi mantici
efficaci e rivestirono i forni di una specie di cemento, rendendoli capaci di
maggiori quantità e temperature. È l’epoca in cui si dà inizio a grandi opere
di fusione, con la produzione d’enormi porte templari, colonne imponenti,
alcune delle quali diverranno famose e saranno citate e ricordate ancora molto
tempo dopo la loro distruzione.
L’archeologia scientifica ha studiato la composizione degli
oggetti metallici e non metallici resi disponibili e contestualizzati negli
scavi dall’archeologia classica. Le metodiche impiegate sono svariate e
complesse (sorgenti fotoniche avanzate – APS[30];
spettrometria di massa al plasma – MC-ICPMS[31]),
ma le più frequenti sono due: l’analisi d’attivazione neutronica (NAA) e l’analisi degli isotopi del piombo (LIA), che sono state usate su metalli, vene
metallifere, terrecotte, monete ed altri materiali[32].
La prima considerazione doverosa, qui, è che il rapporto
tra gli elementi chimici ed il comportamento umano è enormemente più complicato
di quanto si potrebbe pensare: deve
esistere un proficuo dialogo reciproco tra gli scienziati dei laboratori e gli
archeologi sul campo, ma la responsabilità ultima – nel ricostruire
un’interpretazione finale che possieda qualche significato culturale – è tutta dell’archeologo.
Muhly, già nel 1977 espresse grande scetticismo circa gli
studi di provenienza: indicò i lingotti ox-hide come il miglior oggetto di
studio, asserendo che non si sarebbe potuta raggiungere alcuna conclusione se
non si fosse scoperto come, perché e dove
erano fatti i lingotti[33].
Da allora, molti studi sono stati condotti, per distinguere tra rame nativo e rame estrattivo, tra
rame puro e leghe, tra bronzo di stagno ed altro, usando, oltre alle tecniche
sopra descritte, anche la spettrometria da assorbimento atomico e l’emissione
di raggi gamma protone indotta[34].
Ma l’attenzione si è focalizzata sugli studi LIA, considerati – alla fine – i
migliori e più accurati, specialmente nell’escludere inequivocabilmente la provenienza degli artefatti da
determinate vene[35].
Una cinquantina di oxhide ingots provenienti da Cipro, Creta e Sardegna sono ciò su cui
maggiormente si è focalizzato lo studio. La composizione in isotopi di piombo
di numerosi lingotti provenienti da questi siti, come anche quelli del relitto
di Ulu Burun, non è compatibile con una loro provenienza cipriota[36],
contrariamente a quanto inizialmente creduto[37].
Sorvolando sulla vasta messe di studi parziali, al momento le conclusioni rendono impossibile affermare che
un’isola (peggio ancora, un deposito singolo di un’isola), possa essere stata
l’unica provenienza dei lingotti a forma di ox-hide[38].
L’ipotesi di una singola origine era già negata da studi del 1995, che
riconoscevano almeno cinque siti differenti come origine dei lingotti[39].
Pooling e recycling sono sicuramente intervenuti[40].
Per ciò che riguarda la Sardegna, in almeno 26 siti
differenti, ben distribuiti attraverso tutta l’isola, si riscontrano tracce di
riciclaggio a mezzo rifusione dei metalli, a partire da “depositi” comprendenti
scorie, manufatti danneggiati, lingotti a panelle (lingotti piano convessi) e
lingotti a pelle di bue. La maggior parte di questi ripostigli contiene
lingotti oxhide interi o frammentati ed è comunemente datata tarda età del
bronzo / ferro iniziale[41].
I lingotti oxhide analizzati contengono in genere rame più puro dei lingotti
piano convessi locali[42]
che spesso contengono elevate percentuali di ferro o piombo (30-50%)) o anche
di stagno (10%), il che li rende già lingotti di bronzo. La possibilità di
usare elevate percentuali di piombo o di ferro per fondere oxhide ingots è stata perlomeno messa
in discussione[43]. Due esempi
bastano a convincere del riciclaggio sardo. Sa Mandra ‘e Sa Giua (SS) ha
offerto un deposito di fonditore, contenente oggetti parzialmente fusi insieme
e permettendo di scoprire quali metalli un fabbro riteneva utile recuperare[44].
Sette campioni su nove (un lingotto
oxhide con 1% di ferro ed 1,2% d’arsenico e otto lingotti a panelle) contenevano una tale percentuale
di ferro (fino a 10, 68% in un campione) che avrebbe compromesso la durezza
finale dei manufatti[45]
senza intervenire sulla composizione. A Sedda ‘e sos Carros (Oliena – Nu),
l’enorme quantità di metallo recuperato depone per un centro di riciclaggio,
anche se la presenza di 6 panelle indica un’altra fonte d’approvvigionamento[46].
Anche in questo caso, l’analisi ha mostrato alti contenuti percentuali di ferro
e piombo (fino al 50%); altri lingotti contengono stagno (3-10%), ma non si sa
se siano stati deliberatamente composti così, oppure provengano da materiale
recuperato.
L’elevata quantità d’arsenico dei lingotti a pelle di bue
in Sardegna (da 0,16% a 0, 54%) a fronte dell’assenza d’arsenico e
dell’irregolare presenza di ferro nei lingotti di Cipro indica un’origine
diversa. Questo è in contrasto con
l’analisi LIA condotta da Gale[47],
che attribuiva inizialmente una medesima origine cipriota anche ai manufatti
sardi.
Uno studio isotopico del piombo e chimico, condotto[48]
su oggetti di rame e di bronzo recuperati dai ripostigli di Arzachena (21),
Bonnanaro (10) Ittireddu (34) e Pattada (20), ha mostrato che tutti i frammenti
di lingotto erano di rame puro, con una sola d eccezione da Ittireddu (11%
stagno). Gli oggetti di bronzo contenevano il 10,8% di stagno. Numerosi
frammenti di spade di piccola taglia, provenienti da Arzachena, contenevano
solo 1% di stagno, (il che le avrebbe rese armi inefficaci e conferma l’ipotesi
che fossero votive). Il metallo
proveniente da Arzachena possiede una vasta gamma d’elementi costituivi e
diversi rapporti di isotopi del piombo, ciò che lo differenzia dal metallo
degli altri siti (e forse è dovuto a sperimentazione con materiale di differente provenienza). Molti lingotti
hanno una firma isotopica simile a quella dei lingotti ciprioti, ma alcuni sono
perfettamente compatibili con una produzione locale. Gli oggetti di bronzo non
hanno una composizione isotopica caratteristica dei lingotti ciprioti e
contengono piombo locale: la provenienza è compatibile con un’origine dal
Sulcis Iglesiente o da Funtana Raminosa.
