mercoledì 29 maggio 2013

STORIE DI FALSI




(1) Falsi ellenistici

In età ellenistica nelle grandi biblioteche di Alessandria e di Pergamo si conservano, si copiano e si producono libri. I dotti bibliotecari divengono in breve tempo abili produttori i falsi testi letterari (ottimamente imitati nello stile e nel contenuto) attribuiti ai più celebri autori (Eschilo, Sofocle, Euripide, Platone, Aristotele, ecc.) e venduti o fatti copiare a caro prezzo. Si creano così tradizioni basate su apocrifi, molti dei quali ancor oggi non sono stati individuati.
Delle 130 opere di Plauto in circolazione in età tardo-repubblicana, l’erudito Varrone ne dichiarò autentiche solo ventuno (e 109 false). A partire dai primi cataloghi di biblioteche si crea così in canone che distingue opere autentiche (gnesioi) da quelle non autentiche (notheioi). Può capitare che il “falso d’epoca” sia a sua volta un’opera d’arte.


Il falso di Aristea

La Lettera di Aristea è un componimento in prosa, scritto probabilmente nel II sec. a. C., che pretende di spiegare l’origine della traduzione in greco del Vecchio Testamento (la cosiddetta “Versione dei Settanta”).
Demetrio Falereo, bibliotecario di Alessandria sotto Tolomeo Filadelfo (inizio del III sec. a. C.) compie una ricerca sulle leggi degli ebrei, constatando la povertà di fonti ebraiche nella biblioteca. Lo scopo è conoscere e governare meglio i popoli dell’Egitto sottomessi a Tolomeo. Demetrio ottiene il permesso di chiedere al sommo sacerdote Eleazaro di inviare sei rappresentanti da ciascuna delle dodici tribù di Israele per predisporre una traduzione ufficiale perfetta, in lingua greca, del Libro della Legge. Il testo elogia il codice legislativo ebraico e narra come la comunità ebraica d Alessandria abbia accolto positivamente la nuova traduzione.
La lettera è un falso:
-          Demetrio non fu mai bibliotecario  ad Alessandria;
-          Né fu al servizio di Tolomeo;
-          Il testo contiene molte inesattezze sulla storia ebraica di quegli anni;
Il testo è tuttavia confezionato in maniera sapiente, utilizzando gli stessi sistemi elaborati dai critici alessandrini per correggere testi e smascherare falsi.
-          utilizza il metodo dell’esegesi allegorica (Apollodoro) per spiegare le parti più scialbe del testo;
-          impiega la terminologia propria della critica testuale per sottolineare la maggior accuratezza della “Versione dei Settanta”;
-          mostra di citare direttamente il testo di Demetrio (citazione archivistica), piuttosto che raccontare le trattative fra il bibliotecario e Tolomeo.
Il testo si rivolge al tempo stesso ai greci ed agli ebrei di Alessandria per mostrare: a) ai greci la superiorità della legge e della tradizione ebraica, mettendone in risalto (attraverso l’analisi allegorica) i profondi contenuti filosofici ed etici; b) agli ebrei la superiorità della versione greca della Legge sul vecchio testo in ebraico. L’opera è redatta al fine di esercitare un’autorità spirituale, ma è una collezione di falsi.


Si creano falsi per dar maggior forza e antichità alla propria religione; i primi cristiani ne producono a centinaia e così gli ebrei e le sette religiosa dei primi secoli dell’era cristiana
Testi teologici vengono attribuiti ad Agostino d’Ippona, ma sono dichiarati falsi da altri teologi (e filologi). La teologia deve applicare l’arte critica per difendersi.

L’Hypomnesticon di Agostino
L’Hypomnesticon, attribuito a sant’Agostino, divenne nel IX secolo oggetto di un’aspra controversia.
Icmaro di Reims giudicò l’opera autentica.
Prudenzio di Troyes la ritenne invece inattendibile, perché divergente per stile e contenuto dall’opera agostiniana e perché non compariva nel Commentario redatto dallo stesso Agostino sulla propria opera, né veniva mai citato da altri autori coevi.
Un altro teologo dimostrò quanto fosse facile attribuire ad Agostino un libro che sosteneva argomenti a lui cari, attingendo alle sue opere e presentandosi come un compendio del suo pensiero, ma segnalò l’impiego i stilemi non agostiniani, oltre alla citazione della Bibbia nella versione di san Girolamo, impensabile in Agostino.



