Terra dei Mucchi di Pietra, cap. VII
di Maurizio Feo
7. Il primo sacrificio.
Norax, riluttante, salutò ‘Nbrys, il quale dapprima
cercò di trattenerlo dall’andare al porto. Poi, con rammarico - viste inutili
le proprie insistenze - gli raccomandò di avere quattro occhi e quattro
orecchie. Proprio come quella buffa statuetta che aveva portato da Tal-Ur.
Avrebbe dovuto essere pronto a scattare come una
cavalletta - gli disse - perché brutte cose si diceva accadessero al porto, sia
di giorno, sia di notte: alcune terribili, in verità. E per quanto non ci sia
da fidarsi mai del sentito dire, che è il cibo degli spacconi e dei
perdigiorno, qualche fondo di verità c’era senz’altro.
Con un gesto spontaneo d’affetto gli mise al collo
il proprio ciondolo: un piccolo Bes - un buffo e grottesco nano, gobbo, col cappello piumato e la
folta barba - quindi lo salutò con trasporto. “Ti accompagni sempre una buona
fortuna, amico mio! La civetta non ha cantato neanche una volta e questo è buon
segno”.
Ebbe allora inizio una maratona veloce: il ragazzo
di pelle scura sembrava non aver peso e non sentire la fatica della strada.
Il percorso era tutto su terreno pianeggiante e
presentava soltanto vegetazione bassa, ma non per questo era agevole. Innanzi
tutto non offriva zone fresche di ombra e i ciuffi rigogliosi di palma nana
erano tutti spinosi, nei rami e nelle punte aguzze delle foglie lanceolate. I
cardi - alcuni dei quali erano ancora fioriti con brillanti macchie viola che
risaltavano sullo sfondo giallo bruciato - erano in prevalenza già secchi e
spezzettati dal vento, dal sole, dal passaggio delle bestie, per cui le loro spine
onnipresenti e leggere tormentavano ad ogni passo piedi e polpacci. Tutte le
altre piante di quei terreni inospitali - aridi d’estate e coperti dal mare
d’inverno - presentavano foglie piccole, spinose o squamose, ed erano coperte
di sale dal vento marino salmastro. Questo, Norax poté constatarlo di persona
dal sapore che le fronde delle tamerici, richiudendosi dopo il passaggio della
sua guida, gli lasciavano - insieme a sbaffi nerastri dovuti ai frutti - sulle
gote e sulle labbra.
Durante la lunga e tormentata corsa Norax prese a
riconoscere le foglie anguste della fillirea, i cespi leggeri degli asparagi,
i rotondi cuscini di ginestra, qualche euforbia - già spoglia - cercando così
di distrarsi dal continuo dolore che l’ispido stagno asciutto, bianco e
crepitante di sale, gli andava infliggendo. Cercò perfino di far conversazione,
ma il passo veloce dell’altro - lasciandolo subito senza fiato - lo scoraggiò
senz’altro dal ritentare una seconda volta. L’aria salmastra, calda e pesante,
gli tagliava il respiro.
Ragionò tra sé che era più importante arrivare al
porto prima dell’imbrunire e mentre procedeva dietro alla sua guida e altrettanto
spedito - ma con molta minore eleganza - notò che l’altro aveva su ambedue le
gambe una serie di piccole, lucide cicatrici, allineate e tutte uguali, come
fatte a bella posta, per ornamento. Una cicatrice più grande, ma brutta e
affossata, era ogni tanto visibile tra i riccioli neri ed unti sulla sua spalla
destra, sicuro ricordo di una ferita che, a suo tempo, doveva essere stata
molto profonda.
Anche correndo Norax poteva fare queste
considerazioni in virtù dell’esperienza che gli veniva dal prendersi cura, assistendo
il suo Maestro, delle ferite dei cacciatori e dei boscaioli di Tal-Ur. Norax
pensò tra sé che - quando avesse appena potuto prendere fiato - gli avrebbe
fatto piacere saperne di più sulla sua guida. Non ne conosceva neanche il nome,
a pensarci bene...
Entrarono ad Othoca, sempre rasentando veloci il
bordo estivo dello stagno e quindi furono quasi subito nell’ambigua e maleodorante
zona della cala del porto. Il sole basso sul mare ancora di più ravvivava il
colore rosa delle basse casette intonacate, fatte di cocciopisto e calce,
disposte secondo la dolce curvatura naturale del Golfo... La guida finalmente
rallentò, per fermarsi di fronte ad una delle casette e sfoggiando un altro
dei suoi maliardi sorrisi brillanti, indicò a Norax il vano di una porta.