Con certezza, comunque, si può affermare che l’abitudine di
raccogliere in grandi quantità (in ripostigli appositamente scelti, presso le
fonderie), e ri-fondere gli scarti e gli artefatti metallici bronzei – oltre ai
lingotti ox-hide ed alle panelle – era largamente diffusa in Sardegna.
Altrettanto si può dire avvenisse a Cipro e nel Medio Oriente. E’ quindi molto
probabile che i bronzetti in nostro possesso abbiano in precedenza avuto forme
differenti…
È degno di nota il fatto che, mentre i lingotti di rame
“puri” possono essere fatti risalire per esempio a Cipro, gli artefatti e le
leghe sono spesso più compatibili con un’origine dalle miniere di Laurion
(piuttosto che della Sardegna o di Cipro). Ma sappiamo che Laurion, nell’età
del bronzo, era sfruttata per le sue vene di piombo e che il piombo era
presente in parti minime nel rame di
Cipro.
Esiste una risposta semplice a questo solo apparente
problema: evidentemente, il piombo contenuto nelle leghe ha una provenienza
differente da quella del rame con cui è
legato. Quindi, si rende necessario studiare e comprendere non soltanto i
dettagli sulla produzione dei
metalli, ma anche sul loro commercio
e sul loro consumo e destinazione.
La zona di distribuzione dei lingotti ox-hide va da Anatolia ed Egitto nell’est, fino alla Sardegna
nell’ovest ed al Mar Nero nel nord. Si può formulare l’ipotesi che le vene
metallifere di rame della Sardegna e di Cipro abbiano contribuito in quantità
preponderante alla composizione dei lingotti a forma di pelle di bue, ma che
non ne sono state le uniche origini, in un sistema dinamico interregionale ed
interdipendente ancora da comprendere bene, che ha determinato però una certa
uniformità finale della composizione isotopica dei lingotti stessi.
In definitiva, pertanto, i lingotti non sono pienamente
utilizzabili in uno studio di provenienza: essi costituiscono un aspetto della
modificazione dei metalli nella Tarda Età del Bronzo, nel contesto di un
probabile movimento di commercio che comprendeva anche la ceramica (e, forse,
altri beni) ed in cui la standardizzazione prefigura già l’introduzione della
moneta in un ambiente in espansione, di sempre crescente complessità in scambi
socio politici.
Esiste una chiara differenza tra beni primari (ad esempio il metallo, che richiede una propria
linea tecnologica fatta di cercatori, fonditori e fabbri ed includente alcune
materie come il combustibile in loco) e beni di lusso e di prestigio (anch’essi richiedenti una propria linea
tecnologica ed alcune materie prime). Questa differenza non può non avere peso,
di fronte ai precisi limiti di capacità dei vascelli coinvolti nel commercio parallelo di questi beni. Molti
autori escludono che beni di prima necessità (cereali, olio e vino), almeno nel
Bronzo Antico, fossero oggetti di commercio: oltre che per problemi di spazio a
bordo[49],
anche per via della loro ridotta produzione ovunque, che non permetteva
eccedenze[50]. Il
ritrovamento nella zona Egea di recipienti e specialmente di fiasche tappabili
(Minoico Antico I: 3500-2900
a.C.) è stato naturalmente messo in relazione con liquidi preziosi, più spesso
vino ed olio prodotti dall’uomo. Ma in genere si esclude che esistesse una
grande produzione e quindi un “fiorente commercio” di granaglie, di olio e di
vino nel Bronzo Antico (cosa confermata, per esempio, dal ritrovamento di
lampade riferibili ancora al Tardo Minoico e funzionanti con cera d’api e non
con olio). La presenza archeologica dello stagno e delle leghe, lascia
trasparire che i commerci – anche dei beni archeologicamente invisibili –
avvengono più tra l’Anatolia, le Cicladi e Creta, piuttosto che con la Grecia
Continentale. L’influenza delle Cicladi è evidente nelle ceramiche e nelle
figurine dette, appunto “cicladiche”. Il commercio internazionale del Bronzo
Antico non sembra quindi imperniato sul cibo, bensì su beni esotici e sulle
conoscenze tecniche. Non differente doveva essere la situazione per ciò che
riguardava la Sardegna.
Il costo del combustibile.
L’estrazione del rame dal minerale grezzo richiedeva circa
300 chili di carbone per produrre un chilo di rame da 30 chili di vena di
solfuro di rame. Per una tonnellata di carbone di legna servono 12 – 20 metri
cubi di legna.
L’uso del legno come combustibile fu enormemente
incrementato, a livelli tali che la vasta regione medio orientale non poteva
sostenere in alcun modo. Persino gli anelli d’accrescimento dei travi di
ginepro da Katal Huyuk dimostrano che anche lì la crescita delle piante arboree
era lentissima per la scarsità d’acqua durante tutto l’anno. Le città della
zona, che nascevano e crescevano in numero, erano costrette a costruire grandi
cisterne, necessarie per la stagione più secca; richiedevano la disponibilità
di vari materiali a tenuta idraulica, come anche di mattoni, ceramiche d’uso
comune, coperture degli edifici. La produzione di tutte queste strutture
consumava altro combustibile.
L’Egitto, virtualmente privo d’alberi, ricorreva al Libano
(Byblos) per il legno di cedro, per la costruzione di templi, per le spedizioni
navali commerciali e per il mobilio. Un accenno alla deforestazione si rinviene
persino nel romanzo Accadico-Sumerico Gilgamesh[51],
nel punto in cui l’eroe, aiutato da Enkidu, abbatte la Foresta di Cedri, in
seguito uccidendo il suo guardiano mostruoso Humbaba. Non è certo che le
successive disavventure del protagonista siano messe in rapporto con questa
colpa (cioè che il rimaneggiamento Accadico costituisca già una specie di
giudizio morale dell’opera su un’attività deprecabile e dannosa dell’uomo): ma
sappiamo che egli perde il proprio migliore amico e si vede sfuggire persino la
possibilità di essere immortale e di regalare l’immortalità agli esseri umani,
liberandoli dalle tristezze del decadimento fisico. Sappiamo bene, oggi, che la
terra dei Sumeri, come tutta la “mezzaluna fertile”, una volta deforestata, è
stata esposta a gravissima erosione da parte delle brevi piogge torrenziali e
non ha più visto ricrescere la foresta primitiva.