(2)Falsi  medievali

Il “falso d’epoca” di poco posteriore all’epoca del documento è un falso “giuridico” (o politico) con la fabbricazione del quale si intendeva tutelate la posizione di una persona o di un ente (città, monastero) contro qualche altra persona o ente, oppure si intendevano legittimare delle pretese di dominio territoriale, di godimento di beni ecc., che ad un certo punto della sua esistenza un comune, un principe, un monastero, si sentiva abbastanza forte per avanzare.
Diversamente dai falsi moderni, che interessano solo per le vicende del falsificatore, i falsi d’epoca medievale (coeve) sono importanti per la storia dell’epoca e chiariscono molte ragioni delle dispute successive.



Germania: monaco di Reichenau (monastero sul lago di Costanza)
Atto compilato fra il 1130 e il 1150 allo scopo di richiamare ai potenti miisterali l’obbligo di partecipare alla spedizione romana dell’imperatore.

 Eberardo di Fulda

I falsi cassinesi

Pietro, diacono nell’abbazia di Montecassino, è autore di un Regesto del XII secolo dove sono raccolti gli atti che riguardano il monastero (nell’ordine: le bolle pontificie, i diplomi degli imperatori e dei re, dei duchi e dei principi, i documenti privati) molti dei quali falsi, dettati quasi sempre dal desiderio di aumentare la gloria del monastero e di sancire con atti ufficiali il suo potere ed i suoi privilegi. Fra i falsi documenti vi è, ad esempio l’atto con il quale Tertullio dona al monastero dei beni in Sicilia

Falsificazioni di Ravenna  (secc. XI-XII):
Risalgono al periodo della lotta per le investiture (1080-1084); si tratta di quattro documenti prodotti dal partito dell’antipapa Clemente III (Guiberto, già arcivescovo di Ravenna) allo scopo di contrastare le pretese della Curia Romana e sostenere le rivendicazioni imperiali.
1-      Papa Adriano I, unitamente al clero e al popolo di Roma, concede a Carlo Magno il diritto di eleggere il papa, la dignità di patrizio romano e l’investitura degli arcivescovi e dei vescovi.
2-      Papa Leone VIII rinnova a Ottone I imperatore il diritto di eleggere il pontefice e di investire arcivescovi e vescovi.
3-      Papa Leone VIII rinnova ancora a Ottone gli stessi diritti.
4-      Papa Leone VIII restituisce a Ottone I una serie di donazioni fatte da vari signori e re anticamente alla Chiesa (tutto lo Stato della Chiesa, l’Italia meridionale).

La Collezione pseudo-isidoriana

Uno dei più noti falsi medievali è la cosiddetta Collezione pseudo-isidoriana, ossia una raccolta di fonti di diritto canonico (canoni di concili, decretali, ecc.) che circola in Francia nella seconda metà del IX secolo, attribuita ad uno pseudo-Isidoro mercator. Papa Nicolò I la dichiara autentica e la collezione gode d un’ampia fortuna per tutto il medioevo, finché con l’Umanesimo non emergono i primi dubbi (Nicolò da Cusa, Giovann di Torquemada, Erasmo da Rotterdam); la Collezione viene dichiarata falsa da F. Blondel nel 1628. Nella collezioni sono contenuti canoni conciliari autentici e documenti falsi; la maggior parte delle lettere dei papi (dal I al VI secolo) è apocrifa: si tratta di compilazioni della fine del IX secolo (847-852) che testimoniano le aspirazioni della chiesa in quegli anni. Lo scopo della falsificazione era sostenere le ragioni del potere ecclesiastico contro il potere laico.

La falsificazione è evidente se si guarda alle formule usate nei documenti: ad esempio nelle lettere apocrife anche papi del III e del IV secolo si definiscono con la formula “servus servorum Dei”, che noi sappiamo avere inizio solo con Gregorio Magno alla fine del VI secolo.

