domenica 5 gennaio 2014

CHAPTER THIRTEEN


La Terra dei Mucchi di Pietre, cap XIII,
di Maurizio Feo

13. Canzoni ed Enigmi: la Festa.


 
Quest’ordine fu trasmesso a tutta la Compagnia e fu rico­no­sciuto a malincuore come l’unica soluzione sensata an­che dall’impetuoso Mandras, (il quale sembrò comunque scordarsi della fretta, cimentandosi con im­mediato impegno ed  indiscusso successo nelle gare con l’arco e con l’ascia).
Vennero i poeti e raccon­tarono cantando le loro storie sulla solitudine bella e selvaggia e sull’amore tranquillo di ogni giorno nella vita dei pastori, quelli che parlano con il vento, che non hanno niente e sono ricchi, che nulla scrivono e tutto affidano alla memoria tenace ed al canto vibrante.
Furono versi di una bellezza semplice e struggente, che nessuno della Compa­gnia aveva udito prima di allora espressa in quell’intensi­tà. Quindi Iolao volle a sua volta recitare una storia e comin­ciò, dapprima senza accompagnamento musicale, e poi a poco a poco seguito ad orecchio da qualche strumento, spargendo intorno la sua bella voce, calda e cavernosa. Cantò al­cuni capitoli di un’antica storia, di un Grande eroe del mitico paese tra i due fiumi, il quale portò il legno del ce­dro al suo popolo, sfidò impunemente l’ira degli dei ca­pricciosi, infranse città ne­miche come vasi di coccio, conobbe il segreto del Diluivo e dell’Eterna Giovinezza, ma non riuscì a portarlo indietro al suo popolo di Uruk, ol­tre il mare della morte.
Questa storia inte­ressò e commos­se tutti, perché cantata così bene da Iolao, e perché in qualche modo tutti prima o poi avevano udito narrare o cantare di KylK’mésh: il più grande degli eroi, il mezzo dio senza rivali fra tutti i guerrieri, amato da tutte le donne, temuto dai mariti, domatore delle forze del mondo, scon­fitto infine soltanto dall’ultimo destino dell’uomo.
In parti­colare risultò nuovo a tutti il lamento dell’eroe in morte del più caro amico e servitore:




“Uditemi, Grandi di Uruk! In Enkidu io piango l’amico,
amaramente gemendo, come una donna in lutto.
Tu fosti la scure al mio fianco, la spada alla cintura,
lo scudo protettore, una veste gloriosa,
il mio più leggiadro ornamento.
Un fato malvagio mi ha derubato.
Questo io dico, Enkidu!
Piangono i luoghi che tu hai amato.
Piangono i sentieri che abbiamo percorso,
Piangono gli animali che abbiamo cacciato,
Piangono l’Ula di Elam e il caro Eufrate,
I guerrieri di Uruk dalle forti mura
e tutto il popolo di Eridu unito
Piangono per te, fratello mio Enkidu.
Chi ti unse di unguenti odorosi allora,
ora piange per te, ascolta.
Chi ti versò birra da bere, allora,
ora piange per te, ascolta.
Chi ti trovò moglie fedele, allora,
ora piange per te, ascolta.
Chi ti fu di valido consiglio, allora,
ora piange per te, ascolta.
E i tuoi fratelli più giovani
portan lunghi i capelli nel lutto
e come fossero donne singhiozzano e mormorano
e pregano e innalzano lamenti, per te.
Sei perduto nel sonno che ti avvolge,
nel buio freddo, senza parole né risposte”.




 
Molti furono gli applausi e molto fu il vino che fu mesco­lato con l’acqua, nell’eccitamento dei brindisi fatti ripe­tendo in coro quei versi, per meglio ricordarli. Finché - a gran voce - da più parti, non fu chiamata Larthy a cantare.
Dopo ripetute richieste corali si alzò una figuretta femminile, minuta e gentile, che parve a Norax bella oltre ogni pos­sibilità umana, come uno stampo di cera perfetto che per magia avesse preso vita e che l’artigiano in nessun modo volesse ormai più destina­re a consumarsi nello stampo, fa­cendo posto al metallo fuso.
Larthy portava una leggera veste di lino grezzo, stretta in vita da una cintura, intrec­ciata di lacci di cuoio variopinto. Depose uno scuro mantello intessuto di peli di capra, che aveva indossato per di­fende­rsi dal fresco della sera, rivelando così un corpo flessuoso. Una piccola doppia ascia cam­peggiava al centro di una piastra di rame finemente lavora­ta che pendeva dal suo collo sottile, stagliandosi sul lino chiaro e diffondendo intorno i bagliori rossastri dei fuochi. Il suo viso era ovale, delicato il suo collo, aggraziato il portamento. 