Chissà perché, Norax notò sullo stipite di pietra
una vecchia iscrizione con figure, terminante con una croce ansata, un simbolo
di vita.
Ma più grande e frettoloso - a coprire tutta la
precedente iscrizione - era stato in seguito graffiato un simbolo che Norax
non sapeva leggere, ma che non gli piacque affatto. Era composto da un cerchio
sotto al quale stava un triangolo; tra i due - quasi a completare con le
braccia una figura umana femminile - stava un segmento orizzontale.
Norax esitò, interdetto, indeciso sul da farsi,
insospettito.
Il sorriso della guida sfiorì un poco.
Quando Norax volle tradurre in parole i suoi ancora
vaghi dubbi, l’altro si guardò un attimo nervosamente intorno, poi
d’improvviso lo spinse violentemente dentro, producendo con immediata
facilità un lungo, sottile pugnale dall’aspetto maligno. I suoi gesti erano
quelli di un ragno, il suo ghigno pareva famelico adesso, mentre egli occupava
controluce tutto lo specchio della porta, le mani lontane dal corpo ed i piedi
ben piantati per terra, già pronto a scattare in avanti...
E’ una trappola! Ma perché? - pensò in fretta
Norax - quell’uomo era evidentemente aduso alle armi e alle marce! un soldato?
Ma certo: quei segni sui polpacci erano segni di lacci di cuoio dei calzari
militari...
Avrebbe potuto e dovuto - si rammaricò - indovinarlo
prima.
Ma tuttora gli sfuggiva il motivo di quell’agguato
e di quella presenza, mentre il nemico sconosciuto già gli sibilava una domanda
nel buio, che in parte rispondeva ai suoi quesiti: “Perché mai vuoi vedere
Mandras, pastore?” - e intanto roteava lentamente il pugnale, sempre
mantenendolo puntato verso di lui.
Norax capì che vi era tanto scampo nelle frottole
quanto gliene concedeva l’unica e troppo piccola finestra: era soltanto una
piccola fessura nel muro, che illuminava a malapena il locale. Non vi erano
altre uscite. I modi dell’altro non davano certo adito a dubbi: non si sarebbe
accontentato di semplici risposte, anche se Norax gliene avesse date di
esaurienti. Si comportava come se fosse pronto ad ucciderlo: era battaglia, dunque.
Norax rispose con un tono di sfida e con parole
dure che non gli sembrarono le sue: “Non lo saprai certo da me, sporca spia!”.
Fu la parola d’ordine per l’inizio della lotta:
l’impeto improvviso del soldato - un urto violento - e Norax fu immediatamente
travolto e spinto a terra, vinto in forza e velocità, per riuscire a vedere
soltanto la lama dell’altro brillare impietosa nella penombra e poi sentire il
colpo sordo e doloroso al centro del torace quando il braccio armato del
nemico calò giù, con forza...
Pur senza fiato, Norax lesse egualmente il
disappunto sul volto del soldato, che era adesso inefficacemente tutto intento
a liberare la propria lama ben piantata da qualche parte nel torace
dell’avversario ma - con grande sorpresa di entrambi - senza che avesse sortito
effetto alcuno.
Con grande sforzo, tirando a sé con forza l’elsa
dell’arma, riuscì finalmente a liberarla poco dopo, ma Norax seppe allora
coglierlo sbilanciato e rovesciarlo su una lastra di pietra, ove l’altro
cadde riverso come su un altare sacrificale. Norax si trovò così d’istinto in
mano il pugnale sacro - che con il suo pesante fodero lo aveva salvato da un
colpo altrimenti mortale - e volle soltanto puntarlo alla gola del nemico per
immobilizzarlo.
Ma nell’impeto inesperto e nell’affanno calcolò
male la distanza e produsse - suo malgrado - un profondo squarcio su di un
lato della gola dell’altro, da cui subito uscì un grosso, inarrestabile fiottare
di sangue, gorgogliando... Gli occhi del soldato espressero prima sorpresa,
poi terrore, quindi si socchiusero come in preda al sonno, mentre tutto il
suo corpo prese a tremare violentemente e poi si scosse in una breve danza
macabra e scattante, infine si fermò e non si mosse più...