Il Privilegium maius
Nel 1156 l’imperatore Federico Barbarossa pareva aver concesso ad Enrico II di Babenberg, duca d’Austria, un privilegio, il Minus, conosciuto però solo attraverso la cronaca di Ottone di Frisinga.  Fra il 1369 e il 1360 le cancellerie ducali di Rodolfo IV d’Asburgo rendevano noto un altro privilegio, il cosiddetto Maius,  concesso dal medesimo Barbarossa il 17 settembre 1156, con il quale si concedevano ai duchi d’Austria il titolo di Arciduca palatino, elevandoli così al di sopra degli altri principi elettori, e la più ampia indipendenza dall’imperatore. L’imperatore Carlo IV di Lussemburgo (1354-1378) negava validità al privilegio che veniva però successivamente riconosciuto dall’imperatore Federico III d’Asburgo nel 1453. In realtà si trattava di un falso composto fra il 1356 e il 1359, teso a sancire con un atto ufficiale le pretese della casa d’Asburgo nell’ambito dell’impero.
Da cosa si riconosce il falso?
-          Nel documento si parla della “marchia a superiori parte fluminis Anasi”, cioè dell’alta Austria, che sarebbe stata aggregata nel 1156 al ducato d’Austria. Ma l’alta Austria venne aggregata al ducato solamente nel 1254 e il 1254 diviene così il termine a quo per la composizione del Privilegium.
-          In un altro punto del documento troviamo menzionati i principes electores, ma questa espressione è ignota ai documenti prima del 1273: ecco un altro termine a quo.
-          In un altro punto ancora il documento proclama che solo al primogenito della casa d’Austria spetta il dominio, in aperta contraddizione con la legge di famiglia del duca Alberto II d’Asburgo (1355), che stabilisce invece l’uguaglianza di tutti i figli.
-          Un ulteriore confronto con la “Bolla d’oro” dell’imperatore Carlo IV (25 dicembre 1356) dimostra che il Privilegium non può essere stato redatto se non dopo la “Bolla” della quale tiene conto. Ecco quindi il termine a quo condotto in avanti sino al 1356.
-          Per definire il termine ad quem basta constatare che in un documento del 18 giugno 1359 Rodolfo IV d’Asburgo si fa già chiamare “Palatinus Archidux Austriae”, riprendendo il titolo coniato dal Privilegium; il Privilegium, inoltre, è  citato, tradotto in tedesco, in un documento 2 settembre 1359.



(3) Falsi umanistici

La cultura umanistica mette in circolazione un’enorme quantità di testi e di epigrafi relative al mondo romano. In Italia fra XV e XVI secolo e in Europa fra XVI e XVII gli eruditi e gli antiquari pubblicano i primi grandi repertori di epigrafi e di reperti archeologici, ignorati dagli intellettuali del medioevo. Ma, come nel caso delle statue tronche alle quali venivano aggiunte teste e braccia nuove, anche le lapidi lacunose venivano integrate con aggiunte che “restituivano” un testo falsato. Alcuni antiquari, mossi da un’insana passione per il mondo antico, produssero e pubblicarono testi epigrafici falsi (ma spesso abilmente costruiti e perciò credibili) per suffragare le loro scoperte o le loro ipotesi interpretative, producendo così un devastante inquinamento dei testi di antiquaria ai quali avrebbero in seguito attinto anche studiosi seri.

Erasmo da Rotterdam e lo pseudo Cipriano[1]

