La Terra dei Mucchi di Pietre, cap 17
di Maurizio Feo
17. Vertigine sull’altopiano.
“Presto!” - gridò Hanys, per l'urgenza digrignando i denti verso i
riflessi rossastri dei pioppi tremuli, degli ontani robusti, dei molti salici
che si piegavano ad accarezzare le acque lorde - “Presto, andiamo! non possiamo
fermarci, o ci aggireranno traversando il fiume più in là!”.
Questo sembrò a tutti - come infatti era - un
ragionamento estremamente sensato, pur in quei momenti di ansia dissennata.
Tutti uniti presero a salire insieme alla meglio il fianco del monte, chiamandosi
per nome per contarsi. Salirono e salirono e salirono, inseguendo inutilmente
quel poco di chiarore che ancora indugiava in un angolo di cielo, dietro di
loro, e che ben scarsa guida offriva ormai ai loro passi affannati. Salirono
stanchi, sanguinando, sfuggendo il buio e quel nemico ottuso e urlante.
Salirono senza fermarsi, come se il giorno - che di fatto era già terminato - potesse non avere mai fine per il loro rincorrerlo. Come se con quella marcia furiosa essi potessero
cancellare gli orrendi avvenimenti lasciati indietro. Il lungo inerpicarsi
sembrava non avere mai termine. Nessuno sapeva più bene dove si trovasse:
l’unica cosa certa era l’impervia strada in salita, con il rumore scomposto dei
passi affrettati, con il suono angustiato delle voci intorno che chiamavano.
Norax si sentiva bruciare il petto, la testa gli
girava, i suoi piedi incespicavano sempre più spesso, le mani scorticate e dolenti,
il sapore del sangue in bocca. Un unico imperativo: correre!
Venne finalmente dato l’ordine di fermarsi.
Si cercò di organizzare un campo per un breve riposo
e malgrado il freddo ed il vento non si accesero fuochi. Tre degli uomini di
Hanys erano mancanti ed erano stati visti cadere, colpiti a morte. Questo
riduceva la Compagnia a cinquanta uomini - includendo le due guide di Nugor -
alcuni piuttosto malconci. Con questo triste, ultimo pensiero in mente Norax presto cadde egualmente nel sonno e fu ignaro di ogni altro avvenimento...
Al primo schiarirsi del cielo si poterono utilizzare
nuovamente le bestie - cavalli e muli - che fortunatamente non erano andate
smarrite se non per alcuni capi. Per quanto guardassero intorno e indietro - e
dal punto in cui erano godevano di grandissima visibilità quasi in tutte le
direzioni - non furono più avvistati i loro inseguitori.
“Io credo” - azzardò Mandras con voce incolore -
“Che ci abbiano inseguito di slancio - dopo essersi riorganizzati, per tentare
di vendicarsi di come avevamo guastato la loro vittoria su Nugor e la sua
gente: in realtà é una contesa che non ci riguarda, lo sappiamo noi, come lo
sanno loro”.
Queste parole erano rivolte ad Hanys, che gli
cavalcava affianco: “Forse é così - ammise quello - ma forse ancora una volta
ci stanno inseguendo, se non addirittura precedendo, per predisporre un altro
agguato, che abbia migliore riuscita. Hai udito dalla descrizione del Sacerdote
come essi conoscano i sentieri più nascosti e le viscere stesse di queste
montagne. Tutto può darsi. Anche subito la terra potrebbe aprirsi sotto i
nostri piedi”.
Si intromise Lauchme - chiamato in causa dal
pericoloso scoramento che aleggiava intorno e che traspariva da quelle parole -
e subito portò la luce ed il calore che il sole ancora non offriva: “Comunque
vada, credo che non potranno più essere molto superiori a noi di numero” -
disse tormentandosi un baffo con pollice ed indice - “Ieri ho contato quaranta
dei loro senza vita. So che non oseranno più un attacco frontale. Lo so per averlo
letto chiaro negli occhi di quelli tra loro che sono sopravvissuti... E noi” -
disse indicando le terre alte che avevano davanti a sé, verso il sole nascente
- “non gli permetteremo certo, di giorno e su questo terreno, un agguato da
terga”. Quindi riprese, con l’atteggiamento penetrante di chi consapevolmente
fa il dono del migliore argomento alla fine del proprio discorso: “Le bestie
che montiamo - anche se usate a turno - ci consentiranno una velocità, e
soprattutto una resistenza, che i nostri eventuali inseguitori non potrebbero
mai permettersi a piedi”.