Furono lunghi attimi terribili, in cui nessuno dei
due contendenti seppe che cosa fare, uno atterrito dagli effetti della propria
involontaria azione e l’altro inorridito dal sopraggiungere ineluttabile della
morte.
Poi tutto restò immoto e silenzioso, ma non fu certo
quiete.
“Ennin! che cosa ho fatto!” singhiozzò disperato
Norax, e fuggì confuso fuori dalla casupola, correndo senza meta, lontano
dall’odore del sangue. Sentiva caldo e freddo ad un tempo ed il cuore gli
batteva forte nel petto e nelle tempie: “Ho ucciso un uomo! - pensava, senza
riuscire a crederci - Ho ucciso un
uomo! Mi cercheranno per punirmi e di certo mi troveranno! Non raggiungerò
mai Mandras! Ho rovinato tutto!”.
Norax pensò confusamente, correndo, di fuggire da
Othoca e di potere cercare Mandras altrove, a Tarr - ad esempio - oppure nella sua Kur...
Sempre correndo, si guardò intorno con un senso di
smarrimento, perché - pensò - forse già avevano scoperto il corpo di quello
sconosciuto. Pertanto, doveva fuggire più veloce ancora. Correva per
allontanarsi da quella sua malaugurata azione, che - sapeva bene - non aveva
rimedio.
Corse fino ad essere senza fiato, senza una meta,
senza tenere conto del tempo, né della strada. Esausto, infine si fermò, senza
più idee, senza più fiato.
Senza rendersene conto, aveva seguito un percorso
segnato da impronte di piedi, che erano state stampate appositamente sul
terreno. Dentro alle singole impronte, poi, erano stati riprodotti diversi
piccoli disegni, tutti licenziosi. Ma Norax nel suo stato di agitazione non si
era neppure accorto di essere entrato nel quartiere più malfamato del porto,
quello dei postriboli...
Ad un tratto, una donna col viso dipinto di cerussa,
rossetto e succo di more, lo tirò per una manica e gli indicò una casa: “Guarda
questi uccellini dal canto armonioso, che servono di richiamo solo per poco del
tuo denaro, queste puledrine di Afrodite ben addestrate, disposte tutte nude in
fila per te, sedute su fini tessuti! Puoi ottenere da loro, a poco prezzo, un
piacere senza pericoli! Aspettano tutte nude, per non ingannarti: osservale a
tuo comodo nei particolari. Non ti senti molto bene? C’è forse qualcosa che ti
affligge? Su, allora! La loro porta è spalancata. Il loro prezzo? Una monetina
di rame. Affrettati ad entrare. Hai anche bisogno di un bel bagno, e qui lo
avrai! Niente moine o scempiaggini: la ragazza non si tira indietro, ma fa
subito quello che vuoi, come tu vuoi. E dopo puoi pure mandarla al diavolo,
perché lei non è niente per te!”.
Norax si divincolò, più sorpreso che infastidito e
squadrò la donna, che portava una tunica gialla semitrasparente, troppo corta
per lei e certamente in disaccordo con la sua età avanzata.
La mezzana approfittò della sua esitazione per
spingerlo con decisione dentro ad un stanza, dove lo affidò subito ad un’altra
donna - giovanissima - che sembrava aspettarlo impaziente, con desiderio ed
eccitazione. Questa era vestita di vesti leggere e trasparenti, come soltanto
nell’Oriente sanno farle. Sicuramente stoffe costosissime, pensò Norax, che non riusciva ancora a capire dove
mai si trovasse, né perché.
Lei aveva l’abilità di sistemarsi sempre controluce,
in modo che egli potesse meglio apprezzarne il profilo del corpo magro e
sinuoso. Si muoveva mollemente, come un micio affamato. Mentre lui ancora
cercava le parole per spiegare la sua fretta di andare, lei lo guardava fisso
con occhi profondi, che il trucco scuro rendeva più grandi e che risaltavano
sulla cipria fulva del viso e sul vermiglio delle labbra tumide, imbronciate.
Gli disse, come in segreto, che si chiamava Neera ed era eubea.
Aveva assunto un’espressione interrogativa, come se
si aspettasse qualche cosa da lui e non osasse chiederlo. Poi, visto che lui
non si decideva, gli si avvicinò e gli versò del vino speziato da bere,
lasciando che questa volta la luce la investisse in pieno e mostrasse ciò che
vesti più pesanti o più discrete avrebbero invece nascosto. Ma ella sembrava
fare ciò senza avvedersene e quindi senza la spudoratezza che invece quella
posa richiedeva. Si chinò su di lui, senza guardarlo, apparentemente molto
assorta nel gesto di mescere il vino. Una nuvola di profumi diversi, sbuffando
fuori dal suo vestito, lo avvolse tutto e gli catturò la mente ed il cuore.
