mercoledì 1 gennaio 2014

Chapter seven




Terra dei Mucchi di Pietra, cap. VII

di Maurizio Feo

7. Il primo sacrificio.


Norax, riluttante, salutò ‘Nbrys, il quale dapprima cercò di trattenerlo dall’andare al porto. Poi, con rammarico - viste inutili le proprie insistenze - gli raccomandò di avere quattro occhi e quattro orecchie. Proprio come quella buffa statuetta che aveva portato da Tal-Ur.
Avrebbe dovuto essere pronto a scattare come una cavalletta - gli disse - perché brutte cose si diceva accadessero al porto, sia di giorno, sia di notte: alcune terribili, in verità. E per quanto non ci sia da fidarsi mai del sentito dire, che è il cibo degli spacconi e dei perdigiorno, qualche fondo di verità c’era senz’altro.
Con un gesto spontaneo d’affetto gli mise al collo il proprio ciondolo: un piccolo Bes - un buffo e grottesco nano, gobbo, col cappello piumato e la folta barba - quindi lo salutò con trasporto. “Ti accompagni sempre una buona fortuna, amico mio! La civetta non ha cantato neanche una volta e questo è buon segno”.
Ebbe allora inizio una maratona veloce: il ragazzo di pelle scura sembrava non aver peso e non sentire la fatica della strada.
Il percorso era tutto su terreno pianeggiante e presentava soltanto vegetazione bassa, ma non per questo era agevole. Innanzi tutto non offriva zone fresche di ombra e i ciuffi rigogliosi di palma nana erano tutti spinosi, nei rami e nelle punte aguzze delle foglie lanceolate. I cardi - alcuni dei quali erano ancora fioriti con brillanti macchie viola che risaltavano sullo sfondo giallo bruciato - erano in prevalenza già secchi e spezzettati dal vento, dal sole, dal passaggio delle bestie, per cui le loro spine onnipresenti e leggere tormentavano ad ogni passo piedi e polpacci. Tutte le altre piante di quei terreni inospitali - aridi d’estate e coperti dal mare d’inverno - presentavano foglie piccole, spinose o squamose, ed erano coperte di sale dal vento marino salmastro. Questo, Norax poté constatarlo di persona dal sapore che le fronde delle tamerici, richiudendosi dopo il passaggio della sua guida, gli lasciavano - insieme a sbaffi nerastri dovuti ai frutti - sulle gote e sulle labbra.


Durante la lunga e tormentata corsa Norax prese a riconoscere le foglie an­guste della fillirea, i cespi leggeri degli asparagi, i rotondi cuscini di ginestra, qualche euforbia - già spoglia - cercando così di distrarsi dal continuo dolore che l’ispido stagno asciutto, bianco e crepitante di sale, gli andava infliggendo. Cercò perfino di far conversazione, ma il passo veloce dell’altro - lasciandolo subito senza fiato - lo scoraggiò senz’altro dal ritentare una seconda volta. L’aria salmastra, calda e pesante, gli tagliava il respiro.
Ragionò tra sé che era più importante arrivare al porto prima dell’imbrunire e mentre procedeva dietro alla sua guida e altrettanto spedito - ma con molta minore eleganza - notò che l’altro aveva su ambedue le gambe una serie di piccole, lucide cicatrici, allineate e tutte uguali, come fatte a bella posta, per ornamento. Una cicatrice più grande, ma brutta e affossata, era ogni tanto visibile tra i riccioli neri ed unti sulla sua spalla destra, sicuro ricordo di una ferita che, a suo tempo, doveva essere stata molto profonda.


Anche correndo Norax poteva fare queste considerazioni in virtù dell’esperienza che gli veniva dal prendersi cura, assistendo il suo Maestro, delle ferite dei cacciatori e dei boscaioli di Tal-Ur. Norax pensò tra sé che - quando avesse appena potuto prendere fiato - gli avrebbe fatto piacere saperne di più sulla sua guida. Non ne conosceva neanche il nome, a pensarci bene...
Entrarono ad Othoca, sempre rasentando veloci il bordo estivo dello stagno e quindi furono quasi subito nell’ambigua e maleodorante zona della cala del porto. Il sole basso sul mare ancora di più ravvivava il colore rosa delle basse casette intonacate, fatte di cocciopisto e calce, disposte secondo la dolce curvatura naturale del Golfo... La guida finalmente rallentò, per fer­marsi di fronte ad una delle casette e sfoggiando un al­tro dei suoi maliardi sorrisi brillanti, indicò a Norax il va­no di una porta.
