La Terra dei Mucchi di pietre, cap. IX
di Maurizio Feo
9. La festa dei nove giorni.
Al primo calare della sera, come convenuto, i
guerrieri Shardana si accomiatarono, ostentando pubblicamente e per segreto
accordo un estraneo disinteresse verso il Grande Sacerdote.
Questo disinteresse, naturalmente, ormai non solo
non esisteva più, ma aveva anzi lasciato il posto ad una stretta solidarietà
vitale. Mandras lo ringraziò ad alta voce in modo formale e distaccato, sotto
gli occhi di tutti, dando a vedere che così aveva termine un freddo e
occasionale incontro ufficiale. Disse che al suo ritorno da Kar Kar - la città
sul Grande Golfo Ventoso a Sud - si sarebbe volentieri fermato nuovamente lì,
forse anche prima della fine della prossima festa.
Questo sarebbe bastato ad ingannare gli eventuali
osservatori interessati, mescolatisi tra i convenuti per l’imminente
festa? In cuor loro, tutti i
componenti della nuova Compagnia
di Ennin - come si erano autodefiniti - se lo auguravano, per sé e per i propri
cari. La popolazione di Tal-Ur fece più o meno distrattamente ala al drappello
armato che usciva dal villaggio, quindi ritornò alle capanne e alle proprie
attività.
Il Gran Sacerdote fece un sollecito giro preliminare
delle case basse, le case del muro,
salutando i visitatori e ringraziando per la fedeltà quelli tra loro che
riconosceva e ricordava da precedenti raduni. Norax - che questa volta poté e
dovette accompagnarlo - ebbe modo di vedere con che sguardo di ardente
preghiera tutti si rivolgessero a lui e come il Gran Sacerdote procedesse
lentamente, per potere almeno tutti guardare negli occhi - e poi stringere mani
e braccia, ascoltare e rispondere a saluti ed auguri e dare a tutti
appuntamento all’indomani, o nei prossimi giorni. Lauchme volle comunque vedere
subito i malati più gravi e prendere per essi i primi provvedimenti...
Per il dolore di alcuni consigliò infusi di erbe, o
di foglie e bacche di ginepro rosso; oppure decotti di corteccia di ontano o
di nocciolo; per i brividi scuotenti di altri consigliò abbondanti dosi di
decotto di foglie di salice.
Uno dei convenuti, in particolare, presentava una
grossa tumefazione rossa e lucida su di un piede, tanto dolente che gli impediva
di camminare. Lauchme si fermò di fronte a lui, si tolse il galero appuntito dal capo e si rimboccò le maniche, quindi saggiò la
pelle, tesa e lucida, in più punti, con meticolosa attenzione. Individuò un
punto che sembrava fluttuare di più e lo segnò con succo di mirto.
Alla luce danzante delle fiaccole, il volto dei
convenuti sembrava segnato da strane e mutevoli espressioni, ma erano tutti attenti
e rispettosi, con le pupille dilatate e fisse sul sapiente operato di Lauchme.
Estrasse un piccolo coltello da un panno di lino e
praticò con quello un buco, nel punto prescelto del piede, liberando un liquame
maleodorante, che schizzò fuori con forza.
Norax provò un momento di vera paura - non avendo
mai visto alcunché di simile prima - e a quella seguì il disgusto per l’aspetto
e l’odore di quella terribile poltiglia verde-biancastra. Ma poi - soprattutto
- l’impressionò il sorriso di sollievo dipinto sul volto, pur sudato e
sofferente, del malato, il quale sorprendentemente ammise di star subito
meglio.
Il Sacerdote sorrise impercettibilmente, mentre
proteggeva il piede ferito con bende di lino profumato, dopo averne lavato la
piaga con molta acqua sacra, salata in precedenza da Lekere, che era la
custode del pozzo sacro.
Norax tutto osservò con viva attenzione, apprendendo
molto su come fare e su come aiutare chi fa. In tutto Lèkere fu accanto a Lauchme, e gli
fu di puntiglioso aiuto, senza mai esprimere emozione alcuna, se non una
amorevole e sollecita partecipazione, silenziosa ed efficiente.
Lavorarono ancora fino a notte fonda.
