domenica 5 gennaio 2014

Capitolo XII


La Terra dei Mucchi di Pietre, cap. 12

di Maurizio Feo


12. Hur, il Sacerdote della Montagna.

 
Dopo un cammino disagevole, ma fortunatamente breve, gli uomini della Compagnia fecero una breve sosta: si aprì ai loro occhi una valle, la cui vicina pre­senza e molto vasta estensione erano insospettabili dall’esterno. Vi si trova­va, insieme ad acqua in quantità, anche un vil­laggio piuttosto grande e dall’aspetto semplice ma opulento. Esso risultava ben difeso - oltre che dallo stretto accesso, nascosto alla vista - anche da uno spesso muro tutt’intorno. Al centro della valle torreggiava un piccolo tempio tondo, con un modesto re­cinto e privo di fornace.
Davanti al tempio - con l’alto cappel­lo a cono, con il gros­so bastone del comando e con tutti i paramenti sacri - già stava in attesa il sacerdote, in posa ierati­ca, avvertito in ossequioso anticipo dalle vedette di Hanys.
Egli li accolse con queste parole: “Siano benvenuti gli amici lontani che chiedono aiuto. Che la nostra umile ospitalità li renda più sereni e metta in fuga i loro incubi vani. Ci chiediamo in verità quale aiuto possa offrire un piccolo villaggio di montagna ad uno grande e ricco qual’é Tal-Ur - che dall’altopiano tratta con le città sul mare e con le terme del fiume e che ogni anno ci rallegra e ci stupisce con i suoi prodigi”.
Non sfuggì a Lau­chme lo scarso entusiasmo del benvenuto formale, ma egli fu forse l’unico che vi riconobbe l’invi­dia del collega meno fortu­nato, che malvolentieri acco­glieva sul proprio terreno un potenziale, migliore concor­rente. Proprio in quel dettaglio subito Lauchme indivi­duò il vero pericolo, l’ostacolo che tutto avrebbe potuto compromettere...
Al­lo­ra il Grande Sacerdote di Tal-Ur si scoprì il capo e scel­se di assumere un aspetto dimesso. Diede il proprio bastone ricurvo a Norax, avanzò di un passo e - allargando prima le braccia in senso di dichiarata impotenza, poi alzandole, palmi avanti come in preghiera - disse in tono supplice: “Oh, Sa­cer­dote che hai scelto di essere buona guida tra la fiera gente dei monti, é invero pressante il nostro bisogno di aiuto se ci ha portato fino a te, senza invito e senza annuncio! E per que­sto é giusto il di­sappunto che tu sicuramente provi, anche se nella tua generosità - intuisco - non vuoi farcelo pesare. Noi ti chiediamo di ascoltarci, con la buona disposizione di cuore che distingue la nostra gente, di cui tutti qui facciamo parte, ognuno con un certo onore e orgoglio... Il problema per adesso appare lonta­no - questo é vero - ma purtroppo non é soltanto un cattivo sogno. Forse tale esso é stato in passato - e se così,  non fu ben interpretato - e adesso sta per realizzarsi a danno di noi tutti. Per Inanna, dolce viso del Sole, e per suo figlio, che muore e risorge nelle nostre stagioni; per la Luna che conta il nostro tempo: ascolta ciò che abbiamo da dirti con la pazienza e l’attenzione di un fratello”. L’altro sacerdote - che eviden­te­mente si aspettava, e temeva, un confronto con un altez­zoso e superbo concorrente di casta - rimase sorpreso dal tono di ac­corata ed umile supplica, ciononostante co­gliendo in essa il tentativo di adulazione personale e di imbonimento pubblico. Fece quindi per rispondere, poi mutò idea ed indicò al sacer­dote di Tal-Ur l’entrata della propria capanna, con un gesto che sanciva forse un armistizio, non certo una resa: di certo, considerava preferibile e più prudente un incontro privato.
Decisero subito che i pari specie avrebbero prima parlato tra loro, per poi tenere un consiglio più allargato. Perciò, mentre il gruppo sacerdota­le si ritirava, Mandras e Iolao erano a colloquio con Hanys ed i suoi Luogotenenti.
La diffidenza del sacerdote della Montagna - il cui nome era Hur - si faceva riconoscere ancora attraverso la sua formale, ma fredda, cortesia: “Anche noi spremiamo il succo fuori dall’uva, pur preferendo tuttora la birra” - disse soavemente, indicando boccali ricolmi ai suoi ospiti - “Anche se solo da pochi anni la coltiviamo, seguendo il costume orientale che vi é ben noto da tempo... Sedetevi, e raccontatemi la vostra inquietudine”.