Si calcola che l’abbattimento intensivo d’alberi nel Medio
Oriente sia iniziato nel 1200 a.C., ma probabilmente tale data va alzata per le
regioni più asciutte ancora più ad Est. Il Codice di Hammurabi (1750 a.C.)
commina la pena di morte per l’abbattimento non autorizzato di alberi. Il
problema, quindi, era sentito: doveva anche essere peggiore nelle regioni ad
intenso sfruttamento, come ad esempio l’Anatolia, dove l’estrazione con il
fuoco, la fusione e la forgiatura erano già vecchie di 3000 anni!
Non tutti avevano la “coscienza civile” e l’attenzione di
Hammurabi. Molto più tardi, Eratostene, scrivendo a proposito di Cipro nella
tarda età del bronzo (1200) afferma che, malgrado la grande attività di
deforestazione, nell’isola sono stati aperti appena dei sentieri, tanto essa è
riccamente coperta di alberi. Gli agricoltori erano anzi incoraggiati, con
premi in terre, a rendere agibili all’agricoltura nuove superfici di bosco.
L’età del bronzo, con il moltiplicarsi di strumenti sempre
migliori per l’abbattimento d’alberi e con l’incremento della richiesta di combustibile
necessario per l’aumentata produzione mineraria, può anche essere vista come
un’onda inesorabile di distruzione delle foreste e del legname, che si dirige
verso Occidente. Nell’800 (uso estensivo ornamentale; introduzione delle
coperture in coppo) e nel 500 (nascita delle civiltà “classiche”), tutte le
foreste intorno al mediterraneo sono in stato d’agonia.
Si calcola che le miniere di Laurion presso Atene, in 300
anni circa abbiano prodotto 3500 tonnellate d’argento ed 1.4 milioni di
tonnellate di piombo. A fronte di questa produzione, si calcolano avvenuti un
consumo di 1 milione di tonnellate di carbone e la deforestazione di 101.170
chilometri di bosco. Anzi, si ritiene possibile che l’attività estrattiva sia
terminata non per esaurimento delle vene, non per raggiungimento del livello
dell’acqua, bensì per l’elevatissimo costo raggiunto dal combustibile.
Platone scrive che “Resta un relitto dell’antica
campagna… è come uno scheletro, di un corpo emaciato dalla malattia. Tutto il
suolo ricco è scivolato via, lasciando una terra di pelle ed ossa. Le montagne
dell’Attica erano coperte di boschi. Ottimi alberi producevano legame perfetto
per i tetti delle abitazioni: quei tetti sono ancora in uso”.
Il legno per la flotta Ateniese che avrebbe sconfitto i
Persiani a Salamina, nel 480 a.C., dovette essere importato dai Balcani e
dall’Italia meridionale.
Ancora il legname fu un bene strategico vitale nella guerra
del Peloponneso tra Sparta ed Atene: gli spartani conquistarono le città
commerciali ateniesi delle coste Macedoni (tagliando l’apporto di oro e di
legname ad Atene); Atene fallì nell’impresa consigliata da Alcibiade di
conquistare le riserve di legname della Sicilia. Atene fu quindi sconfitta.
L’isola d’Elba era anticamente chiamata in Greco Aethaleia, l’isola fumosa, per via del fumo dei forni
estrattivi. Già i Romani dovevano spedire il minerale sulle coste toscane di
Populonia, per mancanza di legno isolano.
Si è stimato dalle tracce archeologiche, che nelle miniere
di bronzo di Mitterberg presso
Salisburgo in Austria, 180 minatori circa producessero 20 tonnellate di rame
l’anno, richiedendo l’abbattimento di 7,8 ettari di bosco ogni anno. Alle
necessità puramente estrattive andrebbe aggiunto poi il legname per assicurare
le gallerie, quello per i forni fusori, quello necessario agli agricoltori che
cibavano tutto il villaggio minerario. Anche con un ritmo naturale di
rigenerazione piuttosto elevato del bosco, questo tipo di “raccolto” può essere
sostenuto da una superficie boschiva di non meno di 518 ettari.
La Sardegna – oltre al suo precedente commercio in ossidiana
di Monte Arci e di selce dell’Anglona – possiede una tradizione metallurgica
che data dal IV millennio[52].
Le vene metallifere sfruttate in epoche storiche (rame, galena argentifera
etc.) si trovano sparse dal sud ovest, al centro al nord dell’isola:
nell’Iglesiente (es.: Monte Rosas), nella Barbagia (Funtana Raminosa) e presso
Alghero (Calabona). Esistono prove dell’uso di piombo per riparare manufatti
ceramici[53]. In varie
località sono stati rinvenuti materiali compatibili con attività di scavo, di
estrazione, di fusione, di veicolazione e stampo dei metalli, con tracce di
metallo in frammenti di terracotta[54].
Sempre in Sardegna, fino a 3000 anni dopo l’età del bronzo, i pisani del 1300
ci hanno lasciato testimonianze (materiale combusto nelle gallerie di San
Giovanni) dei metodi di scavo: si accendeva un grande fuoco, che rendeva
incandescente la parete di roccia; quindi la si raffreddava con secchiate
d’acqua, in modo che lo shock termico la rendesse più facilmente aggredibile
dai picconi.
È facilmente comprensibile che tutte queste attività
richiedenti legno, abbiano prodotto, col tempo, una drastica riduzione delle
superfici boschive ed un enorme aumento dei costi di produzione. A livello
delle Alpi, con una densità minore di popolazione, il problema sarà stato di
minore entità. Le isole e le coste del mediterraneo, per via del clima e
dell’ambiente tipico della regione – una lunga stagione secca, piogge
torrenziali su pendii privati d’alberi – ha determinato la scomparsa dei boschi
e l’erosione dello strato di terreno fertile. I virgulti non riescono ad
attecchire naturalmente nel suolo arido dilavato, talvolta neanche con l’aiuto
della piantumazione assistita dall’uomo[55].
Nell’isola di Cipro, le scorie tuttora presenti depongono
per una produzione di circa 200.000 tonnellate di rame e questa produzione – si
calcola – avrà chiesto il sacrificio di 200 milioni di alberi di pino, il che
equivale a circa 16 volte la superficie totale dell’isola[56].
Ci si sente autorizzati a credere che l’aspetto globale dell’isola sarda fosse
probabilmente molto più dolce e curvilineo, più verde e boscoso e con molto
meno numerose asperità dovute a picchi rocciosi oggi scoperti.
I bronzetti sardi, esercitano ancora oggi su tutti – esperti
e profani – un fascino particolare, non diversamente da come fanno anche le statuette Cicladiche
egee: si tratta di forme d’arte minore, considerate per lo più votive e quindi
stilizzate e simboliche. Esse ci confrontano con più domande che risposte, al
loro riguardo.
