La Terra dei Mucchi di Pietre, cap XIII,
di Maurizio Feo
13. Canzoni ed Enigmi: la Festa.
Quest’ordine fu trasmesso a tutta la Compagnia e fu
riconosciuto a malincuore come l’unica soluzione sensata anche
dall’impetuoso Mandras, (il quale sembrò comunque scordarsi della fretta,
cimentandosi con immediato impegno ed
indiscusso successo nelle gare con l’arco e con l’ascia).
Vennero i poeti e raccontarono cantando le loro
storie sulla solitudine bella e selvaggia e sull’amore tranquillo di ogni giorno
nella vita dei pastori, quelli che parlano con il vento, che non hanno niente e
sono ricchi, che nulla scrivono e tutto affidano alla memoria tenace ed al
canto vibrante.
Furono versi di una bellezza semplice e struggente,
che nessuno della Compagnia aveva udito prima di allora espressa in
quell’intensità. Quindi Iolao volle a sua volta recitare una storia e cominciò,
dapprima senza accompagnamento musicale, e poi a poco a poco seguito ad
orecchio da qualche strumento, spargendo intorno la sua bella voce, calda e
cavernosa. Cantò alcuni capitoli di un’antica storia, di un Grande eroe del
mitico paese tra i due fiumi, il quale portò il legno del cedro al suo popolo,
sfidò impunemente l’ira degli dei capricciosi, infranse città nemiche come
vasi di coccio, conobbe il segreto del Diluivo e dell’Eterna Giovinezza, ma non
riuscì a portarlo indietro al suo popolo di Uruk, oltre il mare della morte.
Questa storia interessò e commosse tutti, perché
cantata così bene da Iolao, e perché in qualche modo tutti prima o poi avevano
udito narrare o cantare di KylK’mésh: il più grande degli eroi, il
mezzo dio senza rivali fra tutti i guerrieri, amato da tutte le donne, temuto
dai mariti, domatore delle forze del mondo, sconfitto infine soltanto
dall’ultimo destino dell’uomo.
In particolare risultò nuovo a tutti il lamento
dell’eroe in morte del più caro amico e servitore:
“Uditemi, Grandi di Uruk! In Enkidu io piango l’amico,
amaramente gemendo, come una donna in lutto.
Tu fosti la scure al mio fianco, la spada alla cintura,
lo scudo protettore, una veste gloriosa,
il mio più leggiadro ornamento.
Un fato malvagio mi ha derubato.
Questo io dico, Enkidu!
Piangono i luoghi che tu hai amato.
Piangono i sentieri che abbiamo percorso,
Piangono gli animali che abbiamo cacciato,
Piangono l’Ula di Elam e il caro Eufrate,
I guerrieri di Uruk dalle forti mura
e tutto il popolo di Eridu unito
Piangono per te, fratello mio Enkidu.
Chi ti unse di unguenti odorosi allora,
ora piange per te, ascolta.
Chi ti versò birra da bere, allora,
ora piange per te, ascolta.
Chi ti trovò moglie fedele, allora,
ora piange per te, ascolta.
Chi ti fu di valido consiglio, allora,
ora piange per te, ascolta.
E i tuoi fratelli più giovani
portan lunghi i capelli nel lutto
e come fossero donne singhiozzano e mormorano
e pregano e innalzano lamenti, per te.
Sei perduto nel sonno che ti avvolge,
nel buio freddo, senza parole né risposte”.
Molti furono gli applausi e molto fu il vino che fu
mescolato con l’acqua, nell’eccitamento dei brindisi fatti ripetendo in coro
quei versi, per meglio ricordarli. Finché - a gran voce - da più parti, non fu
chiamata Larthy a cantare.
Dopo ripetute richieste corali si alzò una figuretta
femminile, minuta e gentile, che parve a Norax bella oltre ogni possibilità
umana, come uno stampo di cera perfetto che per magia avesse preso vita e che
l’artigiano in nessun modo volesse ormai più destinare a consumarsi nello
stampo, facendo posto al metallo fuso.