Anche un intellettuale apparentemente irreprensibile come Erasmo da Rotterdam è autore di un clamoroso falso, fabbricato per meglio sostenere le proprie tesi.
Fu lui a  dimostrare, sulla base di un esame stilistico e filologico, che il preteso carteggio fra san Paolo e Seneca era costituito in gran parte da lettere false (ma tese ad avvicinare il filosofo latino al cristianesimo).
Nel 1530 Erasmo pubblicò la sua quarta edizione delle opere di san Cipriano, cui era stata inclusa, all’ultimo momento, un ulteriore trattato – fino ad allora sconosciuto – De duplice martyrio. Il trattato elogiava le virtù dei martiri intesi nel senso tradizionale del termine, coloro che erano morti per essere stati testimoni di verità; esso però proseguiva elogiando anche altre forme di vita cristiana equivalenti, per merito, al martirio: quella di quanti erano pronti a morire, ma non erano chiamati a farlo; quello della vergine che lotta per non cadere in peccato
È noto che Ersamo aveva sempre disprezzato il genere di cristianesimo di chi equiparava la sofferenza alla virtù, preferendo di gran lunga l’immagine di Cristo uomo che spera di evitare la morte nel Getsemani. Il testo di san Cipriano rispecchiava dunque alcuni elementi chiave del pensiero di Erasmo, in quegli anni in polemica sia con l’ortodossia cattolica, sia con Lutero. Il testo è inoltre scritto un una splendido latino, ma appesantito da citazioni bibliche e patristiche, poco consuete in autori antichi.  Questi elementi ed altri vezzi letterari rendono l’opera riconoscibile come farina del sacco del grande umanista fiammingo. Con quel falso egli cercava di dimostrare l’assenso della chiesa delle origini alla propria visione della teologia.

Le false tombe della figlia di Cicerone

Nel 1485 venne rinvenuto sulla via Appia il sepolcro di una fanciulla di età romana il cui corpo si presentava in ottimo stato di conservazione. Accanto ad esso un epitaffio in latino recitava: “A Tulliola, sua sola figlia, che mai peccò se non nel morire, questo monumento funebre è fatto innalzare dal suo sventurato padre Cicerone”. La notizia della scoperta del sepolcro della figlia del grande oratore fece scalpore negli ambienti umanistici ed attirò folle di “pellegrini” per oltre un secolo, ma presto si rivelò essere un falso, non solo perché riproduceva testualmente un passo ciceroniano autentico, ma anche perché altre tombe di Tulliola furono scoperte in luoghi distanti da Roma, come Firenze e Malta.

Carlo Sigonio e la falsa Consolatio ciceroniana
Uno dei maggiori storici e filologi classici del Cinquecento: Carlo Sigonio, conosceva a tal punto l’opera ciceroniana da saperne imitare alla perfezione lo stile.
Intorno al 1580 egli pubblicò un nuovo testo – consegnatogli a quanto pare da uno stampatore – testo che sarebbe stato scritto da Cicerone in morte della figlia Tullia. Di quest’opera si aveva notizia solo attraverso frammenti o citazioni di altri autori classici. L’abilità di Sigonio consistette nell’inframmezzare elementi già noti (e quindi inconfutabili) a brani inventati di sana pianta. Il testo fu subito incriminato da Robortello in quanto appariva zeppo di italianismi, di espressioni latine tradotte dall’italiano rinascimentale ecc. Sigonio non ne usciva certo bene, neppure come latinista. Ma che cosa lo aveva spinto a produrre il falso? Una semplice esercitazione retorica? Una beffa nei confronti degli eruditi?  Oppure qualche fine truffaldino?
Neppure Grafton non fornisce una spiegazione plausibile.


Alfonso Ceccarelli

Costruttore di “genealogie impossibili” tese a dimostrare l’antichità e la nobiltà dei suoi amici e committenti, riuscì a produrre un intero cartolario notarile medievale che ricollegava le famiglie di amici e mecenati all’antica storia di Luni. Scrisse anche un libro (ora perduto): l’Anti-Catones, da lui attribuito a Giulio Cesare.



(4) Falsi moderni

Tanto minore è la quantità delle fonti, tanto maggiore la possibilità di essere ingannati da un falso (e tanto maggiore l’importanza dei falsi per lo storico). In età moderna aumentando il numero dei documenti disponibili i falsi sono più rari (e più difficili da fabbricare). Ma non è sempre vero…

Il testamento politico di Richelieu

Nel 1688 viene pubblicato il cosiddetto Testament politique del cardinale Richelieu, presentato come autentico. Tra il 1737 e il 1749 Voltaire sostiene la non autenticità del testo. Nel 1880 G. Hanotaux (Maximes d’Etat et fragments politiques du cardinal de Richelieu) dimostra che il Testament è in realtà composto con frammenti di lettere e con appunti autentici di Richelieu, estrapolati e ricomposti dai suoi collaboratori: i pensieri sarebbero dunque autentici, ma la redazione del testamento falsa. La tesi è ripresa da R. Piton che conferma la falsa redazione (e quindi l’utilizzo politico di essa) sulla base di manoscritti d’autore[2]