Infine il terzetto, esausto, si ritirò per dormire,
accompagnato dai buoni auguri di una umanità sofferente e grata, alleviata nel
dolore, ravvivata nella speranza.
Già pulsava forte la vena del miracolo annuale nel
Grande Cerchio, già si rinnovava il prodigio della luce, voluta ed accesa nel
buio dal Grande Sacerdote Lauchme, dai molti nomi...
L’indomani si levarono tardi, risvegliati dal
vociare intrusivo degli ultimi arrivati, che si aggiungeva a quello di tutti
gli altri, intenti nel barattare, organizzare, trattare, stringere patti e
nuove amicizie, condurre usuali commerci o perfino trovare moglie o marito.
Tal-Ur si era ancora una volta prodigiosamente trasformata: la sua popolazione
era adesso, in occasione della festa annuale, più di sette volte quella
abituale. Si contava numeroso bestiame di tutti i tipi, portato dai vari
allevatori per essere venduto, scambiato o soltanto vantaggiosamente
incrociato. Si vedevano intorno
molte stuoie distese a terra, con esposizione - su teli variamente
colorati - di mirabili quantità di merce di ogni genere: dai vasi di piccoli
pesci salati, al miele, al sale, all’olio; dalle ceste di asfodelo e di rami di
salice alle stuoie di vimini e rafia ai tappeti, agli abiti, alle pelli. Alcuni
banchi piccoli - più preziosi - offrivano soltanto monili, specchi, fermacapelli
a spirale, pietre dure lavorate. Queste ultime erano corniole, diaspri,
sardonelle, opali, agate, ambra essiccata e pasta di vetro colorato. Su altri
banchi, meno curati, erano esposti attrezzi: corde intrecciate, corregge o
bande di cuoio, coltelli, rasoi e raschiatoi, accette, zappe, spiedi; oppure
vasi di terracotta, semplici o dipinti, e poi tazze, ciotole, piatti, pentole,
calderoni.
Ogni banco, telo o recinto trovava il suo pubblico
curioso, critici esperti e qualche interessato cliente. In ogni angolo l’eterno
rituale della contrattazione si rinnovava sempre uguale, tra sguardi intensi,
orgogliosi e furbi, tra parole irrimediabilmente date e sempre immutabilmente
mantenute - pena sicura ogni maledizione per molte generazioni - e infine grandi
sorrisi e una buona bevuta di birra, densa e torbida, a suggellare il patto.
Quando fu tempo, il Grande Sacerdote si portò
sull’area sacra, indossando tutti i grandi paramenti dell’occasione ed il cappello
a cono, con in cima il pileo. Fece condurre a sé le prime offerte, una di
ciascun tipo: con mano esperta e gesti rapidi, le immolò tutte, affondando
l’affilatissimo coltello sacrificale prima là, dove si toglie ogni movimento,
poi nei punti cruciali da cui più rapida esce la vita. Per immolare un torello
usò un labrys - sacro al dio Sole - cioè l’ascia bipenne che solo in questa
occasione usciva dal suo abituale ruolo di simbolo, per tornare ad essere anche
nella realtà il fulmineo potere che abbatte e dà la morte e poi di nuovo la
vita oltre di essa. Lauchme anche con quella fu rapido e preciso, per cui il
grosso animale partì veloce ad ingraziargli i cieli... Di quello, il Grande
Sacerdote estrasse il fegato e lo mostrò alla gente.
Come appariva terribile e magnifico il Galerito
Lauchme - così lordo di sangue e di destino - le mani protese verso l’alto cielo
in preghiera, mentre per la propria gente egli studiava i segni nelle misteriose
viscere dell’animale sacro, nell’erratico volo degli uccelli tra le candide
nubi, per indicare la via, spargendovi la luce!
Egli rivolgeva le proprie preghiere e quelle dei
fedeli alla Grande Madre - ché li proteggesse - e a Suo Figlio, che era morto
ancora una volta per tornare a dormire nei mesi freddi e - ci si augurava - per
tornare poi a nascere, alla nuova stagione dei doni. Lauchme pregò per i frutti
del suolo e del mare, per la salute delle famiglie e l’amicizia tra le tribù,
per l’amore tra i due popoli fratelli che vivevano insieme sulla Terra del Sole.