L’alleanza fra archeologi, geologi
e studiosi delle tecnologie dei metalli, può produrre un approccio
interdisciplinare, che qualcuno ama chiamare Archeometallurgia. L’Archeologia
Scientifica, attraverso analisi chimiche, isotopiche, mineralogiche e
metallografiche, con l’aiuto di conoscenze pratiche sul campo dell’Archeologia
Classica e dell’Archeologia Sperimentale, può formulare importanti e più
concrete ipotesi storiche e soprattutto con maggiore sicurezza. Questo è tanto
più vero e necessario soprattutto per la Sardegna, che recentemente è investita
dall’ondata della fantarcheologia rampante di moda, in parte dovuta ad
inattività e mancanza d’iniziativa (oltre che di fondi) dell’ambiente accademico[57].
L’unico censimento esistente fin qui è la catalogazione
tentata dal Lilliu nel 1966[58],
secondo il quale il numero delle statuette ancora superstiti ammonterebbe a più
un migliaio: più di 500 esposti (o nascosti) in musei Sardi e Italiani ed un numero
maggiore facente parte di collezioni pubbliche o private, sparse nel mondo[59]. Gli “studi” effettuati su tali
statuette sono stati, per lunghi anni, soltanto descrittivi, limitandosi a
catalogare forme, dimensioni, somiglianze e “tipi”. Si dava per scontato che –
essendo esse di bronzo – appartenessero all’Età del Bronzo e fossero ovviamente
nuragiche. Esse, cioè, rappresentavano il popolo costruttore dei Nuraghi ed il
suo ambiente contemporaneo[60].
Adesso si può scientificamente affermare che non è così.
Quando si cerca d’immaginare i “Nuragici” il pensiero corre
subito alle statuette dei bronzetti, che sono posteriori di almeno 1000 anni e
quindi non li rappresentano affatto. Anzi, si corre il rischio di interpretare
come molto più antichi alcuni sviluppi dell’armamento militare che appartengono
– in tutta l’area mediterranea – al periodo preparatorio della “grande crisi”
con cui si passò all’Età del Ferro. Il passaggio Bronzo/Ferro coincide con
l’abbandono della guerra campale con i carri e gli archi (con uso solo
sporadico di fanteria, per uccidere i guerrieri caduti dal carro, cosa in cui
peraltro pare eccellessero i mercenari Sherden), alla guerra di fanteria
(introduzione degli schinieri e dei corsetti) ed al sacco delle città per fare
bottino; lo scudo grande (sakos) cede il
posto allo scudo tondo piccolo (aspis); il
giavellotto assume una punta a ellisse senza arpione, per potere essere riusato; la spada di tipo Naue II (lunga circa 70 cm, pesante, a fili paralleli e non convergenti, fusa e non forgiata, con baricentro lontano dall’impugnatura e quindi adatta al brandeggio, oltre e più che a colpire di punta)[61] prima prodotta in bronzo, verrà poi copiata in ferro, a dimostrazione della sua praticità. Non possiamo prendere spunto da raffigurazioni così tardive per vestire personaggi di molti secoli prima: è da errori così grossolani che nascono speculazioni insensate. Il passaggio Bronzo/Ferro coincide con profonde modifiche sociali. La caduta delle società palaziali accentratrici ed aristocratiche lascia il posto a governi repubblicani, alla nascita del nazionalismo e del monoteismo, oltre che, come è ben noto, della scrittura alfabetica ed in ultima analisi apre la porta al razionalismo. Nell’arte figurativa come nella realtà, una volpe, un montone o una generica “nave” non sono certo molto cambiate, in quel lasso di tempo. Ma molte altre cose, come si vede, sì. Le somiglianze con altre statuine e con costumi d’altre zone del Mediterraneo orientale, sono suggestive ed affascinanti, ma non necessariamente probanti alcunché. Non è questa la sede per trattare le cause della profonda crisi che ha determinato la fine dell’Età del Bronzo[62].
giavellotto assume una punta a ellisse senza arpione, per potere essere riusato; la spada di tipo Naue II (lunga circa 70 cm, pesante, a fili paralleli e non convergenti, fusa e non forgiata, con baricentro lontano dall’impugnatura e quindi adatta al brandeggio, oltre e più che a colpire di punta)[61] prima prodotta in bronzo, verrà poi copiata in ferro, a dimostrazione della sua praticità. Non possiamo prendere spunto da raffigurazioni così tardive per vestire personaggi di molti secoli prima: è da errori così grossolani che nascono speculazioni insensate. Il passaggio Bronzo/Ferro coincide con profonde modifiche sociali. La caduta delle società palaziali accentratrici ed aristocratiche lascia il posto a governi repubblicani, alla nascita del nazionalismo e del monoteismo, oltre che, come è ben noto, della scrittura alfabetica ed in ultima analisi apre la porta al razionalismo. Nell’arte figurativa come nella realtà, una volpe, un montone o una generica “nave” non sono certo molto cambiate, in quel lasso di tempo. Ma molte altre cose, come si vede, sì. Le somiglianze con altre statuine e con costumi d’altre zone del Mediterraneo orientale, sono suggestive ed affascinanti, ma non necessariamente probanti alcunché. Non è questa la sede per trattare le cause della profonda crisi che ha determinato la fine dell’Età del Bronzo[62].
La prima indagine sulla composizione chimica dei bronzetti è
stata condotta da M. Balmuth nel 1978, su 4 bronzetti esposti in musei
Americani: faceva parte di un ambizioso progetto per datare i manufatti sardi,
comprenderne le modalità di fattura e localizzarne l’origine[63].
Da allora, sono stati analizzati anche molti altri reperti metallici sardi[64]
– figurati e no – e si è potuti giungere ad alcune considerazioni conclusive.
Allo stato attuale delle conoscenze, non è possibile
stabilire una formula unica per il bronzetto sardo, né è credibile ve ne fosse
una. Su circa 130 reperti analizzati, 6 contengono elevate quantità d’argento,
di zinco o di nichel e sono da considerarsi – nel migliore dei casi – atipici.
Per i rimanenti, la composizione è la seguente: rame 88,9
±
3,9%; stagno 8,8 ± 2,9%; piombo 1,6 ±
3,2; ferro 0,4 ± 0,3%; arsenico 0,3 ±
0,3%; zinco, nichel, antimonio ed argento ammontano insieme a 0,1% o meno.
Questa “ricetta” riproduce quasi esattamente le proporzioni del carico di rame e stagno, in
lingotti, di Ulu Burun (11/1).