Norax rimase confuso per alcuni istanti, mentre la visione che la sua veste
scollata offriva impudicamente al suo sguardo gli riempiva gli occhi.
Ella avvertiva il desiderio crescere in lui come
un’onda del mare e ciò la divertiva, ma subito si ritraeva timorosa, come se
della risacca di quel mare avesse paura di bagnarsi. Ma quella nave aveva
già visto ben altre acque e ben più grandi tempeste. E la donna sapeva bene che questa finta ritrosia otteneva di
aumentare ancora di più il desiderio.
Gli sussurrò che i pirati l’avevano rapita quando
era ancora bambina - povera Neera - e l’avevano venduta ad un mercante di
schiavi cipriota. Il mercante, per adempiere un voto fatto, l’aveva offerta
ancora intatta al tempio di Afrodite, quello che sorge sull’alta collina di
Erice, in Sicilia.
E una volta lì, la piccola Neera aveva imparato la
sua arte e servito alacremente la dea per otto lunghi anni! Poi, un vecchio e
ricco fenicio l’aveva riscattata dal tempio e condotta qui, per potersi
rallegrare della sua compagnia quando si tratteneva ad Othoca per i suoi
commerci. Ma Neera aspirava finalmente a liberarsi da quella schiavitù e stava
cercando di racimolare i soldi per affrancarsi, riacquistando la propria
libertà perduta e per trovare un marito. E non poteva lui aiutarla un poco,
magari aumentando volontariamente il prezzo che la vecchia Crobila gli aveva chiesto? Neera gli sarebbe stata riconoscente e gli
avrebbe fatto buona compagnia anche nel bagno profumato. Poi, se lui voleva,
gli avrebbe dato piacere nel modo in cui fanno i Mitamni.
Norax non poté proprio evitare un’espressione
incuriosita. Neera, con un sorriso malizioso ed impudico, gli indicò un soprammobile
- un uovo di struzzo dipinto, posato sul davanzale della finestra - su cui era
illustrata chiaramente la pratica a cui lei si riferiva. Norax non riuscì a
capire a chi - né a quante persone -
appartenessero le membra intrecciate che comparivano nel disegno, ma
ebbe modo di gettare lo sguardo fuori dalla finestra.
Fu allora che vide i cavalli, alla posta di fronte
ad una casa alta in fondo alla via, di un bel tratto discosta dalle altre.
Prese allora una decisione immediata.
Schizzò fuori dal lupanare con tutta la velocità che
aveva nelle gambe, rovesciando sgabelli, brocche, tavoli e tutto ciò che stava
sulla sua strada, tra gli strilli della vecchia megera e della giovane
prostituta, ambedue troppo sorprese per riuscire a fermarlo. Norax corse di
filato fino quasi ai cavalli, che gli garantivano una fuga veloce. Nessuno lo
inseguì, una volta che fu fuori, sulla strada, ma udì gli strilli e le imprecazioni
ancora per un bel po’...
La luce era ormai fioca e questo gli diede coraggio:
si avvicinò rapido e furtivo, con la chiara intenzione di slegare le briglie
di uno dei cavalli ed allontanarsi dal pericolo. Considerò amaramente tra sé
che non era certo più un ragazzo innocente: stava per rubare dopo avere ucciso e dopo essersi lasciato tentare da una donna
pubblica.
Era forse, questo, già l’annuncio di quei terribili
eventi che stavano per accadere?
Stava ormai per montare silenziosamente a cavallo
quando - fuori dal buio - una enorme mano gli strinse in una morsa dolorosa il
polso destro.
“Ohi, tu!” -
gli disse un gigantesco figuro con corti capelli ricci ed una folta
barba altrettanto riccioluta: “E ci vieni giù dalle campagne per rubarmi il
cavallo, proprio a me? Tu...” - tuonava
ormai il gigante, quasi più divertito che infastidito, immobilizzandolo senza
alcuno sforzo - “piccolo pastorello sfrontato, dopo avere frodato la casa del
piacere di Crobila, di cui odo ancora le urla, vorresti mandare a piedi Mandras
il Grande perché la sua fama sia macchiata anche da questa ridicola burla?”.