Chissà perché, Norax notò sullo stipite di pie­tra una vec­chia iscrizione con figure, terminante con una croce ansata, un simbolo di vita.
Ma più grande e frettoloso - a co­prire tutta la precedente iscrizione - era stato in seguito graf­fiato un simbolo che Norax non sapeva leggere, ma che non gli piacque affatto. Era composto da un cerchio sotto al quale stava un triangolo; tra i due - quasi a com­pletare con le braccia una figura umana femminile - stava un segmento orizzontale.
Norax esitò, inter­detto, indeciso sul da farsi, insospettito.
Il sorriso della guida sfiorì un poco.
Quando Norax volle tradurre in parole i suoi ancora vaghi dubbi, l’altro si guardò un atti­mo nervo­samente intorno, poi d’improvviso lo spinse vio­len­temente dentro, produ­cendo con immediata facilità un lungo, sot­tile pugnale dall’aspetto maligno. I suoi gesti erano quelli di un ragno, il suo ghigno pareva famelico adesso, mentre egli occupa­va controluce tutto lo specchio della porta, le mani lontane dal corpo ed i piedi ben piantati per terra, già pronto a scattare in avanti...
E’ una trappola! Ma perché? - pensò in fret­ta Norax - quell’uomo era evidentemente aduso alle armi e alle marce! un soldato? Ma certo: quei segni sui polpacci erano segni di lacci di cuoio dei calzari militari...

Avrebbe potuto e dovuto - si rammaricò - indovinar­lo prima.
Ma tuttora gli sfuggiva il moti­vo di quell’aggua­to e di quella presenza, mentre il nemico sconosciuto già gli sibilava una do­manda nel buio, che in parte rispondeva ai suoi quesiti: “Perché mai vuoi vedere Mandras, pa­store?” - e intanto roteava lentamente il pugnale, sempre mantenendolo puntato verso di lui.
Norax capì che vi era tanto scampo nelle frottole quanto gliene concedeva l’unica e troppo piccola finestra: era soltanto una piccola fessura nel muro, che illuminava a malapena il locale. Non vi erano altre uscite. I modi dell’altro non davano certo adito a dubbi: non si sarebbe accontentato di semplici risposte, anche se Norax gliene avesse date di esaurienti. Si comportava come se fosse pronto ad ucciderlo: era battaglia, dun­que.
Norax ri­spose con un tono di sfida e con parole dure che non gli sembrarono le sue: “Non lo saprai certo da me, sporca spia!”.
Fu la parola d’ordine per l’inizio della lotta: l’impeto im­prov­viso del soldato - un urto violento - e Norax fu immediatamente travolto e spinto a terra, vinto in forza e velocità, per riuscire a vede­re soltanto la lama dell’altro bril­lare impietosa nella penombra e poi sentire il colpo sordo e doloroso al cen­tro del torace quando il braccio armato del nemico calò giù, con forza...
Pur senza fiato, Norax lesse egualmente il disappunto sul volto del soldato, che era adesso inefficacemente tutto intento a liberare la propria lama ben piantata da qualche parte nel torace dell’avversario ma - con grande sorpresa di entrambi - senza che avesse sortito effetto alcuno.
Con grande sforzo, tirando a sé con forza l’elsa dell’arma, riuscì finalmente a liberarla poco dopo, ma Norax seppe allora coglier­lo sbilan­ciato e ro­vesciarlo su una lastra di pietra, ove l’altro cadde riverso come su un altare sacrifi­cale. Norax si trovò così d’istinto in mano il pugna­le sacro - che con il suo pesante fo­dero lo aveva salvato da un colpo altrimenti mortale - e volle soltanto punta­r­lo alla gola del nemico per immobiliz­zarlo.
Ma nell’im­peto inesperto e nell’affanno calcolò male la distanza e pro­dus­se - suo malgrado - un profondo squarcio su di un lato della gola dell’altro, da cui subito uscì un grosso, inar­restabile fiotta­re di san­gue, gorgogliando... Gli occhi del sol­dato espres­sero prima sorpresa, poi terrore, quindi si socchiu­sero co­me in preda al sonno, mentre tutto il suo corpo prese a tremare violentemente e poi si scosse in una breve danza macabra e scattante, infine si fermò e non si mosse più...