Il fatto che lo stagno possa variare da 2,2 a 18,6% ed il
piombo da 0,1 a 25, 8%, suggerisce che i bronzetti sardi non erano fatti
secondo una singola formulazione. La provenienza furtiva, clandestina o
sconosciuta – per la maggior parte dei reperti rintracciati, trovati o
fortunosamente recuperati – impedisce di elaborare ipotesi comparative più
organiche e complesse circa le zone di produzione. Chi faceva i bronzetti
conosceva bene gli effetti delle variazioni percentuali di stagno e rame sul
risultato finale della lega di bronzo[65].
I vantaggi dell’introduzione del piombo, ai fini della facilità di stampo e di
lavorazione non erano sfruttati altro che occasionalmente, negli oggetti votivi
sardi. Dato che nell’Etruria e nella Grecia del periodo Geometrico si faceva
largo uso di bronzo piombato, per sfruttarne la malleabilità e la maggiore fedeltà
allo stampo, si potrebbe essere tentati di stabilire una datazione alta dei
bronzetti sardi, come più appropriata per una tecnica apparentemente più
vecchia. Mentre da un canto non si mette in discussione la provata vetustà
delle tecniche estrattive e metallurgiche sarde, dall’altro e per quanto
concerne in particolare i bronzetti si deve, invece, formulare una data
genericamente piuttosto tarda: si assegnano all’Età del Ferro del Mediterraneo
Occidentale (900 – 500 a.C.). Ogni bronzetto era prodotto a “cera persa” e
presentava bave e code di fusione che in alcuni casi sono ancora oggi presenti
(sotto i piedi di alcuni guerrieri, ad esempio), ma che in massima parte, se
non del tutto, andavano eliminate dall’oggetto finito. L’archeologia
sperimentale[66] dimostra
che per potere togliere senza danni questi prolungamenti (necessari solo
durante la colata per avere uno stampo migliore, ma decisamente deturpanti per
l’oggetto finale), erano necessari utensili di ferro. Possibilmente, la tecnica sarda (limitatamente ai
bronzetti?)[67] era
“arretrata” forse anche volutamente, in seguito ad un fenomeno di conservazione
delle tradizioni che è tipico in tutte le isole del mondo, non unicamente in
Sardegna. Infatti, quando si desiderava ottenere oggetti pregiati di particolare
riguardo (per motivi di prestigio o religioso), si ricorreva occasionalmente,
ad esempio, a leghe rame – argento[68].
Le variazioni sul tema, insomma, non erano sconosciute: ma la Tradizione, si
sa, è una radice robusta. Comunque sia, i bronzetti non erano “nuragici” in
alcun modo e trarne ispirazione per descrivere figurativamente attraverso di
essi i costruttori dei nuraghi è antiscientifico.
È triste la considerazione del terribile contrasto tra
l’aspetto verdeggiante e felice delle coste e dei paesi affacciati sul
Mediterraneo di 5000 anni fa e quelle scabre, molto più desolanti di adesso:
non sono scomparsi solo i cedri del Libano, usati preferibilmente per le navi,
bensì intere foreste e boschi di pini, di ontani, di querce, di lecci, di
roveri, d’acacie e d’innumerevoli arbusti.
Il disastro ecologico del Mediterraneo antico dovrebbe
insegnarci diverse cose, se solo sapessimo riconoscerlo appieno: l’erosione
selvaggia danneggia la fertilità dell’interno del paese (scoprendo le rocce
infertili), ma la grande quantità di terreno dilavata e spostata a valle è
quella che poi determina l’insabbiamento dei porti e gli allagamenti nelle
pianure e la creazione di zone malsane. Per secoli, del disastro erosivo furono
ingiustamente accusati gli arabi, per avere tardivamente introdotto la capra,
vorace d’erba, nelle regioni costiere.
Sempre, la trasformazione di zone prima favolosamente ricche
in zone abbandonate e depresse ed apparentemente inspiegabilmente
irrecuperabili riconosce come unica causa lo sfruttamento da parte dell’uomo,
portato ben oltre le possibilità di sopportazione dell’ambiente.
Il tristissimo denominatore comune storico è dato dalla
competizione per le risorse geologiche,
per le quali l’uomo è sempre sceso a patti con rischi inaccettabili, ha
condotto guerre distruttive e persino accettato come inevitabile la morte, in
tutte le epoche della sua storia, apparentemente nulla imparando dai propri
errori del passato.
Oggi, il petrolio è la risorsa geologica globale che ha
sostituito (più ancora degli smeraldi malarici orientali e dei diamanti
sudafricani) i metalli del passato... I bronzetti in fondo, non rappresentano
altro che un’ultima, minima e secondaria, seppure affezionata, utilizzazione di
ciò che era invece una risorsa mondiale primaria e fondamentale, regolata da
metodi di ricerca, produzione e commercio ormai consolidati da millenni…
Dal punto di vista evolutivo, che l’andamento di tutti gli
avvenimenti storico-politici e sociali sintetizzati sopra, per le nostre zone
Europee e Mediterranee, abbia avuto un andamento lento ed inesorabile, seppure
discontinuo, diretto costantemente da Est ad Ovest è un fatto reale,
documentato dall’Archeologia, dall’Antropologia, dalla Genetica di popolazioni
(umana ed animale), dalla Paleobotanica, dalla Storia della navigazione e da
altre numerose Scienze, il che dovrebbe bastare a fare ricredere i sostenitori
di altre direzioni dello sviluppo e dell’evoluzione delle società umane, negli
stessi luoghi e periodi di tempo qui considerati…
Ma, soprattutto, dovremmo imparare quanta parte abbia avuto,
nell’evoluzione dell’uomo e nelle tribolate vicende storiche dei popoli
diversi, la Geografia, in questo caso, più particolarmente, la sua branca della Geologia.
Ciò che ha fatto le differenze anche evidenti, che oggi
osserviamo tra i popoli certamente non risiede in qualche elemento biologico intrinseco agli uomini che li compongono. Non è
quindi un bene prezioso ed innato che si possa trasmettere geneticamente. Non si tratta affatto di qualche dote che possa
seppure in minima parte giustificare l’arroganza di una presunta superiorità di
una “razza padrona” al di sopra di un’altra.
Si tratta bensì di pura casualità, dei beni offerti dalla
Natura che ci troviamo intorno più o meno abbondanti, per sorte del tutto
indipendente dalla nostra volontà, dai nostri eventuali meriti o dalle nostre
singole varie capacità.
Si tratta cioé, in ultima analisi, soltanto di fortuna.