Norax sbirciò verso il suo Maestro e vide che questi stava tormentandosi i lunghi baffi con pollice ed indice, segno - come egli ben sapeva - di grande agitazione e di turbinosi pensieri non dati a vedere. Pensò che molte parole stavano per essere spese, e che forse inutilmente sarebbero scivo­late via sull’insensibilità e sull’indifferenza del già maldisposto e diffidente Hur. Norax indovinò che il suo Mae­stro stava furiosamente cercando le parole per fare breccia attraverso quel muro e che forse - anzi, sicuramente - avrebbe trovato un punto debole sul quale insistere.
Intanto Hator - una sua inserviente - aveva loro versato altro prezioso succo di uva nera ed aveva portato via con sé i grandi paramenti del suo sacer­dote, per ricomparire subito dopo con dolci fatti di cumi­no, mandorle e miele.
“Vi sono molti segni” - cominciò il sacerdo­te di Tal-Ur - “sufficienti a convincere i più increduli”.
“Come la spada, ad esempio?” - S’intromise Hur, anticipandolo, per metterlo in difficoltà.
“Si: la spada é già uno dei segni” - ammise Lauchme con pazienza e l’altro, sorridendo di soddisfazione, disse: “Spade e pu­gnali come quello sono rari, come raro é il metallo da cui sono ottenuti e ancor più rara la conoscenza necessaria per fonderlo. Essi vengono destinati come regali graditi a giudici o re, da parte di ricchi commercianti o da altri re stra­nieri. Non ve ne saranno mai abba­stanza per armare un esercito. L’unico loro scopo é quello di guadagnarsi i fa­vori, non certo quello di vincere le guerre. Quelle lame - come tu, fratello nell’arte, dovresti ben sapere - si ricoprono di una polvere rossa che le rode e le consuma: prima gli toglie la lucentezza, quindi le priva di ogni forza, riducendole come foglie secche. Quando le nostre lame brune sono ottuse, invece, noi le rifondiamo per ribatterle, senza difficoltà, più belle di prima. Ma esse non per­dono mai la loro lucentezza dorata, tanto che con lo stesso metallo noi facciamo gli specchi, oltre alle fibbie, ai bracciali, agli anelli, alle spille, ai pettini, alle stesse piastre sacre che tu ed io portiamo - più o meno degnamente, devo dire - sul petto. Tu, Sacerdote del Grande Circolo, non puoi ignorare queste cose; o devo credere che così in basso siano ormai caduti i più eletti custodi della nostra fede?”.
Hur era più vecchio di Lauchme, ma in que­sto momento aveva occhi che brillavano per la convinzione di avere già in pugno l’avversario: si ergeva ben dritto sulla sua poltrona quasi come su di un trono, convinto di poter avere facilmente ragione di un avversario che forse prima egli aveva troppo temuto davvero.
Ma gli rispose il Grande Sacerdote Lau­chme: “E tu, Hur che ne parli così semplicemente, tu co­nosci il segreto per fondere quel metallo? Conosci forse l’ubicazione delle miniere? Hai avuto messaggi e prove da Orwa, da Kar, da Bithia, da Nure, da Solki, da Tarr, da tutte le nostre coste? Hai potuto contare le vittime di una guerra assassina non dichiarata, che già si com­batte nelle nostre città? O forse poco t’importa che quelle possano essere prese dal nemico, perché sono lontane, o per­ché non ti piacciono, o soltanto perché speri che un esercito numeroso e bene armato non oserà salire su questi monti? Tutto ciò che si frappone tra noi ed una belva feroce va difeso, se ci difende, che ci piaccia oppure no. Io ti dico che verranno e bruceranno la terra! Bruceranno prima le città, quindi prenderanno i villaggi delle pianure ed infine, con tutto comodo, saranno qui, più numerosi delle formiche, più forti che mai”. Nel dire queste parole il tono di Lauchme s’era gradualmente ac­cresciuto, lo sguardo indurito, la persona protesa nella sua poltrona come per lanciarsi avanti, la figura stessa sem­brava essersi fatta più grande, incombente.
Ma subito dopo riprese a parlare della propria arte, in tono più sommesso: “Io conosco il modo per fondere quel metallo che alcuni chiamano Isarno. E’ un segreto di quei Twrshna che si fanno chiamare Rasena e che hanno scelto a propria defi­nitiva dimora la “Terra nel buio”, Ereb. Essi la illuminano di fuochi maestosi e della loro scienza. Ne disboscano gran parte e vi fanno giungere la luce del Sole. La colti­vano e vi fanno sapientemente scorrere l’acqua. Quella terra é ricca del metallo grigio, oltre che di quello che dà il nome alla lontana Isola del Rame. Essi vi fanno giungere da lontano anche un metallo giallo sempre brillante e tutti li lavorano con incredibile maestria. Questo risponde ai tuoi argomenti”.