Hanys e Mandras si scambiarono uno sguardo d’intesa:
oltre ad essere parole molto convincenti, quelle frasi contenevano alcuni
ordini precisi, che forse solo per stanchezza non erano stati da loro stessi
già subito impartiti, per cui si disposero ciascuno ai propri doveri. Hanys
stabilì i turni di utilizzazione delle bestie e Mandras dispose gli uomini più
adatti in retroguardia.
Norax notò allora che Lauchme sembrava ora
distrattamente annusare un fiore, o accarezzare le bacche di un cespuglio, o
scrutare il cielo respirando l’aria pungente dell’altezza. Ma ogni cosa,
ogni dettaglio dipendeva in realtà da lui e
tutta quell’impresa, in fondo, era stata da lui voluta, preparata e
realizzata. A lui guardavano gli uomini ogni tanto e restavano rinfrancati dal
suo sorriso sereno e sicuro, dalla sua evidente, incrollabile tranquillità:
egli era veramente il Padre della Vera Gente, un dono benigno del cielo.
Salirono e scesero ancora numerose volte - sempre
restando sulle terre alte - e attraversarono ancora due piccoli ruscelli dalle
acque musicali per le recenti piogge. I ruscelli scorrevano per valli, che
erano anguste e tortuose per tutto il loro decorso e ne moltiplicavano il
canto. Erano incorniciati dalle chiome regolari di fitti ed alti oleandri velenosi,
alcuni qua e là ancora fioriti e prodighi del loro vago profumo dolce e amaro.
Ad un certo punto si udì - chiaro e deciso - l’ordine di alcune sentinelle. A
rendere piacevole la sorpresa, la lingua di quell’intimazione a fermarsi e
farsi riconoscere, era quella della Vera Gente. Non si vedeva ancora il mare in
nessun punto dell’orizzonte, ma qualche saltuario refolo di vento, ormai da un
poco, ne portava discretamente il messaggio salmastro. Le ginestre qua e là
accendevano con crescente frequenza i loro gialli messaggi intensamente
profumanti, segnalando allegramente la prossimità di un lecceto, rubando lo
spazio ai cisti odorosi, ormai spogli e scuri, a qualche lentisco pettinato dal
vento marino, alternandosi con alcuni alberelli di fillirea dalle foglie
strette, soltanto cedendo il passo al discreto luccicore del corbezzolo
coriaceo e all’onnipresente mirto dal profumo resinoso e tenace.
Gli uomini erano stanchi ed i feriti erano malfermi
sulle gambe. Ma le sentinelle riconobbero le insegne sacerdotali ed il loro
atteggiamento subito cambiò. Vollero rendere omaggio al Grande Lauchme di
Tal-Ur, alzando le mani disarmate. Quello - pensò Norax con riconoscenza -
sarebbe stato finalmente un buon giorno. Si sentì stranamente leggero e quasi
svenne. Esitò qualche momento, guardando lontano, da un punto in cui le pareti
dell’altopiano cadevano giù a strapiombo per incontrare la verdissima pianura
sottostante. Seguì con lo sguardo le colline e le montagne che la circondavano,
chiudendola su altri due lati, gradatamente sfumandosi e scomparendo dietro
un’umida foschia leggera.
Quindi, Norax si volse verso il terzo lato della pianura, che in un grande golfo azzurro accoglieva il mare. Una scogliera alta e rossa si spingeva nell’acqua fino a perdersi, protendendosi - senza però incontrarle - verso un gruppo di isolette rosse site al centro del golfo. Su queste ultime nereggiavano i cormorani sinuosi. Tra la scogliera e la pianura brillava uno stagno che si perdeva nel biancheggiare della foschia e - pur non essendo grande come quelli di Sirdan - più ancora che le familiari immagini del mare e delle rocce rosse, parlava a Norax nella cara lingua suadente di casa... Era una visione sfocata ed indistinta, che svaniva tremolante nei vapori leggeri della calura che saliva dal piano.