Furono lunghi attimi terribili, in cui nessuno dei due contendenti seppe che cosa fare, uno atterrito dagli effetti della propria involontaria azione e l’altro inorridito dal sopraggiungere ineluttabile della morte.
Poi tutto restò immoto e silenzioso, ma non fu certo quiete.
“Ennin! che cosa ho fatto!” singhiozzò disperato Norax, e fuggì con­fuso fuori dalla casupola, correndo senza meta, lontano dall’odore del sangue. Sentiva caldo e freddo ad un tempo ed il cuore gli batteva forte nel petto e nelle tempie: “Ho uc­ciso un uomo! - pensava, senza riuscire a crederci -  Ho ucciso un uomo! Mi cercheranno per pu­nirmi e di certo mi troveranno! Non rag­giungerò mai Mandras! Ho rovinato tutto!”.
Norax pensò con­fu­samente, correndo, di fuggire da Othoca e di potere cercare Man­dras al­trove, a Tarr - ad esempio - oppure nella sua Kur...
Sempre correndo, si guardò intorno con un senso di smarrimento, perché - pensò - forse già avevano scoperto il corpo di quello sconosciuto. Pertanto, doveva fuggire più ve­loce ancora. Correva per allontanarsi da quella sua malaugurata azione, che - sapeva bene - non aveva rimedio.
Corse fino ad essere senza fiato, senza una meta, senza tenere conto del tempo, né della strada. Esausto, infine si fermò, senza più idee, senza più fiato.
Senza rendersene conto, aveva seguito un percorso segnato da impronte di piedi, che erano state stampate appositamente sul terreno. Dentro alle singole impronte, poi, erano stati riprodotti diversi piccoli disegni, tutti licenziosi. Ma Norax nel suo stato di agitazione non si era neppure accorto di essere entrato nel quartiere più malfamato del porto, quello dei postriboli...
Ad un tratto, una donna col viso dipinto di cerussa, rossetto e succo di more, lo tirò per una manica e gli indicò una casa: “Guarda questi uccellini dal canto armonioso, che servono di richiamo solo per poco del tuo denaro, queste puledrine di Afrodite ben addestrate, disposte tutte nude in fila per te, sedute su fini tessuti! Puoi ottenere da loro, a poco prezzo, un piacere senza pericoli! Aspettano tutte nude, per non ingannarti: osservale a tuo comodo nei particolari. Non ti senti molto bene? C’è forse qualcosa che ti affligge? Su, allora! La loro porta è spalancata. Il loro prezzo? Una monetina di rame. Affrettati ad entrare. Hai anche bisogno di un bel bagno, e qui lo avrai! Niente moine o scempiaggini: la ragazza non si tira indietro, ma fa subito quello che vuoi, come tu vuoi. E dopo puoi pure mandarla al diavolo, perché lei non è niente per te!”.
Norax si divincolò, più sorpreso che infastidito e squadrò la donna, che portava una tunica gialla semitrasparente, troppo corta per lei e certamente in disaccordo con la sua età avanzata.
La mezzana approfittò della sua esitazione per spingerlo con decisione dentro ad un stanza, dove lo affidò subito ad un’altra donna - giovanissima - che sembrava aspettarlo impaziente, con desiderio ed eccitazione. Questa era vestita di vesti leggere e trasparenti, come soltanto nell’Oriente sanno farle. Sicuramente stoffe costosissime, pensò Norax, che non riusciva ancora a capire dove mai si trovasse, né perché.
Lei aveva l’abilità di sistemarsi sempre controluce, in modo che egli potesse meglio apprezzarne il profilo del corpo magro e sinuoso. Si muoveva mollemente, come un micio affamato. Mentre lui ancora cercava le parole per spiegare la sua fretta di andare, lei lo guardava fisso con occhi profondi, che il trucco scuro rendeva più grandi e che risaltavano sulla cipria fulva del viso e sul vermiglio delle labbra tumide, imbronciate.
Gli disse, come in segreto, che si chiamava Neera ed era eubea.
Aveva assunto un’espressione interrogativa, come se si aspettasse qualche cosa da lui e non osasse chiederlo. Poi, visto che lui non si decideva, gli si avvicinò e gli versò del vino speziato da bere, lasciando che questa volta la luce la investisse in pieno e mostrasse ciò che vesti più pesanti o più discrete avrebbero invece nascosto. Ma ella sembrava fare ciò senza avvedersene e quindi senza la spudoratezza che invece quella posa richiedeva. Si chinò su di lui, senza guardarlo, apparentemente molto assorta nel gesto di mescere il vino. Una nuvola di profumi diversi, sbuffando fuori dal suo vestito, lo avvolse tutto e gli catturò la mente ed il cuore. Norax rimase confuso per alcuni istanti, mentre la visione che la sua veste scollata offriva impudicamente al suo sguardo gli riempiva gli occhi.