Le canzoni di Larthy erano armoniose e suadenti, ma quando anche esse fos­sero state sgraziate, la sua voce soltanto sarebbe valsa a tra­sformarle, rendendole gradite alle orecchie di tutti. Ella non danzava, ma accompagnava i suoi versi con gesti affascinanti delle mani ina­nellate di bronzo e di avorio: riusciva così ad acuire il senso delle parole, per legarlo indissolubilmente alle note della musica ed alla memoria degli astanti. E tutti la guardavano fisso, as­senti, rapiti dalla melodia quanto dal sogno che essa evo­cava, volutamente persi in lei e in lei soltanto ritrovati. I suoi occhi avevano il colore del mare profondo.
Quando terminò l’ultima canzone, con le ultime note, l’in­canto rapidamente si spense e Norax seppe subito che la festa era finita per lui: qualunque meraviglia potesse se­guire a quella ma­gnifica visione.
Conobbe inoltre una strana ansia smaniosa che lo tormentava ogni qualvolta Larthy scompariva ai suoi occhi, nascosta momentanea­mente dalla gente. Norax seppe di do­verle parlare, di do­verla avere vicino, di non volerla più lascia­re, di volere vivere ovunque ella vivesse, di volere vedere con gli occhi di lei il mondo intorno. Fu immemore di ogni dovere, di ogni missione, animato da un’unica ansia; con un’unica ur­genza le fu accanto per tutta la sera, confessandole la propria ammirazio­ne, parlandole di sé e di lei facendosi racconta­re, beandosi della vista di lei e delle sue parole, ignaro dei suoni della festa e di ogni cosa intorno a loro...
Intanto Hanys, terribi­le come lo voleva il suo nome - Mes­saggero divino di tempesta - aveva ottenuto tanti trofei quanti ne aveva avuti Mandras, cosicché non si riusciva a stabilire chi avesse diritto ad essere proclama­to campione della festa. Tanto irresistibile era uno nelle prove di forza quanto l’altro era insuperabile in quelle di resistenza e di destrezza, a tutto vantaggio dello spettacolo.
Fu quindi deci­so di farli confrontare nel vecchio gioco degli enigmi, per ri­muovere l’imbarazzo della scelta. Si liberò uno spazio tondo e la folla trepidante di anticipazione vi si sedette tutto intorno.
Fu Hanys a cominciare, e proclamò il suo primo enigma in tono di sfida: “Va su, va su, più in alto degli alberi eppur non cresce mai”. La voce di Mandras echeggiò subito in risposta: “Ne ho avuto ab­bastanza pro­prio oggi da scalare, per poterti rispondere che é la montagna!”. Il pubblico rumoreggiò d’approvazione di­vertita e di sorpresa, mentre Hanys - momentaneamente sconfitto - be­veva la sua prima enorme coppa di vino, in fretta, per non dar troppo tempo all’avversario di pensare un buon indovinello.
Mandras recitò a sua volta: “Va per mare senza nave, va per terra senza piedi, se pure non ve­de la luce del giorno, sa trova­re la strada di notte. Morde senza denti e urla senza bocca. Fermarlo non si può, ma prenderlo io so”. Mandras si pentì subito del peccato di scoperto or­goglio marinaro contenuto nell’ultimo verso, che suggeriva la soluzione del suo enigma - altrimenti di difficile interpretazione. E infatti Hanys, dopo un attimo di esita­zione, ruggì: “Il vento, é!” E così costrinse Mandras a vuo­tare la propria grossa coppa di vino non tagliato. Hanys cercò in fretta il nuovo indovinello tra le cose di cui l’av­versario - guer­riero e marinaio - non aveva esperienza.