Larthy portava una leggera veste di lino grezzo, stretta in vita da
una cintura, intrecciata di lacci di cuoio variopinto. Depose uno scuro
mantello intessuto di peli di capra, che aveva indossato per difendersi dal
fresco della sera, rivelando così un corpo flessuoso. Una piccola doppia ascia
campeggiava al centro di una piastra di rame finemente lavorata che pendeva
dal suo collo sottile, stagliandosi sul lino chiaro e diffondendo intorno i
bagliori rossastri dei fuochi. Il suo viso era ovale, delicato il suo collo,
aggraziato il portamento.
Le canzoni di Larthy erano armoniose e suadenti, ma
quando anche esse fossero state sgraziate, la sua voce soltanto sarebbe valsa
a trasformarle, rendendole gradite alle orecchie di tutti. Ella non danzava,
ma accompagnava i suoi versi con gesti affascinanti delle mani inanellate di
bronzo e di avorio: riusciva così ad acuire il senso delle parole, per legarlo
indissolubilmente alle note della musica ed alla memoria degli astanti. E tutti
la guardavano fisso, assenti, rapiti dalla melodia quanto dal sogno che essa
evocava, volutamente persi in lei e in lei soltanto ritrovati. I suoi occhi
avevano il colore del mare profondo.
Quando terminò l’ultima canzone, con le ultime note,
l’incanto rapidamente si spense e Norax seppe subito che la festa era finita
per lui: qualunque meraviglia potesse seguire a quella magnifica visione.
Conobbe inoltre una strana ansia smaniosa che lo
tormentava ogni qualvolta Larthy scompariva ai suoi occhi, nascosta momentaneamente
dalla gente. Norax seppe di doverle parlare, di doverla avere vicino, di non
volerla più lasciare, di volere vivere ovunque ella vivesse, di volere vedere
con gli occhi di lei il mondo intorno. Fu immemore di ogni dovere, di ogni missione,
animato da un’unica ansia; con un’unica urgenza le fu accanto per tutta la
sera, confessandole la propria ammirazione, parlandole di sé e di lei
facendosi raccontare, beandosi della vista di lei e delle sue parole, ignaro
dei suoni della festa e di ogni cosa intorno a loro...
Intanto Hanys, terribile come lo voleva il suo nome
- Messaggero divino di tempesta - aveva ottenuto tanti trofei quanti ne aveva
avuti Mandras, cosicché non si riusciva a stabilire chi avesse diritto ad
essere proclamato campione della festa. Tanto irresistibile era uno nelle
prove di forza quanto l’altro era insuperabile in quelle di resistenza e di
destrezza, a tutto vantaggio dello spettacolo.
Fu quindi deciso di farli confrontare nel vecchio
gioco degli enigmi, per rimuovere l’imbarazzo della scelta. Si liberò uno
spazio tondo e la folla trepidante di anticipazione vi si sedette tutto
intorno.
Fu Hanys a cominciare, e proclamò il suo primo
enigma in tono di sfida: “Va su, va su, più in alto degli alberi eppur non cresce
mai”. La voce di Mandras echeggiò subito in risposta: “Ne ho avuto abbastanza
proprio oggi da scalare, per poterti rispondere che é la montagna!”. Il
pubblico rumoreggiò d’approvazione divertita e di sorpresa, mentre Hanys -
momentaneamente sconfitto - beveva la sua prima enorme coppa di vino, in
fretta, per non dar troppo tempo all’avversario di pensare un buon indovinello.
Mandras recitò a sua volta: “Va per mare senza nave,
va per terra senza piedi, se pure non vede la luce del giorno, sa trovare la
strada di notte. Morde senza denti e urla senza bocca. Fermarlo non si può, ma
prenderlo io so”. Mandras si pentì subito del peccato di scoperto orgoglio
marinaro contenuto nell’ultimo verso, che suggeriva la soluzione del suo enigma
- altrimenti di difficile interpretazione. E infatti Hanys, dopo un attimo di
esitazione, ruggì: “Il vento, é!” E così costrinse Mandras a vuotare la
propria grossa coppa di vino non tagliato. Hanys cercò in fretta il nuovo
indovinello tra le cose di cui l’avversario - guerriero e marinaio - non
aveva esperienza.
Disse quindi: “Bianca la madre come un giglio. Come
il fuoco rosso il figlio. Vivono insieme una breve stagione, ma il figlio cade
per primo per sua troppa bontà, quindi la madre nel figlio stesso si
trasformerà”. Ma il viaggio attraverso la campagna aveva dato tempo a Mandras
di apprendere a sufficienza su fiori e frutti, per potere rispondere:
“Corbezzolo!” ricordò Mandras trionfante, costringendo Hanys a mandar giù -
questa volta più lentamente - una seconda dolce punizione. Il vino cominciava a
farsi sentire.