Ella avvertiva il desiderio crescere in lui come un’onda del mare e ciò la divertiva, ma subito si ritraeva timorosa, come se della risacca di quel mare avesse paura di bagnarsi. Ma quella nave aveva già visto ben altre acque e ben più grandi tempeste. E la donna sapeva bene che questa finta ritrosia otteneva di aumentare ancora di più il desiderio.
Gli sussurrò che i pirati l’avevano rapita quando era ancora bambina - povera Neera - e l’avevano venduta ad un mercante di schiavi cipriota. Il mercante, per adempiere un voto fatto, l’aveva offerta ancora intatta al tempio di Afrodite, quello che sorge sull’alta collina di Erice, in Sicilia.
E una volta lì, la piccola Neera aveva imparato la sua arte e servito alacremente la dea per otto lunghi anni! Poi, un vecchio e ricco fenicio l’aveva riscattata dal tempio e condotta qui, per potersi rallegrare della sua compagnia quando si tratteneva ad Othoca per i suoi commerci. Ma Neera aspirava finalmente a liberarsi da quella schiavitù e stava cercando di racimolare i soldi per affrancarsi, riacquistando la propria libertà perduta e per trovare un marito. E non poteva lui aiutarla un poco, magari aumentando volontariamente il prezzo che la vecchia Crobila gli aveva chiesto? Neera gli sarebbe stata riconoscente e gli avrebbe fatto buona compagnia anche nel bagno profumato. Poi, se lui voleva, gli avrebbe dato piacere nel modo in cui fanno i Mitamni.
Norax non poté proprio evitare un’espressione incuriosita. Neera, con un sorriso malizioso ed impudico, gli indicò un soprammobile - un uovo di struzzo dipinto, posato sul davanzale della finestra - su cui era illustrata chiaramente la pratica a cui lei si riferiva. Norax non riuscì a capire a chi - né a quante persone -  appartenessero le membra intrecciate che comparivano nel disegno, ma ebbe modo di gettare lo sguardo fuori dalla finestra.
Fu allora che vide i cavalli, alla posta di fronte ad una casa alta in fondo alla via, di un bel tratto discosta dalle altre. Prese allora una decisione immediata.
Schizzò fuori dal lupanare con tutta la velocità che aveva nelle gambe, rovesciando sgabelli, brocche, tavoli e tutto ciò che stava sulla sua strada, tra gli strilli della vecchia megera e della giovane prostituta, ambedue troppo sorprese per riuscire a fermarlo. Norax corse di filato fino quasi ai cavalli, che gli garantivano una fuga veloce. Nessuno lo inseguì, una volta che fu fuori, sulla strada, ma udì gli strilli e le imprecazioni ancora per un bel po’...
La luce era ormai fioca e questo gli diede coraggio: si avvici­nò rapido e fur­tivo, con la chiara intenzione di slegare le briglie di uno dei cavalli ed allontanarsi dal pericolo. Con­siderò amaramente tra sé che non era certo più un ragazzo innocente: stava per rubare dopo avere ucciso e dopo essersi lasciato tentare da una donna pubblica.
Era forse, questo, già l’annuncio di quei ter­ribili eventi che stavano per accadere?
Stava ormai per monta­re silenzio­samente a cavallo quando - fuori dal buio - una enorme mano gli strinse in una morsa dolorosa il polso destro.
“Ohi, tu!” -  gli disse un gi­gantesco figuro con corti capelli ricci ed una folta barba altrettanto riccioluta: “E ci vieni giù dalle cam­pagne per rubarmi il cavallo, pro­prio a me? Tu...” - tuonava ormai il gigante, quasi più divertito che infastidito, im­mobi­lizzandolo senza alcuno sforzo - “piccolo pastorel­lo sfrontato, dopo avere frodato la casa del piacere di Crobila, di cui odo ancora le urla, vorresti mandare a piedi Mandras il Gran­de perché la sua fama sia macchiata anche da questa ridicola burla?”.