Norax trovò impossibile esprimere il proprio grande
sollievo, dal momento che stava contemporaneamente provando il grande dolore
fisico di quella morsa incredibilmente forte. Inoltre, aveva un grande senso di
nausea e le tempie gli battevano forte. Troppe emozioni insostenibili, troppo
grande responsabilità e troppo grande gioia per avere così presto terminato la
propria ricerca. Insieme a ciò, troppo grande tristezza per il dramma in cui
Norax era stato attore principale, nella dolorosa consapevolezza di avere
tradito gli insegnamenti del proprio Maestro: la vita era comunque e sempre
sacra.
Balbettò qualcosa, gemette, poi proruppe in quella
che gli parve - al momento - la frase migliore: “Ho ucciso un uomo per vederti,
Mandras!”.
Il gigante sempre più divertito, lo lasciò libero,
perché ormai nello spiazzo molti suoi uomini - tutti, più o meno, della sua taglia
- avevano chiuso un cerchio protettivo intorno a loro due. “Invero, insisto
che mi sembravi più interessato al mio bel cavallo Miskru, che non a me; ma dimmi -
chiese assumendo un aria di finta preoccupazione - chi avresti ucciso, tu?” - E lo condusse nell’interno della casa, per
interrogarlo meglio. Era comunque prigioniero.
Norax cominciò di getto a narrare - purtroppo
confusamente, per quanto si sforzasse di essere chiaro - il suo incredibile misfatto,
poi capì che le parole non rendevano più credibile quella storia ad orecchie
già in partenza incredule, quindi estrasse dal fodero il pugnale sacro e lo
mostrò, ancora sporco di sangue.
Questo gesto attrasse abbastanza l’attenzione
perché gli chiedessero almeno di chi e dove fosse il pollo - o l’agnello - che
aveva appena sconfitto.
Poté finalmente parlare in modo più coerente, ad
orecchie meglio disposte ad ascoltarlo: descrisse rapidamente la persona, la
casa, istintivamente soffermandosi sul segno graffito sovrapposto alla
vecchia iscrizione.
Allora, improvvisamente, tacquero i risolini di
scherno e nel silenzio che seguì risuonò abbastanza chiaramente - ma sussurrata,
per timore - la parola: “Tanit” e poi: “Il simbolo di
Qart-Hadasht!”.
Allora Norax dovette spiegare con precisione dove
fosse la casupola - e subito un gruppo partì a cercarla, mentre un altro gruppo
perlustrava gli immediati dintorni. Quindi gli chiesero, già mostrando più
fiducia nei suoi confronti, se altri poteva averlo visto o seguito.
La cosa - notò Norax - si era fatta improvvisamente
molto seria per tutti.
Rispose che di ciò non poteva essere certo, ma che
sinceramente credeva di no. Riferì con precisione tutti i suoi spostamenti - di
corsa - dal momento in cui per la prima volta aveva incontrato la spia di pelle
scura.
Mandras ascoltò tutto molto attentamente, nel frattempo
pulendo e rimirando il taglientissimo coltello sacrificale, e poi disse,
restituendolo: “Potrebbe avere parlato a qualcuno quando é andato a
rivestirsi, oppure aver fatto cenni d’intesa nell’entrare in città.
Quest’ultima é l’ipotesi peggiore, ma la credo meno probabile altrimenti il
nostro amico non sarebbe giunto fino a qui, per quanto veloce potesse correre”.
Norax era ancora un po’ confuso, per cui questo discorso non gli fu molto
chiaro, ma si sentì più sollevato per esser stato chiamato amico. Già presentiva la prossima domanda che fu fatta gentilmente
- questo sì - ma direttamente e con qualche residuo sospetto: “Chi sei tu?”.
Per quanto desideroso di rispondere, Norax non ebbe
modo di farlo, perché in quel mentre l’irsuto luogotenente di Mandras rientrò,
molto serio in volto, rispondendo per lui: “Un tipino pericoloso lo é di
certo: ha sgozzato uno spione militare di Qart-Hadasht nella sua tana,
riempiendola tutta di un dito di sangue! Abbiamo lavato tutto con acqua di
mare e nascosto ogni traccia.
Questa era l’arma dell’altro”. E con quest’ultima
frase piantò il lungo coltello bruno nel piano del tavolo, guardando con rinnovato
rispetto il giovane pastore. Solo il perdurante diapason dell’arma infissa nel
legno muoveva l’aria intorno.