Quindi, Norax si volse verso il terzo lato della pianura, che in un grande golfo azzurro accoglieva il mare. Una scogliera alta e rossa si spingeva nell’acqua fino a perdersi, protendendosi - senza però incontrarle - verso un gruppo di isolette rosse site al centro del golfo. Su queste ultime nereggiavano i cormorani sinuosi. Tra la scogliera e la pianura brillava uno stagno che si perdeva nel biancheggiare della foschia e - pur non essendo grande come quelli di Sirdan - più ancora che le familiari immagini del mare e delle rocce rosse, parlava a Norax nella cara lingua suadente di casa... Era una visione sfocata ed indistinta, che svaniva tremolante nei vapori leggeri della calura che saliva dal piano.
Ma nessuno della Compagnia poté godere dello stesso
spettacolo, perché gli occhi nostalgici di Norax avevano, in quel momento, un
potere più che umano, senza che egli se
ne rendesse conto, e vedevano più lontano. Agli altri, sembrò soltanto che il
suo sguardo fosse assorto e fisso nel nulla, ignaro del bellissimo panorama. Egli, invece, finalmente
cominciava proprio allora a vedere più in là, come i pazienti insegnamenti del
Maestro erano stati intesi ad ottenere da lui...
Si mossero.
E finalmente, presero a percorrere una vera strada, dopo tanto terreno selvaggio. Lauchme fece allora notare a Norax come il terreno degradasse nella direzione in cui procedevano impercettibilmente, ma continuamente.
E finalmente, presero a percorrere una vera strada, dopo tanto terreno selvaggio. Lauchme fece allora notare a Norax come il terreno degradasse nella direzione in cui procedevano impercettibilmente, ma continuamente.
“Verso il mare, sicuramente”, disse convinto Norax.
“Non solo
verso quello”, fu la laconica risposta che ne ottenne. Ambedue furono distolti
dal richiedere e dal fornire ulteriori informazioni. Proprio in quel mentre, infatti,
un gruppo di maiali sbandati si riunì con molto tramestio al branco e tutti insieme,
poi - quasi offesi per essere stati disturbati - si allontanarono, olezzando e
grugnendo, dagli inattesi e sgraditi nuovi venuti. La strada si infilò quindi
presto in un bosco maestoso ed ininterrotto di vecchi lecci, scuri e ombriferi:
un bosco profumato e silenzioso, sospeso nelle sue presenze ovattate e nella
sua strana atmosfera. Un bosco che era del tutto insospettabile dal basso,
prima di raggiungere l’altopiano, che le sentinelle dissero essere sacro a
Sarapis. Qua e là si riconoscevano come intrusioni accidentali ora una
roverella, ora un acero, un’erica arborea. Qualche velenoso gigantesco tasso,
ammoniva del pericolo con il suo fogliame cupo, mentre il rosso brillante delle
invitanti bacche mortali sembrava quasi il brillare ammiccante di un occhio
malevolo. Il drappello proseguì quasi intimorito, in rispettoso silenzio,
addentrandosi nel variopinto e mutevole spettacolo del bosco, che si chiamava Elike - come appresero dalle guardie di scorta - e nel cui
sottobosco ciclamini, orchidee, pungitopo, alaterno e viburno trovavano eterna
protezione in una sola lunga stagione feconda, insieme a liane e festoni di
edera, caprifoglio, smilace, rubia, rosa selvatica, tamaro e clematide.
Ancor più lungo risultò l’elenco delle creature
viventi del bosco, le quali, naturalmente, furono molto più elusive
all’osservazione di quanto non fossero state le loro sorelle vegetali, ma
vennero altrettanto ammirate, in special modo apprezzate dal gruppo dei
cacciatori. Un fitto e convulso volar via inesauribile di pernici rosse novelle
strappò qualche esclamazione di sorpresa, più ancora che non l’avvistamento dei
furbi ed agili mufloni e dei grossi cervi nervosi. Dopo avere sciorinato
maliziosamente appena alcune soltanto tra le sue mille magiche bellezze, Elike
prese a diradarsi, in piante ed arbusti più bassi, lasciando luogo - con un
certo rammarico da parte dei componenti della Compagnia - ad una vasta distesa
fertile e coltivata, posta al centro dell’altopiano sacro a Serapis, abitato da
Bakis e dalla sua gente.