Infine - lanciando gli astragali per ogni richiesta - chiese ed ottenne dalla Grande Madre
Ennin che confondesse le rotte delle navi nemiche, che mandasse invece buoni
venti dietro a quelle amiche, affinché la Sua Terra Prediletta fosse sempre
una terra felice in onore a Lei, alla Luna e al Sole.
Quindi diede solennemente inizio alla festa dei nove
giorni, accendendo il fuoco sotto ad un tronco di quercia - così grosso che tre
uomini riuscivano ad abbracciarlo a malapena - che avrebbe bruciato per tutti i
nove giorni e le nove notti - insieme a timo, mirto, rosmarino, pervinca, riempiendo
con la propria presenza gli occhi, le narici, il cuore stesso dei presenti...
I primi ad occupare il campo furono giovani coppie
locali, che cominciarono con abilità ad inanellare un ballo tondo, guidati e
seguiti dalla musica. Dapprima fu un moto lento e zoppicante, muovendosi i
ballerini da sinistra a destra e una coppia per volta; poi si fece più veloce e
saltellante, tenendosi per ambedue le mani, fino a diventare un vorticare di
vesti colorate e di veli leggeri, velocissimo, estenuante.
Al centro stava un instancabile aulete, suonatore
di flauto a tre canne, che sembrava non avere mai bisogno di fermarsi a
prendere fiato, le gote sempre gonfie, rosso in viso, le agili dita animate da
una magica destrezza.
Più in là vi erano suonatori di trunfa, tamburi,
campanelli e altri strumenti a fiato, tutti impegnati ad inseguire i ballerini
nella loro sempre più frenetica danza.
Tutto intorno stava la gente, che batteva le mani e
intonava canzoni in coro.
Attorno al fuoco furono piantati diritti settanta
grossi spiedi, ciascuno con il rispettivo carico ben assicurato, in un concerto
a parte, fatto di sfrigolii, scoppiettii ed inebriante profumo.
Quindi cominciarono le gare di poesia cantata all’impronta:
si fece scegliere alla folla il primo tema del giorno e via che si alternarono
i concorrenti improvvisando sopra un podio ben illuminato dal fuoco. La folla
reagiva all’unisono alle battute brillanti ed alle rime azzeccate, ora ridendo,
ora applaudendo. Essa dava così ai cantori il tempo necessario per trovare -
nell’inesauribile bagaglio della loro memoria - altre gradite e sempre nuove
idee per deliziare l’uditoro con uno spettacolo migliore.
Tutti i volti erano accesi dalla luce del fuoco, dal
vino e dalla birra, dal piacere di essere tutti insieme adesso e dalla speranza
di una vita migliore domani.
Anche i malati, che guardavano la bella scena di
lontano - dalle finestrelle delle basse case del muro, con i tetti di cannicci
- ascoltavano intenti e talvolta ridevano alle battute migliori, talaltra
sussurravano litanie liberatorie: “Luna nuova, luna vecchia, malato mi
trovasti, lasciami guarito, Luna Lèkere”.
Qualcuno si aspergeva di acqua dal pozzo sacro con
un ramo di sambuco, per liberarsi di un maleficio di Menacra. Altri bruciavano ruta e ne
respiravano avidamente i fumi, pregando Papore di ridare loro il respiro perduto.
Tutta la gamma dei sentimenti umani copriva un
fazzoletto di terra sacra: si gridava di gioia e di dolore, si cantavano versi
sacri e profani e si piangeva mormorando preghiere e speranze, si vinceva e si
perdeva con uguale vergogna ed orgoglio, si davano e si ricevevano amore, bevande,
cibo e conforto.
Tutti insieme.
Tutta la folla era magicamente percorsa da un solo
fremito collettivo di piacere, da una rinnovata consapevolezza di essere tutti
buoni, di essere finalmente insieme, di poter cercare e darsi aiuto reciproco,
di parlare la stessa lingua, di cantare le stesse canzoni, di essere una sola
gente: la Vera Gente sulla terra preferita dal Sole, di avere tutti una sola
speranza, una sola fede, una famiglia.