Un seme caduto su terra buona, invece che su pietra sterile.
Qualcuno, questo ce lo aveva già detto, in verità.
[1] Ad esempio,
per la mancanza di resti di carbone, era stato messo in dubbio che fossero stati trovati 18 forni fusori a Pyrgos
Mavroraki, (Cipro, scavi a cura di M.R. Belgiorno, 1998), fino a quando il
Centro d’Archeologia Sperimentale Antiquitates (A. Bartoli) non ha dimostrato
che un forno del 2000 a.C. può funzionare ad olio d’oliva, per la produzione del bronzo – Napoli,13 feb. 2006.
L’olio lascia meno scorie del carbone e permette
prodotti finali più puri.
[2] Lunghi, per
il rame e per il bronzo. Solo la sperimentazione, può quindi avere condotto
alla successiva tempra del ferro.
[3]
Letteralmente: lingotto a (forma di) pelle di bue.
[4] Anche in
tempi recenti (1882) D’Annunzio e Pascarella furono molto espliciti circa le
tristi condizioni dei minatori sardi: si pensi che in circa 100 anni ne sono
morti circa 1500 per incidenti, senza contare le malattie acquisite per via
dell’ambiente malsano.
[5] La data è
300.000 anni a.C. e l’autore degli scavi è Homo Heidelbergensis, in Francia ed in Slovacchia. Anche in molti siti di
H. Neanderthalensis (30.000 a.C.) sono state trovate fabbriche di ocra, cruda e
cotta (la cottura la rende ancora più rossa).
[6]
Fortunatamente, i reperti litici non vengono distrutti, neanche dopo che sono
diventati inutili all’uso e contengono tracce geochimiche, che permettono di
localizzarne l’origine. Dato che la selce non è ubiquitaria, è ovvio che
essa fosse custodita e trasportata dai possessori per farne uso nei siti dove
si rendeva necessaria (per scuoiare e tagliare a pezzi trasportabili gli
animali uccisi, etc). Il filo degli strumenti di selce è fragile abbastanza da
restare danneggiato, durante il trasporto, se ogni singolo attrezzo non è
protetto – per esempio – da un avvolgimento in pelle, che è il tipo di
protezione più probabilmente adottato…
[7] Gli oggetti
di rame più antichi così trattati provengono dall’Anatolia orientale (Cayonu
Tepesi e Asikli Hoyuk) sono del 7.000 a.C. e consistono in ami e punteruoli. E’
il primo esempio noto di pirotecnologia, con ricottura del metallo. Vista la
navigabilità (con battelli di pelli e con zattere) del Tigri dall’altopiano
fino alla pianura, è verosimile che gli oggetti di rame rinvenuti in
Mesopotamia e risalenti al 7000 siano d’origine anatolica.
[8] Ossidi,
carbonati e solfuri.
[9] L’invenzione
della terracotta a tenuta idraulica è stata forse stimolata dall’inizio
dell’agricoltura (ne è considerata ovunque un indicatore): essa serviva per
proteggere da insetti, roditori ed altri fattori ambientali dannosi le
granaglie coltivate, i liquidi d’uso alimentare prodotti: vino ed olio, oltre
all’acqua.
[10] Diamo
all’Età del Rame le date 8.500-4.000 a.C.
Nelle isole britanniche i più antichi segni di scavo per il rame sono
datati 2400 a.C. (Irlanda, Ross Island).
[11] A 450 °C si
ha una terracotta robusta e a prova d’acqua; a 1.000 °C si ottiene una
terracotta più dura, lucida e bella, ma si può anche fondere un metallo…
[12] B. Rhouda,
La Mesopotamia, 2003, Ed Il Mulino.
[13] Cuprolitico
ed Eneolitico sono sinonimi: è un periodo preistorico (4.000 a.C. in Egitto e
4500 in Bulgaria, lungo il Danubio) in cui compare il metallo (rame, argento e
oro), ma coesiste con un uso primario di pietra ed osso. Compaiono il bicchiere
campaniforme nel Mediterraneo Occ. ed i megaliti atlantici.
[14] L’ossidiana
proveniva dalle zone d’Aksaray, Bingol e del Lago Van: se ne trovano
esportazioni fino alla lontanissima città di Gerico.
[15] Questa è
un’acquisizione che è stata separatamente fatta in differenti zone ed epoche:
nel 2800 a.C. in Cina; nel 600 d. C. in centro America; nel ix o x secolo d. C.
nell’Africa Occidentale.
[16] La prima
parte dell’Età del Bronzo è – in verità – un età del rame arsenicale (Betancourt 2006), per la facilità con cui questa
forma si ritrova nelle vene di superficie: è già un tipo di lega, che chiamiamo
bronzo arsenicale.
[17] Un dio
deforme, perciò ripudiato dalla propria madre Era, scacciato dall’Olimpo e
relegato in un vulcano, la sua fucina. Un dio zoppo: ma non dovrebbe la
divinità essere – se non perfezione – almeno superiore alla fragilità
dell’uomo?
[18] Quantità
più basse di stagno o arsenico non migliorano la lega rispetto al metallo puro;
quantità più elevate rendono la lega troppo friabile per essere utilizzabile: i
metallurghi dell’età del bronzo avevano empiricamente trovato la gamma corretta
di valori per l’utilizzazione della loro lega.
[19] Nell’età
del bronzo non erano disponibili altre leghe: lo zinco (con cui si ottiene l’ottone) ed il nichel sono
molto più rari e molto difficili da fondere; la lega con antimonio è troppo
friabile.
[20] Sapore
metallico in bocca e salivazione abbondante, deglutizione difficoltosa; poi,
vomito e diarrea, alito agliaceo, crampi addominali e sudorazione eccessiva;
infine, crisi convulsive ed insufficienza renale…
[21] Un danno organico, per inibizione enzimatica, alla sostanza bianca e
grigia.
[22] Va anche
aggiunto però che altre sostanze, cui in qualche modo gli impressionisti si
esponevano, sono dannose: la trementina, l’assenzio etc.
[23] Fece
sensazione la scoperta presso il grosso villaggio antico di Goltepe, (3290-1840
a.C.), in cui buona parte dei cunicoli di scavo permettevano il passaggio di
bambini soltanto (molti scheletri infantili vi furono ritrovati). L’enormi
dimensioni del lavoro estrattivo di stagno sono state dedotte dall’entità delle
scorie di scarto: 600.000 tonnellate in un singolo mucchio. Il materiale di
scavo veniva schiacciato all’aperto, lavato e fuso con carbone in piccoli
crogioli (che sono stati ritrovati numerosi), invece che nei grossi forni usati
altrove per il rame.