La piana brillava già tutta di molti fuochi e delle
fiammelle delle lampade, accese in segno di festa e di gioia, per l’inaspettato
arrivo di nuovi e antichi amici. Rapidamente, i guerrieri si scrollarono di
dosso la stanchezza del viaggio e gli spiacevoli ricordi e si dispersero
nell’allegro raduno festoso...
Gli astragali già rotolavano volubili sulla pietra bianca e liscia,
accarezzati dal vociare discontinuo degli uomini, che ad ogni punteggio
prorompevano in un clamore congiunto fatto di sorpresa, piacere e disappunto
mescolati insieme. I giovani animali uccisi - maialini e capretti, per lo più
- venivano con laboriosa allegria preparati per la cottura. Rimosse le setole
sulla fiamma, o pazientemente scuoiati per liberarli del vello, venivano poi
affidati ad altre mani. Abilmente aperti dalla coda fino al collo, venivano
privati delle interiora, nessuna delle quali veniva scartata. Anzi, tutte
venivano accuratamente pulite e lavate: il cuore, il fegato, la milza, i reni.
L’intestino veniva regolarmente aperto per tutta la sua lunghezza e lavato
ancor più a lungo del resto con tutta cura, per essere infine lasciato a bagno
nel vino forte, insieme a sale, cipolle, crescione, prezzemolo, sedano, aceto,
rosmarino. Un lungo e dritto spiedo, duro ed appuntito di legno di frassino
veniva - con maestria e precisione - prima infilato attraverso la punta delle
zampe posteriori, quindi fatto passare anteriormente a fianco delle ossa del
dorso ed infine fatto uscire attraverso le fauci. Le zampe anteriori venivano
infilate ed assicurate in piccole tasche tagliate all’uopo nello spessore delle
due pareti, poco sotto i costati. Questo minuzioso rituale preparativo - al
quale non solo i cuochi e gli apprendisti prendevano parte - era già di per se
stesso gioiosa, comune anticipazione della festa, anzi era la festa stessa già iniziata, cui si attendeva con piacere, perché
vera e palpitante nei suoi antichi e semplici umori. I grandi spiedi carichi
venivano ben piantati nel terreno in posizione verticale, posti in cerchio
attorno al fuoco, dapprima distanti un braccio o più, quindi man mano ruotati
pazientemente e prudentemente avvicinati al calore. Nel frattempo si parlava,
chi ne aveva bisogno si riposava; ci si divertiva passando insieme il tempo
nel più vario e ameno dei modi. Si assaggiava il fegato - crudo, ma ben condito
di chiacchiere e di amicizia - pazientemente intrecciando insieme i lunghi
speziatissimi intestini, che rapidissimamente si sarebbero cotti sul fuoco (e
altrettanto in fretta sarebbero andati a ruba) fra una risata ed un brindisi
augurale, un ringraziamento a Ennin.
Continuamente si rubavano agli arrosti le ghiotte parti che per prime giungevano a cottura e che quindi - se lasciate sul fuoco - si sarebbero troppo abbrustolite: le orecchie, le code, le cotenne più esposte delle pareti addominali, tutti ghiotti bocconi per cui si stabiliva tra i bambini - fin dalle prime fasi della preparazione - un’allegra ed accesa gara. Gli odori tantalizzanti deliziosi e speziati della carne di capra arrosto, o in umido, e del maialino, si diffondevano ormai dovunque in successive ondate tentatrici. Serapis aveva distribuito con abbondanza sull’altipiano a lui sacro ogni specie di pianta aromatica, di cui quelle bestie - ed in special modo le capre - generosamente si cibavano. La loro carne aveva tutti i misteriosi e più pregiati profumi di quella terra, di quei boschi. E per quanto su quell’altopiano sacro la Grande Madre Terra fosse stata meno benevola che altrove con i suoi figli, proprio di lì più facilmente vedevano ogni mattina levarsi dal mare il Sole, che essi amavano chiamare tuttora Sarapis, forse in memoria di tempi trascorsi e di lidi remoti... Di tutta la Terra del Sole, quel lido era il migliore, il più inaccessibile, il più sacro.