Insieme.
Norax guardava rapito il grande spettacolo ed era
orgoglioso e ad un tempo commosso dalla vista del potente cuore palpitante di
quel popolo sincero, messo a nudo così, vero - soltanto una volta all’anno, in quel raro e prodigioso evento, che aveva
imparato ad amare, oltre che a rispettare profondamente, con tutto se stesso.
Lacrime di gratitudine gli rigavano le guance per
l’onore di esserne parte, mentre dentro di lui il sangue correndo forte gli
gridava di essere davvero sangue della Vera Gente...
A furor di popolo, intanto, furono scelti i due più
bravi poeti cantori e si fissò un nuovo tema, con il quale essi avrebbero dovuto
misurarsi, stuzzicarsi, sfidandosi, complimentandosi e irridendosi fino a
potere stabilire chi fosse il migliore.
Già si preparavano i ballerini delle contrade
lontane, e poi gli arcieri per la gara di tiro a cavallo; i giovani si cambiavano
trepide promesse, i vecchi seppellivano antichi rancori.
Tutto era un pulsare fatato di linfa vitale, un
grato riconoscersi nell’unica medesima origine, una rituale liberazione dal male,
un rassicurante rifugiarsi nella forza ineffabile, ma infinita, della Tradizione e della Fede...
____
Ardys ed Aliatte avevano vegliato tutta la notte,
per non perdere di vista né Hiram, né il pescatore. Askalos ed altri li avevano
raggiunti. Avevano anche organizzato una eventuale intercettazione del
peschereccio prima che uscisse dalle acque del porto, nel caso arrivasse
l’ordine di farlo.
Fu invece deciso di lasciarlo andare, per non
destare sospetti.
Hiram, dal momento in cui vi aveva messo piede, non
si era più mosso dalla locanda e non aveva avuto altri incontri, né fuori, né
dentro di essa. L’oste era un fidato amico degli Shardana.
Quando il sole fu alto, li stupì molto vedere che la
barca - con il pescatore a bordo - non si era ancora mossa dal molo, né vi
erano segni che dessero a vedere una prossima partenza. Tutti gli altri
pescatori avevano salpato di buon ora ed erano già in alto mare. Perfino la
nave oneraria proveniente da Cipro aveva pigramente preso il largo
indisturbata, dopo che era stato laboriosamente equilibrato un carico di anfore
a bordo. I molto ben pagati zavorratori del porto - tra cui si contavano alcuni
levantini - avevano dovuto lavorare per ore, in un confuso e continuo
andirivieni indaffarato... Ciascuna anfora era stata fissata con cura: era
infitta a metà nella sabbia in fondo alla stiva. E intorno alla parte esposta
di ogni anfora erano stipati numerosi cespugli di mirto e terebinto, che avrebbero attutito
gli eventuali urti durante il tragitto, se fosse stato agitato.
Finalmente, il pescatore apparve sul ponte della
barca, barcollante e visibilmente sofferente; mandò un mozzo in cerca di un
medico. Preoccupato, questi saltò dalla passerella sul molo e corse via veloce,
scalzo e vestito di stracci. Quindi il pescatore spedì l’altro mozzo a casa di
un amico, perché potesse aiutarlo e portargli conforto. Anche lui fuggì via
velocemente quanto il primo, ma in tutt’altra direzione.
Il pescatore stava naturalmente seguendo i precisi
ordini, sussurrati di nascosto, con i quali Hiram sperava di confondere e
tenere impegnati i rivali in numerose piste false perditempo. Anche gli
zavorratori avevano suscitato, probabilmente con ragione, molti sospetti...
Ardys ed Aliatte si resero conto di non avere
abbastanza uomini per controllare così tante persone, in posti diversi. Per necessità
e di comune accordo con Askalos decisero che la persona da seguire era soltanto
Hiram e nessun altro, perché non si doveva in alcun modo disturbare il
messaggio di ritorno a Qart-Hadasht, per qualunque strada esso viaggiasse.
E
così i guardiani shardana abbandonarono il molo e - senza saperlo - annullarono
l’efficacia della contromossa di Hiram...