[24] Omero
afferma che i guerrieri della guerra di Troia vestivano armature di bronzo
ciprio, un’affermazione considerata
inesatta, come altre sulle tecniche di guerra con il carro, che –
400 anni dopo – non si ricordavano più.
[25] Proprio
come sarebbe successo nella penisola italica solo 800 anni dopo, con l’Aes
Rude, mentre possiamo ipotizzare che in
Sardegna ciò avvenne pressoché
contemporaneamente a Cipro.
[26] Questa
forma può essere stata funzionale al trasporto (ma potrebbe anche essere stata
in qualche relazione con la divinizzazione del toro). Esistono lingotti che
mostrano soltanto due “maniglie”.
[27] Dato
dendrocronologico, ottenuto da legname tagliato, pronto per essere bruciato,
presente a bordo. La data, si noti bene, appartiene alla tarda età del Bronzo.
Anche gli altri oggetti propendono per LH IIIA; l’usura dello scarabeo di
Nefertiti depone per data
successiva di alcuni anni alla morte d’Akhenaton, ma precedente a Ramses (XIX
Dinastia).
[28] Si è
calcolato che – con tale fornitura – si sarebbe potuto equipaggiare l’esercito
di una città-stato micenea: 50 armature, 500 punte di lancia, 500 spade. Il
rapporto10/1 tra rame e stagno
trasportati potrebbe essere stato funzionale ad una ricetta per il bronzo.
[29] Timna,
presso Eilat, nel deserto del Sinai, è uno di questi siti. Ve ne sono circa 300
in una vasta zona che va dal Sinai
meridionale al Giordano alla parte settentrionale di Israele.
[30] A. Yener,
Oriental Institute e Argonne National Laboratory, University of Chicago, 1998.
[31]
R.E. Clayton (1), C.
Gillis (2) & E. Pernicka (3) – Feasibility criteria for the use of tin
isotopes in provenance studies - 2006.
(1) Birkbeck/UCL Research School of Geological and
Geophysical Sciences, Univ. London, UK; e-mail:
r.clayton@geology.bbk.ac.uk
(2) Dept. of Classical Archaeology and Ancient
History, Lund University, Lund, Sweden
(3)
Institut fur Archaeometallurgie, TU Freiberg, 5 Gustav-Zeuner Strasse,
Freiberg, Germany
[32] Si tratta
di metodi che non richiedono il prelievo materiale di campioni e che pertanto
garantiscono l’incolumità del reperto. Sono anche molto superiori in precisione
del metodo del C14, con il quale W. Frank Libby vinse il premio Nobel nel 1960.
[33] Muhly, J.D.
: The copper oh-hide ingots and the Bronze Age metal trade, Iraq 39:73-82. 1977.
[34] Lo Schiavo
et al.: Sardinian ox-hide ingots, 1998.
In T. Reheren, A. Hauptmann and J.D. Muhly (eds), Metallurgica
Antiqua: In honour of Hans Gert Bachmeann and Robert Madding. Der Anschnitt, Beiheft 8:99-112. Bochum: Deutches
Bergbaummuseum.
[35] Persistono
alcuni problemi: livelli identici d’isotopi in vene differenti; possibilità
dell’esistenza di vene d’origine sconosciute; presenza di piombo aggiuntivo nei
materiali usati (combustibile, scorificante, componenti leganti); provenienza
multipla del materiale originale; infine: pochissimi artefatti esaminati
possiedono firme isotopiche che possono essere correlate ai campi espressi dai
lingotti (Muhly, Metals and
metallurgy: using modern technology to study ancient technology. In Ancient
Greek Technology; Proceedings of the first International Conferente on Ancient
Greek Technology – Tessaloniki, 4-7 Sept.
1997, 23-33 Tessaloniki Technology Museum.
[36] Budd et al.
Oxhide ingots, recycling and the Mediterranean metal trade, Journal of Mediterranean Archaeology 8:1-32.
[37] Budd et
al.: op cit. alla nota 21, 13-15; Gale N. H.: Archaeometallurgical studies of
Late Bronze Age oxhide copper ingots from the Mediterranean region. In A
Hauptmann et al. Old World Archaeometallurgy. Der Anschnitt, Beiheft 7:247-68. 1989b. Bochum; Deutches Bergbaum
Museum.
[38] Lo Schiavo
F. et al.: Metallographic and statistical analyses of copper ingots from
Sardinia. Ministero per i Beni Culturali e
Ambientali, Soprintendenza ai Beni Archeologici per le provincia di Sassari e
Nuoro – 1990; Budd, op cit alla nota 21, fig. 5 – 1995; Gale N.H. et al.: Lead
isotope data from the Isotrace
Laboratory: Oxford. Archaeometry data base 4, ores from Cyprus, Archaeometry
39, 237-45 – 1997.
[39] Sayre E. V.
et al.: Comments on “Oxhide ingots, recycling and the Mediterranean Metal
Trade”. Journal of Mediterranean Archaeology. 8:45-53 - 1995
[40] Numerosi
autori concordano con queste ipotesi (raccolta da più centri d’origine e
riciclaggio): Budd, Muhly, Knapp, Sherratt, Stech, Hall, Pernicka.
[41] Lo Schiavo
F.: Sardinian oxhide ingots 1998. In T. Rehen et al.: Metallurgica Antiqua:
In honour of Hans-Gert Bauchmann
and Robert Madding. Der Anschnitt, Beiheft
8, 99-112. Bochum Deutches Bergbaumuseum.
[42] Tylecote et
al.: “Copper and bronze metallurgy in Sardinia”. In Balmuth Ed: Studies in
Sardinian Archaeology 1:115-162. Ann Arbor:
University of Michigan press.
[43] Lo Schiavo
F. et al.: Nuragic Metallurgy in Sardinia; second preliminary report. In M.S.
Balmuth Ed.: Studies in Sardinian Archaeology 3. BAR International Series 387:179-187 Oxford British Archaeological
Reports. 1987.
[44] Lo Schiavo
F.: Economia e società nell’età dei nuraghi. In La Sardegna dalle origini
all’età classica, Ed Ichnussa, AA. Vari,
Milano Garzanti, 1981.
[45] Lo Schiavo
F.: op cit. alla nota 28.
[46] Lo Schiavo
F.: 1989 Early metallurgy in Sardinia: copper ox-hide ingots. In Old World
Metallurgy, A. Hauptmann et al Ed. – 1989.
Der Anschnitt 7:33-38 Bochum Deutche Bergbaumueseum.