Lauchme proseguì come un fiume in piena, senza più lasciarsi interrompere, né smentire. Hur stette ad ascolta­re con avidità come si presentavano in natura le pietre contenenti i vari metalli, e come apparivano dopo la fusione. Ascoltò come i Rasena barattassero i propri manufatti con il metal­lo giallo, oltre che con splendidi vasi dipinti, ambra preziosa, rarissime uova di struzzo, pelli e denti di animali strani e mostruosi, che vivevano ai confini del mondo.
Lauchme disse: “Sembra che i Rasenna cono­scano una strada, quasi tutta per terra, che conduce fino alle isole Kassitere. Dove i nostri marinai giungono soltanto con grande rischio, costeggiando tutta la terra nel buio con le navi, e portando soltanto un piccolo carico, là i Rasenna fanno viaggiare lunghe colonne di grandi carri - o di bar­che - attra­verso la terra dei Keltoi e degli Iperborei”.
Norax stava ascoltan­do affascinato - e non era il solo - e già presentiva che da quel solo colloquio avrebbe appreso molto di più che non in una intera luna di ti­rocinio. “Di tutto questo qualcosa ho udito anch’io” - disse il sacerdote della montagna - “e qualcosa ho appreso a suo tempo, malgrado quel popolo sia molto geloso dei suoi segreti. E tu, come sai tutto que­sto?”
Lauchme rispose con noncuran­za: “Ho vissuto presso di loro, prima che essi lasciassero le nostre coste. Ero po­co più di un ragazzino, per cui non davano molta importanza a me, ma io avevo occhio acuto ed orecchio at­tento ad ogni dettaglio”.
“E sono forse essi la grande minaccia di cui tu parli?”
“No” - sorrise il Gran Sacerdote - per Ennin, essi sono un po­polo religioso e pacifico e pieno di quella saggezza, con la quale non é male convincere i popoli e quindi conquistarli. Per la verità, essi si spingono ormai più per terra che non per mare e sono troppo indaffarati nel trasformare la Terra nel Buio in un paese ospitale. Credo che la flotta dei Shar­dana delle nostre coste sia più grande e più veloce della loro. E forse meglio armata”.
E qui Lauchme, vista un po’ sopita la diffidenza di Hur, cominciò a raccontare per esteso i fatti, i sospetti, i progetti e le paure. Mostrò natu­ralmente il papiro che aveva portato con sé e pa­ziente­mente soddisfò ogni curiosità di Hur su quella scrittura antica, su quei tenaci inchiostri brillanti, su quale parte di quale erba del fiume si dovesse usare, dopo averne incol­lati insieme gli steli aperti e srotolati - per scriverci su. O di come in man­canza di quell’erba - si potesse stendere la cera delle api su di una ruvida tavoletta di legno e ad essa affidare i messaggi e le note che non si addicono alla voce, né alla memoria...
Infine, dovette pazientemente confrontare le proprie conoscenze sull’arte di guarire dai mali, sforzandosi di non assumere l’atteggiamento di chi di fatto insegna cose nuove a chi é rimasto isolato indietro, bensì lavorando d’ingegno, e mostrando di ritenere che sempre l’altro sapesse già bene ciò di cui si andava parlando, o che addirittura l’avesse suggerito per primo proprio colui che invece udiva quelle cose per la prima volta...
In questo modo gli permi­se di annotare bene molte utili nozioni nuove, peraltro fa­cendogli fare egualmente bella figura di fronte ai propri aiutanti. Di ciò l’altro non poté non essergli grato, come il suo mutato atteggiamento già di fatto dimostrava. Natu­ralmente, Lauchme dovette premurarsi di porre a propria volta alcune domande su argomenti accorta­mente scelti nella Vecchia Tradizione.
Su questi ultimi Hur fu ben pronto a rispondere con una tal impressionante dovizia di dettagli, da meritarsene un ammirato elogio. Norax però dubi­tava molto che quelle domande fossero realmente formulate dal suo Maestro per apprendere.
Infatti, questi si rivolgeva ogni tanto a Norax e con fare grave gli diceva: “Di questo prendi nota” - riferendosi talvolta a dettagli che erano ben familiari perfino allo stesso Norax. Si prestò comunque alla commedia con naturalezza, perché era un ragazzo sveglio e aveva già compreso per quali difficili strade passasse talvolta la fiducia degli uomini, prima di giungere a buon fine.