Continuamente si rubavano agli arrosti le ghiotte parti che per prime giungevano a cottura e che quindi - se lasciate sul fuoco - si sarebbero troppo abbrustolite: le orecchie, le code, le cotenne più esposte delle pareti addominali, tutti ghiotti bocconi per cui si stabiliva tra i bambini - fin dalle prime fasi della preparazione - un’allegra ed accesa gara. Gli odori tantalizzanti deliziosi e speziati della carne di capra arrosto, o in umido, e del maialino, si diffondevano ormai dovunque in successive ondate tentatrici. Serapis aveva distribuito con abbondanza sull’altipiano a lui sacro ogni specie di pianta aromatica, di cui quelle bestie - ed in special modo le capre - generosamente si cibavano. La loro carne aveva tutti i misteriosi e più pregiati profumi di quella terra, di quei boschi. E per quanto su quell’altopiano sacro la Grande Madre Terra fosse stata meno benevola che altrove con i suoi figli, proprio di lì più facilmente vedevano ogni mattina levarsi dal mare il Sole, che essi amavano chiamare tuttora Sarapis, forse in memoria di tempi trascorsi e di lidi remoti... Di tutta la Terra del Sole, quel lido era il migliore, il più inaccessibile, il più sacro.
Il viaggio segreto era dunque finito, era festa!
Lauchme esausto aveva abbracciato Bakis ed insieme avevano bruciato la ruta.
Quindi avevano mangiato di quei frutti di mare che riproducono nel guscio il
sacro simbolo del sole, lo stesso magico simbolo che, con gli stampi di
terracotta, le donne imprimono diligentemente sul pane rotondo di farina
d’orzo, prima di cuocerlo. Bakis li aveva accolti con il caldo affetto fraterno
che affonda le sue radici negli anni migliori, che vive del caro ricordo di
una giovinezza trascorsa alacremente insieme, e che non soffre certo l’aridità
della lontananza.
Con curiosità e stupore Norax aveva visto, prima di
giungere a Sarapis - quel singolare tempio non rotondo, bensì fatto di
muri dritti e spigoli vivi, con pietre bianche, non di basalto scuro. Si
trovava un poco discosto dal villaggio, arroccato ai piedi di un’impervia cima
e gli pareva in qualche modo familiare. Quel tempio sovrastava silenzioso ogni
punto dell’altopiano, dalla sua solitaria posizione, isolato, in alto,
volontariamente appartato. Incombeva comunque con la propria muta e corrucciata
presenza: rimproverando un fastigio del passato o forse ammonendo contro il
troppo facile oblio... Immagini ed
impressioni erano vaghe e confuse nella mente di Norax, che stranamente - più
volte - si trovò a ripensare a Lèkere senza capirne la ragione...
E adesso che Norax avrebbe voluto al riguardo dell’inquietante
mole bianca mille risposte ad altrettante domande, tutto congiurava ad
impedirglielo, in un volontario e scompigliato oblio collettivo, nel banchetto,
nella festa, nei giochi. Norax vagò, un po’ confuso dal fortissimo vino della
valle, ma ancora incuriosito dalle novità del posto. Giunse ad uno spiazzo nel
villaggio che doveva essere il più grande ed il più importante.
Vi giunse all’improvviso, e subito notò - tra gli
altri edifici che vi gravitavano intorno - il tempio del villaggio: questo era
rotondo, maestoso e torreggiava molto simile a quello di Tal-Ur, seppure non
fosse così enorme. La pietra che lo componeva era la stessa, eguale il modo di
sovrapporla. Si ergeva al limitare del villaggio, sul bordo dell’altopiano,
circondato dalle consuete casette basse del muro, che gli giravano intorno,
affacciate verso di esso, in modo del tutto familiare. Il tempio si stagliava
imperioso sul diseguale paesaggio retrostante, fatto di cime impervie e di
forme selvagge, al di là delle quali s’indovinava il mare. E mentre Norax si accostava
devotamente al tempio la sua attenzione fu attratta da un piccolo menhir, che stava quasi al centro
dello spiazzo. La pietra - infitta nel terreno - era poco più alta del suo
ginocchio e portava una nicchia su di un lato, ove deporre l’offerta.
Sotto l’incisura votiva stava, composto e ieratico,
il volto scolpito di Ennin.