[47] Gale N.H.:
Archaeometallurgical studies of late Bronze Age oxhide copper ingots from the
Mediterranean region. In A. Hauptmann et al. Ed. Old World Archaeometallurgy. Der Anschnitt beiheft 7:247-68. Bochum: Deutche
Bergbaumseum. 1989.
[48] F.
Begemann, S. Schmitt-Strecher, E. Pernicka, F. Lo Schiavo: “Chemical
composition and lead isotopy of copper and bronze from Nuragic Sardinia”
European journal of Archaeology, Vol 4, N° 1. 43-85, 2001.
[49] I modelli
cretesi di navi del Minoico Antico
(2000 a.C.) sono quelli di Palaikastro (prua alta, poppa bassa, un singolo
ordine di remi) e di Mochlos (apparentemente una nave monoxila, inadatta ad
acque profonde).
[50] I resti
archeologici propendono per una limitata coltivazione del problematico grano
(triticum dicoccum, forse riservato a pochi) ed una più abbondante del più
rustico orzo (hordeum distichum, hordeum vulgare), ambedue non sufficienti per
un’esportazione.
[51] Il più
antico racconto epico mai reperito, riferito ad un sovrano realmente esistito,
un re Sumero di Uruk, tra 2700 e 2500 a.C. Non disponiamo degli scritti
originali in Sumero (2000 a.C. - che erano episodi separati), bensì della
rielaborazione Accadica in un solo racconto (forse 1500 a.C.).
[52] F. Lo
Schiavo, “Sardinian metallurgy: the archaeological background”, in M. S. Balmuth, Studies in Sardinian
archaeology 230-50; Early metallurgy in
Sardinia”, in R. Madding, “The beginning of the use of metals and
alloys” Zhengzhou, Cina, 1986 (Cambridge
M.A. 1988) 92-103.
[53] C. Atzeni
et Al.: “Notes on lead metallurgy in Sardinia during the Nuragic period”,
Historical metallurgy 24 (1991) 97-105.
[54] C. Atzeni
et Al.: “Bronze metalworking at the nuragic site of S. Barbara, Sardinia,
Italy”Historical metallurgy, 26 1992,
31-35. L.J. Gallin et Al.: “Attività metallurgica al nuraghe S.
Barbara di Bauladu (Or)”. Quaderni della
Sopraintendenza Archeologica per le provincie di Cagliari ed Oristano 11 (1955)
141-53.
[55] L’isola
greca di Seriphos è spoglia, oggi, ma la presenza di scorie di rame sui cigli
rocciosi lascia capire perché gli alberi di un tempo siano stati tutti
abbattuti.
[56] Anche
considerando una rigogliosa ricrescita dei boschi nelle zone alte dell’isola, è
molto probabile che il limite alla produzione dell’isola fosse dato proprio
dalla disponibilità del combustibile.
[57] La
sperimentazione sui metalli, ad esempio, non impone costi elevati: è solo
questione d’iniziativa, inventiva e curiosità scientifica.
[58] G.Lilliu, Le
sculture della Sardegna nuragica (Cagliari
1966).
[59] Esiste
anche un fiorente mercato privato: ad esempio, le Royal Athena Galleries offrono in vendita un “suonatore d’arpa” sardo del
600-500 a.C. – stilisticamente simile all’Ercole di Siniscola – al prezzo di
circa 2500 Euro. Il commerciante antiquario Bob Hecht, di Antiquities
Ring (il famoso compratore del vaso di
Eufronio) si è recentemente assicurato un bronzetto sardo del V secolo
raffigurante un toro, per poco più di 20.000 Euro. Probabilmente il mercato ha
origine da scavi clandestini e/o da falsari.
[60] Persino il
reperimento di alcuni bronzetti sardi in tombe etrusche datate più
precisamente, è stato interpretato variamente: se da un canto indicherebbe una
datazione tarda, dall’altro non tutti riconoscono come contemporanee produzione
ed utilizzo dell’oggetto in ambito funerario etrusco.
[61] Naue II è
comunemente descritta come “Micenea”, ma questo è errato, perché i primi
esemplari – poi diffusisi con successo nell’area mediterranea – sono originari
della zona Carpatico - Alpina.
[62] Per questo
argomento si vedano: 1) R. Drews: “The end of Bronze Age” Princeton University Press - 1993. Vengono discusse
ed escluse tutte le cause catastrofistiche, le migrazioni di popoli (inclusi i
cosiddetti “popoli del mare” ed i Dori), la stessa introduzione del ferro (che
fu successiva di almeno un secolo), la siccità ed il collasso dei sistemi
sociali. 2) Un prossimo articolo su Sardegna Antica, in cui si prospetterà una
tesi dimostrante entità, origine, motivi e fine dei Popoli del Mare.
[63] Si tratta
di un guerriero (11 cm), dell’Università di Tufts, con elmo a piuma centrale e
spada inguainata; un secondo guerriero (24,5 cm) del Getty Museum di Los
Angeles, con tipico elmo cornuto, schinieri ed arco; un pastore inginocchiato
(12,7 cm), dell’Università di Harvard, che tiene per le zampe un piccolo
muflone: le forme inusualmente morbide e l’elevato contenuto di zinco (15,3%)
lo rendono dubbio; una nave con protome di cervo (16,5 cm) del Museo d’Arte di
Boston.
[64] P. Craddock
ha analizzato 20 bronzetti del British Museum; J Riederer ha analizzato 80
statuette della mostra di Karlsruhe del 1980; P. Virdis ne ha analizzati 12 del
Museo di Cagliari. Altri contributi sono venuti da C. Atzeni, da Gale e ancora da M. Balmuth e R. Tykot.
[65] Il fatto
che si usasse – per fissarli al supporto o per ripararli – un materiale che
fonde a temperatura inferiore della lega del bronzetto, è indice dell’esperienza raggiunta.
[66] Questa
preziosa informazione – insieme a molte altre notizie pratiche – è dovuta all’amico Mirko Zaru.
[67] Forse,
proprio come – attualmente – le Parrocchie non ricercano i più moderni sistemi
di stampa ed impaginazione per le loro produzioni locali e per i “santini”
ricorrono a modelli che sono ormai vetusti e non sembrano del XXI secolo.
[68] Questo
sarebbe dimostrato dalla mancanza dello stagno nel prodotto finale, che quindi
non sarebbe l’esito di ri-fusione, bensì una prima fusione intenzionalmente
progettata così. Esisterebbero alcuni manufatti in ottone (lega rame-zinco),
che dividono la critica: c’è chi crede che possano essere antichi e chi li
considera decisamente falsi.