Pfaff e i falsi frammenti di sant’Ireneo

Il tologo tedesco Cehristoph Matthäus Pfaff, dell’Università di Tubinga, all’inizio dl Settecento sostenne di aver scoperto nella biblioteca ducale di Torino quattro frammenti attribuibili a sant’Ireneo dai quali venivano confermate le tesi pietiste secondo cui il fulcro del cristianesimo era costituito dal semplice verbo di Cristo, mentre le dispute dogmatiche non sarebbero state che il frutto di mentesi. Poco tempo dopo l’erudito veronese Scipione Maffei, trattenutosi per ragioni di studio a Torino, dimostrò l’inesistenza dei frammenti di sant’Ireneo, accusando Pfaff di falsificazione, sebbene il teologo tedesco difendesse ad oltranza la sua “scoperta”.

Mcpherson e il falso Ossian

Nel XVIII secolo Thomas Chatterton e James Mcpherson ricorsero ai mezzi tradizionali (utilizzo di caratteri e grafia arcaica) per suffragare la loro affermazione di aver trascritto un poema epico da manoscritti originali e inaccessibili e da una lingua sconosciuta. In tal modo, con i Canti di Ossian, essi reinventarono una tradizione medievale e “gotica” che ebbe uno straordinario successo non solo in Inghilterra. (ti viene in mente qualcuno, Pasuco? pensaci bene: qualcuno in Sardegna, forse?)

Thomas Chatterton e il medioevo ricostruito

Contempoaneo di Mcpherson e suo collaboratore in diverse occasioni, Thomas Chatterton (1752-1770) è una delle più interessanti figure di falsari  del Settecento britannco. Nel corso della sua brevissima vita (morì suicida a soli diciott’anni) produsse una quantità incredibile di documenti, poemi, trattati, cronache che egli pretendeva di ascrivere alla Bristol tardomedievale. L’amore per la sua città e la passione per il medioevo fecero di lui un fabbricatore indefesso di falsi storici, quasi sempre abbastanza ben collocati nel loro ambiente. Chatterton si inventò di sana pianta un’intera città con le sue enormi porte, l’imponente cinta muraria, le sontuose cattedrali, dando a ciascuna di queste strutture una precisa connotazione fisica mediante una serie di bozzetti (di suo pungo) e accompagnandone la storia con appropriati documenti (di sua produzione) a suo dire tratti dall’archivio di un’antica chiesa abbandonata.Parte dei documenti furono scritti su pergamena ed “invecchiati” con bagni d thè. Il poema che lo rese celebre, pubblicato sotto il nome di Thomas Rowley, preteso monaco del Quattrocento, è una caso di imitazione quasi perfetta del linguaggio, dell’ortografia, dei caratteri dell’inglese tardomedievale. Non è un caso che l’editore delle sue opere postume (E. Tyrwhitt, 1777) abbia inserito nel volume anche la riproduzione del testo di una lirica “medievale” di Rowley-Chatterton così abilmente contraffatta nei caratteri e negli stemmi da apparire un vero reperto archeologico.
L’opera di Chatterton è sicuramente da collegare con il rigoglioso sviluppo degli studi di storia medievale nell’Inghilterra di metà Settecento, studi che abbracciavano ora anche la storia della vita quotidiana e non più solamante la storia di pricipi e sovrani. La stessa maggio raffinatezza dei falsi di Chatterton è conseguenza della maggior raffinatezza delle critica storica.

 

 

Francesco Meyranesio e le false omelie di san Massimo

Il sacerdote piemontese Francesco Meyranesio, autore di un’apprezzabile Storia di Cuneo, contribuì alla grande edizione romana delle opere di san Massimo, vescovo di Torino, pubblicata nel 1784 e dedicata a Pio VI. Meyranesio fece inserire nell’edizione 24 nuovi testi inediti. Stranamente gli originali scomparvero poco dopo nella valigia di un lord inglese di passaggio. In realtà si trattava di falsi, tutti inventati dal sacerdote cuneese nella speranza di ottenere onori nel mondo delle lettere.