Fu quindi la volta di Mandras: “E’ vivo e senza
respiro, é freddo come morto; mai assetato, sempre beve, l’occhio suo vigile,
il corpo argentato”. Ma anche Hanys aveva molte volte avuto modo di vedere
l’animale descritto - nei fiumi, se non nel mare - per cui, indicando la coppa
dell’avversario, ridendo indovinò: “Non troverai pesci, lì dentro!”. E la folla urlò di approvazione e di
ammirazione per lui, e per l’arguzia del suo commento, mentre Mandras beveva,
pagando la sua seconda posta.
Ormai il vino bevuto in quella grande quantità
cominciava a fare il suo effetto.
Hanys enunciò, con voce un po’ incerta: “Quando é
bianco può rotolare, quando é giallo scivola molle e non potrà più rotolare”.
Mandras ammiccò, un po’ confuso e contrariato, poi si arrese. Quindi, dopo una
breve esitazione, lanciò il proprio enigma, senza più tentare di indovinare
quello dell’avversario. Questo era suo estremo diritto, dato che egli era stato
il secondo nel turno. Disse Mandras: “Se é con te non te ne accorgi, se ce
l’hai non lo chiedi e comunque non vedi che quello degli altri. Silenzioso di
notte realizza il suo regno e se a volte lo sfidi é per perdere sempre, in
pegno scambiando qualche ora di luce”.
Hanys strabuzzò gli occhi, cercando invano di
concentrarsi sul senso delle parole dell’avversario che sembravano eludere le
sue orecchie e privarlo di quell’occasione propizia.
Ma il sonno, che era la semplice soluzione del
problema, al tempo stesso ne diveniva il custode più agguerrito. Tutto, infatti,
si confondeva davanti a lui: il vino ed il sonno ebbero la meglio alla fine,
ed egli si portò con sé nel sogno l’ansia di una sollecita risposta. Gli parve
che tutto intorno a lui una moltitudine di uova rotolando giù si infrangesse a
terra e mostrando i tuorli gialli rivelassero a tutti la chiave del suo enigma.
Dal canto suo Mandras non riusciva più a tenere fermi gli oggetti che avevano
preso a ruotargli fastidiosamente intorno, in un turbinio divenuto
insopportabile, fino a quando di sorpresa il terreno parve colpirlo al volto,
improvvisamente sollevatosi all’altezza del suo viso, e lui vi si addormentò
sopra, vinto da quel sonno stesso con cui aveva cercato la vittoria.
Si decise pertanto che la festa era finita e che i
due ultimi contendenti fossero portati sui loro giacigli. I campioni erano
tali in pari misura e ugualmente sconfitti - si decise - animatori della
festosa veglia fino alle prime incerte luci dell’alba.
Finalmente, vi fu un po’ di silenzio e di quiete
nel villaggio appagato...
Durante la festa Lauchme aveva parlato a lungo,
fitto fitto, con il Sacerdote della montagna. Hur e Hator avevano ascoltato
attenti per meglio ricordare. Lauchme aveva raccontato i segreti appresi in
gioventù dai Rasena, che lo chiamavano Lygmon. Aveva spiegato come costruire
la fornace, ove fondere insieme sette parti di rame con tre parti di stagno,
per ottenere da sé il metallo bruno e farne strumenti di ogni tipo ed armi.
Lauchme aveva rivelato che diminuendo le parti di stagno ed aumentando quelle
di rame la fusione richiedeva un più grande fuoco e più tempo: con 9 parti di
rame e una sola di stagno gli strumenti erano si più duri, ma anche più
fragili, per cui questa lega era più adatta per lamine, piastre, ornamenti.
Per questi ultimi Lygmon spiegò anche come e con quali strumenti si dovesse
lavorare e battere il metallo appena fuso, e come si potesse con vantaggio
riscaldarlo e ribatterlo ancora... Con sei parti di rame e quattro di stagno
era invece più agevole la fusione, a temperatura più bassa, e ottima risultava
la lega per farne lucidi e lisci specchi.