In tal modo, inoltre, Norax ebbe modo di apprendere molto dal garbato ed erudito scambio, ad esempio: come in ogni essere vivente al­berghi una forza enorme che tende a guarirlo dalle malattie. Questo si può già osservare spezzando qualche ramo di un al­bero: poco dopo rispuntano più folte e numerose le piccole fo­glie nuove. Così la Vita reagisce ad un piccolo insulto, impegnandosi subito nel lavoro di porvi rimedio. Tale forza é presente in ogni essere ed è quasi invincibile - ma purtroppo lenta - tal­ché se il male é più veloce di essa o molto grande di per sé, l’essere muore. I due sacerdoti convennero che lo scopo del guaritore consiste nel limitare l’entità e la velocità della malattia quel tanto che basti perché quella forza vitale sanatrice possa avere il sopravvento...
Molte furono le domande di Hur sui colori così belli e brillanti ottenuti da Lauchme. Anche intorno a questi segreti il sa­cerdote di Tal-Ur fu prodigo di lumi: per l’azzurro, con­sigliò di migliorare la vecchia formula orientale, usando  invece di sab­bia il raro vetro triturato, più polvere di rame te­nuta a lungo in ac­qua, più lapislazzuli pestati, e poi cuo­cendo il tutto alla fiamma. Il verde più stabile si può otte­nere con malachite polverizzata, rame tenuto in aceto, sa­le, soda. Il giallo, il rosso, il bruno si hanno con ocra - naturale o variamente bruciata. Il nero miglio­re é dato dal carbone - oppure da ossa di animali bruciate - con aggiun­ta di colla di semi di grano per renderlo più tenace. Il bianco si ottiene - meglio ancora che con gesso o altro - con sarmenti e piombo tenuti a bagno nell’urina molto, molto a lungo...

Intanto, fuori, la ruvida e semplice gente della montagna aveva interpretato il raduno come un’oc­casione per festeggiare, per cui già da tempo erano stati accesi fuochi, pre­parati gli addobbi, aperte le rustiche di­spense, riempite le lam­pade.
Già suonavano le tibie e gli altri strumenti.
Di ciò erano stati ben contenti i cacciatori ed i boscaioli di Tal-Ur, che non molto prima e con ram­marico avevano intrapreso il viaggio la­sciandosi dietro proprio una festa. Quindi ben volentieri aveva­no aiutato a fare questi nuovi preparativi.
Il fatto, quindi, era compiuto: rifiutare non si poteva, se non offendendo a morte chi ge­nerosamente - ma imperiosamente - offriva la festa. Si do­veva restare e forse ballare, ascoltare canzoni, parlare, fare gare di forza o di destrezza, bere e mangiare, scambiarsi buoni auguri, fino a che la notte troppo stanca non avesse ceduto al giorno. Non appena Norax si rese conto di ciò - uscendo dalla capanna di Hur - scambiò uno sguardo di disappunto con il suo Maestro e fece per parlare.
Ma il saggio Lauchme lo zittì, posandogli una mano sul braccio, e contemporaneamente chiedendo al loro ospite Hur il tempo ed il luogo ove potessero liberarsi dal bagaglio e della polvere, del sudore del viaggio, in modo da essere più presen­tabili per la festa. Quindi, una volta soli, parlò con il suo apprendista: “Ohi, Norax tu hai visto ed hai compre­so in fretta quanto é accaduto prima. Per tutte le cose si deve ogni volta pagare un prezzo, e forse mai nella stessa mone­ta. Abbiamo ottenuto la fiducia del pastore, ora dobbiamo guadagnarci quella del suo gregge. Se il pastore ha voluto la lana, il gregge ora con ragione chiede il pa­scolo. Non possia­mo - né adesso, né mai - rifiutare un’of­ferta di amicizia: non ci sarebbe perdono. Quello che per noi é un prezzo molto caro, per essi é soltanto qualche ora della notte e la cenere del fuoco... Non lamentarti se così spesso, coprendoti la spalla fredda col tuo piccolo mantello ti scopri le gambe e non riesci mai a stare caldo tutto. Questo ti accadrà continuamente nella vita che gli Dei ti hanno donato, fino a quando la Grande Madre En­nin non ti regalerà per sempre una coperta più grande e più definitiva, che già riscalda i tuoi antenati nelle loro favisse... Quindi usciamo di qui volentieri e mescoliamoci ai nostri fratelli con la sincerità del sangue e restiamo con loro finché essi lo vor­ranno. Alla fine, ricorda, anche il prezzo che a nostra volta noi richiederemo, in cambio, sarà molto alto per loro. Tutti riceveranno qualcosa, tutti pagheranno qualcosa”.
Nuraghe (di Marco Camedda, 2007 - china su carta)