Le false correzioni shakespeariane e a doppia frode di Collier e Madden (di come il falsario finì falsato)

 John Payne Collier è un intellettuale di umili origini che inizia la sua carriera come giornalista e critico teatrale agli inizi del XIX secolo; diviene quindi un’autorità sulla storia delle origini del teatro inglese; vive infine gli ultimi anni della sua vita in completa disgrazia, dopo che alcuni dei suoi rivali avevano lo avevano smascherato come falsario, rivelando che gran parte dei documenti citati nelle sue opere erano inventati. Il suo falso più celebre è l’ in-folio di Shakespeare commentato dal cosiddetto “Vecchio correttore”, ossia un commentatore cinquecentesco le cui correzioni al testo shakespeariano furono ritenute autentiche da Collier ed inserite nelle sue pubblicazioni. Gli avversari di Collier dimostrarono che il “Vecchio correttore” era un testo che presentava pochi commenti e correzioni d’epoca, cui Collier aveva aggiunto moltissima note di suo pugno (prima a matita, poi a inchiostro), imitando quasi alla perfezione la grafia antica. Collier ammise di aver falsificato, in passato, alcuni testi, ma negò di essere l’autore delle correzioni e si difese invano accusando altri di aver ingannato la sua buona fede. In realtà è assai probabile che in questo caso Collier fosse innocente e che il palinsesto del “Vecchio correttore” sia stato confezionato per distruggere la reputazione di Collier da uno dei suoi principali nemici: l’illustre bibliotecario ed erudito sir Frederick Madden, conservatore della sezione manoscritti del British Museum. Madden odiava Coller per vari motivi e lo disprezzava; inoltre aveva libero accesso al manoscritto da lui conservato; la sua preparazione in campo paleografico era nota (e la sua grafia più simile a quella del “Vecchio correttore” rispetto a quella di Collier).

K. B. Hase e il falso Toparcha
Karl Benedikt Hase è uno dei tanti emigrati tedeschi nella Parigi del primo Ottocento. Uomo di profonda cultura classica, ma tutt’altro che irreprensibile, egli rappresenta il prototipo del mistificatore “romantico”. Intellettuale bohèmien e frequentatore di postriboli e osterie dei bassifondi, fu anche autore di volumi, commenti e traduzioni dal latino e dal greco antico, curatore di testi bizantini; collaboratore dell’editore Firmin Didot, per conto del quale curò, insieme ai fratelli Dindorf, l’edizione aggiornata del monumentale Thesaurus linguae Grecae del filologo cinquecentesco Henri Estienne. In particolare egli pubblicò con un dotto commento ed una più accessibile traduzione in latino, un antico testo greco, il Toparcha Gothicus, che sosteneva di aver scoperto in una biblioteca parigina e che egli sostenne essere la più antica cronaca esistente della storia russa, addirittura di alcuni secoli più antica di qualunque altra versione conosciuta. Il testo del Toparcha tenne testa per un secolo ad esami accurati da parte di filologi e storici del mondo slavo
In realtà si trattava di una sua geniale invenzione.

La “scoperta” dell’antico Libro di Mormon e l’orgine della Chiesa Mormone

Il topos dell’improvviso e fortuito ritrovamento di un manoscritto dimenticato e rivelatore è anche alla base di una religione del nostro tempo, abbastanza diffusa negli Stati Uniti: la “Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli ultimi giorni”, più nota come Chiesa Mormone, fondata nel 1830 dal “profeta” americano Joseph Smith (1805-1838), un semplice pioniere, sulla base di alcune “visioni” e del ritrovamento del Libro di Mormon, un antico testo profetico, inciso in caratteri sconosciuti (l’alfabeto del deserto) su di una cinquantina di sottili tavolette dorate, rimasto sepolto per 1400 anni. Due professori di New York – Charles Anthon e Samuel I. Mitchell – ai quali fu sottoposta una trascizione del testo interpretarono i caratteri con i quali esso era inciso come una variante del fenicio, con aggiunti caratteri geroglifici sul modello egizio. Ma nessuno era in grado di leggerlo e tradurlo. Fu così che il “profeta” Smith si accinse da solo alla traduzione, ispirato direttaente da Dio. Trascritto in inglese il testo si componeva di quasi 500 pagine dalle quale emergeva un nuovoo libro della Legge ed un appello divino a rifondare la Chiesa di Cristo. La Chiesa Cristiana, corrotta e divisa in Europa, sarebbe dunque rinata nel Nuovo Mondo per poi riprendere l’opera di evangelizzazione mssionaria in Europa e in America.. Questo il contenuto del Libro di Mormon:

Circa seicento anni prima di Cristo alcuni ebrei, avvertiti dell’imminente distruzione di Gerusalemme, si rifugiarono sul continente americano, attraversando l’Oceano con una barchetta. Qui svilupparono una civiltà dividendosi presto in due gruoppi: i Nephiti, di pelle bianca, pacifici e fedeli alle Sacre Scritture ebraiche, ed i Lamaniti, di pelle scura, ribelli, bellicosi e maledetti da Dio. I due popoli erano sovente in guerra fra loro. Quattrocento anni dopo il loro arrivo in America i Nephiti scoprirono i resti di un antico popolo, anch’esso di origine ebraica, sfuggito alla distruzione di Babele e rifugiato  come loro in America. I Nephiti credevano fermamente in un Messia che sarebbe venuto a Gerusalemme ed i loro profeti avevano stabilito anche la data precisa della sua veuta e della sua morte. Al momento della Crocifissione un cataclisma distrusse gran parte delle città dei Nephiti, ma al momento della Resurrezione Cristo comparve ai superstiti, in terra americana, annunciando loro la sua parola e scegliendo fra loro dodici discepoli che avrebbero ristabilito la sua Chiesa sulla terra. Iniziò così un’era di prosperità e di pace fra i Nephiti che durò duecento anni. Ai duecento anni di pace segurono duecento anni di terribili guerre, scatenate dai Lamaniti, che distrussero la civiltà dei Nephiti e li dispersero. Poco prima della distruzione il generale e profeta nephita Mormon dettò gli annali del suo popolo che furono conservati da suo figlio Moroni fino all’anno 420 d.C., quando furono nascosti in un luogo segreto, per essere ritrovati 400 anni dopo da Joseph Smith.

Pubblicata nel 1830, la traduzione del Libro di Mormon ebbe una rapida diffusione fra i pionieri americani e divenne la regola della nuova Chiesa fondata da Smith, successivamente costituitasi in comunità nel libero Stato dello Utah, sul territorio bonificato del Grande Lago Salato.

Il Memorandum della cancelleria prussiana in risposta a Giuseppe Mazzini
Studiosi autorevoli del XIX secolo hanno attribuito a Giuseppe Mazzini una sorta di Memorandum spedito nell’aprile 1866 dalla cancelleria prussiana all’ambasciatore prussiano a Firenze, conte di Usedon. Nel 1866 il patriota genovese era stato risolutamente contrario all’alleanza dell’Italia con la Prussica, ma aveva cambiato opinione in seguito alla guerra vittoriosa, dopo che Bismarck aveva “riso in faccia” a Napoleone III. Nell’autunno 1867 (nel periodo di Mentana) Mazzini aveva quindi voluto entrare in rapporto con la cancelleria prussiana per chiedere aiuti finanziari e militari (un milione di franchi e duemila fucili) allo scopo di combattere qualsiasi possibilità di alleanza franco-italiana. Da Berlino si sarebbe risposto con un Memorandum segreto diretto allo stesso Mazzini nel quale si motivavano le ragioni dell’alleanza italo-prussiana. Il Memorandum, considerato autentico da alcuni storici, è in realtà un evidente falso propagandistico


fonte: 

Falsi umanistici - Università degli Studi di Verona


[1] S. Seidel Menchi, Un’opera misconosciuta di Erasmo? Il trattato pseudo-ciprianico “De duplice martyrio”, in «Rivista Storica Italiana», XC (1978), pp. 709-743
[2] R. Mousnier, Le testament politique de Richelieu, in «Revue Historique», CCI (1949), pp. 55 sgg. ; R. Piton, A propos d Testament politique de Rchelieu, in «Revue suisse d’Histoire», VI (1956), 2, pp. *** ; E. Esmonin, Observations sur le Testament politique de Richelieu, in «Bulletin de la Société d’Histoire Moderne», serie X, nn. 25-26 (1951-1952)