Disse quindi: “Bianca la madre come un giglio. Come il fuoco rosso il figlio. Vivono insieme una breve stagione, ma il figlio cade per primo per sua troppa bontà, quindi la madre nel figlio stesso si trasformerà”. Ma il viaggio attra­verso la campagna aveva dato tempo a Mandras di ap­prendere a sufficienza su fiori e frutti, per potere risp­ondere: “Corbezzolo!” ricordò Mandras trionfante, costringen­do Hanys a mandar giù - questa volta più lentamente - una seconda dolce punizione. Il vino cominciava a farsi sentire.
Fu quindi la volta di Mandras: “E’ vi­vo e senza respiro, é freddo come morto; mai asseta­to, sem­pre beve, l’occhio suo vigile, il corpo argentato”. Ma anche Hanys aveva molte volte avuto modo di vedere l’animale descritto - nei fiumi, se non nel mare - per cui, indicando la coppa dell’avver­sa­rio, ridendo indovinò: “Non troverai pesci, lì dentro!”. E la folla urlò di appro­vazione e di ammirazione per lui, e per l’arguzia del suo commento, mentre Mandras beveva, pagando la sua seconda posta.  
Ormai il vino bevuto in quella grande quantità cominciava a fare il suo effet­to.

Hanys enunciò, con voce un po’ incerta: “Quando é bianco può rotolare, quando é giallo scivola molle e non potrà più ro­tola­re”. Mandras ammiccò, un po’ confuso e contrariato, poi si arrese. Quindi, dopo una breve esitazione, lanciò il proprio enigma, senza più tentare di indovinare quello dell’avversario. Questo era suo estremo diritto, dato che egli era stato il se­condo nel turno. Disse Mandras: “Se é con te non te ne ac­corgi, se ce l’hai non lo chiedi e comunque non vedi che quello degli altri. Silenzioso di notte realizza il suo regno e se a volte lo sfidi é per perdere sempre, in pegno scam­biando qualche ora di luce”.

Hanys strabuzzò gli occhi, cercando invano di concentrar­si sul senso delle paro­le dell’avversario che sembravano eludere le sue orecchie e privarlo di quell’oc­ca­sione propizia.
Ma il sonno, che era la semplice soluzione del problema, al tempo stesso ne diveniva il custode più agguerrito. Tutto, infatti, si confondeva da­vanti a lui: il vino ed il sonno ebbero la meglio alla fine, ed egli si portò con sé nel sogno l’ansia di una sollecita risposta. Gli parve che tutto intorno a lui una moltitudine di uova rotolando giù si infrangesse a terra e mostrando i tuorli gialli rivelassero a tutti la chiave del suo enigma. Dal canto suo Mandras non riu­sciva più a tenere fermi gli oggetti che avevano preso a ruo­targli fastidiosamente intorno, in un turbinio divenuto insopportabile, fino a quando di sorpresa il terreno parve colpirlo al volto, improvvisamente sollevatosi all’altezza del suo viso, e lui vi si addormentò sopra, vinto da quel sonno stesso con cui aveva cercato la vittoria.
Si decise pertan­to che la fe­sta era finita e che i due ultimi contendenti fos­sero portati sui loro giacigli. I campioni erano tali in pari misura e ugualmente sconfitti - si decise - animatori della festosa veglia fino alle prime incerte luci dell’alba.
Final­mente, vi fu un po’ di silenzio e di quiete nel villaggio appagato...