Norax trovò impossibi­le esprimere il proprio grande sollievo, dal mo­mento che stava contempora­neamente provan­do il grande dolore fisico di quella morsa incredibilmente forte. Inoltre, aveva un grande senso di nausea e le tempie gli battevano forte. Troppe emozioni insostenibili, troppo grande responsabilità e troppo grande gioia per avere così presto terminato la propria ricerca. Insieme a ciò, troppo grande tristezza per il dramma in cui Norax era stato attore principale, nella dolorosa consapevolezza di avere tradito gli insegnamenti del proprio Maestro: la vita era comunque e sempre sacra.
Balbettò qualcosa, gemette, poi pro­ruppe in quella che gli parve - al momento - la frase migliore: “Ho ucciso un uomo per vederti, Mandras!”.
Il gigante sempre più di­vertito, lo lasciò li­bero, perché ormai nello spiazzo molti suoi uomini - tutti, più o meno, della sua taglia - avevano chiuso un cerchio protettivo intorno a loro due. “Invero, insi­sto che mi sem­bravi più in­teres­sato al mio bel cavallo Miskru, che non a me; ma dimmi - chiese assumendo un aria di finta preoccupazione - chi avresti ucciso, tu?” - E lo condusse nell’interno della casa, per interrogarlo meglio. Era comunque prigioniero.
Norax cominciò di getto a narrare - pur­troppo confusamente, per quanto si sfor­zasse di essere chiaro - il suo incredibile misfat­to, poi capì che le parole non rendevano più credibile quella storia ad orecchie già in parten­za incredule, quindi estrasse dal fodero il pugnale sacro e lo mostrò, ancora sporco di sangue.
Questo gesto at­trasse abbastanza l’attenzione perché gli chiedessero al­meno di chi e dove fosse il pollo - o l’agnello - che aveva appena sconfitto.
Poté finalmente parlare in modo più coerente, ad orecchie meglio disposte ad ascoltarlo: descrisse rapidamente la per­sona, la casa, istintivamente soffer­mandosi sul segno graffito so­vrap­posto alla vecchia iscrizione.
Allora, im­provvisamente, tacque­ro i risolini di scherno e nel silenzio che seguì ri­suonò abbastan­za chiaramente - ma sussurrata, per timore - la parola: “Tanit” e poi: “Il simbolo di Qart-Hadasht!”.
Allora Norax dovette spiegare con precisione dove fosse la casupola - e subito un gruppo partì a cercarla, mentre un altro gruppo perlustrava gli immediati dintor­ni. Quindi gli chiesero, già mostrando più fidu­cia nei suoi confronti, se altri poteva averlo visto o seguito.
La cosa - notò Norax - si era fatta improvvisamente molto seria per tutti.
Ri­spose che di ciò non poteva essere certo, ma che sinceramente credeva di no. Riferì con precisione tutti i suoi spostamenti - di corsa - dal momento in cui per la prima volta aveva incontrato la spia di pelle scura.
Mandras ascoltò tutto molto attentamente, nel frat­tempo pulendo e rimirando il taglientissimo coltello sacrificale, e poi disse, restituen­dolo: “Potrebbe avere parla­to a qualcuno quando é andato a rivestirsi, oppure aver fatto cenni d’intesa nell’entrare in città. Quest’ultima é l’ipotesi peggiore, ma la credo meno proba­bile altrimenti il nostro amico non sarebbe giunto fino a qui, per quanto veloce potesse corre­re”. Norax era ancora un po’ confuso, per cui questo discorso non gli fu molto chiaro, ma si sentì più sollevato per esser stato chiamato amico. Già presentiva la prossima domanda che fu fatta gentilmente - que­sto sì - ma direttamente e con qual­che residuo sospetto: “Chi sei tu?”.
Per quanto desideroso di ri­spondere, Norax non ebbe modo di farlo, per­ché in quel mentre l’irsuto luogotenente di Mandras rientrò, molto serio in volto, ri­spondendo per lui: “Un tipino pericoloso lo é di certo: ha sgozzato uno spione mi­lita­re di Qart-Hadasht nella sua tana, riempiendola tutta di un dito di san­gue! Abbiamo lavato tutto con acqua di mare e nascosto ogni trac­cia.
Ci siamo dovuti la­vare anche i piedi. Nessuno ha visto.
Questa era l’arma dell’altro”. E con quest’ultima frase piantò il lungo coltello bruno nel piano del ta­volo, guardando con rinno­vato rispetto il giovane pastore. Solo il perdurante diapason dell’arma infissa nel legno muo­veva l’aria intor­no.