Ma per cambiare i propri destini e vincere Isarno, il nuovo metallo grigio, era obbligatorio un fuoco
enorme, che quasi bruciasse il grande forno stesso spaccandone le pietre nel
lungo tempo necessario per la fusione. Lygmon rivelò il segreto del carbone, e
di come sostituirlo: si poteva far prima bruciare lentamente il legno sottoterra,
asciugandolo dei suoi umori fino a farlo diventar nero e leggero. In questo
modo - bruciando questo nuovo carbone - anche in una fornace normale si otteneva
un così grande calore che qualunque fusione diveniva possibile.
Lauchme spiegò anche dove si trovasse la Fontana
Raminosa, in cui più abbondavano le pietre contenenti
il rame. Spiegò che lo stagno era più raro, tanto che le navi lo portavano
dalle fredde e lontane isole Kassitere.
Il nuovo robusto metallo grigio si trovava invece
nella nuova destinazione del popolo di Hur, presso Solki...
Era anche abbondantissimo sulle vicine spiagge di
Ereb, ma quello apparteneva ai Rasenna ed era comunque troppo lontano...
I due sacerdoti si scambiarono un saluto sommesso,
in cui non vi era più residua inimicizia, bensì un mutuo riconoscimento di affinità,
di appartenenza al Tempio, di reciproca dipendenza...
Più tardi, quando egli fu solo, gli occhi acuti di
Lauchme brillarono brevemente, nel buio della propria capanna, mentre
l’apprendista già riposava immerso nel sonno, ancora ignaro del nuovo successo
del suo Maestro, dei nuovi rischi da affrontare, perso invece in un paesaggio
fiorito e sereno...
Gli occhi del Grande Sacerdote di Tal-Ur brillavano,
mentre la sua mente tentava di sondare l’oscurità che avvolge coi suoi veli
il futuro: che cosa restava ancora da fare?
Si poteva recuperare il tempo prezioso, oppure esso era irrimediabilmente
perduto nei fumi del vino, nelle note allegre della festa, nella brace che
sonnecchiava silenziosa nei tripodi bracieri di bronzo?
Si doveva ripartire verso il sole nascente appena
possibile, ora che nulla tratteneva più in quel luogo la Compagnia. Il nuovo
alleato avrebbe fornito abili guide ed appoggio generoso in uomini armati e
cibo.
Ma l’accordo, pazientemente costruito nella notte da
Lygmon, prevedeva di più...
Infatti, il sacerdote della montagna doveva portare
a Sud quei segreti che il sacerdote di Tal-Ur gli aveva rivelato. Con tutta la
restante popolazione, Hur doveva stabilirsi sulle montagne nere sopra il
porto di Solki, e qui fondare una città difesa, da cui subito la notizia ed il
prodigio del nuovo portentoso metallo si sarebbero propagati con l’effetto di
un fulmine divino.
E, con esso, si sarebbe moltiplicata - tra gli
abitanti della Terra del Sole - la volontà di resistere al nemico.
In questa missione si univano insieme il prezzo del
segreto rivelato ed un nuovo, munifico regalo da parte di Lauchme, che avrebbe
molto accresciuto fama e potere del sacerdote della montagna - Hur - oltre
ogni sua stessa speranza, ma che, nel contempo, avrebbe anche servito fedelmente
all’alto scopo del sacerdote di Tal-Ur. La salvezza della Terra del Sole! La fortezza
era posta in modo da sovrastare e difendere - oltre a Solki - anche la grande
strada che, da Tar e Othoca, da Kur, da Nabui conduceva alle città della costa
del sud, Nure, Bithia e Kar.
Tutto questo il Grande Sacerdote scrutava, febbricitando
nel buio, ravviandosi i baffi col pollice e l’indice.
I suoi piani andavano, seppure a fatica, lentamente
componendosi.
La Compagnia di Ennin era un valido e formidabile
strumento.
Alcuni forti alleati erano già stati trovati ed
altri ancora - egli confidava - vi si sarebbero aggiunti, strada facendo.
Si rallegrava tra sé, il Sacerdote, perché presto -
con una fortuna benevola e col sorriso di Ennin - la nitida visione che ormai
da tempo gli aleggiava insistentemente dinanzi, sarebbe stata finalmente vista
anche da occhi che non fossero i suoi soltanto...