Norax sostò perplesso al contrasto fra le dimensioni
- pensando che una pietra così piccola e modesta sarebbe stata più adatta ad
una semplice capanna, mentre al centro del villaggio, o vicino al tempio, era
aduso a vedere pietre infitte ben più grandi, alte anche due o tre volte un
uomo. Poi, poco più in là vide - sobbalzando - una statua dalle forme a lui ben
note: era il corpo di un leone accovacciato, che terminava anteriormente con il
busto scoperto ed il volto adorno di una vergine. La giovane donna portava un
copricapo tipico della terra in
cui Norax era nato: il delta di Atlante, il Grande Fiume d’Oriente, che per
venti generazioni era appartenuto agli Shardana.
Norax sgranò gli occhi incredulo.
Dovette ripetersi più volte che si trovava sulla
terra della Vera Gente, la terra della Grande Madre, prediletta dal Sole, prima
di poterlo credere realmente, prima di riuscire a spegnere un improvviso
prepotente coro di voci nella sua testa.
Quel simbolo Shardana non doveva essere lì, a due
passi dal tempio.
A meno che - davvero - i due popoli non fossero più
che fratelli, forse anzi lo stesso popolo perso e ritrovato, di là dal mare.
Gli tornarono subito in mente i lunghi cori remoti della Tradizione, che a
volte aveva imparato con dispetto. Decise che avrebbe mostrato molto più
interesse e rispetto per quei vetusti rotoli di steli di papiro che Lauchme si
ostinava a proteggere religiosamente.
Norax avrebbe imparato a leggerli: avrebbe
conosciuto, avrebbe saputo.
Immerso in questi ed in altri pensieri, Norax aveva
preso a vagare, dimentico della festa, isolato in se stesso come spesso, stranamente,
gli accadeva. Si chiedeva - soffrendo - cosa ne fosse di Larthy, ora più
lontana e assente che mai, e si giurava che l’avrebbe raggiunta ovunque e
tenuta con sé per sempre, una volta che fosse finita quella folle avventura.
Mentre procedeva, la sua mente ritornò indietro al
giorno del suo incontro con Larthy. Egli si rivide affianco a lei, il rosso
pulsare della brace che si consumava lentamente nel fuoco ed ancora una volta
rivisse - con un’espressione grata e sognante, che gli illuminava il viso e gli
occhi - il magico rituale che era seguito.
Larthy aveva usato due foglie d’ulivo, che aveva
delicatamente staccato da un ramoscello scelto con cura.
Quindi aveva imposto ad una il nome di Larthy e all’altra quello di Norax. Poi aveva bagnato completamente con la propria lingua la faccia convessa, più scura, di ciascuna foglia, mentre intensamente fissava negli occhi Norax che attento la osservava, curioso ed affascinato... E finalmente, Larthy aveva deposto le due foglie parallele, fianco a fianco, sulla parte migliore del fuoco. Solo allora ella si era seduta soddisfatta affianco a lui, in atteggiamento di suprema ed impaziente attesa di un imminente, sicuro responso...
Quindi aveva imposto ad una il nome di Larthy e all’altra quello di Norax. Poi aveva bagnato completamente con la propria lingua la faccia convessa, più scura, di ciascuna foglia, mentre intensamente fissava negli occhi Norax che attento la osservava, curioso ed affascinato... E finalmente, Larthy aveva deposto le due foglie parallele, fianco a fianco, sulla parte migliore del fuoco. Solo allora ella si era seduta soddisfatta affianco a lui, in atteggiamento di suprema ed impaziente attesa di un imminente, sicuro responso...
Le foglie sfrigolarono e scoppiettarono, quindi
saltarono su insieme ed insieme ricaddero una sull’altra, insieme unite per
brevissimi, magici momenti. Quindi, improvvisamente annerite, bruciarono e
leggere volarono su nell’aria, dove le loro ceneri impalpabili ormai si
disfecero nella brezza più fresca, disperdendosi per sempre, ma insieme.
Questo - aveva divinato Larthy - era il fato di
Larthy e Norax!
Avrebbero avuto una vita insieme per sé da dividere,
probabilmente insieme ne avrebbero preso commiato dopo averne felicemente,
umanamente diviso, insieme, la stagione calda della giovinezza e dell’amore e
quella più prudente, ma non più fredda, dei ricordi...