Durante la fe­sta Lauchme aveva parlato a lungo, fitto fitto, con il Sa­cerdote della montagna. Hur e Hator aveva­no ascoltato at­tenti per meglio ricorda­re. Lauchme aveva rac­contato i se­greti appresi in gioventù dai Ra­sena, che lo chiamavano Lygmon. Aveva spiegato come co­struire la fornace, ove fondere insieme sette parti di rame con tre parti di stagno, per ottenere da sé il metallo bruno e farne strumenti di ogni tipo ed armi. Lauchme aveva rivelato che di­minuen­do le parti di stagno ed aumentando quelle di rame la fu­sione richiedeva un più grande fuoco e più tempo: con 9 parti di rame e una sola di stagno gli strumenti erano si più duri, ma anche più fragili, per cui questa lega era più adat­ta per lamine, piastre, ornamenti. Per questi ultimi Lyg­mon spiegò anche co­me e con quali strumenti si dovesse lavorare e battere il metallo appena fuso, e come si potes­se con vantag­gio riscaldarlo e ri­batterlo ancora... Con sei parti di rame e quattro di stagno era invece più agevole la fusione, a temperatura più bassa, e ottima risultava la lega per farne lucidi e lisci specchi.
Ma per cambia­re i propri destini e vincere Isarno, il nuovo metallo grigio, era ob­bligatorio un fuoco enorme, che quasi bruciasse il grande forno stesso spaccandone le pietre nel lungo tempo neces­sario per la fusione. Lygmon rivelò il segreto del carbone, e di come sostituirlo: si poteva far prima bruciare lenta­mente il legno sot­toterra, asciugandolo dei suoi umori fino a farlo diventar nero e leggero. In questo modo - bru­ciando questo nuovo carbone - anche in una fornace nor­male si otteneva un così grande calore che qualunque fusione diveniva possibile.
Lauchme spiegò an­che dove si trovasse la Fontana Raminosa, in cui più abbonda­vano le pietre conte­nenti il rame. Spiegò che lo stagno era più ra­ro, tanto che le navi lo portavano dalle fredde e lontane isole Kassitere.
Il nuovo robusto metallo grigio si trovava invece nella nuova destinazione del popolo di Hur, presso Solki...
Era an­che abbondantissimo sulle vicine spiagge di Ereb, ma quello apparteneva ai Rasenna ed era comunque troppo lontano...
I due sacerdoti si scambiarono un saluto sommesso, in cui non vi era più residua inimicizia, bensì un mutuo riconoscimento di af­finità, di appartenenza al Tem­pio, di reciproca dipenden­za...
Più tardi, quando egli fu solo, gli occhi acuti di Lau­chme brillarono brevemente, nel buio della propria capanna, mentre l’apprendista già riposava immerso nel sonno, ancora igna­ro del nuovo successo del suo Maestro, dei nuovi rischi da affrontare, perso invece in un paesaggio fiorito e sere­no...
Gli occhi del Grande Sacerdote di Tal-Ur brillava­no, mentre la sua mente tentava di sondare l’oscu­rità che av­volge coi suoi veli il futuro: che cosa restava ancora da fare? Si poteva recuperare il tempo prezioso, oppure esso era irrime­diabilmente perduto nei fumi del vino, nelle note allegre della festa, nella brace che sonnecchiava silenziosa nei tripodi bra­cieri di bronzo?
Si doveva ripartire verso il sole nascente ap­pena possibile, ora che nulla tratteneva più in quel luogo la Compagnia. Il nuovo alleato avrebbe fornito abili guide ed appoggio generoso in uomini armati e cibo.
Ma l’accordo, pazientemente costruito nella notte da Lygmon, prevedeva di più...
Infatti, il sacerdote della montagna doveva portare a Sud quei segreti che il sacer­dote di Tal-Ur gli aveva rivelato. Con tutta la restante po­polazione, Hur doveva stabilirsi sulle monta­gne nere sopra il porto di Solki, e qui fondare una città difesa, da cui subito la notizia ed il prodigio del nuovo porten­toso me­tallo si sarebbero propagati con l’effetto di un fulmine di­vi­no.
E, con esso, si sarebbe moltiplicata - tra gli abitanti della Terra del Sole - la volontà di re­sistere al nemico.
In questa missione si univano insieme il prezzo del segreto rivelato ed un nuovo, munifico regalo da parte di Lau­chme, che avrebbe molto accresciuto fama e po­tere del sacerdote della montagna - Hur - oltre ogni sua stessa speranza, ma che, nel contempo, avrebbe anche servito fe­delmente all’alto scopo del sacerdote di Tal-Ur. La salvezza della Terra del Sole! La fortezza era posta in modo da sovrastare e difendere - oltre a Solki - anche la grande strada che, da Tar e Othoca, da Kur, da Nabui conduceva alle città della costa del sud, Nure, Bithia e Kar.
Tutto questo il Grande Sacerdote scruta­va, febbri­citando nel buio, ravviandosi i baffi col pollice e l’in­dice.
I suoi piani andavano, seppure a fatica, lentamente componendosi.
La Compagnia di Ennin era un valido e formidabile strumento.
Alcuni forti alleati erano già stati trovati ed altri ancora - egli confidava - vi si sarebbero aggiunti, strada facendo.
Si rallegrava tra sé, il Sacerdote, perché presto - con una fortuna benevola e col sorriso di Ennin - la nitida visione che ormai da tempo gli aleggiava insistentemente dinanzi, sarebbe stata finalmente vista anche da occhi che non fossero i suoi soltanto...