Tutti gli uomini, alcuni dei quali portavano pesanti
copripolsi di cuoio che tradivano la loro specialità di arcieri, tacevano con
gli occhi fissi sul coltello.
Fu Norax a rompere opportunamente quel silenzio
sospeso: “Il grande Sacerdote di Tal-Ur, Lauchme del Grande Cerchio, mi manda
qui con un messaggio segreto per te, Mandras, guida degli Hyksos. Come suo
aiutante, io - Norax - porto al collo il suo simbolo, che tu hai già visto e che
io proprio oggi così inadeguatamente ho dovuto usare. Il messaggio é sul
rovescio di questa pelle e l’invito ad andare a Tal-Ur é urgente, il motivo é
grave. Di più non so”.
E con queste parole si sfilò la mastruka e la
rivoltò perché vi si potesse
vedere e leggere il messaggio. Gli fu portata l’acqua con cui lavarsi gli
sbaffi neri che aveva ovunque, il sudore, la polvere e qualche schizzo di
sangue, che nell’insieme gli conferivano un aspetto fra il truce e il buffo, ma
comunque certamente impresentabile. Mandras studiò prima il coltello della
spia: era lungo più del doppio di quello di Norax e recava, nella scrittura da
destra a sinistra dei Popoli del Mare, l’iscrizione TNT PN BOL, lungo il manico, anch’esso
di metallo. La scritta era in fenicio, ma significava “Tanit, il volto di
Baal”. E Tanit era la Signora di Cartagine,
pertanto il coltello era di fabbricazione e di proprietà cartaginese.
Quindi, con attenzione, esaminò la pelle di pecora
portandola più vicina al fuoco della lampada, e commentandola vivacemente
insieme al suo luogotenente irsuto. Infine, arrotolò la pelle e la buttò sul
fuoco, dicendo: “Adesso che si é lavato invitiamo a cena questo giovane sacerdote
dalle molte sorprese, poi dovremo cancellare ogni traccia della nostra presenza
ed andare via in fretta anche da qui, un po’ prima del previsto”.
Fu zuppa di pesce, versata sul pansecco d’orzo, e
poi pesce arrosto fumante, accompagnati dal buon vino bianco profumato e forte
della gente di S’rdan. Mandras ci tenne a dire che già sapeva da tempo parte di
ciò che il Gran Sacerdote Lauchme gli mandava a dire come se fosse per intero
una novità. Norax a quel punto si ricordò di spiegargli che il suo Maestro vedeva
una minaccia nella frequenza nuova e nei modi della ricomparsa di quei segni,
vecchi di per sé, in quanto già descritti in un antico rotolo, conservato dai
suoi predecessori.
Mandras allora sorrise, di un sorriso amaro, però, e
si dichiarò molto onorato dall’invito formale e molto contento di avere un
così potente alleato - Lauchme di Tal-Ur - che sembrava aver ben capito la
situazione e che certamente possedeva i mezzi e conosceva i metodi per porvi
rimedio.
Ringraziò ancora Norax per il proprio valore ed il
proprio coraggio.
Diede al suo luogotenente pochi e rapidi ordini,
nei quali Norax comprese poco o nulla, pur ascoltandoli con quanta attenzione
gli era possibile.
Disse Mandras: “Kur é fedele, e anche Tarr é sicura
e libera da spie. E’ necessario mandare subito messaggeri ad ambedue le città,
per rinnovare i guardiani di Othoca che verranno via con me in segreto. Porterò
solo dieci persone incluso te, Iolao. Si continuerà senza di me
come già d’accordo: un primo gruppo a Nabu, anche prima di avere notizie da
KarKar e da Nure”. Ricevuti gli ordini, gli
uomini raccolsero rapidamente in silenzio tutte le loro cose, si divisero
ordinatamente in gruppi e - chi per mare, chi a piedi, chi a cavallo -
sparirono da Othoca quella notte stessa, senza lasciare alcuna traccia di sé in
quella casa...
Norax, seppure ancora dolorosamente confuso dai
recenti avvenimenti, capì che si andava da tempo organizzando qualche cosa, che
legava già insieme tra loro tutte le città della costa e chissà chi altri
ancora. Un'alleanza militare armata contro Cartagine. E adesso, in
quell’organizzazione si era inserito d’improvviso e d’autorità - per mezzo suo
- il Sacerdote di Tal-Ur...