Tutti gli uomini, alcuni dei quali portavano pesanti copripolsi di cuoio che tradivano la loro specialità di arcieri, tacevano con gli occhi fissi sul coltello.
Fu Norax a rompere opportunamente quel silen­zio sospeso: “Il grande Sacerdote di Tal-Ur, Lauchme del Grande Cer­chio, mi manda qui con un messaggio segreto per te, Man­dras, guida degli Hyksos. Come suo aiutante, io - Norax - porto al collo il suo simbolo, che tu hai già vi­sto e che io proprio oggi così inadeguatamente ho dovu­to usare. Il mes­saggio é sul rovescio di questa pelle e l’in­vito ad andare a Tal-Ur é urgente, il motivo é grave. Di più non so”.
E con queste parole si sfilò la ma­struka e la rivoltò perché  vi si potesse vedere e leggere il messaggio. Gli fu portata l’ac­qua con cui lavarsi gli sbaffi neri che aveva ovunque, il sudore, la polvere e qualche schizzo di sangue, che nell’insieme gli conferivano un aspetto fra il truce e il buffo, ma comunque certamente impresentabile. Mandras studiò prima il coltello della spia: era lungo più del doppio di quello di Norax e recava, nella scrittura da destra a sinistra dei Popoli del Mare, l’iscrizione TNT PN BOL, lungo il manico, anch’esso di metallo. La scritta era in fenicio, ma significava “Tanit, il volto di Baal”. E Tanit era la Signora di Cartagine, pertanto il coltello era di fabbricazione e di proprietà cartaginese.
Quindi, con at­tenzione, esaminò la pelle di pecora portandola più vicina al fuoco della lampada, e commentandola vivacemente insieme al suo luogote­nente irsu­to. Infine, arrotolò la pelle e la buttò sul fuoco, dicendo: “Adesso che si é lavato invi­tiamo a cena questo giovane sacer­dote dalle molte sorprese, poi dovremo cancellare ogni traccia della nostra presenza ed andare via in fretta anche da qui, un po’ prima del previsto”.
Fu zuppa di pesce, versata sul pansecco d’orzo, e poi pesce arrosto fumante, accompa­gnati dal buon vino bianco profumato e forte della gente di S’rdan. Mandras ci tenne a dire che già sapeva da tempo parte di ciò che il Gran Sacerdo­te Lauchme gli mandava a dire come se fosse per intero una novità. Norax a quel punto si ricordò di spiegargli che il suo Maestro vedeva una mi­naccia nella frequenza nuova e nei modi della ricomparsa di quei segni, vecchi di per sé, in quanto già descritti in un antico rotolo, conservato dai suoi predecessori.
Mandras allora sorrise, di un sorriso amaro, però, e si dichiarò molto onorato dall’invito formale e molto conten­to di avere un così potente alleato - Lauchme di Tal-Ur - che sembrava aver ben capito la situazione e che certamente possedeva i mezzi e conosceva i metodi per porvi rimedio.
Ringraziò ancora Norax per il proprio valore ed il proprio coraggio.
Diede al suo luogotenente po­chi e rapidi ordini, nei quali Norax com­prese poco o nulla, pur ascoltandoli con quanta attenzione gli era possibile.
Disse Mandras: “Kur é fedele, e anche Tarr é sicura e libera da spie. E’ necessario mandare subito messaggeri ad ambedue le città, per rinnovare i guardiani di Othoca che verranno via con me in segreto. Porterò solo dieci persone incluso te, Iolao. Si conti­nuerà senza di me come già d’accordo: un primo gruppo a Nabu, anche prima di avere notizie da KarKar e da Nure”. Ri­cevuti gli ordini, gli uomini raccolsero rapidamente in silenzio tutte le loro cose, si divisero ordinatamente in gruppi e - chi per mare, chi a piedi, chi a cavallo - sparirono da Othoca quella notte stessa, senza lasciare alcuna traccia di sé in quella casa...
Norax, seppure ancora dolorosamente confuso dai recenti avvenimenti, capì che si andava da tempo organizzando qualche cosa, che legava già insieme tra loro tutte le città della costa e chissà chi altri ancora. Un'alleanza militare armata contro Cartagine. E adesso, in quell’organizzazione si era inserito d’improvviso e d’autorità - per mezzo suo - il Sacerdote di Tal-Ur...