Norax intanto guardava la campagna intorno e cercava
di distrarsi da queste considerazioni. Notò che si trovava su un piano alquanto
brullo, fatto di rocce muschiate e tondeggianti, miste a vegetazione bassa -
potata e piegata dai venti - a tratti anche molto fitta. Restavano scoperti
numerosissimi ed intricati sentieri tracciati dagli animali, di cui riconobbe
le impronte: cinghiali, asini, capre, conigli. Una scrofa si allontanò,
guardandolo obliquo di sottecchi e - seguita dai suoi piccoli dai fianchi
striati - con fare indaffarato si infilò rumorosamente tra gli spini. Norax
dette un’occhiata intorno, e notò che anche qui il terreno non era
perfettamente in piano, ma degradava sensibilmente in una direzione che - da
dove si trovava - non era certo quella del mare.
Non solo verso quello - ricordava - erano state le poche parole di Lauchme.
Norax si lasciò guidare dal pendio, seguendo a
tratti l’intreccio dei sentieri e a tratti invece - dove la vegetazione era più
fitta - saltando sulle grosse rocce arrotondate, già coperte da uno spesso
strato di verde e soffice lana di pietra.
Una strana, inaspettata ansia s’impadronì di lui, mentre una forza cui non
riusciva a sottrarsi prese a chiamarlo verso una meta ignota.
Vide finalmente, lontano, un pendio di opposta
inclinazione, ma questo - stranamente - non fece che aumentare la sua oscura
agitazione. Procedette quindi più cauto, nel perfetto silenzio, scendendo
lentamente e quasi controvoglia in un grande avvallamento che andava assumendo
una forma circolare.
Si arrestò, per riprendere un poco il fiato che -
senza motivo - si era fatto più corto. Riusciva ad intuire il punto lontano in
cui si doveva trovare il fondo di quella strana valle e vide - con fastidio -
che era nascosto dall’ombra di alcuni fitti alberi piccoli e contorti e
anch’essi inclinati gli uni contro gli altri in atteggiamento tormentato. Procedendo,
incrociò un sentiero più ampio, dall’aspetto ormai poco battuto, e seguendolo -
poco più oltre si imbatté in una grossa pietra squadrata, sulla cui faccia
erano incisi i segni: OGLOG KELAB.
Poco sotto, stavano l’immagine capovolta di un
serpente con la testa umana e l’immagine - anch’essa capovolta, di una testa di
toro.
Norax non comprese i primi segni, ma gli furono fin
troppo chiari i simboli capovolti, di morte, che li seguivano.
Restò fermo, cercando di vincere l’ineluttabile
forza che lo spingeva ancora avanti, quindi, con passo riluttante e malfermo,
riprese a seguire il sentiero verso quell’inquietante, ignoto luogo di morte.
Ancora pochi passi e vide con raccapriccio che l’ombra degli alberi contorti ed
aggettanti non si proiettava sul suolo, bensì sulle pareti scabre e buie di una
enorme voragine rotonda - che solo adesso si era resa visibile - sul cui
margine forse ottanta, cento e più uomini avrebbero potuto tenersi per mano e
chiudere il cerchio. Gli alberi ed i cespugli si inchinavano sul bordo,
anch’essi attratti da quell’orrido, buio e maligno. Poco sotto al bordo, la
vegetazione aveva un colore pallido ed un aspetto malato, quasi inghiottita
dal buio, che sembrava cibarsi della sua linfa, attirandola giù insieme ad ogni
altra cosa vivente. Norax guardava sconvolto verso quel buio impenetrabile che
invincibilmente lo aveva chiamato a sé, e che adesso stava umiliando la sua
stessa volontà di vivere e di portare a termine una missione sacra. Un'orrida fascinazione lo colse e lo avviluppò tutto...
Più in alto, lontano, incombeva la vigile sagoma
del tempio bianco, la punta rivolta al cielo. Norax allungò incerto una mano
verso un cespuglio, che sembrava nascere dal cuore duro di una roccia, per
vincere un crescente senso di vertigine che si andava impossessando di lui.
Era proprio come un grande gorgo nell’acqua, che già da lontano atterrisce, ma che non può esser visto da più vicino senza restarne inghiottiti, e perire...
Era proprio come un grande gorgo nell’acqua, che già da lontano atterrisce, ma che non può esser visto da più vicino senza restarne inghiottiti, e perire...
In quel preciso momento il cespuglio di mirto agitò
le proprie bacche viola verso Norax e gli tradusse in una voce familiare le
illeggibili parole incise sulla pietra: “Allontanati dal Golgo!” - udì chiara e vicina, nella mente, la voce di
Lèkere.